domenica 14 aprile 2024

Il giallo secondo Mondadori - 14 aprile 2024

Anche nei momenti di crisi bisogna in ogni caso portare avanti la vita di tutti i giorni. Vediamo così questa settimana un tipico esempio di letteratura con imprinting editoriale. Mondadori, che da quasi cento anni pubblica i suoi romanzi, quando affronta autori italiani ha un duplice versante d’attacco. Da un lato ci sono i romanzi “con”, cioè quelli che sviluppano personaggi seriali, spesso commissari o simili ma non solo. E che devono (dovrebbero) avere interessanti sviluppi sul lato privato degli stessi (qui, male con Luceri e bene con Fassio) ma sempre un po’ problematici. Poi ci sono quelli “senza”, un po’ cane sciolti, che si aggrappano a personaggi, spesso anche con vene thriller, ma spesso sono i meno riusciti.

Ad essere gentili, in effetti, c’è anche una terza via, quella dei personaggi che potrebbero diventare seriali e non lo sono ancora, per cui si rimane “tra color che son sospesi”.

Roberto Zannini “Il secondo modo di fare le cose” Mondadori euro 6,50

[A: 10/07/2023 – I: 22/11/2023 – T: 23/11/2023] && -   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 2023]

Forse, a mente riposata, avrei da aggiungere qualche meno in più, che, più ci penso, meno sono convinto da questo romanzo. Sembra quasi la seconda puntata di una (probabile) trilogia, in cui si riprende qualcosa che è avvenuto prima, che di sicuro ha un’influenza sulle vicende attuali, ed alla fine si lascia uno spiraglio per ipotizzare una successiva puntata. Ipotesi che l’autore, intervistato, ha già ammesso.

Zannini è autore sperimentato, che, pur se di nicchia, pubblica con una certa costanza romanzi di vario genere. Ricordato soprattutto per alcune trame innovative, come gialli distopici e romanzi di fantalpinismo. Qui, appunto, si cimenta con un giallo “normale”, di buon successo di critica (infatti vince il Premio Tedeschi 2023), ma che a me pare irrisolto.

L’impianto, tra l’altro, sembra di buona fattura. Una interessante protagonista, Eva Carini, criminologa e patologa forense, che, scopriamo nel corso delle avventure, viene da un grosso problema: una caduta da un immobile in costruzione che le ha portato fratture multiple ed alcuni mesi di coma. Da cui è uscita, ma con forti dolori, che tenta di sopire con dosi massicce di oppiacei, ed un buco di due anni nella memoria. Uscita anche dal grosso giro. Con i soldi dell’assicurazione compra un impianto di cremazione e rimane a disposizione solo per un caso, l’ultimo cui ha partecipato prima dell’incidente.

Indagine che è poi il filo rosso del racconto: almeno quattro prostitute vengono uccise in modo barbaro, ma soprattutto vengono marchiate con un simbolo identico in tutte, motivo per cui si evince subito trattarsi di delitti collegati. Il simbolo, che va da scapola a scapola, è “∞”, da tutti conosciuto come simbolo dell’infinito. Che tuttavia l’autore, come molti divulgatori, descrive come 8 coricato (purtroppo la scarsa conoscenza matematica di molti scrittori e critici parla invece di 8 rovesciato, che tutti ben sanno, è ancora un 8). Descrizione anodina ma che serve a Zannini per mettere delle pulci nell’orecchio di non attenti lettori.

Intanto, Zannini deve anche introdurre il motivo del titolo. Per fare questo si serve di una mini-trama iniziale dove conosciamo una cara amica della nostra Eva, la lituana Irina, che gestisce un simpatico ritrovo, il “Bis Bus Libreria Caffè”, dove oltre alla ristorazione è presente una libreria con ottimi libri. Ad Irina sparisce la diciottenne figlia Vanja, che Eva, con rapidità ed insolita fortuna, riesce a risolvere brillantemente. Fornendoci la chiave: “C’è un primo modo, quello in cui si seguono tutte le procedure e poi c’è un secondo. Quello che mira al risultato.” Ovvio che il secondo metodo è fuori dalle leggi ordinarie, comporta uso spregiudicato dei ruoli nonché l’impiego di mezzi non ortodossi (droghe, finte torture, ricatti).

L’idea, che non condivido, è la machiavellica “il fine giustifica i mezzi”. Ma siccome non siamo né in un trattato filosofico, né in un manuale di battaglie, faccio l’affermazione sopra riportata e, se si vuole, sono pronto ad aprirne un dibattito in altra e più acconcia sede, dove potremo parlare di principi e di tiranni, fino ad arrivare alle sentenze concise di De Sanctis.

Il ritrovamento di Vanjia convince Oleg, il nonno, detenuto a Milano, a parlare del protettore della prima morta, poi morto a sua volta. Ma è un filo, cui Eva si aggrappa per risalire, passo dopo passo, la catena degli avvenimenti e delle responsabilità

Ma da questa metà in poi, il testo si involve. Ovvio che ci siano poteri dello Stato deviato che mettono i bastoni tra le ruote, ovvio che ci siano mafie di vario tipo che si muovono nel panorama pedemontano (con un accenno a fantastici e poi mai ritrovati “lupi di Vilnius”), ovvio che ci sia anche un africano buono (pur se sempre con qualche piede in affari poco leciti), ovvio che ci siano potenti che hanno interesse ad insabbiare tutto. Quello che è meno ovvio è un maxi-collegamento con le pratiche onirico – religiose sudamericane, con il candomblé brasiliano, gli shauru ecuadoregni ed altre realtà poco chiare. Tutto ciò viene riportato in quel Veneto che stiamo seguendo nella trama, ma con molti salti logici, che sembra servano all’autore per arrivare al finale.

Aveva messo troppa carne al fuoco, per far sì che il povero lettore immaginasse chissà che, ma il tutto si sgonfia come un pallone bucato, rimandando tutto ad un epilogo che spiega poco e serve per lanciare quella seconda puntata di cui dicevo. Mentre sarebbe stato interessante (magari Zannini ne può prendere spunto) scrivere un prequel invece che immaginare un sequel.

Enrico Luceri “Il tempo corre piano” Mondadori euro 6,90

[A: 10/09/2023 – I: 10/12/2023 – T: 11/12/2023] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 200; anno: 2023]

Non so se ho perso il conto, ma credo che questo sia il quinto romanzo di Luceri che vede protagonisti il commissario Tonio Buonocore e l’ispettore capo Lina Garzya. Che probabilmente è anche protagonista di racconti, visto che in coda a questo non lungo romanzo, c’è anche una piccola storia, “Un gusto un po’ amaro di cose perdute” dove vediamo all’opera, anche se in solitaria, il nostro Bonocore.

Come al solito in Luceri c’è un buon elemento di contorno, descrizioni, atmosfere, citazioni, ma quando andiamo a stringere sulla trama, il giallo perde quasi sempre consistenza. Di certo ricordate che siamo a Napoli, e quindi ci si muove tra il Vomero e Posillipo, senza dimenticare, in finale, una puntata cimiteriale a Poggioreale, tra il Monumentale e la Pietà. Inoltre, abbiamo il nostro investigatore principe, il commissario Buonocore, reduce da un problema polmonare che lo ha costretto a smettere di fumare, anche se con non pochi rimpianti.

Il nostro è un osservatore, che individua le piccole discrepanze sulle scene criminali e su queste riflette. Come ripete spesso, quasi ad afferrare il filo dell’aquilone prima che questi si stacchi dalla mano e voli via per sempre. In questa puntata, Garzya compare molto da spalla, con aiuti su ricerche al computer, al nostro sono sempre aliene. Per altro, oltre a servire come cassa di risonanza alle elucubrazioni commissariali, non interviene in modo decisivo nelle indagini.

Le indagini partono dalla morte della signora Lucia, catalogata per suicidio, ma che Buonocore stenta a confermare. Con le famose dissonanze. Lucia è una persona pignola e altera, è vestita in modo formale, in frigorifero ci sono pronte delle melanzane al funghetto per una possibile cena, ed un foglio del blocchetto è strappato in modo irregolare. Forse poco, ma abbastanza per il nostro affinché si attivi alla ricerca del mondo della morta.

Scopriamo così che era sposata con Mario, con cui aveva cercato di fare figli, senza riuscirci, forse per problemi di insufficienza spermatica del marito. Così che, una volta incontrato Osvaldo, proprietario di una galleria d’arte, divorzia e sposa il più pimpante dei due, anche se tardi per procreare. Osvaldo muore, lasciandole una rendita presso la Galleria, che viene venduta a Massimo, conoscitore d’arte un po’ borderline, con tendenze truffaldine. Prende anche Raffaella per aiutarla in casa, una domestica anch’essa tendente al passaggio dei limiti dell’onestà.

Il tutto complicato dalla presenza di una malattia degenerativa, che non faceva prevedere grossi orizzonti di vita a Lucia. Fatto sta che, nei giorni precedenti la morte, Lucia cerchi una sua amica di gioventù per rivelarle qualcosa che né noi né Nunzia comprendiamo. Fatto sta che il giornalaio sotto casa di Lucia qualcosa ha visto, ma non parla. Fatto sta che Buonocore scopre Lucia aver fatto degli esami genetici i cui risultati, secondo le sue conoscenze, le hanno cambiato atteggiamento.

Quando, a valle del funerale in cui sono tutti presenti, anche il giornalaio, e dove Nunzia sempre avere una agnizione sulle parole di Lucia, avvengono due morti violente, in cui muoiono sia Nunzia che il giornalaio, Buonocore riesce ad afferrare il filo del suo aquilone. Perché Lucia era morta non per sapere troppo, come in genere si suppone, ma per sapere troppo poco. E con questo vi lascio nel mistero più nero. Un mistero collegato anche con la morte nel passato di tal Pino, che a tutti rischiara le idee, ma a me le ha lasciate confuse e insoddisfatte.

Tra l’altro, Luceri ha la mala creanza di auto citarsi, laddove in alcuni punti dei ragionamenti del commissario si fa riferimento alle precedenti puntate della serie, indicandole in nota, ma che, se non le avete lette, vi lasciano ignoranti come prima. L’unico altro punto positivo è l’accenno a canzoni varie, in particolare ad alcuni motivi italiani anni ’60, cosa a me sempre gradita.

Accenno ripreso nel piccolo racconto che chiude il libro, il cui titolo riconduce ad una frase della canzone di Paoli (spero abbiate capito quale). E dove Buonocore si muove in solitaria, essendo in vacanza a Sorrento per i suoi problemi polmonari. Lì dove viene uccisa una turista. In modo anomalo (nessuna violenza, né altri motivi palesi). Il nostro è in vacanza, ma un commissario rimane sempre tale, così che spinge per fare ricerche in tutta la regione e scopre morti analoghe, nell’esecuzione, e similari nelle scarse motivazioni. Un solo fatto sembra legare il tutto: la presenza di foto ben fatte in tutte le situazioni. Un filo assai labile, che porta ad una soluzione scontata, che non fa che ribadire la scarsa propensione di Luceri a trame poliziesche complicate. Rimane anche qui un paio di pennellate sorrentine che farebbero bene a spingere, chi non conosce i luoghi a visitarli. Meritano.

Meno merita Luceri, che, come dissi altrove, riesce ad entrare nelle mie letture senza un vero motivo valido. Ma si sa, sono sempre molto attento ed attratto dagli autori italiani.

Enrico Luceri “Il giorno muore lentamente” Mondadori euro 5,90

[A: 05/05/2022 – I: 13/12/2023 – T: 14/12/2023] & e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 186; anno: 2022]

Nella confusione di questo dicembre movimentato, tra partenze e programmi di viaggio, ho pensato bene di invertire le due ultime avventure del commissario Buonocore. Quindi ora mettiamo mano all’episodio precedente, dove, come spesso in Luceri, accanto al romanzo c’è anche un breve racconto, “La fine della nottata”.

Volendo fare un piccolo ordine cronologico, diciamo che il romanzo si svolge nel dicembre 2016, il racconto nel gennaio 2017, mentre il precedente romanzo è quasi un anno dopo, nel novembre 2017, ed il racconto conclusivo del luglio 2018.

Tornando a noi, bisogna quindi dire che in questo episodio (anzi questi) è ancora ben presente e motivata l’ispettore capo Lina Garzya, che invece nella precedente trama era un po’ defilata. C’è anche il sovraintendente Michelino Macchia, laddove i tre sembrano costituire una famiglia ben assemblata, ognuno con il suo ruolo, la sua posizione, i suoi compiti. Anche perché Tonino, il commissario, ha sì due figli, ma sono sposati e lontani. Aveva la consolazione di fumare a tutto spiano, cosa che il medico ora gli ha proibito, e che lui sopperisce succhiando bastoncini di liquerizia.

Ma venendo alla trama in sé, devo dire che è abbastanza deludente. Ci sono morti vari, di cui si dirà, ma fin da subito, noi e Buonocore capiamo che ci deve essere qualcosa che viene da lontano e che unisce le morti. Ma anche qualcosa da vicino che le morti stesse sono tutti ravvicinate in questo approssimarsi al Natale.

Via via che la trama scorre abbiamo i primi due morti: Rosario e sua madre Addolorata. Povera gente che vive nel degradato rione Ponticelli. Vivono del sussidio, e di sicuro non avevano in casa elementi che spingevano per rapine od altro. Inoltre, non solo vengono uccisi con un colpo di coltello all’addome, ma a Rosario vengono bruciate le mani ed alla madre viene spappolata una gamba, quella malata, con il bastone stesso con cui si appoggiava.

Poi, a ruota, viene ucciso un tassista e gli viene recisa la lingua, ed un’infermiera tecnica odontoiatrica, cui vengono tolti i bulbi oculari e posti in una mano. Buonocore è sempre più convinto che ci sia un filo che leghi tutte le morti. Il famoso filo dell’aquilone che, una volta preso al volo, lo avrebbe portato alla soluzione del caso.

Proprio indagando sul passato delle vittime, al fine si riesce ad isolare un episodio in cui erano tutte presenti. In un Pronto Soccorso, alcuni anni prima, Rosario porta la madre dolorante alla gamba. Contemporaneamente arriva un motociclista che ha perso il controllo della moto e sbattuto la testa. La collera di Rosario, pur avendo la madre meno diritto del giovane, porta il medico a medicare la gamba della vecchia. Peccato che, avendo perso tempo, il motociclista muore. Ma tutti fanno finta che sia già morto all’arrivo: il medico, il guidatore dell’ambulanza, l’infermiera, nonché Rosario e sua madre.

Non svelo certo molto, che non c’è un assassino da trovare. Solo da vedere se l’assassino arrivi ad uccidere tutti o meno. Siamo quindi un po’ sul versante thriller più che sul noir. E purtroppo senza neanche tanti patemi. Che non vengono alimentati neanche dalla storia parallela di una signora che decide di trasferirsi in un residence sul Vomero, dove vive appartata, forse intrattenendosi con un amante segreto. Ma di sicuro, aggirandosi per il residence in modo circospetto, scatenando la curiosità dei due guardiani della struttura.

Luceri è di facile scrittura, e si legge scorrevolmente. Sappiamo sempre che Buonocore è lì che osserva e che Garzya cerca i dati mancanti qua e là in rete, mentre Macchia è più uomo del territorio. E seppur aspettiamo che vengano sciolti i motivi e le azioni dei vari personaggi, non è che si riesca a farsi coinvolgere più di tanto.

Come non ci coinvolge lo scarno racconto finale, con Tonino e Lina alla ricerca del colpevole di un sembrerebbe facile omicidio, dietro al quale, tuttavia, c’è forse di più. Forse una faida familiare, forse figli naturali che non sanno di esserlo, forse qualcuno è uno strozzino, di sicuro uno è l’omicida. Ma rimane un racconto anch’esso poco attraente.

Come tutta la confezione, che, ed è facile ricostruirne le tracce e le differenze, offre un tributo palese ad uno dei migliori romanzi thriller della fine degli anni Quaranta. Il bellissimo “Appuntamenti in nero”, dove l’autore, Cornell Woolrich ci fa seguire per anni la vendetta che il giovane John organizza a seguito della morte della sua amata, colpita da una bottiglia lanciata da un Piper che volava a bassa quota in un giorno di festa.

Se conoscete il libro, capirete subito le analogie e le differenze. Altrimenti, è assai facile trovarne riassunti in rete, che vi consiglio di leggere (sono ben fatti). Ovviamente parlo di Woolrich. Per Luceri si spera solo che le future avventure di Buonocore siano un po’ più attraenti.

Annamaria Fassio “I volti del mistero” Mondadori euro 5,90

[A: 09/10/2021 – I: 07/01/2024 – T: 09/01/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 218; anno: 2021]

Come di certo sapete se seguite le mie trame, oltre ad avere un debole per autori ed autrici italiani, ho una (immotivata) simpatia per Annamaria Fassio, che seguo fin dalle prime avventure della sua eroina, il commissario Erica Franzoni. Avevo quindi colto con gioia una nuova uscita nei Gialli Mondadori, che si è poi rivelata non tanto gioiosa. Non per la scrittrice né per la scrittura, ma per la presenza di quindici racconti, che, pur in parte gradevoli, non riescono a sostituire una bella storia di Franzoni e Maffina.

Una delle cose migliore del libro è l’introduzione, dove non solo scopriamo alcuni modi di affrontare i testi da parte dell’autrice, ma è soprattutto la scoperta che anche lei, come il sottoscritto, è del Toro, un segno, una garanzia. Oltre alla lunga e fruttuosa amicizia professionale con Ed McBain, uno degli autori più simpatici del secolo scorso, inventore del “procedural thriller” con le storie dell’87° Distretto.

Per i racconti, invece, abbiamo una duplice faccia: i primi nove, non a caso raccolti sotto il sottotitolo di “Racconti sparsi” sono storie piccole o grandi senza un centro fisso, mentre gli ultimi sei sono storie, più o meno lunghe, con al centro, per fortuna, l’ottima Erica. Tuttavia, devo riconoscere a chi ha curato il volume la buona creanza non solo di averli messi in ordine cronologico, ma anche di averne indicato la data ed il luogo di prima pubblicazione, indicazioni fondamentali per un maniaco come me.

Nella prima parte, quella dei racconti sparsi, in realtà c’è un tentativo di coerenza, magari ricostruito solo a posteriori. In ogni racconto c’è un personaggio, un viso, un volto che, se non di mistero sa di sicuro attrarre l’attenzione del lettore.

C’è la prostituta bionda che attua una strana vendetta (“La via Emilia”), c’è il disabile abbandonato (“Mammina cara”), c’è una parafrasi mortifera della sindrome di Stoccolma nella donna riavutasi dalle sevizie di un pedofilo (“Andamento lento”), c’è la giovane Hanna coinvolta nella guerriglia di Genova e poi nel massacro della caserma Diaz (“Sangue giovane”), c’è il lungo viaggio dell’immigrato e la sua non integrazione sul suolo italiano (“Africa”), c’è il tentativo di parlare del terrorismo islamico (“Sacrificio”, uno dei meno riusciti), ci sono i vampiri, forse (“Pranzo reale”, anche questo molto in fondo alla lista). Si parla anche della tragedia del ponte Morandi (“La terra degli altri”).

Lascio per ultimo, anche se non cronologicamente, quello che più mi ha intrigato, pur nella non linearità della trama. Un racconto lungo ambientato tra Berlino e l’Italia, ruotando, come azione drammatica, intorno al luglio del ’69 dello sbarco sulla Luna (“L’anno dello sbarco”), dove si consuma un vero caso di spionaggio, con possibili spie, finti delatori, veri traditori, e messa in scena dell’ultimo atto drammatico con una valente maestria. Un tentativo interessante.

Passando alle gesta di Erica, preferisco essere più veloce e meno didascalico. Come primo elemento, anche grazie alla mania di Annamaria di sentir musica scrivendo, molti di questi racconti rimandano a brani di canzoni: “Angela, Angela, angelo mio” (Luigi Tenco), “La donna cannone” (De Gregori), “Un lupo alla porta” (Radiohead). Ma anche rimandi letterari: “Stella del mattino” (da una poesia di Sergio Altieri) e “La gatta sul caso che scotta” (parafrasi dal dramma di Tennessee Williams).

In tutti c’è l’onnipresenza di Erica, ma anche la vicinanza con Maffina, i rapporti non sempre idilliaci con la sua sottoposta Ida. Ed ovviamente delitti, spesso mafiosi, vendette, storie di droga, storie di soldi. Ci sono storie che sembrano semplici: un ragazzo con l’arma del delitto in mano vicino ad un cadavere; ovvio che la soluzione sarà più complessa e dura, in un rimando di casualità forse un po’ forzate. Altre che fanno riflettere sul rio destino: la morte per omicidio stradale di una ex-tossica a suo tempo salvata da Erica dalla droga (ma che ci faceva con ventimila euro in contanti in borsa…).

Per finire con l’ultimo, il cui titolo non rimanda ad altro, “L’omino di neve”, ma che è un omaggio ad Agatha Christie, dove avviene un delitto in una cabina chiusa dell’Orient Express. Un omaggio interessante, anche se la soluzione è leggermente macchinosa.

Ma l’egregia Fassio ben si destreggia tra tutti i misteri, mantiene un discreto profilo di lettura, unito ad un alto profilo di simpatia. Per me, tuttavia, rimane sempre meglio quando si lascia andare ai romanzi pieni con il commissario Franzoni in spolvero.

Una curiosità: dalla lettura di uno dei racconti finali ho scoperto che esiste una via Tolemaide anche a Genova.

Annamaria Fassio “Desaparecidos” Mondadori euro 6,90

[A: 11/12/2023 – I: 02/02/2024 – T: 04/02/2024] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2023]

Qui, finalmente, ritorniamo sia alla dimensione romanzo, seppur non lunghissimo, ma soprattutto ad avere al centro i personaggi eponimi di Annamaria Fassio. Con un’operazione sul giallo in cui sia l’autrice che i suoi personaggi dichiarano da che parte stanno, moralmente e politicamente. Con due menzioni da ricordare perché danno il quadro del romanzo. La dedica alle madri ed alle nonne di Plaza de Mayo, ed il ringraziamento a Massimo Carlotto per il suo libro “Le irregolari”, da cui traggo questa citazione da condividere con voi e con Annamaria: “Sono stanco di accumulare sconfitte, sia personali che generazionali. Ogni tanto mi piacerebbe vincere qualche battaglia.” (108)

Intanto, prima della trama vera e propria, come detto, ritroviamo la tribù della Omicidi di Genova. Ovvio, il commissario capo Erica Franzoni, con i suoi tormenti (ormai sono diversi libri che frequenta regolarmente lo psicanalista Marchi) ed il suo compagno, il vicequestore Antonio Maffina, di dieci anni più anziano, voglioso della pensione, ed anche disposto ad avventure extra Erica (che incidono il morale ma non la trama). Defilata, ma sempre presente, l’agente Ida Merenghini, in tensione per la ricerca di un affidamento congiungo di Liv, la bambina che salvò qualche episodio fa.

Questa pur affiata compagine si trova ben presto immersa in un dramma che viene da lontano, nello spazio e nel tempo. Come fa supporre il titolo, viene dall’Argentina, e coinvolge immigrati di ritorno (ora) e tutto uno strato di popolazione al tempo dell’inizio della vicenda (che si colloca ad Avellaneda, quartiere periferico di Buenos Aires, a partire dal dicembre ’79).

La consueta abilità della scrittrice ci porta tra i due spazi temporali senza troppa fatica, anche se io ho sempre le mie riserve. Certo, qui c’è una necessità di non scoprire tutte le carte, così che l’up and down temporale può essere giustificato. Ma noi rompiamo il cerchio.

Nel ’79 si era nel pieno della dittatura militare di Videla, iniziata con il colpo di stato del marzo ’76, da subito caratterizzato dalla ferocia repressiva dei militari e della polizia. I non allineati, in base ad un piano generale concordato con la CIA, venivano sistematicamente uccisi. In questo contesto vediamo una coppia Sofia e Agustin senz’altra colpa di voler una riqualificazione del lor quartiere, presa, torturata e uccisa dopo la denuncia a loro carico dell’insospettabile Omero Rossi. In particolare, Sofia viene fatta partorire prima di essere uccisa, ed il bimbo dato in adozione coatta ad esponenti vicini alla giunta. Il tutto organizzato tal Giacinto Verano.

Quando l’azione si sposta nel presente, vediamo una serie di argentini di origine ligure tornare in Italia. C’è il proprietario di case Manuel Sacchi, c’è il tuttofare Tommaso Torre, c’è Estrella Costa Padilla, vedova di un’alta carica della polizia argentina, e c’è Omero Rossi. Anche se per poco, che la prima cosa che vediamo è il suo assassinio. Un’uccisione senza nessuna traccia particolare, e senza agganci che noi sappiamo la storia di Omero, ma Erica no, e la deve ricostruire per più di metà libro.

Tracce che seguiamo anche nelle telefonate tra Estrella ed il figlio Ruben, anche lui in polizia ma rimasto a Baires. Dove è subito chiaro che Ruben è stato adottato ed Estrella sa più di quanto vuol dire, anche al figlio.

Fatto sta, che, tra un ritaglio di giornale, un collegamento con i Rossi genovesi ed i Rossi argentini, Erica comincia ad avere un panorama più ampio e più chiaro della vicenda. Soprattutto dopo due vicende: la scoperta di una foto in cui ci sono Sacchi, Torre e Rossi e la morte anche di Estrella, senza che Ruben abbia appurato la storia della sua infanzia.

Un dubbio viene forte a noi lettori: saranno vendicatori delle torture subite quaranta anni prima o elementi collusi che hanno paura che la verità venga a galla, anche dopo tanti anni?

Per la soluzione, leggete il libro fino alla fine.

Per le atrocità di Videla e compagnia, qui avete alcuni altri spunti, oltre a quelli di Carlotto già citati, e, se posso indicarne uno, “I vent’anni di Luz” di Elsa Osorio. E non credo ci siano molte altre parole da aggiungere. Ah, se avete uno stomaco forte potete anche vedere il film “Garage Olimpo” di Marco Bechis del ’99.

Da parte mia, vado invece finendo con uno scarto di lato. Il libro è pieno di ottime citazioni tanghere da far felice la mia amica Mariella. Ma anche di altra musica che serve alla concentrazione dei personaggi. Io cito solo che, ad un certo punto, Erica ascolta “My way” interpretata da Frank Sinatra. Solo che ne cita una strofa, pur presente nel testo, che generalmente né Sinatra né altri interpreti cantano mai.

In una settimana densa di avvenimenti gravi sul lato politico, mi piace intanto ricordare alcuni passi di una grande scrittore e di un grande libro. Se non lo avete (ancora) letto vi consiglio vivamente “Il vagabondo delle stelle” del grande Jack London. C’è qualcosa di generale come “la memoria è quella cosa con cui si dimentica” (56) o anche “io sono il risultato dell’intero mio passato” (299).

E poi si parla dell’altra parte della coppia:

“La presenza di una donna nella vita di un uomo spiega molte cose” (96).

“Se parlando di una donna, l’unica difficoltà fosse quella di renderne il fascino, mi proverei ad offrire una descrizione di …, ma come si fa a trasformare l’emozione in parole?” (263).

“A volte penso che la storia dell’uomo sia la storia del suo amore per la donna. Queste stesse memorie che oggi vado scrivendo sono il ricordo del mio amore per lei. Nelle diecimila esistenze che ho vissuto, nelle forme che ho prese, l’ho sempre amata e tuttora la amo. Il mio sonno se ne nutre, le fantasie che mi colgono da sveglio possono muovere chissà da dove, ma è sempre a lei che mi conducono” (352)

Non è questo il momento del privato, che tutto passa in secondo ordine nella speranza, tenue ma incrollabile, che esistano al mondo persone ragionevoli, che non vengano prese dalla spirale bambinesca “la mia macchinina è più bella della tua”. Per questo l’unico modo è di stringerci in un caldo abbraccio.

domenica 7 aprile 2024

Lontano dall'Inghilterra - 07 aprile 2024

Beh, forse non tanto, tanto lontano, ma una trama senza autori inglesi, e tutti con una media decisamente sul sufficiente pieno. Abbiamo uno degli ultimi Markaris (Grecia, per la gioia del mio amico ellenofono), due avventure di Anne Holt (Norvegia, visto che siamo da poco tornati dalle Lofoten), un “vecchio”, e capirete perché, Aspe (Belgio, in ricordo dei miei anni bruxellesi) ed il primo di Mukherjee (India con qualche riserva, anche se l’unico scritto in inglese).

Sono molto stringato che sto facendo altro in questi giorni, ma si recupererà.

Petros Markaris “L’università del crimine” Repubblica Emozione Noir 9 euro 7,90

[A: 23/09/2019 – I: 25/10/2023 – T: 27/10/2023] - &&& 

[tit. or.: Σεμινάρια Φονικής Γραφής; ling. or.: greco; pagine: 315; anno 2018]

Sono già trascorsi due anni dall’ultima lettura dei libri di Markaris, che avevo anche bisogno di prendere un po’ di spazio dall’autore dove il suo commissario stava cominciando ad essere troppo involuto e legato, certo con interesse, alle vicende politiche greche. Però forse, anche un po’ troppo internamente legato, che le vicende stesse, nell’ultimo decennio, sono state discretamente complicate e non sempre a me chiare.

Ma Markaris è sempre piacevole da leggere e Kostas un commissario che piace accompagnare nelle sue avventure. Anche qui, al solito, con uno stretto legame, ma anche con andamenti asincroni, tra vita pubblica e vita privata.

Kostas vive tranquillamente il progredire del tempo e del lavoro, concedendosi una vacanza in Epiro (quella zona della Grecia prospicente l’isola di Corfù) con la moglie Adriana, dove incontra e fa amicizia con tre signore, più o meno coetanee, più o meno pensionate. Inoltre, sul lato familiare la figlia Caterina annuncia la prossima nascita di un nipote, che Adriana già attende con gioia e che Kostas paventa per l’allontanamento fisico della figlia e la mancanza (ad ora) di un definitivo vincolo matrimoniale.

Sul primo fronte pubblico, c’è una piccola grande rivoluzione in ufficio. Il suo capo, Ghikas, decide di andare in pensione (e noi ricordiamo le tante battaglie tra lui e Kostas), e, per anzianità e pro tempore, è proprio Kostas ad essere nominato reggente al posto di Ghikas. Un incarico già normalmente non facile, ovviamente che si aggrava subito in seguito agli avvenimenti che, contemporaneamente, si sviluppano con una serie di omicidi.

Il bersaglio che Markaris cerca di colpire questa volta è assai alto. I morti sono tutti legati sia al mondo accademico sia alla politica. Il primo è un Ministro in carica, professore di filosofia, noto per la sua bulimia, ucciso con una torta al veleno. Il secondo è un Viceministro, nonché esperto di poesia ionica, noto per la sua sportività, ucciso con una spranga ed un coltello durante uno jogging mattutino. Il terzo ex Ministro e professore di Economia, noto per la rete di clientele che aveva messo in piedi, ucciso con una iniezione di non so quale acido, in macchina durante un colloquio, pare, con persone di sicuro sospette.

La particolarità, che ben presto verrà alla luce a valle di rivendicazioni degli omicidi, è che i morti incarnano uno stretto rapporto tra carriera accademica e carriera politica. I primi due ex-professori che hanno intrapreso la carriera politica, l’ultimo uno che aveva chiuso il cerchio, passando dall’Università alla politica e viceversa. Quasi a significare, come parrebbero indicare le rivendicazioni, un malessere di un particolare strato di persone a questo passaggio. Tra l’altro tornerò sopra le rivendicazioni stesse.

Kostas si interroga passando al vaglio tutte le possibili strade: terrorismo, anarchici che vogliono crea confusione, studenti arrabbiati, intellettuali che non vedono di buon occhio questo commercio di poltrone, ex-studenti e/o ex-professori e/o pensionati legati ad un certo modo di intendere l’insegnamento e la politica.

Approfittando nel nuovo ruolo, usando al meglio i collaboratori e financo la sua mente fina, Kostas riuscirà ad unire i punti scarsi del dilemma, ricomponendo un quadro che dà giustizia a tutta la cosmogonia che Markaris gli ha costruito intorno. Peccato che, mentre il dibattito sul ruolo degli studiosi, degli intellettuali e dei politici ha un qualche interesse (e non solo per la Grecia), la scelta della soluzione è risibile e poco credibile. Non dico che non possa essere giusta, ma indebolisce tutto il cartello politico che Markaris aveva costruito intorno al problema.

Interessante, comunque, la scelta che Markaris, da studioso qual è, fa dei riferimenti contenuti nelle rivendicazioni. Ognuno mette in contrapposizione la bassa caratura dell’ucciso con un qualche luminare che gli avrebbe dovuto dare l’esempio. Il bello della mia ricerca è che questi riferimenti (assolutamente ignoti per i non greci, e forse anche per alcuni di loro) sono personaggi esistiti e ben referenziati.

Il primo fa riferimento a Ioannis Theodorakopoulos (Laconia, 28 febbraio 1900 Atene, 20 febbraio 1981) filosofo greco per alcuni mesi Ministro dell'Istruzione e degli affari religiosi. Il secondo a Georgios Theodorou Zoras (Pyrgos, 1908 – Atene, 13 giugno 1982) filologo di rango, che non fu ministro, ma si laureò negli anni ’30 in Italia con il nome di Giorgio Zoras; Markaris ne fa una parodia, descrivendo il periodo italiano del morto e la sua affiliazione a Lotta Continua. Il terzo a Xenofōn Zolōtas (Atene, 26 marzo 1904 – 11 giugno 2004) economista greco di grande spicco, presidente anche della Banca di Grecia.

Le rivendicazioni mettevano in contrasto la povertà intellettuale degli uccisi al cospetto di questi, omologhi nelle attività, ma di ben diversa caratura.

La scrittura di Markaris rimane sempre gradevole, con i suoi gustosi inserti sia della cucina della moglie Adriana che delle divagazioni sul grande dizionario della lingua greca. Come detto la storia porta in basso il giudizio del libro, che si risolleva a poco sopra la sufficienza per l’invenzione dei riferimenti rivendicativi.

“Gli studiosi … vivono nelle biblioteche, studiano e producono lavoro scientifico. Gli intellettuali sono specialisti in generalizzazioni e, soprattutto, sono convinti di possedere un sapere esteso a tutto lo scibile umano. Gli studiosi hanno conoscenze; gli intellettuali hanno opinioni che amano esprimere in ogni occasione.” (188)

Anne Holt “Nella tana dei lupi” Repubblica Essenza Noir 11 euro 8,90

[A: 04/09/2022 – I: 28/10/2023 – T: 31/10/2023] - &&& --- 

[tit. or.: Løvens Gap; ling. or.: norvegese; pagine: 442; anno 1997]

Hanne Wilhelmsen04

Con i soliti due anni di gap, riprendiamo le letture di una delle prime autrici di gialli non anglofone (né italiane) che riempiono la mia libreria. Ed è un ritorno importante in quanto serve a colmare metà di un vuoto che, purtroppo, rimane ancora nella mia biblioteca. Infatti, delle avventure di Hanne scritte da Anne avevo saltato i capitoli 4 e 5, così che con questo recupero il quarto, rimanendo in sospeso il solo quinto.

Una lettura filologica quindi, o meglio, anche. Unita ad un qualche elemento di contorno che meglio precisa la scrittrice ed i suoi personaggi. Ma andiamo con ordine.

Intanto, ricordiamo alcuni fatti essenziali di Anne: è stata avvocato e giornalista, dall’ottobre ’96 al febbraio ’97 è stata Ministro della Giustizia, nelle file del partito laburista. Carica da cui si dimise appunto nel febbraio per ragioni di salute, tornando a dedicarsi alla carriera di scrittrice che aveva intrapresa nel 1993. Ha però nuove idee per lo sviluppo della serie di romanzi incentrati su Hanne Wilhelmsen, per cui in questo quarto episodio (e poi nel sesto) si fa aiutare da una grande avvocatessa (si dirà così?) norvegese, Berit Reiss-Andersen, che però (perché?) non compare quasi mai sulle copertine (anche qui è menzionata solo all’interno).

Il pur breve passaggio nelle altre sfere della politica le lascia però qualche segno e qualche spina da togliere dalla sua coscienza. Non è quindi un caso che tutto questo libro, nato subito dopo quell’esperienza, si non solo tutto svolto all’interno di una compagine ministeriale, ma, volendo leggerne trasversalmente alcuni strali, non sia esente da critiche all’arrivismo della politica, alla sua cecità verso i bisogni della gente (unito anche all’arrivismo dei giornalisti, alle complicazioni burocratiche della giustizia, all’ottusità della polizia, o di alcuni suoi esponenti).

Contestualizziamo allora, anche i personaggi oltre che la vicenda. Il personaggio principale, Hanne, compare solo verso la metà del libro, essendo prima in congedo in America insieme alla sua compagna Cecilie. Tuttavia, da quando compare, pur lavorando nell’ombra, darà un contributo fondamentale alla comprensione della vicenda. Per lunghi tratti, la punta di diamante delle indagini è sostenuta da Billy T., il poliziotto rude e macho, che non è ancora entrato in antipatia all’autrice. Macho che non aspetta altro che di andare a letto con tutte le donne possibili, lui rude, calvo, alto due metri e sempre senza paracadute (tanto che ha già quattro figli da quattro donne diverse, e vi anticipo che verso gli ultimi volumi, i figli arriveranno a sei).

Sono però i personaggi non seriali quelli che prendono la scena, che coinvolge due filoni (o tre) di indagine, molto legati al pubblico ed al privato norvegese. Tutto nasce quando viene trovata morta, nello studio presidenziale, il primo ministro Brigitte Volter (su cui faremo poi un accenno). Nessuno sembra aver avuto l’occasione di entrare, data la presenza della segretaria, nonché di guardie giurate della sicurezza. Solo il giudice Benjamin Grinde ha visitato Brigitte, ma è uscito ben prima dell’ora della morte. Grinde che è a capo di una commissione che indaga sulle morti sospette di 900 bambini avvenuta 32 anni prima, nel 1965, a seguito della somministrazione di un vaccino trivalente (almeno così sembra).

Le cose si complicano quando, man mano che avanza il racconto, veniamo a sapere che: Benjamin e Brigitte si conoscevano fin da ragazzi, con Benjamin padrino della figlia di Brigitte e Roy, nata nel ’65 e morta per quel vaccino. C’è Ruth, il ministro della Sanità che un anno prima ha sedotto Roy, e che usa tutte le sue armi per avere potere, con il risultato di scoprire il fianco a palesi critiche non aiutando la ricerca della verità sui fatti del ’65, anzi fornendo dati alla stampa mettendo in difficoltà il governo. Stampa in particolare rappresentata dalla giornalista Liten Litvik (liten significa piccola mentre lei è un donnone super alto e super obeso), che usa tutte le sue armi ricattatorie per avere notizie di prima mano, anche con personaggi esteri probabilmente implicati nella vicenda del vaccino. Poi c’è un estremista di destra che pianifica di uccidere membri del governo, coinvolgendo una delle guardie giurate di cui sopra, ma che, pur volendo uccidere il Primo Ministro, la trova già morta. Ma questo è un filone che, seppur presenta in molta letteratura nordica, qui serve solo come depistaggio. Infine, una settimana dopo Brigitte, viene trovato Benjamin morto, probabilmente suicida.

Hanne, tornata per un mese dal congedo americano (la vicenda si svolge dal 4 al 27 aprile) aiuterà Billy T. a ragionare, insieme ad altri elementi della polizia e dei servizi segreti, arrivando poi ad isolare una serie limitata di possibilità: suicidio, omicidio per motivi personali, omicidio legato alla vicenda vaccini, omicidio legato al terrorismo di destra.

Pur nel solito finale un po’ veloce, e sempre con qualche passaggio che non mi chiarisce tutti gli elementi, Hanne fornirà ai suoi capi la soluzione.

Pur se leggermente datato, è un libro interessante, in particolare per tutti gli strali che Anne lancia al mondo pubblico svedese: arrivismo, arroganza, menefreghismo, uso del sesso per fare carriera. Tutti elementi che lì fanno scandalo, ma che da noi sono stati berlusconianamente accettati. Per fortuna io continuo ad indignarmi, ed a gradire chi si indigna con me.

Due appunti. Uno riguarda quanto dicevo prima, dello stretto legame tra fiction e realtà. Brigitte prende il suo posto per le dimissioni di Gro Harlem Brundtland, che non è un personaggio inventato, ma che realmente era il capo del Governo prima che venisse nominato Thorbjørn Jagland. Infine, il titolo originale parla della tana del leone, che comunque è abbastanza ben reso nel cambio tra leone e lupo.

Comunque, torneremo nel futuro a riparlare di Anne e Hanne.

Anne Holt “La condanna” Repubblica Emozione Noir 8 euro 7,90

[A: 16/09/2022 – I: 16/11/2023 – T: 18/11/2023] - && e ½   

[tit. or.: In støv og aske; ling. or.: norvegese; pagine: 412; anno 2016]

Hanne Wilhelmsen10

Dopo che il mese scorso abbiamo riempito un buco del passato delle storie di Hanne, ora ne riprendiamo il filo delle avventure in ordine di tempo, ricollegandoci a quanto letto in un tempo ormai lontano. Dato che acqua è scorsa sotto i ponti, dobbiamo riaggiornarci un po’ su quanto è avvenuto nel mentre.

Per qualche motivo, forse nel quinto e non letto episodio, sappiamo che Cecilie è morta, e che Hanne ha fatto un lungo percorso per tornare alla vita normale. Vita in cui si incontra con una profuga turca, Nefis, che viene a vivere con lei, mentre continuano le liti, ma anche gli aiuti, con il poliziotto macho Billy T. Poi, durante una spinosa indagine, quando ormai vive con Nefis, viene colpita dal colpevole di un pluriomicidio e rimane paralizzata. In una successiva indagine, passati ormai anni, in un rifugio di montagna dove, pur sulla sedia a rotelle risolve un altro caso, conosce una giornalista, Tori, fortemente radicalizzata contro l’immigrazione araba, legale o illegale che sia. Arrivati ormai quasi alla contemporaneità, con Ida (la figlia di Hanne e Nefis) ormai tredicenne, si continua sul filone “politico” (in fondo, Holt è pur sempre stata anche Ministro della Giustizia) per risolvere un complesso caso di finti attentati islamici, in cui è coinvolto il figlio di Billy T (che da qui, esce di scena), ed una blogger che, smascherata da Hanne ed il suo nuovo aiutante Henrik, pare sia la miccia che accese la cenere terroristica.

Ciò detto, entriamo nella nuova puntata delle avventure della nostra poliziotta, con due filoni di pensieri e di indagini, che poi diventano tre, e che forse potrebbero essere uno. D’altronde, Anne Holt ha molta immaginazione e scrive molte pagine. Il tutto con alla ribalta praticamente solo Hanne ed il compulsivo Henrik, sempre più brillante, anche se maniacale da far paura e completamente sottomesso ai desiderata di Hanne.

Un filone riguarda la morte di tal Anna Abrahamsen, avvenuta dodici anni prima, di cui fu incolpato il marito Jonas. I due erano in rotta da due anni, dopo la morte in un incidente della loro figlia Dina, cui avevano reagito in modo opposto. Lei buttandosi nel lavoro, lui nello sconforto e nel pedinamento, senza senso apparente, di una ragazzina. Un poliziotto, andando in pensione, convince Henrik ad indagare meglio su quella morte.

L’altro riguarda il suicidio di Iselin Havørn, la blogger di cui sopra della precedente puntata. Suicidio assai strano per le modalità e la personalità di Iselin, nonché per il modo in cui Maria, sua moglie reagisce alla morte stessa. Mentre tutti sono portati a chiudere in fretta l’episodio, Hanne, proprio per i motivi di cui sopra, comincia ad avere sospetti.

Abbiamo così i nostri due investigatori fuori rango (Hanne ormai è una consulente esterna e Henrik un poliziotto emarginato, pur se capace) che si trovano ad indagare alle due morti, dove Hanne vede un omicidio dove tutti vedono un suicidio e Henrik vede un suicidio dove tutti vedono un omicidio.

Intanto, Jonas ha fatto dodici anni di carcere ed è tornato in libertà, e riprende a seguire quella che ormai è una donna ed ha una figlia dell’età di Dina quando morì.

Il tutto si complica con la comparsa di Tori, quella giornalista estremista presente due episodi fa, che di sicuro conosceva Maria e Iselin e forse aveva una relazione clandestina con Iselin. Poi scopriamo dei legami insospettati sia tra il padre della stalkizzata e Jonas, nonché tra Maria e Anna. Insomma, la nostra scrittrice riesce a portare avanti un mix di indagini ben fatte condite con casualità insospettate.

Tutto alla fine torna, Hanne ed Henrik risolvono i loro casi, anche se non sempre nella direzione che si aspettavano. Soprattutto, la pecca della nostra brava scrittrice è di affettare la conclusione in poche pagine, come se questa fosse un elemento marginale, mentre invece serve, ai giallisti più esperti per dare una concordanza a quanto scritto in tutto il resto del libro.

Finisce anche il processo agli estremisti della puntata precedente, e termina con una pesante condanna ai responsabili. Qui si apre il mio solito accanimento verso i titolatori italiani. Che, prendendo spunto dalle condanne presenti nel romanzo, di quello si intestardiscono e ne fanno il marchio del libro.

Certo, gli estremisti sono condannati, Jonas subisce una condanna forse ingiusta, molti personaggi vivono le loro esperienze di vita come condanne per chissà cosa. Ma la scrittrice era stata più sottile nello scegliere il titolo. Che in norvegese significa “nella polvere e nella cenere”. Ed è un verso del libro di Giobbe (42, 6) dove il povero Giobbe capisce il disegno divino e lo accetta. Un titolo molto in linea con il romanzo. Anche perché si collega ad una lettera, importante nell’economia del testo, dove, nelle prime frasi si riportano le seguenti parole “prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell'ombra di morte”, che anch’esse sono prese dal libro di Giobbe (10, 21).

Nel complesso, tuttavia, pur rimanendo un estimatore di Anne Holt, anche questo libro si colloca su di una sufficienza senza esaltazione. La scrittura c’è, un po’ di tramone intricate pure, ma c’è troppa continuità con gli altri libri, e molte sfumature non sono colte se non nella lettura integrale dei testi. Vedremo se uscirà una nuova puntata.

Abir Mukherjee “L’uomo di Calcutta” Repubblica Emozione Noir euro 7,90

[A: 23/09/2019 – I: 04/12/2023 – T: 06/12/2023] - &&&  

[tit. or.: A Rising Man; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 2016]

Un ottimo inizio di lettura per una serie che pensavo si fermasse a tre volumi, ma che, invece, è già arrivata al quinto. Scritta da un indiano di Calcutta che a Calcutta non ha mai vissuto, essendo i genitori emigrati a Londra prima della sua nascita. Sempre comunque immerso nella cultura di provenienza, Abir, verso i quarant’anni decide due cose: scrivere, che è sempre stata la sua passione, anche se, per vivere faceva il contabile, ed approfondire le tematiche legate al periodo coloniale e post-coloniale indiano.

Concepisce così le storie legate al capitano della Guardia Imperiale Sam Wyndham, che accetta un posto nel corpo di polizia inglese di Calcutta, volendo lasciare la patria ed i suoi brutti ricordi (ha perso la moglie per l’influenza spagnola del 1919). Corpo di polizia dove troverà un sodale e solerte alleato nel sergente indiano Surendranath Banerjee, il cui difficile nome è storpiato dai loro sodali in “Surrender-not”, con un gioco di parole non traducibile in italiano, visto che il soprannome significa “Non arrendersi”.

Nascono così le avventure e le storie di Wynham e Banerjee, un thriller storico che parte proprio dal 1919 e da questo primo volume. Sul quale farei subito un appunto sul fatto che non capisco il motivo di modificare il titolo dall’originale “Un uomo in carriera”, ad uno specifico (l’uomo) qualificato poi con la città in cui si svolge l’azione (di Calcutta). È sempre un mio pallino e qualcuno, spero, prima o poi, mi farà partecipe dei motivi di tali scelte.

Dicevo, un thriller storico perché ben intreccia la vicenda al contorno con il momento e gli avvenimenti del periodo. Così, mentre andiamo con il capitano a conoscere le mille sfaccettature di Calcutta (che rimane sempre una città affascinante), accadono cose che avranno di certo un segno sullo sviluppo dell’India, di una coscienza indiana e dei rapporti tra indiani e britannici.

Intanto Calcutta è sempre stata una città pronta alla rivolta, punto di convergenza di molti dissapori, tant’è che pochi anni prima Giorgio V spostò la capitale a Delhi, lasciando di stanza a Calcutta il governatorato del Bengala e la relativa corte. Non solo, la vicenda narrata si svolge nell’aprile del 1919, esattamente in coincidenza con quelle che venne chiamato il “massacro di Amristar”, dove le truppe britanniche spararono su cittadini inermi rei solo di un assembramento numeroso, provocando quasi 400 morti. Ed instaurando un clima di tensione e di focolai di rivolta in tutta l’India.

In questo contesto, appena arrivato a Calcutta, il nostro capitano viene coinvolto nelle indagini sulla morte di un facoltoso inglese, MacAuley, con in bocca un biglietto di rivendicazione in bengalese. Ovvio che Sam ed il suo aiutante, pur spinti subito ad indagare si trovano di fronte a molte difficoltà, interne ed esterne.

Interne che il vicecapitano Digby si sente scavalcato da Sam e mette i bastoni tra le ruote, anche pesantemente. Esterne, che l’entourage del governatore vuole chiudere in fretta la faccenda, incolpando un presunto terrorista, Sen, cercando di condannarlo alla pena capitale anche senza prove. Il collegamento tra la morte e le rivolte è dato dal fatto che una banda di rivoltosi assalta un treno che doveva trasportare armi, ma che era quello sbagliato in quanto la morte di MacAuley aveva fermato tutti i convogli in partenza da Calcutta.

Il nostro autore a questo punto cerca di aumentare l’entropia del racconto. Introducendo altri fatti storici, come il collegamento di Sen con Jatindranath Mukherjee, detto “Tigre Jatin”, un terrorista che aveva svolto molti attacchi contro gli inglesi, finendo ucciso alcuni anni prima. Peccato che Sen, allora seguace di Tigre, in carcere si sia convertito al movimento non-violento di Gandhi. Questo dà modo ad Abir di disquisire sui movimenti rivoluzionari indiani, ma anche con alcune interessanti pagine sulla non-violenza.

Non contento dell’entropia introdotta, Abir aggiunge un presumibile irredentista irlandese che potrebbe fornire di armi i ribelli, una prostituta che, forse incinta di qualche inglese, muore in modo violento, nonché la segretaria della vittima, Annie Green, che sa molto ma che in particolare sembra attratta da Sam. Vedremo.

Insomma si tratta di capire quanto ci sia di rivoluzionario nella morte di MacAuley e quanto di personale e privato, o altro di analogo. Il solito finale un po’ troppo veloce porta alla risoluzione dei problemi, dandoci appuntamento al secondo episodio.

Una prima lettura interessante, condita dal giusto risentimento verso il razzismo inglese e la stigmatizzazione di tutti i comportamenti poco consoni a qualsiasi etica. Piace, a me che è rimasta negli occhi, la descrizione del mondo di Kolkata, come adesso si chiama la città.

Cito un’ultima perla nella descrizione dell’Università di Calcutta, giustamente citata come la prima del mondo asiatico (fondata nel 1857). Non viene però detto come, al tempo degli avvenimenti, già due ex-studenti della stessa avessero già ricevuto un premio Nobel: Ronald Ross in medicina nel 1902 e soprattutto Rabindranath Tagore in letteratura nel 1913, essendo anche il primo non europeo ad ottenere il premio.

Pieter Aspe “Il caso Dreyse” Repubblica Emozione Noir 36 euro 7,90

[A: 10/02/2020 – I: 08/02/2024 – T: 09/02/2024] - &&&

[tit. or.: Het Dreyse-incident; ling. or.: nederlandese; pagine: 283; anno 1999]

Una votazione leggermente superiore alla effettiva lettura in quanto credo sia l’ultimo libro di Pieter Aspe che entrerà nella mia biblioteca. Sia perché Aspe non ha mai avuto un grosso successo in Italia, e quindi difficilmente verranno pubblicati tutti e 40 i volumi che costituiscono il corpo delle inchieste del commissario Van In, sia perché tre anni fa, Aspe è mancato che non aveva ancora compiuto settanta anni.

Io ne avevo letto il primo libro una quindicina di anni fa, in una delle mie ultime uscite bruxellesi, e saltabeccando qua e là per i primi volumi. Qui, anche se in ritardo, copro il buco apertosi otto anni fa con la lettura del quarto e del sesto volume. Dove questo è per l’appunto il quinto. Non mi risulta che ne siano usciti altri in Italia. E d’altra parte, anche in Francia non ha avuto lo spazio che meritava.

Non è che siano capolavori nascosti (niente a che vedere con le perle di Colin Dexter), ma sono libri di media resa, e soprattutto espressione di lingua fiamminga come pochi ce ne sono nel comparto poliziesco. Perché, anche se belga, non è appunto francofono alla Simenon. Tuttavia riesce a ben rappresentare l’altra metà del Belgio, con queste storie che si snocciolano a Bruges (una città adorabile) e dintorni.

Poiché non credo che avrò occasione di tornare su Aspe, vorrei citare il protagonista della serie ed i due co-protagonisti. Il fulcro è il commissario Pieter Van In (che nel primo libro è vice, poi viene promosso). È un orso, odia tutte le diavolerie moderne, ma ha uno strano fascino che attrae le donne. In primo luogo, e nel primo libri, il magistrato Hannelore Martens (uno dei co-protagonisti). Nello stesso libro i due si mettono insieme, nel quinto libro Hannelore è incinta di due gemelli, nel quattordicesimo si sposano e nel libro venticinque hanno un terzo figlio. Nel frattempo Hannelore diventa giudice istruttore. La loro è una forte relazione complementare, ed i loro scontri consentono di andare a fondo nelle trame e trovarne soluzione.

Per finire con Van In è un fumatore accanito ed un amante della birra Duvel. Aspe si rispecchia abbastanza nel commissario, almeno nei tratti esterni, tanto che nell’ultimo libro Van In scopre di avere un cancro e di cominciare a soffrire di Alzheimer.

Il terzo personaggio fisso è Guido Versavel, il sergente ed alter-ego di Van In. È gay dichiarato, seguiamo nel corso del tempo le sue tre relazioni quasi fissi. Ha un paio di baffi molto “alla belga”, maniaco del fitness e della cultura, con cui spesso fa a gare con il pur colto Van In, vincendo sempre.

In questa storia il fulcro è un furto di pistole della marca del titolo, le Dreyse, pistole semiautomatiche tedesche. Un furto che però nascondeva altro. Le pistole erano di un faccendiere super-ricco, Patrick, ma nella scatola era nascosto un dischetto da computer (ricordo che siamo nel 1999) con tutte le attività illecite che Patrick ha portato avanti per il russo Sevrov, mafioso e cattivo.

C’è la moglie di Patrick che potrebbe aver avuto un ruolo, in quanto anche amante di uno scrittore di successo e di grande gelosia. Che riversa sia su Patrick che su Wille, un ricettatore di armi. C’è la Finanza che, tramite tal Van Rick, indaga sugli affari dei due. C’è Joyce, amante di un ministro ma anche escort di Sevrov, che mescola molte carte sul tavolo.

La trama non è proprio lineare, e noi seguiamo, anche e soprattutto i nostri, tesi alla ricerca di un bandolo, che rischia anche di mettere in pericolo la vita di Hannelore. Pieter avrà l’intuizione giusta ed un finale con qualche sorpresa permetterà di ricapitolare tutta la vicenda e di capirci qualcosa in più.

Aspe è ben attento alla città ed ai suoi risvolti, ma anche alla vita politica del suo paese, non lesinando grossi strali alla classe politica. Peccato, appunto, che non abbia avuto un grande successo in Italia. Personalmente poi sono stato molto colpito dalla sua morte (01/05/2021) per un tumore ai polmoni, preceduto da molti problemi cardiaci.

Finisco con un piccolo appunto per i traduttori. Ci sono alcuni punti ironici, alcune battute che servono un po’ anche a caratterizzare il “personaggio Van In”. Tuttavia se non vengono spiegate se ne legge e poco si capisce. Tanto per fare un esempio, all’inizio Van In e Versavel cercano la casa di un presunto omicidio, casa che si trova in Doolhofweg. Versavel fa un battuta sul nome come presagio e Van In risponde che il suo sottoposto allora dovrebbe abitare in Hengstenstraat. Sarebbe stato utile mettere in nota che Doolhofweg significa “Strada del Labirinto” (per questo non trovano la casa) e Hengstenstraat significa “Via degli Stalloni” (dove Van In prende in giro il suo amico gay). Non è che sarebbe costato molto due righe di spiegazione.

Al solito inizio del mese non ci facciamo mancare le letture precedenti, questa volta dedicate al mese di gennaio. Un inizio di anno decisamente buono, dove svetta su tutti Paul Auster con il suo “Baumgartner”, seguito a cortissima distanza dall’ultimo McCarthy e dal primo dell’argentino Ricardo Piglia. Ma anche gli altri sono tutti di un buon livello, senza nessuna caduta abissale.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Diego Collaveri

L'odore salmastro dei Fossi

Corriere Gazzetta

7,99

2

2

Denis Johnson

Jesus’ Son

Corriere Americana

8,90

2

3

Giuseppina Torregrossa

Morte accidentale di un amministratore di condominio

Repubblica Essenza Noir

8,90

3

4

Philip Roth

L’animale morente

Corriere Americana

8,90

2

5

Claudia Piñeiro

Elena lo sa

Repubblica Profondo Noir

8,90

3,5

6

Juan Carlos Onetti

Il cantiere

Repubblica Latino-americana

9,90

2

7

Annamaria Fassio

I volti del mistero

Mondadori

5,90

2,5

8

Jun’ichirō Tanizaki

Racconti del crimine. Volume II

Capolavori Giapponesi

8,90

2

9

Paul Auster

Baumgartner

Einaudi

s.p.

4

10

Giuseppina Torregrossa

Chiedi al portiere

Marsilio

s.p.

2,5

11

Georges Simenon

La casa sul canale

Repubblica

9,90

2,5

12

Ricardo Piglia

Respirazione artificiale

Repubblica Latino-americana

9,90

4

13

Julian Barnes

Elizabeth Finch

Einaudi

s.p.

3,5

14

Maurizio De Giovanni

Soledad

Einaudi

s.p.

3

15

Kathryn Stockett

The Help – L’aiuto

Mondadori

13

3,5

16

Olivier Norek

Tra due mondi

Corriere Profondo Nero

7,90

2

17

Barbara Bellomo

Il terzo relitto

TEA

10

3

18

Cormac McCarthy

Il passeggero

Einaudi

s.p.

4

Poiché il tempo passa e le frasi che ricordo nel mio libricino nero aumentano, questa settimana vi ricordo due autori, entrambi non inglesi, ovvio. Il primo è lo spagnolo immaginifico Enrique Vila-Matas, che in un suo pamphlet metaletterario “Storia abbreviata della letteratura portatile” definisce così prima gli scrittori (cosa che io non sono) poi i collezionisti di libri (cui forse mi avvicino un po’).

“Più che artisti, che suona vuoto e pomposo, siamo artigiani, cioè gente che fa cose” (69)

“A Siviglia … diventa collezionista di libri e di passioni, perché sa che la caccia di libri … arricchisce la geografia del piacere, e in ciò trova un’altra ragione per vagabondare per il mondo” (101)

L’altro è il grande pensatore polacco Zygmunt Bauman, che in uno dei suoi tanti testi sulla liquidità, cioè “Vita liquida” così ci descrive:Prima ancora di essere homo sapiens, creatura che pensa, l’uomo è una creatura che spera” (175)

E come creatura che spera, spero sempre di fare tanti e tanti viaggi, di rimettere a posto la schiena (o l’anca o forse qualche altra parte dolente del corpo). Solo l’umore sembra difficile da migliorare, anche se oggi, una bella giornata di sole, si sta di certo meglio che il mese scorso a -13°. Quindi posso inviarvi un caloroso abbraccio.