domenica 27 agosto 2017

Estate ai fornelli - 27 agosto 2017

Vi sentivate un po’ soli, eh? Ecco allora il ritorno delle vostre amate trame, dopo un bel mese di meritate vacanze, tra Benelux e Soriano (e spero che i più anziani si ricordino di quella sigla). Riapriamo quindi, con delle trame dedicate alla penultima serie delle Storie di Cucina del Corriere. Speravo proprio in meglio, ed invece anche qui, con autrici classiche come la Allende non si riesce ad andare alla sufficienza, anzi si scende in basso, quasi verso l’illeggibilità.
Julie Powell “Julie & Julia” Corriere della Sera Cucina 3 euro 7,90
[A: 14/02/2015– I: 08/01/2017 – T: 12/01/2017] - && e ½  
[tit. or.: Julie and Julia. My Year of Cooking Dangerously; ling. or.: inglese; pagine: 331; anno 2005]
Tributiamo un grande saluto (purtroppo postumo) a Nora Ephron che è riuscita, di questo libro non eccelso, a tirar fuori un film che ha una diversa e più ampia levatura. Riassumendo brevemente, nel 2002 Julie Powell, segretaria in un’agenzia governativa, per tirarsi fuori dalle secche di un avvio ai trent’anni che gli sta storto, decide di intraprendere un’opera titanica. Cucinare, in un anno, le 524 ricette di un libro “cult” del “cooking-writing” americano: “L’arte della cucina francese” di Julia Child. Per di più, decide di raccontare questa sua avventura attraverso un blog (intitolato “Julie/Julia”). Julie riesce in questa impresa, si attira anche l’attenzione dei media, tanto che le viene chiesto di riversare questa esperienza in un libro (questo che stiamo tramando, pubblicato nel 2005). Nel 2009, tre anni prima di morire di leucemia, Nora Ephron ne trae un film che, volendo dare spazio a Meryl Streep nei panni di Julia Child è più bilanciato e più appassionante del libro. Perché qui abbiamo più che altro la storia di questo anno, delle sue peripezie, e di alcuni episodi culinari che Julie affronta. Nulla (o poco e marginale) c’è di Julia, che invece nel film diventa il deuteragonista della storia, bilanciandone il peso tra la genesi di una passione e la sintesi della sua riproposizione. Non dovendo però parlare del film, diciamo solo alcune parole su Julia. Alta (1,88 e non è poco), sgraziata, segretaria in giro per il mondo, si sposa con il diplomatico Paul e, di stanza a Parigi, impara a cucinare. Da Cordon Bleu. Tanto che apre una scuola di cucina, scrive il libro di cui sopra, e dal 1963 appare in televisione in una trasmissione (“The French Chief”). Tutto questo intriso (fino al midollo, per restare in cucina) dello spirito provinciale americano degli anni Sessanta: amore spasmodico per la cucina francese, incapacità congenita di comprendere gli elementi naturali di una sana cucina, amore/odio per il burro ed i grassi (per poi finire a diventare obesi mangiando da McDonald’s o da KFC). Ma questa è Julia. Veniamo invece a Julie, che invece è una tipica americana del nuovo millennio, che seguiamo in questa vicenda post Twin Tower, in un mondo che già conosce vegetariani, vegani, ed altri (e diversi) stili alimentari. Quindi, dal lato culinario, diventa una sfida al modello americano: cucinare e mangiare una quantità sproposita di cibo, soprattutto di origini animale. Abbiamo profusioni, durante la navigazione di questo anno, di manzo, rognoni, fegati, oche ripiene, nonché un interessante capitolo sui diversi modi di uccidere e poi cucinare (o viceversa) un’aragosta. Abbiamo patate a scatafascio. Salse di ogni specie, ma in particolare tutte quelle a base di burro. Abbiamo dolci come piovesse, con tutte le glasse che possiamo pensare nella nostra mente bacata. Ma, fortunatamente, NON è un libro di ricette. Sfortunatamente, è la cronaca di un anno vissuto “pericolosamente” da Julie, cucinando e cucinando. Certo, qua e là si parla di ingredienti, ed altre amenità. Tuttavia, quello che emerge è il rapporto tra Julie ed il marito Eric, e con ali altri esseri viventi: il fratello, la madre, le amiche, i lettori dei blog. Certo, è un bel po’ Julie-centrico, e ciò nonostante riesce a darci il senso di una vita americana a Long Island nei primi anni di questo secolo, in un mondo post-torri, con la metropolitana che a volte non funziona, i tubi che si intasano, le cucine che si allagano, gli ingredienti che ci si dimentica di comperare. E quelle spese senza pensarci su, che portano, spesso e volentieri, a ritrovarsi con i componenti di base per cucinare un “potage parmentier”. Leggendo Julie questo non impressiona, ma è un rimando preciso: il potage è la prima ricetta del libro di Julia. Alla fine, gli ammiccamenti della scrittrice finto-segretaria sono un po’ troppi, e stancano assai. Non le va mai una dritta. Ma sempre, in ogni momento storto, le ricette riescono. Magari poco appetibili, e sempre, sempre, con troppo burro. Auguro sinceramente a Julie, che, ora, sui suoi 45 anni, abbia trovato quello che cercava buttandosi nel blog cuciniere. Magari anche figli. Peccato che, del blog e del blogghismo si parli poco nel libro. In ogni caso, non credo che cucinerò “alla francese”.
“Negli anni, [mio marito] Eric aveva sviluppato la tattica difensiva dell’ascolto selettivo. … I bene­fici sono ovvi: molto meno tempo sprecato a occuparsi di ogni passeggero attacco isterico della moglie. Io, però, in risposta ho affinato una tecnica di ripetizione + strilli, che si è rivelata molto efficace nell’abbattere le sue difese. E, una volta sollecitata una sua risposta, è lui a trovarsi in svantaggio, poiché non ha anco­ra sentito qual è la miccia della bomba che sta per esplodere, e pertanto non è in grado di giudicare che tipo di risposta sarà in grado di disinnescarla. Inoltre, poiché era lui che non dava ascolto a me, io vincevo su un alto piano morale.” (144)
“Il punto è che il mondo è molto più grande di quel che crediamo.” (181)
Isabel Allende “Afrodita” Corriere della Sera Cucina 4 euro 7,90
[A: 20/02/2015– I: 14/03/2017 – T: 19/03/2017] - && --  
[tit. or.: Afrodita. Cuentos, Recetas y Otros Afrodisíacos; ling. or.: spagnolo; pagine: 422; anno 1997]
Vedremo, quando se ne parlerà con altri, cosa ci dirà l’ottima Giulia Fiore Coltellacci quando inserisce questo libro tra i rimedi per darci felicità (o per farci vivere felici, che non è lo stesso). Intanto l’ho letto, perché mi fa sempre piacere leggere della Allende e perché inserito in questa altalenante collana delle “Storie di cucina” del Corriere della Sera. Sinceramente mi aspettavo di più. Mi aspettavo di più dallo scritto, e mi aspettavo un intreccio meno “disgiunto” tra testo e ricette. Allende fa un percorso tra vari elementi tipici e paradigmatici dell’erotismo alto, usando ingredienti afrodisiaci visuali, tattici e sensibili. Una buona gita, con alcune punte interessante. Poi, a metà libro, passa la palla alla madre Panchita che ci ammannisce una ricca dose di ricette giustamente etichettate “afrodisiache”. Ma i due discorsi rimangono disgiunti, non si arriva a nessuna sintesi. Come non aiutano, anche se sono interessanti visualmente, i disegni di Robert Shekter, che alterna ninfe efebiche e matrone rotondette. Anche qui, probabilmente, una riproduzione a colori, invece che in bianco e grigio, avrebbe reso meglio l’erotismo sotteso. Invece ci dobbiamo accontentare. Perché Allende scrive bene, è gradevole il discorrere, ma non risulta mai incisivo. Ci propina un paio di raccontini di situazioni emozionalmente erotiche, ma non affonda i colpi. Si vede che si è documentata, che citazioni e bibliografia sono pertinenti, ma è come se rimanesse sempre un passo al di qua del guado. Non entusiasma molti sapere che molti cibi afrodisiaci lo sono semplicemente per due motivi: o ricordano gli organi sessuali, maschili o femminili, o ne riproducono odori caratteristici. Ma sono considerazioni ovvie, quasi da elementari del sesso. I frutti di mare come vulve femminili? Banane o asparagi succedanei dell’organo maschile? Mi sembra ben poco per passare all’afrodisiaco. O all’erotico. Sono sicuramente d’accordo, di certo, che certe sfumature comportamentali orientali contengono erotismi a dismisura. Sensualità delle cerimonie del tè giapponese. Ricordi delle atmosfere delle “Mille e una notte”. Anche qui nessun diniego. Ma come non scordarsi una tavola imbandita di mezzè libanesi, quanto più vicino ad un orgasmo non solo culinario? La disamina dei cibi afrodisiaci passa pagina dopo pagina senza lasciare traccia. Le spezie? Certo, ma allora entriamo anche nelle menzioni del jalapeño piuttosto che dell’habanero. Oppure di visioni opposte del cibo verso la bocca, dal riempirsi le papille di grosse fette di scivolosi manghi piuttosto che di piccoli, impercettibili stimoli che può dare la maracuja. Rimango leggermente freddo alla disamina di pesci erotici, anche perché, dalla cultura sudamericana, esce prepotentemente fuori il grongo, che personalmente non trovo dai più eccelsi. Molto meglio, e viene sì citato ma senza molta enfasi, il pesce povero che compone il ceviche (altro piatto per me all’apice della scala afrodisiaca, forse perché contiene molto lime). Altrettanto poco coinvolto vengo dal caviale, di sicuro un alimento gradito ma non uno dei miei massimi amorosi. O, ancora meno, dal tartufo, il cui odore sovente prevarica le mie sensazioni favorevoli. Passata l’analisi del cibo potenzialmente afrodisiaco, mamma Panchita ci delizia con ricette su ricette, divise in quattordici capitoletti, che vanno dagli antipasti e dalle salse di base, su, su, piatto dopo piatto, verso i dolci ed il dessert. Magari, invece che citarne le ovvie proprietà nella prima parte, sarebbe stato interessante proporre alcuni abbinamenti con bevande, che esaltino, o quanto meno diventino complementari del mangiare cui sono associate. Quello che poco mi ha convinto è l’utilizzo di alcune nomenclature che sembrano messe lì a posta per farci capire che è un cibo “speciale”. Ma “fichi del vedovo”, “consommé di Bacco”, “insalata delle odalische” o “gallinella alla Valentino” sono cibi così battezzati che ho trovato solo in questo libro. E devo ancora capire da dove venga e perché così si chiami una delle ultime ricette, un’omelette flambé indicata come “Sorpresa Zucoff”. Un buon modo per rendere gradevole il libro sarebbe spiegarci chi mai sia questo Zucoff. Un’unica cosa mi trova concorde, ed è quella su cui vorrei terminare queste righe. Allende finisce il libro, ed io sottolineo con enfasi, che l’unica vera ricetta afrodisiaca è l’amore. Qualsiasi cibo, qualsiasi atteggiamenti, qualsiasi modo di porsi nella vita (dalla tavola al letto) ha senso ed è realmente afrodisiaco solo se condito con una abbondante dose d’amore. D’accordo, qui, ora e per sempre.
“I reconditi misteri di un bacalao a la vizcaina sottratto alle fiamme di un rustico falò di Bilbao.” [l’ho mangiato!] (25)
“”Ora tutto quello che mangio, tranne la barbabietola che non sopporto, mi sembra un pasto luculliano.” (47)
“Arrivò lo chef in persona a servire un piatto adornato con cerfogli e gelsomini, al centro del quale erano adagiate due cavie in gelatina.” [si tratta del cuy, un piatto tipico peruviano, e non cavie generiche ma porcellini d’india] (77)
“Non mi sono mai innamorato con prudenza, è sempre stato un fulmine che mi ha lasciato mezzo bruciacchiato.” (269)
Joanne Harris “Chocolat” Corriere della Sera Cucina 10 euro 7,90
[A: 03/04/2015– I: 30/04/2017 – T: 04/05/2017] - & e ½
[tit. or.: Chocolat; ling. or.: inglese; pagine: 334; anno 1998]
Sinceramente mi aspettavo di più da un libro consigliato dall’ottima Giulia Fiore tra quelli che alleviano tristezze e portano felicità. Purtroppo, a me ha fatto l’effetto contrario, portandomi più che altro tristezze. Una storia strampalata, forse adatta ai lettori del primo libro di Harry Potter, che viene inserita tra le “Storie di Cucina” solo perché la protagonista apre un negozio di delizie di cioccolato. Non dico che avrei voluto qualche ricetta (già altrove lamentavo a volte in questa collana la preponderanza di ricettari piuttosto che di storie), ma almeno degli accenni che fossero meno episodici ed “appiccicati” alla fine in una sintetica quanto meglio sviluppabile appendice di Laura Grandi (un “Glossario goloso” dove gli appunti scarsi sulla bevanda degli dei andrebbero sviluppati in un discorso più ampio ed appetibile, se non edibile). Qui, abbiamo la storia di una “maga” che si aggira per il mondo, cercando di spargere, a suo modo, felicità. Maga figlia di maga che con la madre girovagava per tutte le terre, fino, purtroppo, a ritrovarsi sola e dover ricominciare. Con la piccola Anouk, figlia di sei anni. Non sappiamo, in questa famiglia senza uomini, dove e come e chi siano i padri (anche se ho il sospetto di un qualche strano rapimento zingaresco), ma questo è un universo femminile. Dove il solo uomo a far da contraltare è Padre Francis, il prete della cittadina dove le nostre eroine si fermano il giorno di Carnevale. La storia, scandita dai giorni del calendario, andrà avanti sino alla Pasqua, con molte pagine di Vianne (la nostra maga) in soggettiva ed alcune del prete (appunto per creare un contrasto anche fonetico di voci). Come se l’autrice volesse creare una rivalità tra le pulsioni libertarie delle donne e quelle repressive dei maschi, impersonati appunto dal truce prete. Ma le pagine del prete sono non soltanto cupe, ma di poco sviluppo: ha molte angosce, sembra essere stato tiranneggiato da piccolo, forse ha fatto scoppiare un incendio dove muoiono degli zingari. Ora fa solo opera di espiazione, reprimendo, in questa piccola città del centro della Francia, ogni impulso che possa portare a sani e corretti rapporti umani. Rifiutandosi di assaggiare i dolcetti di Vianne, fino, però, a soccombere il dì di Pasqua, quando, volendo farle uno sgarbo, penetra nel negozio, ma verrà sopraffatto dalla bontà. Del cioccolato, ovviamente. Nelle more, Vianne apre questa sua pasticceria, offre dolcetti, offre buone parole e conforto. A Guillaume, cui muore il cane. Ad Armande, l’anziana del villaggio, che sa delle magagne del prete, e che, per mezzo di Vianne, ritrova l’affetto del nipote Luc, per poi, diabetica ed impenitente, decidere (un po’ tipo “La grande abbuffata” di Ferreri) di godere sino in fondo questo suo stato. Visto che ormai ha fatto la vita che ha voluto ed ottenuto la maggior parte delle cose che voleva. A Josephine, cleptomane per vendetta rispetto ad un marito ottuso e manesco, cui dona la forza di ribellarsi, di andare via dalla casa dove veniva maltrattata, e di rifarsi una vita. Forse proprio nella cioccolateria, quando Vianne ed Anouk se ne andranno. E Josephine potrà, forse, trovare consolazione nello zingaro Roux, rosso di nome e di capelli. Ma tutta la prosa è poco coinvolgente. Vianne è una strega? E allora? Lo è anche Harry Potter! È una strega buona? Più che altro è una persona che sa leggere il carattere degli altri, e sa “appianare i conflitti”, se, ovviamente, gli si dà una mano. Altrimenti, è guerra aperta. Poco convincente, poi, è l’antagonismo con la Chiesa, tanto che nel film l’oppositore di Vianne viene spostato nella figura fittizia del sindaco. Ed è forse questo che ha creato aspettative, e poi vendite nel libro. Un film in cui si darà molto più spazio a Roux, interpretato da Johnny Deep (ed altrettanto ovviamente il film finirà con la storia d’amore tra lui e Juliette Binoche). Ma torniamo allo scritto. Ripeto, scrittura poca incisiva, quasi fosse solo rivolta ad un pubblico adolescente (ma allora, meglio Dahl e la sua “Fabbrica di cioccolato”). Situazioni poco coinvolgenti: certo, si accenna al maltrattamento di Josephine ed alla spinta (riuscita) a lasciare il marito manesco, si accenna al razzismo verso gli zingari (o vero i diversi in genere), ma sempre con un’aria di raccontare qualcosa di fiabesco e non di reale. Così come poco reale è la costruzione della figura del tenebroso prete, o quella del suo mentore, chiuso nel mutismo dell’anzianità e della malattia. Speravo veramente di meglio, mi aspettavo un libro di solare coinvolgimento. L’ho letto ma lo sto già dimenticando.
“I bambini nascono selvaggi, lo so. Il massimo che io possa sperare è un po’ di tenerezza.” (56)
“Mi piacerebbe … seguire il sole con nient’altro che una valigia e non avere la minima idea di dove sarò domani.” (195)
“Tornare in una città dove hai già vissuto è come tornare a casa da un vecchio amico.” (195)
“Alla mia età posso essere proprio come mi pare. Posso essere assurda, se mi va. Sono abbastanza vecchia per permettermi qualsiasi cosa.” (235)
Kamila Shamsie “Sale e Zafferano” Corriere della Sera Cucina 11 euro 7,90
[A: 01/05/2015– I: 18/05/2017 – T: 20/05/2017] - && -
[tit. or.: Salt and Saffron; ling. or.: inglese; pagine: 301; anno 2000]
Un altro libro deludente di questa collana che sembrava promettere più e meglio. Soprattutto nelle intenzioni di lancio. Le diverse letture hanno poi mostrato una congrua disomogeneità. Tanto che una serie di libri, compreso questo, non riesco a collocarli in un gruppo omogeneo. La collana doveva coniugare storie, ambienti culinari, ed altro al contorno. Qui invece le idee sono alla frutta (pessima battuta). Un libro discreto, se vogliamo parlare del conflitto indo-pakistano. Se vogliamo parlare dei pakistani che vivono all’estero. Insomma se vogliamo parlare di altro. Che qui di cucina c’è poco. O tanto, forse, ma quel tanto che è sempre in quasi tutti i libri ambientati nel sub-continente indiano. Che qui la cucina, le spezie e gli odori sono di casa. Sono componenti fondamentali della vita. Quindi poco invece di sapienti rimandi, non dico di ricette, che già ne dissi. Non è detto che una storia di cucina debba, necessariamente, essere riempita di voli culinari. Ma qui, non c’è nulla di quanto poteva essere o poteva venir sbandierato come elemento distintivo della collana. Ci sono i fantasmi e le credenze locali. Ci sono rapporti umani. Cose dette e cose che non si dicono. C’è una storia. O meglio almeno due storie. Tutto poi con un’origine comune ed antica: la storia della famiglia Dard-e-Dil, ricca ed opulenta durante i tempi dei maharajah, e della colonizzazione inglese. Grande, nobile, ramificata. Nonché di religione islamica. Colpita, come una maledizione, da quello che nel continente indiano viene chiamato il problema dei quasi-gemelli. Che si dividono in due rami: quelli che nascono a cavallo della mezzanotte (ed io ben ne conosco due che sono in effetti anagraficamente registrati in due giorni diversi), e quelli che nascono dallo stesso padre ma da due madri diverse anche se contemporaneamente, come Miriam a Aliya nel racconto. E nella tradizione indiana i quasi-gemelli portano sempre sfortuna alle loro famiglie. Tanto che nel ’48 i quasi-gemelli a capo della famiglia si dividono: uno si rifugia in Pakistan ed uno decide di restare in India. Da quel momento i due rami della famiglia, pur in contatto, saranno in lotta perenne, di sentimenti, di situazioni, di status. Aliya è l’io-narrante che ci racconta questa ed altre storie. Aliya che ha studiato in America, che è (dovrebbe essere) emancipata. Ma che nel momento in cui vengono toccate delle corde ancestrali, ricade nel più profondo e retrogrado atteggiamento. Non riesce a capire, a perdonare, ad essere empatica, con la quasi gemella Miriam, che decide di fuggire con il cuoco della famiglia, quando questi deve tornare alla sua di famiglia. Un cuoco sopraffino, le cui pietanze erano (sono) talmente perfette da non poter essere descritte o men che meno lasciate nel piatto. Masood che spiega i misteri della vita ad Aliya bambina con la metafora del titolo: lo zafferano, costoso e pregiato, che dona un tono elevato ai piatti, ed il sale, più volgare, ma fondamentale. Per far comprendere meglio la metafora Masood prepara una cena senza sale. I piatti sono squisiti, ma perdono comunque gran parte del loro sapore. Una metafora che ad Aliya torna in mente sia pensando a Miriam, ma soprattutto quando incontra Khaleel, bellissimo, colto, ma non nobile. Quindi impossibile che sia accolto dalla nobile famiglia di Aliya. Quindi Aliya, pur tremando d’amore, non sa se può dare “sale” alla propria vita. In questo alternarsi di domande e di situazioni bloccate, Aliya ci racconta anche tutti gli altri rivoli delle storie familiari. I parenti rifugiati a Londra, quelli indiani, lo zio scomparso, e tanto altro ancora. Che le trame sub-continentali sono sempre piene, cariche, di tutto ciò: di odori, di sapori, e di tante piccole e grandi storie che si intrecciano e si rimandano. Quindi una storia indiana, dove ci sono cuochi e cucine, c’è amore e c’è l’ancestrale peso delle famiglie. Ma non c’è uno spunto felice che ci faccia prendere il lancio. Certo, avendo, e a lungo, girato per l’India, si trovano momenti che sono rimasti nella memoria. Ma aspettavo altro dal libro dall’autrice e dal complesso di notizie che erano al contorno della storia. Un’occasione, forse, da sfruttare meglio. Peccato.
“Come possiamo mai sapere perché una cosa succede e l’altra no?” (298)
Prima, anche se unica, trama di agosto, ed allora, almeno eccovi i libri letti nel mese di maggio. Un mese senza nessun acuto, e con due letture poco convincenti: Joanna Harris di cui parlo sopra e l’ultimo di De Giovanni di cui parlerò più avanti e che mi ha veramente deluso.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Joanna Harris
Chocolat
Corriere della Sera
7,90
1
2
Qiu Xialong
Cyber China
Marsilio
13
2
3
Kjell Eriksson
La principessa del Burundi
Corriere della Sera Svezia
7,90
2
4
Alessandro D’Avenia
L’arte di essere fragili
Mondadori
19
3
5
Maurizio De Giovanni
I guardiani
Rizzoli
s.p.
1
6
Alessandro Robecchi
Dove sei stanotte
Sellerio
14
3
7
Clive Cussler & Dirk Cussler
La freccia di Poseidone
TEA
9,90
2
8
Autori Vari
Viaggiare in giallo
Sellerio
s.p.
3
9
James Patterson & Maxine Paetro
Le testimoni del club omicidi
Repubblica Noir
7,90
3
10
Kamila Shamsie
Sale e Zafferano
Corriere della Sera
7,90
2
11
Andrea Vitali & Massimo Picozzi
La ruga del cretino
Repubblica Noir
7,90
2
12
Frances H. Burnett
Il giardino segreto
DeAgostini
10,90
3
13
Kjell Ola Dahl
L’uomo in vetrina
Corriere della Sera Svezia
7,90
3
14
Francesca Pacini
La mia Istanbul
Ponte Sisto
s.p.
3
15
Danila Comastri Montanari
Tenebrae
Hobby & Work
17
3

Come anche sapete, per ora non si parte. Saltò il viaggio del ritorno in Cina, è saltato il giro indonesiano per le isole della Sonda, sta saltando l’ipotesi canado-americana. Forse meglio così, in un momento in cui ci si dedica un po’ alla mamma in sofferenza. Impostiamo solo ipotesi di lunga scadenza e poi si vedrà. Per ora, spero in buoni viaggi per tutti, in buoni rientri ed in un bellissimo autunno a tutti.