domenica 26 giugno 2016

Immigrazione e liberazione - 26 giugno 2016

Sono tornato dall’Islanda carico di belle sensazioni: una bella compagnia ed un bel ritorno “in famiglia” (nonostante qualche scivolata di troppo sul bagnato). Aumentano quindi i fruitori di queste mie scritture, che, ricordo, invio “senza scopo alcuno”, che se vi stufate basta dirmelo, e se volete leggere le ottocentomila duecentoventi puntate precedenti, potete comodamente sfogliare http://giogio53.blogspot.it/trame_e_voila. Casualmente, poi, in questa quaterna capita anche un autore del profondo Nord, il sempre interessante finlandese Paasilinna, accompagnato da anglosassoni nativi come Eugenides, o immigrati, come Al-Aswani, o liberati dal gioco inglese, come l’indiano Gosh. Spero che voi, mie cari lettori, possiate “remain” in queste letture.
‘Ala Al-Aswani “Chicago” Feltrinelli euro 9
[A: 01/07/2014– I: 06/01/2016 – T: 10/01/2016] - && e ½
[tit. or.: Chicago; ling. or.: arabo; pagine: 310; anno 2006]
Un’altra molto datata segnalazione della Terza Pagina del supplemento di Repubblica dedicato ai Libri, che ho aspettato anni affinché uscisse in edizione economica. E ricordo che ho parlato dell’autore circa otto anni fa, dopo aver letto il suo primo, interessante ma non entusiasmante libro (“Palazzo Yacoubian”). Al-Aswani ha continuato la sua opposizione al regime egiziano, appoggiando in maniera forte tutti i movimenti della “primavera araba”. Scrivendo (come dice offrendo un contributo al raggiungimento della democrazia attraverso la letteratura che “cambia il lettore e lo aiuta ad essere meno ipocrita e a combattere il fanatismo in una società in cui prevale la mediocrità e in cui il ribellarsi ha un caro prezzo”) e continuando nel contempo ad esercitare la sua professione di dentista. Proprio dalla sua esperienza durante la specializzazione nell’Università dell’Illinois a Chicago, vengono questi vecchi appunti, dieci anni fa trasformati in un libro. La prima caratteristica che risulta evidente, è che, generalmente, siamo abituati a leggere di enclavi non americane viventi sul territorio a stelle strisce in altri contesti geografici: cinesi ed indiani, in prima linea, poi vietnamiti in Texas, e diverse confraternite europee di prima e seconda generazione. Il tentativo di Al-Aswani è di svelarci che esistono anche delle “Little Egypt”, come quella appunto che si muove a Chicago, con professori o laureati che con borse di studio si sono trasferiti nella grande e importante università dell’Illinois, per conseguire il dottorato. Qualcuno è anche in fuga dall’Egitto per motivi politici. Una comunità ovviamente colpita anche da tutte le problematiche post-2001 (controlli, terrorismi vari, nonché attenzione da parte dei Servizi Segreti egiziani). Come il precedente palazzo, anche questo è un romanzo corale, in cui incontriamo molti personaggi egiziani (il poeta Naghi, la studentessa Shayma, il dottorando Tareq, ed i professori Raafat Thabet, Karam Dos, Mohammed Salah), ma anche alcuni americani (il prof. Graham, progressista, con la sua compagna Carol, il prof. Michael, razzista, la bella Wendy, ebrea). Tutti sono accomunati da essere inclusi in confraternite con punte più o meno alte di razzismo, siano essi arabi, mussulmani, copti, ebrei o neri americani. E tutte le storie che s’intrecciano battono molto il tasto sui conflitti. Naghi ribelle patriota che non riesce a portare avanti il suo rapporto con Wendy. Shayma che non rinuncia né al suo essere mussulmana (porta il velo) né al suo essere donna. Karam che è sempre emarginato (sia in patria sia in America) per il suo essere copto. Raafat che decide di essersi integrato, ma che non riesce a vedere come l’integrazione porti sua figlia su strade senza ritorno. Mohammed che si accorge di aver orami abbandonato tutte le speranze di riformismo che aveva in gioventù, e per le quali era emigrato. Graham che non capisce le difficoltà della sua compagna di colore, fino a lasciarla per futili (almeno per noi) motivi. La storia stessa della donna nera molto bella che non riesce a trovare lavora (ma non siamo nel paese di Obama?). Al-Aswani non rinuncia nella sua denuncia del regime egiziano sull’uso della tortura (e noi pensiamo a Giulio e ne soffriremo sempre), attraverso l’agente che usa anche il sesso come strumento di violenza verso le opposizioni. Non può mancare, non manca la critica alla politica estera statunitense. Né la critica a tutte le società opulente, che neanche lì si è “sicuramente felici”, anche se si proviene da paesi in cui manca di tutto. Purtroppo, la mancanza di figure positive, lascia tutto in un grigio limbo che non dà una patina di compartecipazione da parte del lettore verso le vicende di coloro che si agitano nelle pagine del libro. Quindi, d’accordo sulla denuncia, d’accordo sulla critica dei valori e dei comportamenti. E tuttavia, ci può essere salvezza. Lo credo fermamente, ma l’autore non ne vede l’orizzonte a breve. Lasciandoci nel buio del suo pessimismo. Spero che il mondo arabo riesca a trovare la via dell’estate dopo queste lunghe giornate di primavera.
“Non è giusto invecchiare senza gustarsi il valore del tempo. È ingiusto che nessuno ti dica prima che il tempo ti scivolerà inesorabilmente tra le mani. Ci accorgiamo quanto vale la vita solo un attimo prima che finisca.” (188)
“Ti prego di non telefonarmi. Mi piacerebbe che la nostra relazione terminasse bene come è iniziata. Ti ringrazio per le splendide emozioni che ho conosciuto grazie a te.” (276)
Amitav Ghosh “Il fiume dell’oppio” Neri Pozza euro 14 (in realtà, 11,90 euro)
[A: 03/07/2014– I: 30/01/2016 – T: 04/02/2016] - &&& e ½
[tit. or.: River of Smoke; ling. or.: inglese; pagine: 586; anno 2011]
Secondo libro della trilogia dell’Ibis, un’opera summa cui Ghosh ha lavorato per sette anni, dal 2008 al 2015. Iniziata con quello che ho già tramato (“Il mare di papaveri”) e che finirà con “Diluvio di fuoco”. Ghosh è un antropologo, che ogni tanto cede, ed a noi fa piacere, al “demone” della scrittura, lasciandoci libri forse non memorabili, ma di sicuro interesse. Ricordo a memoria due che mi hanno preso ormai tanti anni fa: “Il cromosoma Calcutta” (trasposizione letteraria della scoperta del virus della malaria da parte di Sir Ronald Ross) e “Estremi orienti” (l’unico reportage che mi ha fatto entrare realmente nel mondo birmano). Qui appunto, riprende la tematica del mare di papaveri, cercando (forse con meno successo o con altre mire) di seguire altri personaggi che si trovavano o gravitavano intorno all’Ibis (ed al suo quasi naufragio). Utilizzando ancora, e con maestria, quella mescola di inglese, urdu, hindi e bengalese che tanto hanno fatto penare i traduttori italiani (e ne sottolineiamo ancora la bravura: Anna Nadotti e Norman Gobetti, grazie!). E se nel primo libro seguiamo (oltre alle disquisizioni sulla natura del papavero) in particolare le vicende di Deeti e del suo amore fuori casta Kalua, della presa di coscienza dell’americano Zachary Reid e di Sereng Ali, qui altri sono i personaggi che prendono il centro della scena. Anche perché ci trasferiamo presto dall’India e dalle navi, nell’enclave di Canton. Siamo comunque sempre nel 1838, ed è qui a Canton che nasce il germe della rivolta tra cinesi e stranieri, qui che dal 1839 al 1842 si svolgerà la prima guerra dell’oppio. Mentre nei primi capitoli veniamo brevemente aggiornati sul fatto che i naufraghi dell’Ibis (quelli buoni) si salveranno in quel di Mauritius (anche se perdiamo traccia di Zachary), per il resto delle onerose pagine seguiamo da vicino le avventure di Neel Rattan Halder, ex rajah ora in rovina, che in quel di Singapore trova il modo di entrare al servizio di Bahram Moddie, un mercante parsi di Bombay (che sappiamo essere la maggior enclave parsi fuori Persia). Con gli occhi di Neel, seguiamo l’ascesa e caduta di Moddie. Partito con un grande carico di oppio da contrabbandare semi-legalmente in Cina, ma che si dovrà fermare come tutti a Canton, colpito dalle voglie riformatrici dell’Imperatore cinese Daoguang e dalle forze armate comandate dall’incorruttibile mandarino Lin Zexu (personaggio reale). Ripercorriamo la grande storia d’amore di Moddie con la cinese Chi Mei, i suoi tentativi di salvare i suoi investimenti in oppio, le sue mediazioni (fallite) con gli inglesi, la sua caduta e morte per abuso di oppio in quel di Hong Kong. Vediamo il lato non commerciale della vita di Canton attraverso le vicende dell’armeno Zadig Bey, anche se è sempre Neel quello che porta notizie, si collega con i cinesi “buoni” e da questi verrà salvato. Neel ci darà l’immagine “mercantile” di Canton, con tutti gli intrighi delle 13 compagnie occidentali, e le trame losche di Lancelot Dent (altro personaggio storico, nodo centrale della futura guerra). Questa è una parte, seppur un po’ prolissa, illuminante nella sua ricostruzione per la protervia occidentale di voler continuare guadagni favolosi non attraverso normali transazioni mercantili (come unico fa l’altro personaggio reale della vicenda, l’americano Charles King), ma utilizzando l’oppio come moneta sonante di conquista. La ricostruzione (antropologica come la sua formazione) delle prese di posizioni inglesi sulla vicenda sono quanto di più crudo si possa dire sulla protervia dei britannici a non voler considerare una nazione civile la Cina, giustificando il contrabbando in nome del libero commercio. Scontro che porterà alla prima guerra dell’oppio, alla successiva sconfitta cinese, ed alla cessione agli inglesi del territorio libero di Hong Kong. L’altro elemento della storia riguarda Paulette, l’incontro con il suo mentore, il botanico scozzese Fitcher Penrose, e la loro scoperta delle rare e bellissime piante orientali, tra cui alcune impagabili camelie. Tra cui la Camelia sinensis da cui si ricava il tè. Tutta questa parte è invece narrata attraverso uno scambio di lettere tra Paulette, relegata ad Hong Kong in quanto non era consentito alle donne occidentali di arrivare a Canton, e Robin Chinnery, fittizio figlio naturale del reale pittore George Chinnery. Soprattutto con gli occhi di Robin vediamo “l’altra Canton”, quella dei pittori cinesi, dei coltivatori di piante, nonché tutti i riti ed i rituali dei “quasi omosessuali” occidentali. Ricordo che non c’erano donne, ed ognuno si arrangiava “come fanno i marinai” direbbe Dalla. Anche questa è una bella pennellata di vita, che ci da, a tutto tondo, un diverso spaccato del mondo orientale in questo fatidico 1838. Una chicca: Robin ci descrive come i pittori cinesi dipingano le ceramiche attraverso modelli estetici richiesti dai residenti occidentali di Canton, per poi inviare i vasi in Europa dove saranno ammirati per la loro “cineseria”. Insomma, un grande affresco pieno di luci, di suoni e di colori, forse un po’ lungo, ma giustificato per la complessità della materia. Certo mi aspettavo una maggiore coralità, anche perché mi sono perso il povero Jodu che non so che fine abbia fatto. Ed altri personaggi del primo libro che mi erano più simpatici del pur bravo Neel. Per finire una domanda, dove Zadig Bey sostiene Canton essere coeva di Roma, mentre a me risulta essere fondata “solo” nel 214 a.C.: qualcuno ne sa di più?
Jeffrey Eugenides “Le vergini suicide” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)
[A: 03/04/2015– I: 05/02/2016 – T: 08/02/2016] - && +   
[tit. or.: The Virgin Suicides; ling. or.: inglese; pagine: 213; anno 1993]
Ho sempre confuso nella mia mente aneuronica questo libro con il sicuramente diverso “Picnic ad Hanging Rock”. Errore a posteriori grossolano, visti i diversi scrittori (Eugenides vs. Joan Lindsay) e la diversa ambientazione (America vs. Australia) e la diversa situazione di fondo (suicidio vs. sparizione). Ma sappiamo che la mente fa brutti scherzi, e solo dopo essere stato convinto dalle mie mentori libresche Ella & Susan, a comprare e leggere questo libro, finalmente ho sciolto la confusione. Anche se non so dire se avrei preferito rimanere nell’ignoranza. Comunque, ora posso anche dire che questo libro di Eugenides, il secondo che leggo da lui scritto, anche se è poi il primo che ha realizzato nella sua non prolifica vita letteraria, non mi è piaciuto particolarmente. Mi è scivolato via, pagina dopo pagina, mentre cercavo di afferrarne il senso ed i modi. Senza riuscire a decifrare bene né gli uni né gli altri. Se infatti “Middlesex”, dopo un inizio a bassa carburazione, era andato avanti scorrendo e risultando alla fine di una normale piacevolezza, queste vergini suicide mi hanno creato non poche difficoltà. E tuttavia, cominciamo con le note positive, o comunque innovative, che questo romanzo di più di venti anni fa portava con sé. Innanzi tutto, la trovata di presentarsi come uno scritto collettivo. In tutto il romanzo l’io narrante diventa un noi narratori, con la sotto-trovata poi di non dire mai chi siano questi noi. Certo capiamo che ne possano far parte Trip, Tim, Chase e David, ma la voce narrante rimane un collettivo che, a distanza di anni dai fatti, ne narra, e, forse, cerca di capirne di più di quanto se capisse al tempo. Secondo ed ultimo elemento la presentazione della vita claustrofobica di un quartiere periferico di Detroit (tra l’altro città natale dell’autore, figlio di un immigrato greco, come si intuisce dal cognome, e che riempie questa periferia di altri immigrati, soprattutto italiani), con le casette che immaginiamo come nei film, a schiera su dei viali con alberi e verde. Casette con garage, con del verde intorno. E pur tuttavia senza nessuna reale interazione tra i vari abitanti. Quasi che ci si guardi come da dentro delle provette di laboratorio, ognuno preso dal suo esperimento di vita, senza poter interagire con le vite altrui. In questo mondo senza molta gioia s’inserisce la vita, e la morte, delle ragazze Lisbon. Sono cinque sorelle, accudite e/o oppresse da un padre insegnante di matematica (che brutta fine) ma soprattutto da una madre bigotta ed inflessibile (inciso, resa benissimo sullo schermo del film diretto da Sofia Coppola, dalla bravissima Kathleen Turner). Una madre incapace (nei pochi interventi che la vedono in primo piano) di accompagnare le cinque figlie nell’adolescenza. Il dramma comincia con il suicidio della più piccola Cecilia, e si conclude un anno dopo con il patto sucida, purtroppo riuscito, delle altre quattro. Cecilia si getta dal secondo piano della casa. E nella ricorrenza del primo anniversario della morte, Bonnie si impicca, Mary mette la testa nel forno, Therese si imbottisce di sonniferi e Lux si uccide con il monossido di carbonio della macchina paterna. Tutto il libro scorre fra queste morti, con la voce narrante che cerca di capire prima i motivi di Cecilia. Che restano misteriosi, e vengono tralasciati per cercare invece di entrare in contatto con le altre sorelle Lisbon. Sorelle che sembrano poter uscire dalla cupa atmosfera materna, finché, ad una festa, Lux si attarda con trip, fanno l’amore, lei torna a casa tardi, e scoppia di tutto. La madre le reclude in casa, le ritira da scuola, il padre si licenzia. Inizia una corsa verso la dannazione, che i narratori descrivono, che cercano di fermare, senza mai capirne motivi, senza mai trovare il modo di intervenire o di far intervenire qualcuno. Sembra allucinante (e forse lo è) che in un paese “civile” in nome delle libertà personali, nessun servizio civile intervenga nella vita della famiglia Lisbon. Eugenides porta tutto alle estreme conseguenze, come detto. Ma anche lui non spiega, non interpreta. Narra, fa forse trasparire elementi di comprensione, tutto però diluito nella melassa che pervade questa inutile vita americana di provincia. Le ragazze muoiono, i Lisbon spariscono (e poi sapremo che divorziano), i narratori continuano da venti anni a porsi domande senza risposte. Il tutto con una rappresentazione dello squallore quotidiano che rende la vita inutile di essere vissuta. Quasi a dire che forse hanno fatto bene le sorelle a scegliere il momento di andarsene. Insomma, meglio il film, più movimentato, anche se meno straniante del libro. Libro, dove ringraziamo Eugenides di averci fatto dono di uno zeugma dantesco a pagina 93 (“se ne andò indossando il suo turbamento ed il suo cappotto”).
“La vita è una perdita di tempo.” (150)
Arto Paasilinna “Il liberatore dei popoli oppressi” Iperborea s.p. (regalo di Silvia)
[A: 01/01/2016– I: 12/02/2016 – T: 16/02/2016] - &&&+
[tit. or.: Vapahtaja Surunen; ling. or.: finlandese; pagine: 305; anno 1986]
Trent’anni dalla scrittura, e li dimostra tutti. Anche se la penna (o il computer) di Arto, ex-molto (guardaboschi, giornalista, poeta, e altro ancora), è sempre affascinante. Ringrazio sempre, che bisogna rendere omaggio a chi apre delle strade, il mio amico Emilio che mi consiglio il primo Paasilinna che ho letto (“Piccoli suicidi tra amici”). Ed altri ne sono seguiti. Sempre con quel filo d’ironia che non guasta mai. Come in questo, che, in maniera certamente cattiva, in originale s’intitolava “Surunen il Salvatore”. Dove appunto Viljo Surunen è l’eroe indiscusso del libro. Salvatore è (talvolta) l’appellativo di Gesù, e qui Arto lo usa in modo ironico, che il nostro Viljo spazia da una parte all’altra del globo per “salvare” qualcuno. Certo, sarebbe bello fosse anche un liberatore dei popoli oppressi, come suggerisce il titolo italiano. Ma se libera qualcuno, è solo un paio di persone alla volta, non certo tutto un popolo. E penso ci sia un accordo tra Italia e Francia, poiché anche lì è stato intitolato “Moi, Surunen, libérateur des peuples opprimés”, mentre nei paesi anglofoni è uscito con il più corretto “Saviour Surunen”. La penna caustica di Arto qui si esprime per tocchi, non lasciando nessuno immune dei suoi graffi. A cominciare da Amnesty International, alle cui riunioni si conoscono il nostro Viljo e la bella Anneli. Lei maestra di musica, lui glottologo. E dai banchi di Amnesty cominciano a “lottare” con petizioni varie per la liberazione, ovunque nel mondo, delle persone ingiustamente incarcerate. Si fossilizzano poi su tal Ramon, da anni in carcere nell’oscuro Monterey, ignoto paese sudamericano, assurto ad eponimo di tutti i simili paesi di quell’area: poche risorse, molti dittatori (generalmente militari), aiuti nordamericani, carcere e tortura per gli oppositori. Qui il primo scatto: le petizioni di Amnesty non hanno sbocco, allora Viljo, sfruttando le sue capacità linguistiche, decide di andare di persona al salvataggio di Ramon. E qui abbiamo la partenza delle immaginifiche avventure degli eroi di Paasilinna: eroi improbabili, che tuttavia riescono a piegare a loro favore gli eventi, sfruttando il più delle volte elementi assurdi ed impensati. Vediamo allora Viljo arrivare a Santa Ruiza, capitale del Monterey, entrare in conflitto con le autorità, lui di mentalità rigorosamente democratica. Rischia la pelle nelle mani delle bande del terrore locale, salvato da un miracoloso terremoto. Altro scatto d’ironia, Viljo decide di conquistare la benevolenza dei potenti locali con conferenze sull’influsso ellenico nella cultura sudamericano. Ovviamente riesce nell’intento impossibile, facendosi dare una scorta militare, con la quale va alla prigione montana, dove libera Ramon ed il suo amico Rigoberto. Fuggendo con loro in Honduras. Peccato che, ormai provato dagli stenti, Ramon muoia. Ma Rigoberto è con lui, ed insieme riescono a tornare a Mosca da dove Surunen era partito. E dove aveva conosciuto un altrettanto improbabile studioso di pinguini. Che convince Viljo e Rigoberto ad accompagnarlo nel cuore di un tipico paese comunista, la Delatoslavia. Qui abbiamo la seconda parte degli avvenimenti, che dopo aver salvato i comunisti latinoamericani dalle carceri militari, nell’enclave claustrofobico slavo, il nostro eroe decide di salvare un prete battista dal manicomio criminale dove è rinchiuso. Con tutta una serie di improbabili e fortunosi accadimenti, sfruttando a pieno la burocrazia slava, riesce alla fine a ripartire per Vienna con il prete Radel. Alla fine tutti sono premiati. Radel si rifugia a Helsinki fondando una nuova Chiesa. Rigoberto sposa la bella Milja. E finalmente, il nostro Salvatore può riposarsi dalle fatiche con la sua Anneli. In tutto il filo del romanzo, Arto riesce sempre a sfruttare al meglio tutte le possibilità. Surunen, da glottologo, parla tutte le lingue locali, dallo spagnolo del Monterey allo slavo della Delatoslavia. Riesce a farsi aiutare dai buoni, senza farli cadere nelle grinfie dei cattivi. Riesce a dare colpi ironici a Gorbaciov (ancora in auge nell’anno 1986), a Kekkonen (presidente storico della Finlandia), ed altri ancora. Ho ammirato e confrontato a lungo, poi, il modo di guardare un paese completamente alieno al personaggio, come il Sudamerica per il finlandese, con quello da poco letto dell’India vista con gli occhi di uno sperduto americano del Texas (ne “I sei sospetti” di Swarup) trovando molte più somiglianza che differenze. Purtroppo, tuttavia, lo scritto risente il peso degli anni, e non è più graffiante come alla sua uscita. Anche se questa è la sua prima pubblicazione in Italia. Grazie ovviamente al lavoro paziente di Iperborea, ma si aspetta qualcosa di più “moderno e vicino” per avere maggiori gradimenti.
Certo che si sta molto in giro, in questi mesi estivi, sperando anche di fuggire dal caldo. Ed allora eccovi subito, come seconda scrittura del mese, anche la solita appendice legate alle cure, questa volta incentrata sull’ipocrisia.
Detto dell’Islanda, detto che non si vede l’ora di partire, ma anche di tornare, e poi di stare, come posso farmi mancare i miei soliti abbracci.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GIUGNO 2016
Un nuovo contrappasso simbolico mi porta a leggere di ipocrisie dopo aver passato tre settimane in un paese luterano, schietto, e piacevole, anche se costoso, come l’Islanda. Vediamo che ne viene fuori.

IPOCRISIA

Herman Koch “La cena”
I veri ipocriti difficilmente hanno il sospetto di essere tali dal momento che il loro atteggiamento è spesso inconsapevole. Questo rimedio non è indirizzato tanto a loro, che se ne infischierebbero in ogni caso, quanto piuttosto a tutti coloro che l’ipocrisia la sottovalutano. Se siete fra coloro che pensano sia un vizio di poco conto, più un fastidio e un malcostume che una reale fonte di allarme sociale, allora dovreste leggere “La cena” di Herman Koch.
In un ristorante di lusso, due fratelli con le rispettive mogli si incontrano per discutere, tra un manicaretto e l’altro, di come salvare i loro rispettivi figli adolescenti dalla prigione dopo che hanno ucciso una barbona davanti a un bancomat dandogli fuoco. La faccenda è seria poiché sono stati ripresi da più di una telecamera... e allora che si fa? Bella domanda. Chiunque di noi non saprebbe rispondere ad un interrogativo del genere, ma se anche non avete idea di quello che avreste fatto voi, provate a giustificare quello che faranno loro, se ci riuscite. Poco importa che la vicenda sia inventata, vi verrà la pelle d’oca comunque e la prossima volta che incontrerete un ipocrita non avrete più tanta voglia di essere indulgenti.

Bugiardino

Ebbene sì, l’ho letto, e non molto tempo fa. Mi piaceva la copertina, e mi ricordava echi di un film che non ho visto, ma di cui ho sentito parlare (“I nostri ragazzi” di Ivano De Matteo, con un quartetto ben assortito di attori: Alessandro Gassman, Giovanna Mezzogiorno, Luigi Lo Cascio e Barbora Bobulova). Torniamo a vedere come ne scrissi due anni fa.
Herman Koch “La cena” Beat euro 9
[pubblicato il 19 settembre 2014
Il mio coevo scrittore olandese, dopo tanto scrivere per televisioni e giornali, esce qui in tarda età con un libro ambivalente. Sicuramente ben scritto (ed una volta tanto ben tradotto), cerca di confutare l’incipit dell’Anna Karenina di Tolstoj. Cerca cioè di spiegare come non solo ogni infelicità è unica, ma anche le famiglie felici, sono felici a modo loro. E lo fa con un libro, come sottolinea Daria Bignardi, politicamente scorretto. Con un libro in cui, dopo aver cercato di farci simpatizzare con tutti i personaggi, li distrugge ad uno ad uno. Tanto che alla fine verrebbe da dire, come con Agatha Christie, “… e non rimase nessuno”. Allora perché valutarlo al ribasso? Forse mi aspettavo un po’ più di crudeltà verso la fine. Arrivati a tanto, viene quasi voglia di vedere di più. Invece il libro si chiude, forse con scelta saggia, con una cattiveria non tanto celata: le cose sono talmente brutte che continueranno ad andare male. Non si salverà nessuno. La narrazione è fatta in prima persona da uno dei quattro partecipanti alla cena, Paul. Partecipanti che si scopre essere due fratelli, Paul appunto e Serge, con le rispettive mogli, Claire e Babette. Si nota subito una certa disparità. Serge è l’uomo famoso, un politico in scalata, che aspira ad alte cariche. Babette è un po’ una moglie “palo”: serve nelle occasioni pubbliche, ma poco nel privato. Paul si scoprirà è un professore in congedo, mentre ignoto sembra il lavoro della moglie. Si sa solo che Paul la ritiene molto più in gamba di sé stesso (e di tutti gli altri). Ci sono poi i due figli grandi, Michael e Rick, nonché Beau un nero adottato dal politico. E si nota anche dell’astio. Paul sembra avercela, e molto, con Serge. Ci fa credere forse che sia per la prosopopea da uomo pubblico (e ne stigmatizzata bene gli atteggiamenti) ma procedendo capiamo che ci deve essere qualcosa di più profondo. E mentre la cena procede (ed alla fine, da buona forchetta, vi riporto anche il menu), Paul ci svela tutti (o quasi) i retroscena. Lui, professore di storia, preso da crisi depressive profonde, comincia a fare discorsi para-nazisti sulla necessità di eliminare i “cattivi soggetti”. Tanto che viene allontanato dalla scuola. Poi la malattia di Claire, e le continue scaramucce con il fratello, che sembra fare sempre la parte del buono, del corretto. Ma infine, la grande crisi. Tutti e quattro i genitori si accorgono, attraverso uno sfocato video trasmesso dalla televisione che sono Rick e Michael ad aver ucciso (forse involontariamente) una barbona che dormiva in un bancomat. Questa è la scintilla nascosta, che mette a nudo i comportamenti dei quattro. Babette è subito emarginata non pensa che a sé stessa, senza capire né figli né parenti. Serge è preso dal suo ruolo sociale, vuole fare ammenda davanti a tutti. Paul e Claire, quasi indipendentemente l’uno dall’altra, hanno invece un atteggiamento simile: fare di tutto per proteggere il figlio Michael. Anche perché si aggiunge un ulteriore pericolo: l’adottato Beau scopre le malefatte e ricatta i due ragazzi. L’abilità di Koch è nel farci calare, gradino dopo gradino, nell’inferno di queste “felicità”. Paul all’inizio sembra molto posato, riflessivo, preoccupato delle attività di Michael. E poi, si scopre essere lui stesso razzista, quasi comprensivo, preoccupato di coprire il figlio. Lo stesso modo di agire di Claire, che addirittura cerca di coprire la possibile resa dei conti tra i ragazzi e Beau. E cercano entrambi di mandare fuori gioco il tentativo di Serge di fare il “bravo politico”. Ovviamente, riusciranno tutte le peggiori attività che ci possono venire in mente. Alla fine non potremmo far altro che piangere su come stia andando in malora l’etica di questo nostro mondo. E ringraziare l’autore di aver costruito un monumento all’ipocrisia. Che sappiamo essere di questo mondo, ma che pensiamo sia altrove. Invece è anche lì, nei comportamenti minuti di molte persone. Nella mia ricerca del buono, nel mio fondamentale ottimismo, rimango spiazzato da questo libro, dove non riesco ad entrare in empatia con nessuno. Bravo Koch! Alcune note a margine sugli atteggiamenti al ristorante. Non sono riuscito a capire, infatti, se il soggettivo di Paul è ironico o meno. Ma dubito che lo sia, come quando fa una sparata sul fatto che solo in Olanda (dice) i camerieri riempiono continuamente i bicchieri di vino per far salire il conto. Lo fanno ovunque. Allora è ironico? È ipocrita? È, forse, solo ben scritto, in modo che risaltano le stupidità della borghesia olandese. E magari riusciamo a riflettere sulle nostre, di stupidità. Poi date un’occhiata al menu, ed immaginate il cameriere che si affanna a descrivere i piatti, soprattutto gli antipasti. E poi spezza il tappo mentre tenta di stappare una bottiglia di Chablis!
Il menu (per quattro, ma non sempre quattro piatti, che alcuni prendono pietanze simili, altri, verso la fine, smettono di mangiare)
Aperitivo        Champagne rosé
Vino               Chablis
Antipasti        Gamberi di fiume in vinaigrette di dragoncello e cipolline con gallinacci dei Vosgi
          Animella d’agnello marinata in olio sardo con rucola e pomodori secchi della Bulgaria
          Caprino caldo con pinoli e noci tritate e contorno di songino
Piatto             Filetto di faraona avvolta in pancetta tedesca
          Tournedos con contorno di uva e lattughina
Dolci              Parfait di cioccolato con mandorle, noci grattugiate e more
          Gelato alla vaniglia con cioccolata calda
Caffè
“Non bisogna sempre sapere tutto l’uno dell’altro. I segreti non ostacolano la felicità.” (252)

Conclusioni

Per una volta, e non succede spesso, mi trovo concorde con le mie amiche dottoresse in libreria. Un perfetto documento che innalza l’ipocrisia a modo di vita, che va letto e meditato, e con tutte le forze, superato.

giovedì 2 giugno 2016

Publio Aurelio Stazio - 02 giugno 2016

Tra poco parte il pullman per l’aeroporto in questa uggiosa giornata di ricorrenza di un voto di 70 anni fa, tra i più importanti della Storia italiana (ed in attesa di quello di domenica prossima, che forse sarà importante solo per Roma). Vi saluto allora con l’attacco di una nuova saga: quella dell’investigatore dell’Antica Roma, Publio Aurelio Stazio, rendendo anche omaggio alla scrittrice che ne ha inventato le gesta, Danila Comastri Montanari, storica bolognese. Non sempre come vedrete le trame gialle sono all’altezza, ma sempre lo è la ricostruzione del mondo romano e delle vicende succedutesi al tempo dell’imperatore Claudio. Queste prime letture cominciano bene, poi scendono pian pianino, per risalire in finale verso una piena sufficienza.
Danila Comastri Montanari “Mors Tua” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 10/12/2015 – T: 12/12/2015] - &&&-
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 1990]
Dopo aver saltabeccato un paio di volte nella scrittura dell’esimia storica del mondo romano, con questa morte tua (che sottintende l’ovvio vita mia) diamo inizio allo studio analitico dei romanzi legati alle gesta del nobile romano Publio Aurelio Stazio. La scrittrice ha dedicato a questa scrittura seriale una ventina di romanzi nel corso di questi ultimi venticinque anni. Questo, anche se la quarta o il lancio editoriale ne tacciono la genesi, è poi il primo della serie. Dove la scrittura e la trama già scorrono abilmente, come se noi ed il senatore ci si conoscesse già da tempo. Un pregio nelle scritture seriali, dove a volte chi scrive fatica ad ingranare teso com’è a dover descrivere gesta e personaggi che si pensa torneranno. Danila affronta tutto ciò molto spavaldamente, appunto come se questo fosse un caso isolato. Vedremo negli altri come tutto ciò avrà una sua evoluzione. Intanto, due tirate d’orecchio all’autrice ed all’editore. Danila, infatti, pur avendo ben presente che stiamo in piena epoca romana, utilizza (ed è molto aderente al testo) la metà di quella locuzione che citavo sopra “Mors tua, vita mia”. Cioè “la tua morte è la mia vita”, cioè ancora solo uno ne uscirà vincitore. Peccato che questa sia una locuzione medioevale e non romanica. Il secondo appunto, per l’editore che, da qualche parte, avrebbe dovuto scrivere che, data la brevità del romanzo in sé, ad esso aggiungeva un racconto (“Una filosofa per Publio Aurelio Stazio”) che, oltre a servire per raggiungere un congruo numero di pagine, fortunatamente serve anche a complementare i caratteri dei personaggi. Da quale buona storica ci risulta essere Danila, la prima cosa che notiamo è la sapiente collocazione della trama nella Storia. Conosciamo il nostro Publio nel 42 d.C., quando da ormai un anno è sul trono di Roma Tiberio Claudio Druso, conosciuto con il nome di Claudio, quarto imperatore della dinastia Giulio-Claudia, e primo imperatore nato lontano da Roma (nasce, infatti, a Lione). E nelle trame anche non vicine alla storia stessa notiamo in trasparenza la presenza della moglie di Claudio, Messalina, e l’ombra del predecessore di Claudio, il turpe Caligola. Vediamo inoltre la vita romana, incentrata nel Senato (cui Claudio aveva ridato potere) dove al solito si affrontano fazioni progressiste ed elementi nostalgici del “tempo romano che fu”, e dei suoi valori. Infine notiamo l’ordito di altre trame, quelle malefiche degli intrighi, con belle donne che concedono favori per il potere ed altre cose non degne (ma direi abbastanza attuali), dove si erge a megafono dei gossip la grassa matrona Pomponia. Ci caliamo anche nei meandri della Roma di quegli anni, dove, appunto, oltre ai nobili, ai senatori, ed alle ville, c’è il popolo, che vive nel sordido quartiere della Suburra (dove ancora oggi abbiamo amici e conoscenti), con i barbieri, le lavandaie, il fango, l’orina, e le donne di facili costumi. In questo teatro, seguiamo e conosciamo meglio il nostro Publio (e la sua ombra, lo schiavo segretario tuttofare Castore). Publio viene implicato nella morte dell’etera Corinna, con cui cercava facili avventure, ma che in ben altre trame era coinvolta. Nasceva dal popolo e si era erta a concedere favori a nobili denarosi. Pochi in realtà, ma assai lucrosi. Mantenuta da Strabonio, anziano marito di Lollia. Amante del plebeo Ennio (che avrebbe fatto meglio a rivolgere le proprie attenzioni alla di lei sorella Clelia). Ed in più coprente la scandalosa storia tra Gaio, figlio del senatore Furio Rufo, e Quintilio, marito di Marzia, l’altra figlia di Rufo. Ma se la morte di Corinna poco muove gli animi, tutto si infervora all’uccisione di Quintilio, trovato sgozzato al tempio di Esculapio (nell’isola tiberina, là dove ora sorge l’ospedale Fatebenefratelli). Publio si trova lì poco dopo e viene accusato dell’omicidio. Il costume romano non prevede difesa per i nobili, ma un onorevole suicidio. Cosa che Publio organizza, ma solo per smascherare il vero colpevole che non voleva cedere ai ricatti di Corinna e voleva nascondere la storia “greca” di Gaio (perché i greci erano gay ed i romani no). Bella ed istruttiva dei costumi romani, la scena del banchetto epicureo che precede il suicidio. E dove Danila conduce una requisitoria alla Nero Wolfe, invitando tutti i possibili colpevoli, e smascherando al fine l’unico responsabile. Che per la vita di Publio offrirà la morte sua. Veloce è il racconto finale, che segue di poco temporalmente questo primo episodio. Publio, per riposarsi delle fatiche, si reca a Baia, il posto di mare dei nobili romani (ed anch’esso a noi ben noto). Per alleviare il tedio, entra in contatto con un circolo di filosofi epicurei, il cui capo, subito dopo, viene anche lui ucciso. Con una semplice indagine, anche qui incolpando e poi assolvendo vari personaggi, Publio ne viene facilmente a capo. Una storia minore e ve la lascio alla vostra più attenta lettura. Notiamo solo, in finale, che Publio, corretto e gaudente, alla fine finisce sempre nel letto di qualche bella signora o signorina del tempo. Alla fine riconosciamo una scrittura scorrevole e piacente, e un’ambientazione, per il mio gusto personale, di degno rilievo, che ci porta indietro di quasi duemila anni. E che a me è decisamente piaciuta. Se ne riparlerà tra non molto.
“Epicuro: quando noi ci siamo, non c’è la morte, e quando c’è la morte, allora non ci siamo noi.” (exergo)
Danila Comastri Montanari “In corpore sano” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 01/11/2015– I: 13/12/2015 – T: 14/12/2015] - && e ¾ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 213; anno 1991]
Secondo episodio, che contiene due elementi che risvegliano antichi rumori ed umori. Il titolo, che mi rimanda a quando io e Giorgio Gaber prendevamo in giro il mio amico che faceva finta di essere Luciano. L’altro è il verso che riporto in fondo, il Catullo dell’orazione funebre per il fratello morto. Che oltre a toccare corde a me care, a riportarmi ed avvicinarmi al mio allora amato Foscolo, fu anche l’unica poesia che riuscì a declamare in distici latini con gli accenti corretti. E non è poco. Anche se il verso viene dal racconto che chiude il libro e non dal libro stesso. Perché anche qui, senza avvertire nessuno, oltre al romanzo del titolo, c’è l’appendice dal titolo “Un’eredità per Publio Aurelio Stazio”. Appendice che liquidiamo brevemente, dove c’è poco oltre al verso di cui appena detto. Un anziano senatore che, nascostamente alla famiglia, sta per sposare una giovane della Suburra (ancora a Monti, eh?), rimasta incinta, muore inaspettatamente e provvidamente (per il figlio). Breve inchiesta, anfora con veleno, testamento ritrovato grazie al testo di Catullo, morte per infarto, e figlio illegittimo riconosciuto. Tutto bene, con il solito sollazzo per Publio, di cui ormai abbiamo imparato vizi e virtù. Più complesso il discorso sul romanzo in sé, che al solito contiene qualche piccolo errore. La citazione del titolo è infatti presa dalla Satira Decima di Giovenale (“Allora, se qualcosa vuoi chiedere ai numi, … devi pregarli che ti diano mente sana in un corpo sano”). Satira composta intorno al 100 d.C., quindi sessanta anni dopo l’età in cui si svolge il romanzo. Ed all’inizio del romanzo si parla dell’imperatore Claudio come di un sessantenne, laddove svolgendosi l’azione nel 43 d.C., Claudio ha solo 53 anni. E non ne ha quaranta più della moglie Valeria Messalina, in quanto la stessa, in quell’anno, ne ha 26 (e ne aveva 14 quando sposò il futuro imperatore). Dicevo complesso, che si toccano temi delicati per la Roma di allora (ma che non sono dissimili da problematiche attuali). La base di fondo è il rapporto tra romani ed ebrei, sia quelli “storici”, insediatisi da anni in Trastevere, sia delle derive del tempo, dei seguaci dell’ebreo chiamato Cresto (come storpiavano al tempo in luogo di Cristo). Tutto nasce dalla morte della bella Dinah, ebrea figlia di un amico di Publio. Parrebbe morta per procurato aborto, anche perché si dice in cinta di un romano mentre doveva andare in sposa all’ebreo Eleazar. Il nostro investigatore ante litteram, non può lasciar cadere il fatto, vista la sua amicizia. E subito nell’indagine scopre l’esistenza di questo amante, Ruben/Rubellio. Che per amore di Dinah stava studiando per convertirsi all’ebraismo. Che prima del colpo di fulmine faceva parte della banda di facinorosi capeggiata da Flavio, trovandosi tutti nel lupanare dell’ormai sfiorita Oppia. Dove Ruben e Dinah consumano il loro atto d’amore. E dove Flavio diventa l’amante di una donna bellissima e misteriosa. Intanto le indagini di Publio lo portano negli ambienti medicali del tempo. Dove scopre con facilità l’inconcludente e non “laureato” medico Demofonte, e la bella e piacente Mnesarete, donna in un mestiere di uomini, che fa pagare il giusto, a volte curando gratis i non abbienti, e che spera di essere invitata nel prestigioso ospedale di Alessandria. Quando anche Ruben muore mentre la dottoressa lo cura da un colpo di spada, probabilmente avvelenata, Publio comincia ad essere insofferente verso tutti. Anche verso la bella dottoressa, con la quale tuttavia trascorre ore piacevoli (alla sua solita maniera). La scolta si ha quando Publio scopre che la bella che si dà a Flavio non è altro che l’imperatrice Messalina (e qui la nostra Danila riprende uno dei temi cari dell’iconografia sulla bella donna, che la vede spesso frequentare un bordello col nome di Lisisca). Tutto sembra portare ad una tresca in cui Flavio, per ordine di Messalina, uccide i due amanti che ne avevano scoperto il gioco erotico. Ma la morte di Flavio per mano dei pretoriani imperiali spegne questa pista. E ragionando con il fido Castore (di cui abbiamo parlato poco, anche se sempre ben presente in tutto il libro) sull’origine di confusioni allocutorie, che Publio scopre l’arcano. Dinah morente aveva detto al padre “ricordati della virtù”, che in greco recita “Mnesai aretes”. Qui Danila utilizza anche un secondo elemento trasversale, anche giocoso se vogliamo, che uno dei primi amanti di Messalina era stato l’attore Mnestere. Tutte queste sbavature fanno diminuire leggermente i punteggi attribuibili al libro. Anche se l’ambientazione generale, i rimandi storici, e le incursioni geografiche (sia in Campania che, in questo libro, anche nella lontana Ceylon) me ne rendono gradita la lettura.
“Catullo: Multas per gentes et multa per aequora vectus.” (187)

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Mùltas pèr gentès et mùlta per aèquora vèctus
Condotto per molte genti e molti mari
di gente in gente; mi vedrai seduto
àdvenio hàs miseràs, fràter, ad ìnferiàs,
sono giunto a queste (tue) tristi spoglie, o fratello,
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
ùt te pòstremò donàrem mùnere mòrtis
per renderti l’estrema offerta della morte
il fior de’ tuoi gentili anni caduto:
èt mutàm nequìquam àlloquerèr cinerèm,
e per parlare invano alla (tua) muta cenere,
la madre or sol, suo dì tardo traendo,
quàndoquidèm fortùna mihì tete àbstulit ìpsum,
poiché la sorte mi ha portato via proprio te, ahimè,
parla di me col tuo cenere muto:
hèu miser ìndignè fràter adèmpte mihì!
infelice fratello ingiustamente strappatomi via!
ma io deluse a voi le palme tendo;
Nùnc tamen ìnterea haèc, priscò quae mòre parèntum
Ora questi pegni, che secondo l’usanza degli avi
e se da lunge i miei tetti saluto,
tràdita sùnt tristì mùnere ad ìnferiàs,
sono stati consegnati come triste omaggio funebre,
sento gli avversi Numi, e le secrete
àccipe fràternò multùm manàntia flètu,
accettale, stillanti di molto pianto fraterno,
cure che al viver tuo furon tempesta;
àtque in pèrpetuùm, fràter, ave àtque valè.
e per sempre, o fratello, ti saluto e ti dico addio.
e prego anch’io nel tuo porto quïete:


questo di tanta speme oggi mi resta!


straniere genti, l’ossa mie rendete


al petto della madre mesta.



Danila Comastri Montanari “Cave canem” Mondadori euro 9,90
[A: 20/02/2015– I: 15/12/2015 – T: 17/12/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 1993]
Come spesso accade quando incontro un autore seriale, spesso i suoi scritti cadono a grappoli nella mia rete di lettura. Così è anche per le storie romane di Publio Aurelio Stazio scritta con buona proprietà dalla bolognese nonché scorpione Danila. Mentre nelle prime due storie c’era un’appendice che serviva a colmare il numero di pagine atto ad una pubblicazione non in perdita (ricordo che per la stampa in offset, è bene avere un numero di pagine che tra intestazioni e pagine bianche finali si aggiri intorno alle 210), qui abbiamo un inizio più organico. La nostra scrittrice, nell’intento di ampliare la nostra conoscenza del senatore, ci presenta nel prologo il momento epico dell’infanzia di Aurelio. Ed è il momento migliore del libro. Avviene un furto nella casa del sedicenne Aurelio, sotto la tutela del padre (che se lo fila poco), e senza la madre che subito divorziò e se ne sta da qualche parte in Oriente. Furto di cui viene accusato Diomede, amministratore del patrimonio di casa Stazio e padre del suo compagno di giochi Paride. Contemporaneamente il padre, bevitore e giocatore, muore, cosicché Aurelio diventa il pater familias della casa, riesce a scoprire il vero colpevole del furto, e si accorge della bravura di Diomede, che sarà per sempre suo servitore ed amministratore, cedendo il posto, alla sua morte, al figlio Paride. Ora manca che prima o poi si conosca la storia del rapporto tra Aurelio ed il suo schiavo liberato Castore, per avere luce sulla sua costellazione familiare. Intanto continuiamo a sapere nelle more del racconto che Aurelio è sempre più dedito a conquiste muliebri, anche ora che ha da poco superato i 40 anni. In effetti, dal prologo sappiamo che è nato nel 3 d.C., che diventa capo della famiglia nel 19 d.C., anno in cui in una libreria di Roma incontra l’allora poco appariscente Claudio, studioso e balbuziente, che però, nel colmo di queste indagini è nel frattempo diventato imperatore. Inoltre sono 10 anni che non vede più la moglie da cui ha divorziato nel 34 d.C. Ultimo elemento positivo, riguarda il titolo, che questa volta è in linea con il tempo del racconto. Infatti, la scritta “CAVE CANEM” si trova sicuramente in una villa di Pompei risalente al 20 d.C. Questo però è tutto il meglio, che il resto del racconto non è all’altezza. Né dell’ironia che a volte traspare da altri scritti, né dall’intrigo investigativo, che si rivela (almeno parzialmente) ben presto, anche se la piena luce potrà venire solo alla fine (quando sapremo cose che all’inizio erano impossibili da divinare). Dimenticavo, l’altro momento personalmente di goduria è l’ambientazione del romanzo, che si svolge tutto tra Baia e Pozzuoli, passando per il lago di Lucrino, ed altre zone ben note della baia Domizia (anche senza Patrizia, se qualcuno ricorda la canzone). Insomma, lì sta in “ferie augustae” il buon Aurelio e, decidendo di tornare a Roma, si avvia con l’amica Pomponia, fermandosi per saluti ed altre amenità, nella villa di Gneo Plauzio. E qui cominciano le complicazioni: Gneo Plauzio è un mercane arricchito (in realtà è uno che vende pesci e mitili d’allevamento), che ha tre figli dalla prima moglie (Attico, Secondo e Terzia, gran fantasia), che con i soldi convince l’imperatore Tiberio a fare divorziare la bella Paolina dal generale Fabrizio, sposandola, adottandone il figlio Lucio, ed accogliendo nelle sue schiere il piccolo Silvio, forse nato da una sua relazione adulterina. Appena arriva Aurelio muore Attico che cade in una vasca di murene. Fatalità? Il nostro ci crede punto o poco. Anche se viene sobillato da Paolina che gli mostra un’antica profezia, dove i figli di Gneo perirebbero per mano di pesci, uccelli e insetti. Profezia che data quasi venti anni prima. Già qui, ne noto l’improbabilità, che solo Paolina ne conosceva il contenuto. Neanche la sibilla cumana, cui Aurelio tributa una visita (spassosa, questa sì) ne sapeva alcun che (ed è la sibilla, oh!). La situazione precipita quando Secondo viene ucciso orse da un airone, più probabilmente da un pugnale. Gneo, impaurito, fa testamento riconoscendo Silvio e nominandolo suo erede. E poco dopo, mentre tutti cercano di proteggere Terzia dagli insetti, anche Gneo muore. Così che Silvio, obtorto collo, assume le redini della casa, si dichiara alla sedicenne Nevia (di cui non vi diciamo altro, sennonché è figlia della bella Elena, che Aurelio… e quante cose volete sapere, eh?), e durante il banchetto di commiato di Aurelio, sorride con un ghigno tale e quale a Lucio Fabrizio. Trate voi le somme, che noi l’abbiamo fatto da un pezzo. Detto anche dei gustosi accenni a vicende trasversali, come la sconfitta di Varo a Teutoburgo o la rivolta di Spartaco (che veniva dalla Tracia, e non me lo ricordavo), tutto il resto passa un po’ in sordina, senza troppa infamia è vero, ma anche senza troppa lode. Tanto poi per collegare gli episodi, il romanzo finisce con Sestilio che invita il recalcitrante Aurelio ai ludi circensi. Tant’è che il prossimo romanzo si intitola: ...
Danila Comastri Montanari “Morituri te salutant” Mondadori euro 9,90
[A: 28/11/2014– I: 22/02/2016 – T: 24/02/2016] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 234; anno 1993]
Come dicevo alla fine della precedente trama, il nuovo romanzo non poteva che ricordare il saluto dei circensi alla loro entrata nell’arena. E sui ludi, sulle morti e sulle indagini del nostro Publio Aurelio Stazio si dipana una nuova saga scritta dalla brava Danila Comastri Montanari. Inoltre, essendo il romanzo leggermente corto, come in altre occasioni viene riempito (purtroppo senza indicazioni in copertina) con un racconto. Di quelli estivi, di piccole indagini che Aurelio svolge nel “buen retiro” di Baia. Ma su questo torneremo. Che si deve narrare del libro e della sua trama. Come spesso accade alla nostra scrittrice, l’ambientazione è degna di una ricostruzione storica accurata, e degna di fede. Meno l’indagine, l’intreccio, il giallo, la soluzione. La trama inizia come da titolo nell’arena, quando il capo dei gladiatori, il supposto invincibile Chelidone muore improvvisamente mentre sta per finire il suo avversario. Dato che il divo Claudio è presente ai fatti, non ci si può esimere dalle indagini. Inoltre, ricordando i trascorsi giovanili, quando l’imperatore era solo un claudicante erudito, non può che affidarsi al suo allora allievo Aurelio. Ed il nostro, con la sua solita abilità, e con l’aiuto del fido e nello stesso tempo malandrino Castore, indaga. Scopre intrecci inaspettati, scommesse truccate (niente di nuovo sotto il sole!), gelosie e voglie di rivalsa. C’è l’attrice Nissa, supposta amante di Chelidone, ma anche protetta dal losco avvocato Sergio Maurico. Ci sono i gladiatori compagni di Chelidone, su cui si gettano più di un’ombra di dubbio: l’infido Eliodoro, sempre pronto a dire una parola malvagia, la selvaggia Arduina, principessa britanna in cattività, bruttissima e bravissima, il celto Gallico, in attesa della fine della schiavitù gladiatoria. Aurelio scopre facilmente che dietro a tutto, o quanto meno a molto, c’è sempre Sergio Maurico: ha prelevato il fabbro Placido da quel di Modena facendolo diventare l’invitto Chelidone, ha riscattato la servetta Nissa dai lupanari, facendone un’attrice d’avanguardia erotica, è intimo del generale Fazio, di certo poco popolare. Indagando a fondo in un caldo mese di giugno, Aurelio ritrova anche la sua prima sposa, Flaminia, da cui era separato da decenni, con la faccia devastata dal vaiolo ma sempre in contatto con le sfere “nere” del potere. Sarà facile per Aurelio risalire alla trama ordita dall’avvocato: far perdere Chelidone, senza che questi muoia, costringere Claudio a decidere “vivo o morto” come si fa in questi casi, e sulla morte innescare una rivolta popolare nell’arena che costringa l’imperatore ad uscire da vie laterali, dove lui ed i suoi scherani avrebbero provveduto a finire l’opera che i miliziani non avevano terminato ai tempi di Caligola. Ma una trama senza prove è inutile contro le armi oratorie di Sergio Maurico. Per fortuna che qualcuno (e non vi dico chi) viene in soccorso al nostro, fornendo a lui ed a Claudio le prove del complotto. Tuttavia Chelidone non doveva morire nell’arena. Anche qui, Aurelio si rivela intuitivo, capendo chi fosse l’unica persona che, all’interno dell’assemblea dei gladiatori, avrebbe desiderato e brigato per uccidere il fellone. Vi tralascio, in quanto sarebbe un lungo elenco, le morti al contorno del romanzo. Rimane, come detto, la ricostruzione: dei ludi, dei templi, delle strade romane, della suburra, delle strade intorno all’Aventino. Nonché delle vesti, dei banchetti, e di quant’altro riesce a riportarci a quel 45 d.C. Divertente il cammeo con Lucio Domitio, figlio di Agrippina, che già strimpella la cetra volendo diventare un grande cantore, e fa uno scherzo mortale alla sorella di Sergio. Gli esperti di storia sapranno già che Lucio Domitio sarà il successore di Claudio, con il nome di Nerone. Menzioniamo brevemente il racconto in appendice (“Una dea per Publio Aurelio Stazio”) dove l’azione si svolge poco dopo i fatti precedenti, ed è interessante solo per la bellissima descrizione che riporto. La storia è banalina: Pomponia, amica di Aurelio, in quel di Baia si invaghisce del culto egizio di Iside. Ma è tutta una truffa, ordita da due loschi capuani, dove la morte del capo porta all’incriminazione di Pomponia, unica presente sul luogo del delitto. Aurelio, con una breve indagine, farà ben presto luce sulla truffa, sulla morte, e su alcune misteriose nascite. Alla fine, non dispiace lo scritto di Danila, soprattutto per l’accurata ricostruzione storica, e per qualche cammeo storico ben delineato. Ne consiglio una distratta lettura a chi voglia anche rivedere nelle piante inserite nei libri come si era sviluppata nei primi decenni dopo Cristo la nostra città eterna.
“Baia, il luogo di ogni delizia, nelle cui terme miracolose si coniugavano i piaceri più raffinati del corpo e dell'anima. Baia, la perla del mare, dove i vecchi ringiovanivano, i fanciulli si effeminavano e le vergini non restavano tali a lungo. Baia, il paradiso dei cacciatori di donne, da cui le belle matrone tornavano guarite nel corpo e ferite nel cuore... La magica insenatura perfettamente circolare, i colonnati a picco sul mare, gli enormi bulbi delle aule termali, i giardini fioriti, le lussuose residenze dei grandi di Roma, prima tra tutte quella dell’imperatore: tutto ciò faceva di Baia la più bella e la più famosa stazione di villeggiatura dell'impero.” (185)
Prima e molto solitaria trama del mese. Ed ecco allora le quindici letture del mese di marzo, illuminate da due interessanti letture: “Il meglio della vita” di Rona Jaffe, e l’affare Quebert dello svizzero Dicker, che vi consiglio (in italiano va bene). Ed oscurate da una delle peggiori prove di Wilbur Smith, un autore di best seller che ho cominciato a studiare, ma che non mi ha ancora convinto.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Bruno Morchio
Le cose che non ti ho detto
Garzanti
9,90
3
2
Rona Jaffe
Il meglio della vita
Beat
9
4
3
Danila Comastri Montanari
Spes ultima dea
Mondadori
9,90
3
4
Wilbur Smith
Figli del Nilo
TEA
6,90
3
5
Danila Comastri Montanari
Scelera
Mondadori
12
2
6
Joël Dicker
La vérité sur l’affaire Harry Quebert
De Fallois
9,20
4
7
Wilbur Smith
Alle fonti del Nilo
TEA
6,90
1
8
Bruno Morchio
Rossoamaro
Garzanti
9,90
3
9
Alessia Gazzola
Le ossa della principessa
TEA
12
3
10
Bruno Morchio
Bacci Pagano cerca giustizia
Fratelli Frilli
9,90
2
11
John Irving
Hotel New Hampshire
Bompiani
10
3
12
Andrea Vitali
Le tre minestre
Mondadori
9
2
13
Michael Connelly
Il quinto testimone
Piemme
13
3
14
Claudia Piñeiro
Betibú
Repubblica Mondo Noir
7,90
3
15
Ahmed Mourad
Polvere di diamante
Repubblica Mondo Noir
7,90
2

Ma il campanello suona, ed anche sotto la pioggia, è bene avviarsi. A tutti un caldo abbraccio visto che vado al freddo.