domenica 28 gennaio 2024

Anticipo scandinavo - 28 gennaio 2024

In attesa che si concretizzi il viaggio verso il Nord, capita giustamente una cinquina scandinava, con due autori svedesi ed uno norvegese. Tra l’altro, gli svedesi ambientano le loro opere verso il Nord scandinavo, in quella regione che si spera presto di esplorare. Purtroppo, però, la lettura non è all’altezza delle premesse. Si salva il quinto episodio dell’avvocato Rebecka della scrittrice Åsa Larsson, come pure un romanzo non seriale del norvegese Nesbø. Mentre gli altri due di Nesbø ed una prova seriale di Arne Dahl scendono a livelli bassissimi di gradimento e realizzazione.

Åsa Larsson “Sacrificio a Moloch” Feltrinelli euro 11 (in realtà, scontato a 8,80 euro)

[A: 07/08/2019 – I: 20/08/2023 – T: 21/08/2023] - &&& --

[tit. or.: Till Offer åt Moloch; ling. or.: svedese; pagine: 380; anno 2012]

REBECKA05

La citazione finale è una specie di memento che si attaglia bene a tutta la vicenda legata alla lettura di questo libro della scrittrice svedese Åsa Larsson. Il libro dovrebbe essere stato scritto tra il 2011 ed il 2012 (le indicazioni in rete non sono univoche), ma sicuramente è nel 2012 che ne esce la prima traduzione italiana dell’ottima Katia de Marco. Dopo aver letto tra il 2010 ed il 2013 i primi quattro casi di Rebecka, ho aspettato la pubblicazione in economica (che tanto c’è molto altro da leggere), avvenuta solo nel luglio 2019. Motivo per cui vedete che è stato acquistato subito dopo. Tuttavia, non era nelle mie priorità di lettura, e quindi sono passati altri quattro anni prima che avessi voglia, e tempo, di dedicarmi a questa serie.

Tuttavia, nonostante i più di dieci anni passati, è una lettura che si colloca nel rango delle godibilità estive. Certo, qualche filo va riannodato, ma è poco funzionale ad una trama che si regge da sola. Inoltre, ma qui abbiamo il vuoto del futuro, questi anni Åsa è rimasta silente, e solo lo scorso anno è uscito in Italia il sesto volume della storia.

Come non pochi autori svedesi (e cito solo Lackberg e Nesser) Åsa circoscrive il suo mondo in una piccola porzione territoriale, la città di Kiruna. Che è certo un fenomeno interessante. Non solo per aver dato i natali a Åsa, o per le gare di sci di fondo che vi si disputano. Ma anche perché è una delle città più grandi a nord del Circolo Polare Artico, ed una delle maggiori enclavi di una sette luterana molto religioso denominata “Laestadianesimo” (dal nome del fondatore Lars Levi Læstadius). Un movimento che vi invito a studiare.

Di certo Åsa è sempre molto vicina alle scritture bibliche quando imbastisce le sue trame, così come in questa, partendo dal Levitico (ma passando di sicuro per le credenze cananee) si rifà ai sacrifici dei bambini che avvenivano nell’antichità, per condurci alla riflessione su quanto sia possibile sacrificare sull’altare delle brame personali.

Non ci meravigliamo poi, visto che è ormai una costante accettata in tutti i gialli, ed in quelli nordici in particolare, che abbiamo un rimbalzare tra passato e presente. Un passato sempre legato a Kiruna, alla presenza di Elina, una maestrina libera e disinibita ed alla sua storia d’amore con Hjalmar Lundbohm. Questi è un personaggio realmente esistito e usato dalla nostra scrittrice con molte forzature (cosa che se fossi un parente tenderei a contestare). Fatto è che i due generano un figlio, Franz, non riconosciuto (almeno ufficialmente) dal potente.

Venendo poi al presente, ovvio che molto ruota intorno alla protagonista, Rebecka, avvocato di grido, che sappiamo per una serie di motivazioni, anche personali, si è trasferita a Kiruna, lasciando il fidanzato a Stoccolma e forse (almeno sembra dal libro precedente) trovando uno spasimante in loco. A Kiruna, intanto si susseguono una serie di morti. Muore Franz, che poi viene sbranato da un orso. Muore il figlio di Franz, investito da una macchina. Muore la nuora di Franz, uccisa a colpi di forcone. Salvandosi solo il nipote Marcus, anche se molto provato.

Salvo l’ultimo, sicuramente omicidio, gli altri sono fortuiti o intenzionali? E nel caso che motivi ci sono? Certo, la nuora era di facili costumi, ed aveva amanti, per giunta sposati. Vendetta di una moglie tradita?

Nelle more delle indagini, si instaura anche una lotta di potere tra Rebecka e il procuratore che vede di cattivo occhio i successi della nostra eroina. Åsa mescola il tutto, condendolo con un po’ di vita contadina, con qualche cane che si aggira tra guardie e ladri. Ma soprattutto con la nascita di rancori, di ferite mai sopite. Aggiungendo però del sale, con i bei rapporti di alcuni adulti verso Marcus. Rebecka, emarginata e sola, riesce a trovare una pista sghemba che, alla faccia di chi le vuole male, porta alla soluzione del mistero, alla cattura dei colpevoli, allo scorno del procuratore. E, forse, alla rottura del fidanzamento. Vedremo, forse, nel capitolo da poco uscito come si evolve e se si evolve il lato privato.

Åsa riesce ancora una volta a mostrare i due lati della vita nelle sconsolate terre del nord della Svezia. Il lato cattivo, che cerca solo rivincite, soldi e potere, ed il lato buono, della solidarietà tra le persone di buona volontà. Lasciandoci però quel dubbio su Moloch. Fortunatamente non ci sono bambini sacrificati ad un Dio malvagio. Rimane la cattiveria di chi, per denaro, calpesta diritti e affetti.

“La vita passa così maledettamente in fretta.” (161)

Jo Nesbø “Il cacciatore di teste” Repubblica Essenza Noir 15 euro 8,90

[A: 03/12/2022– I: 21/09/2023 – T: 22/09/2023] - &&& --

[tit. or.: Hodejegerne; ling. or.: norvegese; pagine: 300; anno 2008]

Torniamo dopo esattamente quattro anni a leggere un libro del simpatico norvegese. Simpatico perché, oltre a scrivere, ha giocato a calcio nelle giovanili del Molde, ed è tuttora cantante e chitarrista nel gruppo pop norvegese “De Derre” (a proposito del quale, se ben sapete il norvegese, il nome significa “Quelli lì”, perché all’inizio, non avendo trovato un nome, quando salivano sul palco, qualcuno domandava: “Chi suona ora?” a cui rispondevano “Suonano quelli lì” cioè “Jet er de derre”).

Venendo invece alla sua carriera di scrittore. Pur avendo scritto 13 romanzi con il suo miglior protagonista, cioè Harry Hole, io ho fermato la mia carriera di lettore della serie al volume 10 (“Polizia”), dove mi sembrava che il personaggio e la vena dell’autore si fossero abbondantemente esauriti. Forse se ne ritroverà la lettura, ma non ora.

In parallelo, ha scritto due romanzi con protagonista tal Olav Johansen, che non ho ancora letto, e cinque romanzi isolati, di cui questo è il primo che leggo. E dove ritrovo una parte del modo di scrivere, di presentare i personaggi, di imbastire le storie che risale alle sue prime opere. Con anche qualche componente diversa, tanto che, leggendo questo romanzo viene in mente un film di Tarantino girato da Woody Allen.

Perché è un film, pardon un libro, dalle spiccate venature comiche, tanto che Roger Brown, il protagonista potrebbe essere definito un “persona cronicamente sfortunata”. Cioè, se ci fosse Allen ed un po’ di yiddish americano, uno “schlimazel”. Questo per un centinaio di pagine, poi Jo impone una brusca svolta alla vicenda, e da lì in poi si trasforma in un pulp-book, dove alla fine si conteranno, se non vado errato, almeno otto morti di morte cruenta.

Tutta la prima parte serve a costruire l’ambiente di riferimento, introdurre personaggi, e fare in modo che noi ci si domandi dove sia il giallo (o il noir?). Veniamo introdotti nel mondo dei “Cacciatori di teste”, quei personaggi che, nel mondo del lavoro, cercano persone adatte a determinati posti, in generale di notevole rispetto economico. Roger è un genio nel suo campo, per una serie di motivi basati sulla necessità di una rivincita agli scherzi del caso.

Perché Roger è bassino (un metro e sessantotto) in un mondo che è sempre almeno dieci centimetri più alto, ha una bassa estrazione sociale ed ha sposato una donna colta ed affascinante di cui “non si sente all’altezza”. Ma sul lavoro è un “mago”, sfruttando, nelle sue interviste lavorative, i metodi degli interrogatori americani, basati su quello che viene chiamato “interrogatorio a nove fasi, di Inbau, Reid e Buckley” (esiste davvero, è un po’ lungo da descrivere, ma se volete lo trovate su Wikipedia inglese).

Oltre ad avere un ego smisurato, Roger ha anche un altro difetto. Per mantenere il suo alto tenore di vita, si dedica al furto di opere d’arte, aiutato dal suo amico Ove, casualmente a capo di una organizzazione di “security”. Per completare il quadro ha una bella moglie Diana, che ha convinto ad abortire, non ritenendo ancora il momento di avere figli, e per compensazione, le ha regalato una galleria d’arte di alto livello (ed alto costo). Ed ha avuto, episodicamente, una strana amante, Lotte, danese, dolce, remissiva, ma con qualche ombra strana.

Tutto si coagula quando, per un posto importante, si imbatte in Clas Greve, esattamente il suo opposto. Alto, aitante, determinato. Insomma un fico da paura, che ha anche un Rubens in casa. Durante la rapina organizzata con Ove, trova il quadro, ma anche il cellulare della moglie. Qualcosa scricchiola. Il mattino dopo trova anche Ove drogato o forse morto nella sua macchina (sua di Roger). Comincia alla grande il pulp. Roger è in caccia, poi è cacciato. Non si capisce più chi sia a tirare le fila. E soprattutto, Jo ci fa capire che, in fondo, nessuno dei personaggi gli sta simpatico. Per fortuna che lo salva l’ironia, che gli consente di mescolare così tanto le carte, che ogni volta che sembra si capisca qualcosa, tutto va a gambe all’aria.

Con un colpo di reni finale, nelle ultime cinquanta pagine ripercorre, con l’aiuto della polizia, tutta la vicenda. Se avevamo qualche dubbio, lì ce lo togliamo. Ma vediamo anche la bravura di continuare ad ironizzare, che, se è vero che noi lettori capiamo, è altrettanto vero che la polizia, almeno per noi, non fa una bella figura.

Mi rimangono due domande al fine. Jo per tutto il libro sembra non amare nessun personaggio. È vero che può capitare (ad esempio, Carlotto in questo è un maestro), ma l’effetto nordico rimane un po’ freddo. E poi sul titolo, che, stando al dizionario norvegese, dovrebbe essere plurale (“I cacciatori di teste”) mentre qui viene declinato al singolare. Può essere un appunto di poco conto, ma forse anche no.

Vediamo se si ritorna primo poi anche ad Harry Hole.

“Non c’è nulla al mondo che faccia sentire un uomo invincibile quanto una donna che gli dice di amarlo.” (93)

Jo Nesbø “Sole di mezzanotte” Repubblica Profondo Noir 7 euro 8,90

[A: 28/08/2023– I: 06/10/2023 – T: 07/10/2023] - && e ½

[tit. or.: Mere blod; ling. or.: norvegese; pagine: 200; anno 2015]

Come capita quando si è in ritardo di lettura con un autore, ecco che, a ruota, escono altri libri dello stesso, al fine di colmare non dico un vuoto, ma un percorso, mio, di comprensione degli scritti. Qui, inoltre, siamo di fronte ad alcune difficoltà ulteriori. Tra il 2010 ed il 2016, Nesbø, forse sazio della sua saga con Harry Hole, si dedica ad altre scritture. Decidendo, tra l’altro, di scrivere una trilogia leggermente più pulp de “Il cacciatore di teste”.

La trilogia si dovrebbe intitolare “Sangue sulla neve” (“Blod på snø” in norvegese), riprendendo il primo titolo della serie. Viene pubblicato anche in Italia, dove il titolo cambia in “Sangue e Neve” (solito mistero). Un libro che mi è sfuggito nelle pieghe delle diverse acquisizioni. Anche perché, dopo il decimo volume di Hole anch’io volevo una pausa, non da Hole ma da Nesbø.

Poco dopo il primo, esce il secondo volume, che, per seguire il filone indicato dall’autore, si intitola “Mere blod” (cioè “Più sangue”). Ovviamente, i destini editoriali italiani si sono focalizzati sul titolo inglese “Midnight Sun” e lì sono rimasti.

Altro mistero, in molte traduzioni viene indicata come la saga di Olav Johansen, detto “Il Pescatore”. Detto che non avendo letto il primo non mi pronuncio per quello, ma in questo il personaggio compare in un capitolo ed aleggia in altri. Io sarei tornato sul titolo della saga originario, cioè “Blod på snø”. Ma quant’è.

Infine, dovrebbe essere una trilogia, ma a me ne risultano usciti due. Forse l’autore ce lo farà sapere, prima o poi.

Venendo al romanzo, lo stile riprende più i timbri dei non-Hole, dove, pur toccando temi “pesanti”, il tono è più leggero, quasi volesse spostare l’attenzione su altro del testo. Non sul giallo, che giallo non è, e poco sul noir, che quello c’è in maniera copiosa. Ma sui personaggi, sulle loro interazioni, sulle loro personalità.

Sempre in prima persona, seguiamo la vicenda di Jon, uno spacciatore di mezza tacca, che si trova in una vicenda più grande di lui, dove sembra sempre non sapere che direzione prendere, che decisioni affrontare. Avrei visto bene come sottotitolo “L’indeciso”.

Per una serie di circostanze, si trova coinvolto nel piccolo spaccio, si trova con una figlia a carico e senza aiuti. Quando la piccola Anna si ammala di una leucemia mortale, prova a trovare i soldi rubando al suo capo, il Pescatore, ma scoperto, si deve adattare a fare il contabile (cosa che gli riesce) ed il killer (cui non è adatto, che non sa uccidere). Avvengono altre cose in quel di Oslo, fatto sta che per sfuggire ai killer del Pescatore (cui ha fatto un altro sgarbo) decide di fuggire verso il Nord, verso i luoghi dove c’è, d’estate, il sole a mezzanotte.

Qui incontra una famiglia, Lea e suo figlio Knut, e la loro comunità di laestadiani (su cui torneremo), una setta particolarmente bigotta. E sempre dalla voce, un po’ scanzonata e un po’ angosciata di Jon che seguiamo le sue vicende nella terra dei sami. Dovrà affrontare pericoli mortali, cui cercherà (e vedrete se ce la piò fare) di sfuggire. Dovrà anche affrontare la giovinezza spensierata di Knut e la maturità religiosa di Lea. Chi vincerà?

Su questo interrogativo vi lascio alla vostra sana lettura, mentre torno su alcuni aspetti.

La scrittura di Nesbø è sempre gradevole. Mentre, però, nella serie di Harry Hole, dopo un inizio discretamente coinvolgente, si incarta e si incupisce, in questi ultimi volumi rimane sempre ad un livello decisamente più solare. I tre personaggi principali del romanzo vengono fuori con decise caratterizzazioni, e forse qualche passaggio a vuoto. Ma Jon è umano, con tutte le contraddizioni insite in ogni uomo, e con una bontà di fondo che, pur se con difficoltà, viene fuori a tratti e con piacevolezza.

I passaggi sul rapporto grande – piccolo tra Jon e Knut hanno un buon risultato. Mi faccio solo una domanda: la battuta sui cinque elefanti in una cinquecento, è una battuta che in Italia circola da quando avevo dieci anni. È possibile circoli anche in Norvegia, o hanno italianizzato una freddura che, se ben conosco i norvegesi, potrebbe essere intraducibile? Penso che la domanda avrà difficilmente risposta.

Come detto sopra, una parte non piccola del romanzo è collegata al movimento laestadiano. Lo abbiamo già incontrato in altre opere ambientate nel mondo sami (che è il nome corretto della popolazione del nord della Scandinavia che noi si chiama, erroneamente, lapponi). Ma vale bene ripetere che è un movimento cristiano, derivato dal luteranesimo nordico, con una spiccata tendenza ad essere aperti all’interno della comunità (la confessione può essere fatta anche ad un altro membro) e di avere spesso nel linguaggio comune la tendenza a nominare Dio (il saluto normale per loro è “la pace di Dio”). I laestadiani, inoltre, considerano la danza, guardare la televisione, il controllo delle nascite, la musica rock, il trucco, gli orecchini, i film e i tatuaggi come peccati. Capite quindi come Jon spacciatore e poco credente, abbia difficoltà ad interagire con i locali. Interessante è seguire il modo in cui Nesbø affronta tutto ciò.

Comunque, rimango sempre in attesa di un nuovo Harry Hole interessante da leggere.

Jo Nesbø “Macbeth” Corriere Profondo Nero 6 euro 7,90

[A: 13/09/2019 – I: 16/10/2023 – T: 18/10/2023] - & --

[tit. or.: originale; ling. or.: norvegese; pagine: 612; anno 2018]

Due delusioni, di cui, però, una è solo una conferma. Questa collana del Corriere dedicata alle opere “noir” più scure (profonde come dice il titolo) continua ad essere deludente, ed anche quando (seconda delusione) viene proposto un autore che potrebbe (dovrebbe) fornire prove quanto meno interessanti, si cade nello sconforto. Un’occasione interessante che produce un risultato insoddisfacente.

Tutto comunque nasce da un progetto della Hogarth Press, mitica casa editrice fondata nel 1917 da Virginia Wolf, ma ora di proprietà del colosso Penguin Random House, di sviluppare un progetto commerciale coinvolgendo autori contemporanei nel riscrivere, aggiornandole, le opere di Shakespeare.

Come parte del progetto, quindi, Nesbø si impegna in questo Macbeth, lasciando di lato sia Harry Hole che il Pescatore, le sue opere seriali, prendendo l’intera trama shakespeariana e trasportandola negli anni ’70, con un ambiziosa idea di aggiornamenti.

L’idea è senz’altro degna di nota, come anche la fantasia realizzativa dell’autore. Tuttavia il risultato non è all’altezza delle ambizioni. Ricalcando con assoluta fedeltà l’andamento shakespeariano, il testo è realmente fruibile solo da chi padroneggia pienamente l’opera teatrale. Non esiste il romanzo se non si tengono a mente le continue referenze e citazioni. Questo, però, invece di insaporire la trama la appiattisce. I personaggi diventano maschere di altro, non se ne riesce a percepire uno spessore diverso da quello originale. Così che non solo sappiamo cosa succederà, ma sappiamo (dopo aver capito il meccanismo narrativo dell’autore) anche come, con quali implicazioni, con quali modalità.

La base traspositiva di Nesbø è ambientare la vicenda in un immaginario paese intorno agli anni ’70, dove, in una descrizione che rimanda spesso al primo “Blade Runner” (ma anche a “1999: fuga da New York”) si aggirano i personaggi shakespeariani. La città (forse l’idea migliore) è corrotta, e i nobili scozzesi qui sono rappresentati con differenti gradi della polizia locale. Il soprannaturale originario scompare completamente, sostituito dalla droga che pervade il mondo. Sono le lotte di potere, le lotte economiche, la corruzione gli assi portanti del nuovo ambiente. Un’idea certo buona ma forse poco veramente originale.

Per fare un parallelo, quindi, abbiamo Duncan, il re scozzese, trasposto come Commissario Capo, Macbeth a capo della SWAT (e se vedete le serie tv capite subito il motivo), McDuff, abbreviato in Duff, capo dell’Anticrimine, e Lady Macbeth diviene una ex-prostituta che ora gestisce il più esclusivo casinò della città. La strega Ecate, infine, diventa il capo del cartello criminale dedito allo spaccio della droga.

Duncan, come Capo della Polizia, vuole combattere la droga e la corruzione. Macbeth (una giovinezza da drogato) sventa l’arrivo di nuova droga e viene nominato da Duncan numero due, suscitando la gelosia di Duff (compagno di Macbeth nella scuola di polizia). Ecate, tramite suoi accoliti, manda messaggi di luminoso futuro a Macbeth, che non se ne interessa più di tanto. Mentre suscitano le bramosie della sua compagna, Lady, che vede nei tentativi opposti di Duncan ed Ecate una minaccia al suo impero dei casinò.

Sarà Lady che sobilla Macbeth, convincendolo ad uccidere Duncan. Cosa che il nostro farà chiedendo aiuto al suo secondo Banquo. Ma il messaggio di Ecate contiene anche altre minacce: sarà la progenie di Banquo a prendere il potere. Motivo per cui Macbeth uccide il suo sodale, ma non Fleance, il figlio. Duff, scoperta la china che sta prendendo Macbeth, decide di contrastarlo, unendosi a Fleance e a Malcom, il figlio di Duncan.

In una serie di successivi attentati e contro attentati, Lady stermina la famiglia di Duff, un luogotenente di Macbeth fa saltare in aria Ecate, ed in una scena finale, si affrontano gli ex-amici Duff e Macbeth. Il primo comunica a Macbeth che Lady si è suicidata, e Macbeth, ormai senza speranze, si fa uccidere da Duff.

La città viene ripulita dai commercianti di morte, forse si prospetta un nuovo futuro, ma Nesbø, da buon pessimista, ci fa sapere che, alla fine, la corruzione in qualche modo risorgerà. E tutto tornerà come prima, se non peggio.

Come vedete (non penso di aver detto troppo che chi conosce l’opera di Shakespeare sa già l’andamento della trama) il filo rosso della trama ripercorre, con le dovute attualizzazioni l’opera. Ma non porta nuova linfa, i personaggi fanno quello che ci si aspetta, agendo appunto come delle maschere senza nessuno spessore. L’unico elemento innovativo è la descrizione ambientale, che riesce discreta e abbastanza attuale. Tuttavia è un po’ poco per far salire il giudizio sull’opera.

Siamo ben lontani da “West Side Story” che rilegge “Romeo e Giulietta”!

Arne Dahl “Inferno bianco” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)

[A: 28/10/2019 – I: 06/11/2023 – T: 08/11/2023] - &

[tit. or.: Inland; ling. or.: svedese; pagine: 411; anno 2017]

Al solito, le mie letture svedesi sono ondivaghe. Dopo aver passato anni su altro, ecco che dopo solo tre mesi ritorno su Arne Dahl e su questa che, secondo le bibliografie pubblicate, è la terza serie del sessantenne scrittore.

Purtroppo, questa seconda puntata delle “Inchieste di Sam Berger e Molly Blom” è precipitata verso il basso. Non solo molto inferiore alla prima, ma anche abbastanza confusa, senza riuscire ad essere autonoma (se si è saltata la prima parte, alcuni passaggi devono essere presi per buoni senza ricordarsi cosa avvenne in realtà), ed inoltre rimandando ad una terza puntata, che gli interrogativi fondamentali rimangono aperti ed insoluti.

Per fare solo un esempio molto parziale, ogni tanto si fa riferimento ad un orologio Patek Philippe Calatrava, che era stato il perno della soluzione del primo caso, dove le scene del crimine venivano inquinate da piccoli ingranaggi dello stesso, in modo da cercare di incastrare nel crimine il possessore di quel piccolo tesoro. Lo leggi, non capisci, passi oltre, poi ti accorgi che anche qui si stanno seminando indizi mal posti, ed allora ti domandi se hai dimenticato tu qualcosa o se l’autore abbia fatto “un gran calderone”.

Intanto cominciamo dal titolo. Perché “Inferno bianco”? È vero, c’è molta neve nel corso della vicenda, ma il titolo originale va riferimento all’entroterra, a quella zona svedese incuneata tra Norvegia e Finlandia, una volta territorio sami. Secondariamente, quella zona è anche indicabile come “Punto Zero”, cioè una zona dove, per le caratteristiche territoriale e per la difficoltà di coprirla con una fitta rete di cellule ripetitrici, è spesso irraggiungibile dalle comunicazioni, restando isolata di modo che, chi volesse cercare un rifugio dove essere irreperibile, potrebbe recarsi in quella zona. E scomparire dai radar di tutte le strutture che lo ricercano.

Inoltre “Inland” è il nome dell’ultimo tratto svedese di una delle più belle strade europee, la E45, una strada di 5190 km, che unisce Alta in Norvegia a Gela in Sicilia. E quasi tutte le avventure del libro si svolgono in cittadine lungo la E45: Jokkomok, Porjus, Gällivare. Solo l’aeroporto si trova ad Arjeplog, fuori zona ed a 200 km dal punto zero (mentre Stoccolma si trova circa mille chilometri a sud).

Tutta la vicenda poi è soffusa da un senso onirico: Sam è spesso confuso, non sa dove si trova, sembra quasi procedere a tentoni. In una trama che parte dal primo episodio, dove c’è la figlia di un rifugiato mediorientale rapita. Per capire qualcosa, Sam chiede aiuto ad una collega esperta di internet che, prima di rivelargli i segreti, viene uccisa. E lui viene incolpato e deve fuggire. Appunto, nel punto zero. Aiutato da Molly.

Qui la trama si complica, aggiungendo la ricerca di qualcuno che uccide donne con figli maschi. Lui e Molly lavorano al Nord, aiutati dalla collega di Sam, Deer che agisce a Stoccolma. Si susseguono agnizioni, ipotesi, ricerche collaterali. Collegamenti anche qui con il primo episodio, in special modo per una serie di interrogatori che vengono ripresi, riproposti, letti in una luce nuova. Con i nostri due che sono sempre sull’orlo del pericolo.

Inoltre, sembra che Molly faccia comunque il doppio gioco e che qualcuno che non conosciamo li spii da lontano. Insomma, un guazzabuglio che la metà basta. Ovvio che anche Deer si trova in pericolo, ma quando sembra avere la peggio, si scopre che è solo caduta in una buca. Da ridere! Mentre Molly viene realmente rapita dai cattivi (di cui veniamo a conoscenza a tre quarti del libro, senza però una vera indagine degna di un giallo ben strutturato).

Con un po’ di fortuna, Sam capisce i vari collegamenti, arresta qualcuno, si pone sulle tracce di Molly, che ritrova viva ma in coma. E mentre sta salvando Molly, la talpa (che li spiava da lontano, e che era la persona che forse serviva a risolvere il mistero del rapimento) uccide la persona arrestata con la pistola di Sam.

Così che alla fine abbiamo Sam sempre incolpato di delitti che non ha commesso e Molly in coma. Ci meravigliamo che sia pronta una nuova puntata della serie?

Pensavo che Dahl potesse migliorare rispetto alle mie letture passate; invece, mi pare che voglia rendere sempre più complicate trame già non semplici. Anche i personaggi poi non risaltano più di tanto. Erano delineati del primo episodio, mentre qui sembrano più personaggi a due dimensioni. Insomma un po’ piatti.

Sono veramente perplesso sulla possibilità di portare avanti la lettura di altri episodi.

Date queste premesse, comunque, ben si collocano due citazioni di un altro autore svedese, Håkan Nesser. Sono tratte dal quinto episodio della saga del commissario Van Veeteren, “Il commissario e il silenzio”, collocate all’inizio ed alla fine del libro: “Perché no?... doveva pur essere una faccenda abbastanza semplice lavare una verità retroattiva dalla sabbia della menzogna. Ma come mi esprimo elegantemente oggi… dovrei cominciare a scrivere le mie memorie, un giorno o l’altro” (18) e “Non esistono combinazioni [risolutive] … se la vita è un albero, non deve necessariamente esserci una così gran differenza se si finisce su un ramo o sull’altro… per trovare la radice” (301).

Beh, credo che il 28/01 sia una giornata cardine delle ricorrenze: ben cinque persone, tra parenti e amici, compiono gi anni oggi, dai più di sessanta ai meno di quaranta! Noi, ormai oltre, invece ci dedichiamo alla difficile opera di organizzare viaggi, per me, per noi ed anche per qualche amico. Lavori delicati. Tanto che mi consumo occhi ed orecchi, ed ho quindi bisogno di un abbraccio.

domenica 21 gennaio 2024

Inutili prolungamenti - 21 gennaio 2024

Settimana dedicata ad alcune opere seriali, giunte a diverso livello di scrittura e di episodi, tutte accomunate da un basso livello di gradimento e leggibilità. Tant’è che alla fine il miglior risultato delle trame odierne è di un “juvenilia” (scritto cioè per giovani lettori) di John Grisham, di cui, in genere, abbiamo apprezzato i primi e ben più densi “legal thriller”. C’è la prima avventura del detective dell’antica Roma, Elio Sparziano, ben al di sotto delle “normali” prove letterarie di Ben Pastor su Martin Bova. Ci sono due (quasi) inutili puntate delle avventure di Arkadij Renko, ormai lontano dai fasti di “Gorky Park”. Chiudendo con il settimo illeggibile episodio del procuratore Chas Riley della tedesca Simone Buchholz.

John Grisham “Theodore Boone – L’accusato” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)

[A: 10/03/2020 – I: 22/04/2023 – T: 23/04/2023] - && 

[tit. or.: Theodore Boone. The Accused; ling. or.: inglese; pagine: 262; anno 2012]

Ogni tanto torno sui “juvenilia” di Grisham, che non sono forse eccezionali, ma servono come dire a stemperare altre e più impegnative letture. Anche perché, nella sua semplicità, generalmente l’autore riesce ad inserire qualche elemento di curiosità, di interesse, quando non di attività legali, a volta poco consuete in Italia.

Per non perdere il pubblico dei giovin lettori, Grisham cerca di non perdersi pezzi dei romanzi già pubblicati, che si sa, oltre ai seriali, i giovani spesso hanno anche bisogno di qualche raccordo. Purtroppo, rispetto alle prime due uscite, lo spunto del romanzo, “l’accusa” di cui nel titolo, non è così avvincente, e la sua soluzione non ci porta nuovi elementi.

Andiamo a recuperare intanto due informazioni. Il mondo di Theo e le avventure precedenti. Teho è un ragazzo di tredici anni, figlio di due avvocati, lei divorzisti, lui immobiliarista, con un unico zio, Ike, ex-avvocato radiato dall’albo per qualche colpa non ancora divulgata, ma che funge da “spalla maggiore” al piccolo Theo. Nelle prime due puntate abbiamo visto Theo adoperarsi per trovare testimoni che incastrino il cattivo Pete Duffy come assassino della moglie e come si adoperi per ritrovare la sua amica April, immotivatamente scomparsa. April che rimane il suo punto forte, ma che ancora non sviluppa nulla di serio, essendo i ragazzi ancora in troppo giovane età.

Qui sembrava che si volesse collegare subito al primo romanzo, iniziando con il nuovo processo a Duffy, che però fugge, e viene dimenticato per circa 190 pagine, forse aspettando un nuovo romanzo per portarne a compimento il processo. Come detto, April c’è, ma solo in un cammeo. Inoltre, anche questa una costante di questi romanzi, c’è un intermezzo dedicato al “Tribunale degli animali”, un assise in cui vengono discussi casi problematici legati ad animali e dove Theo, pur adolescente, può indossare i panni della difesa “animalista” (ma non a oltranza).

Eliminiamo subito il cammeo degli animali, dove Theo difende un lama accusato di sputare ad un poliziotto corpulento. Ora, tutti sappiamo (e chi è stato in Perù ne ha avuto esperienza) che i lama sputano, ed in genere se provocati o minacciati. Il nostro lama non si esime, rivolgendo la sua saliva ad un massiccio ed assai antipatico guardiano. Invertite, come da suggerimento di Theo, le rotte dei guardiani il caso si risolve, e ve ne lascio leggere per “divertissement” senza altri commenti.

Il nocciolo duro del romanzo, invece, deriva da quanto promesso nel titolo. Theo viene “accusato” di aver organizzato e partecipato alla rapina in un locale di elettronica, trafugando cellulari e tablet. Fin dall’inizio sappiamo che si appropinqua qualcosa di losco, che a Theo viene rubato il berretto della sua squadra di baseball, e viene a lungo bersagliato da forature intenzionali delle ruote della sua bicicletta.

Quando poi il berretto viene ritrovato sulla scena del crimine ed alcuni tablet vengono rinvenuti nell’armadietto scolastico di Theo, la sua posizione diventa veramente pericolante. Bersagliato da “hater” sui social, e fatto segno di dileggio a scuola, Theo non riesce a trovare bandoli per questa intricata matassa. Sarà una brillante idea di Ike a fornire il primo filo, seguendo il quale tutti gli altri fili vengono annodati insieme, riuscendo alla fine, con l’aiuto di Ike, di April e di molti suoi compagni di scuola, la vicenda viene acclarata, spiegata ed alla fine (ma questo è già implicito nella serialità del tutto) Theo può tornare nella sua posizione di avvocato in fieri, senza macchie sul suo curriculum.

Pur nella sua brevità, ed in parte anche nella mancanza di reali approfondimenti, Grisham riesce a toccare alcuni punti interessanti. Di certo, il valore dell’amicizia, ed in secondo ordine la necessità di impegnarsi in quello in cui si crede. Impegno che va sempre profuso, qui con buoni risultati, mentre nella vita non sempre succede, ma non ne avrete mai una delusione interiore. Dal punto di vista delle esortazioni per i ragazzi cui è dedicato il libro, di certo, c’è il messaggio che il crimine non paga (ma noi lo pensiamo… o forse non paga se non viene punito…). Infine, c’è un messaggio attuale, pur se di dieci anni fa: una piccola tirata morale contro il cyberbullismo e l’uso distorto delle informazioni. Il modo in cui Theo viene messo alla gogna senza prova deve essere allora come ora di monito a tutti, non solo ai ragazzi.

Per il resto, la famiglia “Mulino Bianco” Boone rimane un po’ troppo sdolcinata, ma ci sta nell’economia della serie e del romanzo. Anche se nuove puntate, per ora, non compariranno nella mia libreria.

Ben Pastor “Il ladro d’acqua” Mondadori s.p. (Regalo di Anto&Paolo)

[A: 07/05/2023 – I: 02/06/2023 – T: 05/06/2023] - && ----

[tit. or.: The Water Thief; ling. or.: inglese; pagine: 467; anno 2006]

Ero curioso di leggere qualche libro di Maria Verbena Volpi diverso dalla serie, da me molto amata, di Martin Bora. Ho accolto quindi con gradimento la proposta compleannica degli amici lavoro-marini. Anche perché avevo in mente di capire non solo il gradimento di questa seconda serie, ma anche di vedere il rapporto di consonanza con la lunga serie, quella sì completamente italica, di Danila Comastri Montanari.

Ora, è pur vero che dell’esimia bolognese ho tutti e 19 i libri che vedono protagonista Publio Aurelio Stazio, senatore ai tempi dell’imperatore Claudio, tanto che per l’appunto le sue vicende si collocano a partire dal 42 d.C. Ma l’epopea del senatore ha una media ben più alta di quest’unico libro della nostra italo-americana.

Ripeto di Verbena (Ben) Volpi Pastor ho letto, e gustato, tutta la saga fin qui pubblicata dell’ufficiale Martin von Bora, pur con i suoi alti e bassi. Qui ho affrontato invece il primo dei sei volumi dedicati ad Elio Sparziano, che, come costume della nostra autrice, è un misto di realtà e di finzione. Con forse un tocco in più di inventiva.

Risulta infatti, che un Elio Sparziano, storico, possa essere esistito, e viene ricordato come autore di una “Historia Augusta”, un trattato che narra la vita degli imperatori romani da Adriano (circa 115 d.C.) sino alla salita al potere di Diocleziano (circa 285 d.C.). Non entro certo qui nella diatriba storica su Elio, che molti ritengono essere un “nome collettivo” di diversi autori, altri uno scrittore che tratta degli imperatori, magari celandosi sotto altri nominativi. Io mi rifaccio all’uso che ne fa Ben, quindi avendo un Elio pseudo-storico, di cui ci si inventa una biografia, e che si fa intervenire nel 304 d.C., in piena era di Diocleziano (che abdicherà l’anno seguente), con il mandato dell’imperatore di cominciare a scrivere la storia dell’Impero proprio a partire da Adriano. Mi piace soltanto ricordare che il nostro Elio viene citato, come autore di una “Vita di Adriano”, da Guglielmo da Baskerville ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco.

Ben Pastor fa partire la sua storia dal mandato di Diocleziano ad Elio di indagare sul vero modo in cui morì Antinoo, l’amante dell’imperatore Adriano. Morte che avvenne nel 130 d.C. in Egitto. Morte per annegamento, ma non si sapeva, né lo si sa ora, le modalità. Fatto sta che Adriano, colpito duramente negli affetti, deifica Antinoo, dedicandogli una città in Egitto (Antinopoli), nonché una serie pressoché infinita di monumenti funerari.

Elio comincia ad indagare, scoprendo ben presto che tutta una serie di personaggi, che in qualche modo potevano portare informazioni, desunte da antichi testi, sugli avvenimenti da lui studiati, muoiono come mosche. Oltre a rappresentare, qui certo con capacità, la vita ai bordi del Nilo, Pastor ci porta anche nel mondo di Elio, restituendocene una biografia a tappe: nato in quella che potrebbe essere l’attuale Serbia, il 24 novembre 274 (e quindi 1725 anni esatti prima di Francesco), per poi crescere più a Nord, probabilmente nell’attuale Slovenia. Figlio di soldati, diventa soldato egli stesso, facendo una buona carriera. Combatte la ribellione in Egitto del 296, poi partecipa alle guerre in Armenia. Infine, dal 304 è incaricato da Diocleziano di varie incombenze, che lo portano ad approfondire la sua capacità naturale verso la Storia.

Qui, per l’appunto, viene a conoscenza di possibili documenti segreti, nascosti nella tomba di Antinoo. Peccato che non si sappia dove sia. Fatto sta, che Elio seguendone le tracce, si ritrova a Roma, schiacciato da ulteriori morti, spesso lui stesso in pericolo e con due minacce e/o aiuti che lo circondano. Da un lato c’è Aviola Parato, agente segreto un tempo, ora cieco, che conosce molte trame e molte persone. Dall’altro Baruch, un ebreo che lottò contro Elio nella ribellione citata, e che, sconfitto, si ritira nel commercio, per mantenendo notevoli contatti in campo politico.

Entrambi passano spesso, o così a me sembra, da un lato all’altro della barricata. Ma più che capire chi sia il vero cattivo, quello che preme a Pastor di far saltar fuori è una cospirazione, nata ben prima di Adriano nei ranghi del potere romano, tesa a minarne le forze. O, meglio, ad orientare i favori verso particolari ceti sociali e commerciali. Elio riuscirà a trovarne il bandolo, anche se, come tutte le cospirazioni, forse solo elementi superficiali verranno trovati ed eliminati. Comunque, un bel guazzabuglio politico-economico.

Seppur piacevole in alcune descrizioni della Roma dell’epoca, il testo prosegue molto a scatti, con alcune buone accelerazioni, ma con altrettante frenate, che forse sono in maggior numero. Pastor è documentata al massimo (non ci stupisce) e ricostruisce anche brani di scrittura con piglio da latinista dotta (d’altra parte è pur laureato in Archeologia alla Sapienza!). Tuttavia, la storia non decolla mai abbastanza, e l’usuale lunghezza della scrittrice non ne facilita una lettura piacevolmente distensiva. Al momento, quindi, non prevedo di andare avanti in questo filone, pur ringraziando sentitamente chi me lo ha fatto leggere.

Forse non è nelle mie corde, ma è stato fonte di spunti e di ricerche interessanti nelle varie piattaforme in rete.

Martin Cruz Smith “Le tre stazioni” Mondadori euro 7,90

[A: 10/09/2020 – I: 18/10/2023 – T: 19/10/2023] - & e ½ 

[tit. or.: Three Stations; ling. or.: inglese; pagine: 302; anno 2010]

Arkady Renko07

Erano ben sei anni che non avevo modo di riprendere in mano letture di Cruz Smith dedicate al suo eroe di successo, il poliziotto Arkady Renko. Inoltre, dato che ad un certo punto mi è sembrato che la vena del nostro si sia un po’ esaurita, non ho controllato se arrivassero sulla mia scrivania in ordine oppure “a caso”. Infatti, dei nove libri della saga (o forse dieci, che pare ne sia uscito uno quest’anno), ne ho letti sei, sempre in ordine casuale. Ho cominciato con il terzo, poi il quarto e poi, finalmente il migliore, il primo, “Gorky Park”. Con un salto temporale di sei anni ho letto il quinto, sette anni dopo l’ottavo, ed ora questo settimo. Così che le storie a volte si intrecciano nella mente, andando avanti ed indietro nell’universo temporale di Renko.

Anche perché, se guardiamo le date, i dieci romanzi “sovietici” sono usciti nell’arco di circa quaranta anni. Dove tuttavia, pur invecchiando poco, il nostro mantiene una sua “piccola” coerenza interna. Figlio del generale stalinista Kiril Renko, sempre in rotta con il padre (che lo voleva nell’esercito), anche perché Arkady lo incolpa del suicidio della madre (avvenuto con modalità analoghe a quelle di Virginia Wolf), pure nelle ultime vicende dove anche il generale è morto. Corretto ed incorruttibile, inizia investigando su crimini eccellenti, che, ovviamente, coinvolgono le alte sfere. Motivo per cui, ben presto, si trova ai margini della vita poliziesca, aiutato forse solo dal suo sottoposto, il sergente Viktor Orlov. Le sue avventure, inizialmente solo moscovite, spaziano poi sia per la Russia che per altri luoghi anche occidentali. Dove tuttavia non trova differenze. Forse solo nella mancanza, all’Ovest, di quella che in Russia viene etichettata come “patoeterodossia”. Malattia che per il KGB colpisce Arkady, impedendogli di diventare un buon cittadino sovietico e necessitando, per la cura, come verso altre forme di dissidenza, una forzata somministrazione di farmaci psicotropi.

Comunque, Arkady Renko, nonostante il suo carattere difficile, dimostra sia compassione che fiducia nel futuro. Inoltre ha un vero talento investigativo. Altro dato costante: si innamora sempre di donne non sempre adatte a lui, e spesso le perde. All’inizio di innamora di Irina, la sposa, ma poi lei muore per un errore medico, evento che Arkady supererà con difficoltà. Sarà nel libro ambientato in Ucraina dove farà altre conoscenze importanti. La dottoressa Kazka che diventerà suo amante, sua coinquilina, per poi lasciarlo per andare a curare malati in Africa. Ed il giovane Zhenya, senza parenti, che Arkady in un certo senso prenderà in affido, anche se non ufficialmente. Zhenya che a me risulta forse più simpatico, con i suoi scacchi e la sua vita un po’ ai margini.

Venendo a questo libro, che credo sia uno dei peggio riusciti della serie, l’unico punto interessante è il titolo che si riferisce alla piazza Komsomolskaya, chiamata piazza delle tre stazioni, in quanto vi afferiscono tre stazioni ferroviarie di Mosca, le stazioni Leningradsky, Kazanskyj e Yaroslavskiy. In questo grande dedalo arriva la giovane Maya cui viene rapita la figlia Katya, vi si aggira Zhenya che incontra Maya e cerca di aiutarla, e viene trovata una donna uccisa, denudata nella parte inferiore. Casualmente, è Orlov, il vice di Arkady, che prende la chiamata, ed insieme cominciano le indagini. Anche se il nostro dovrebbe essere sospeso, in quanto da tempo in lite con tutti i superiori.

Mentre la ricerca di Katya procede, senza tanti sbalzi, ma con dei salti logici ingiustificati (i rapitori la vendono ad una coppia senza figli, che poi decide di non volerla, la abbandona sempre nella stessa stazione, dove una ragazza che ha ucciso il padre e vive lì con il suo cane la prende in custodia, e poi tanti altri passaggi come questi la cui consequenzialità è da dimostrare), Arkady procede la sua indagini. Tramite un biglietto di ingresso, si intrufola in un club di miliardari russi (nonché mafiosi), dove viene aiutato dalla sua vicina, la giornalista Anya (con cui ovviamente prima o poi andrà a letto, ma senza futuro, visto che nel romanzo seguente, che ho già letto, non compare).

Attraverso Anya conosce Sasha, un riccone in via di fallimento che organizza truffe gigantesche per rimediare rubli e prestigio. Nel coacervo di situazioni intrecciate vediamo coinvolti nani ladruncoli, ballerine in cerca di fortuna, ballerini gay con madri insopportabili, teppisti vari, tagiki che commerciano droga e tante altre piccole cose. Il problema è che ogni tanto, la prosa di Martin passa da un punto all’altro del racconto, senza una consequenzialità vera, quasi che i traduttori abbiano deciso di saltare delle pagine.

Così alla fine (e lo sappiamo dal libro seguente) Arkady (e Orlov) rimarranno ai loro posti dopo aver risolto brillantemente il caso. Tanto brillantemente che il lettore non capisce realmente chi ha fatto cosa. L’unica cosa chiara è che (anche qui senza ragioni apparenti), Maya ne uscirà vincitrice.

Tutto porta quindi ad un’evidente insoddisfazione nella lettura e nei confronti di Arkady che non pare più il brillante investigatore di quaranta anni fa. Chissà se è invecchiato lui, noi o l’autore. Vedremo di riprendere il discorso al prossimo libro.

Martin Cruz Smith “L’enigma siberiano” Repubblica Brivido Noir 15 euro 8,90

[A: 09/09/2020 – I: 01/11/2023 – T: 02/11/2023] - && --- 

[tit. or.: The Siberian Dilemma; ling. or.: inglese; pagine: 266; anno 2019]

Arkady Renko09

Ovvio che dopo salti di anni, capiti che in quindici giorni mi trovi a commentare le avventure di Arkady Renko, della polizia sovietica e degli avvenimenti nella grande Russia. Tra l’altro, come accennato nel precedente, con un piccolo salto. Il poco interessante “Tre stazioni” era il settimo episodio, questo è il nono. Nel mezzo, un libro che ho letto sei anna fa, intitolato Tatiana e che si lega strettamente a questo.

Infatti, per molta parte del romanzo, Arkady è in cerca di Tatiana, e per un altro bel pezzo si cerca di capire, realmente, quale sia il rapporto tra il poliziotto e la giornalista. Ma cerchiamo, se possibile, di andare con ordine, confermando da un lato la scrittura senza troppi fronzoli di Martin, dall’altro un po’ di stanchezza nella trama, che offre pochi spunti di interesse.

Intanto, la scrittura si colloca nel ’17, motivo per cui, se si parla di Russia, non si può che affrontare un tema “politico”: la dittatura di Putin ed il ruolo degli oligarchi sovietici. Ovvio che, per non avere problemi di censura, pur criticando Putin (e Arkady è sempre stato uomo delle opposizioni al potere), né Cruz Smith né Renko si possono esporre troppo. Ma ci sono frecciate sul sistema di potere putiniano, unito al suo ferreo controllo delle gerarchie militari e poliziesche. Motivo per cui, Arkady non può che continuare ad avere problemi.

Dall’altra c’è l’accenno agli oligarchi. Che, se non conoscete l’etimo del termine, sono personaggi russi che, a partire dai primi anni ’90, hanno accumulato soldi e potere. In genere, sono allineati a Putin e lo sostengono, anche se, marginalmente, qualcuno tenta di opporsi, probabilmente per porre sé stesso ai ruoli di comando piuttosto che per reintrodurre la democrazia nel Paese. Forse la mia è una visione pessimistica, ma di certo non molto lontana dal vero.

C’è il solito versante più privato delle storie seriali, anche se qui sono ridotte all’osso. Che Tatiana fa anche parte della vena principale, ed il suo secondo, Viktor Orlov, comunica con Arkady solo per via telefonica, magari per coinvolgerlo in alcune vicende del bioparco gestito dalla sorella, che sono messe lì un po’ a “muzzo”. Rimane Zhenya, che compare poco, solo per qualche partita a scacchi, per intavolare un rapporto con una nuova ragazza, visto che primo è un po’ farfallone, secondo Lotte con cui sembrava avere un rapporto sparisce insalutata ospite, e per cominciare una relazione con tal Sosi (che per ora neanche consideriamo visto che potrebbe sparire già dalla prossima avventura).

La vicenda gialla, invece, si trascina stancamente. Tatiana va in Siberia (a Irkutsk) per fare un articolo su tal Mikhail Kuznetsov, un oligarca arricchitosi con il petrolio e che vorrebbe presentarsi alle elezioni sfidando il grande Putin. Poiché sembra scomparsa, e poiché Arkady si fa incastrare dal suo superiore, vediamo il nostro volare in Siberia verso la sponda sinistra del mitico lago Bajkal per capire se Tatiana è in pericolo, per arrestare un ceceno (la cui vicenda ci importa come il due di bastoni) e per farci entrare nel mondo delle faide tra miliardari.

Che lì, l’altro gallo del pollaio è il miliardario Boris Benz, apparentemente sodale di Mikhail, ma forse solo nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi che contornano il lago. Scaramucce varie, e poi caccia all’orso, organizzata nei dintorni dei pozzi da parte di Boris, in una regione dove di notte già si scende a 40 gradi sottozero. Ovvio che alla caccia, oltre a Boris, partecipano Tatiana e Arkady, quest’ultimo con i ricordi del padre generale e cacciatore. Saranno i consigli memorizzati del padre che permetteranno ad Arkady di sopravvivere, seppur malconcio, ad un assalto del pachiderma.

Nel frattempo, dei pozzi di Boris erano stati sabotati, ed è per capirne qualcosa che Boris organizza la spedizione. Che finisce male per lui, e rischia di finire male anche per i nostri, se non fossero salvati, prima con tecnologie poi con interventi sciamanici, da un buriato anche lui un po’ di contorno ed un po’ di folklore. Qui poi ricompare il capo di Arkady, con una proposta che poi è il dilemma del titolo (e ci torneremo). O Arkady uccide Kuznetsov che a) è un nemico di Putin e b) ha probabilmente organizzato l’omicidio di Boris, o lui uccide Zhenya che ha preso in ostaggio. Un dilemma che solo le fine arti di Arkady riusciranno a risolvere con buona pace di (quasi) tutti i cattivi.

Veniamo a qualche spigolatura di contorno. Intanto ho apprezzato la gita siberiana, in particolare per il lago Bajkal che, se non lo sapete, è lungo 636 chilometri e profondo sino a più di 1500 metri, risultando quindi il lago con maggior volume d’acqua al mondo. Secondo, la giurisdizione del lago è divisa tra la provincia di Irkutsk, e ci sta, ed una delle meno note repubbliche sovietiche, la Buriazia, da dove proviene appunto il buriato che salva Arkady.

Infine, in maniera un po’ capziosa, tutto il “giallo” del romanzo non è, come dice il titolo italiano, un intrigo, ma, come dice il titolo inglese, un dilemma. Che vi ripropongo in termini spero semplici.

Un uomo cammina sopra i ghiacci del lago nel periodo invernale, quando questo cede e lui si trova immerso nell’acqua. Il dilemma è: se in quattro minuti non ti tirano fuori, sei morto, ma se ti tirano fuori, nell’aria ghiacciata, sei morto comunque in due minuti. Che soluzione adottare al dilemma? Martin non ci aiuta molto, spero che voi ci riflettiate meglio.

Simone Buchholz “Uomini in gabbia” Repubblica Brivido Noir 33 euro 8,90

[A: 14/01/2021 – I: 08/12/2023 – T: 10/12/2023] - & 

[tit. or.: Beton Rouge; ling. or.: tedesco; pagine: 234; anno 2017]

Una seconda lettura della scrittrice tedesca veramente deludente.

Intanto non ho compreso il titolo tedesco, che non viene ripreso nel testo, e non mi rimanda a nulla a me noto. Non è il nome di qualche locale citato, l’eventuale calcestruzzo (beton) non mi risuona nel corso del romanzo. Potrebbe far cenno a qualche “tedescheria” ma che non sono riuscito a decifrare. Il titolo italiano è di certo più aderente al testo, anche se fuorviante. Non si tratta di persone che tentano ribellioni, dal facile assunto che se qualcuno è ingabbiato tende a ribellarsi. Infatti si tratta proprio di uomini che, per qualche motivo che si scoprirà nel corso del testo, vengono rinchiusi in una gabbia ed esposti al pubblico ludibrio.

L’altro motivo è legato alla serialità delle avventure della protagonista, il procuratore Chastity “Chas” Riley, di cui questo è il settimo episodio. Avevo letto anni fa il primo, e, con tutti i distinguo di una giallo non sempre ben finalizzato, mi era sembrato quanto meno leggibile. I cinque libri che intercorrono tra le mie letture hanno di certo affinato le mosse e le personalità dei maggiori protagonisti, ma io, cercando di svuotare la mente, e seguendo solo questo come fosse un libro a sé, di sicuro non ne capisco l’evoluzione e le motivazioni.

Chas è figlio di un americano e di una tedesca, madre che però abbandona ben presto la famiglia, lasciando il marito a gestire il ménage ed a crescere la figlia. Cosa che avviene più o meno degnamente, tanto che Chas raggiunge una decente posizione lavorativa, lasciandole però qualche bisogno affettivo e relazionale che qui si palesano fortemente.

Nel primo episodio c’era Faller, il capo di Chas, che equilibrava le situazioni, quasi fosse un buon punto fermo, una boa cui ancorarsi. Qui è penso in vacanza in Spagna, ogni tanto interviene da lontano, ma non se ne apprezzano i motivi, né perché Chas a lui si appoggi molto. Lì c’era Carla, l’amica del cuore di Chas, che ora ritroviamo far coppia fissa con Rocco, anche se è una relazione che si sta esaurendo (e che forse si è evoluta nelle precedenti puntate). Tuttavia Simone non riesce a farcene apprezzare le modalità di cambiamento. Come in modo analogo i rapporti tra Chas e Sberla che nel primo episodio accennavano ad un avvicinamento.

Ora sembrano anche loro sul punto di rottura. Sberla dirige anche un locale (il Blu Notte, che è anche il titolo del sesto episodio, dove probabilmente si capisce i motivi della gestione di Sberla). Fatto sta che ci sono comportamenti tra i due che vengono buttati là come se noi si dovesse capirli ed invece rimangono oscuri (perché è importante una giacca lasciata su una sedia, o perché non viene accettata una birra offerta).

L’unico elemento un po’ vivo è la presenza di Ivo, che non risulta essere alla prima apparizione, un poliziotto molto al limite, che però sembra l’unica cosa veramente viva in tutto il testo, e che alla fine segna un avvicinamento tra lui e Chas che potrebbe portare, nei futuri episodi, a sviluppi nuovi e, forse, inaspettati. Mentre qui, l’unica cosa che si rimarca è la costante propensione all’alcol di Chas, sempre più pesante, e, apparentemente, immotivata. Cui Ivo si unisce, portando in dote anche qualche canna.

Mentre la trama “noir” non decolla. Ci sono due manager di buon livello che vengono messi alla berlina, nudi e con piccoli segni di tortura, di fronte alle loro aziende. Quando si scopre che i due non solo avevano fatto il collegio insieme, ma vivevano nella stessa camerata, insieme ad un terzo grande manager e ad un “capro espiatorio”, si intuisce qualcosa. Alle indagini di Chas e Ivo si aggiunge il fatto che il terzo manager è anche accusato di omicidio stradale nei confronti di una giovane ciclista. Vogliamo anche dire che il malcapitato in collegio aveva un solo amico a sostenerlo?

Insomma, tanto contorno ma nessuna pietanza forte. Si scivola via, pagina dopo pagina, senza essere presi dalla trama, vedendo tutto andare nelle caselle giuste. Anche se non nella vita privata dei protagonisti. Poi Simone accelera in un finale in cui si capisce chi muore, ma non perché né per mano di chi. Una piccola delusione per la gestione di un “krimi” (termine tedesco per “giallo”) che poteva potenzialmente arrivare a miglior fortuna.

Tra l’altro, ci sono pagine corsivate di poca utilità per la comprensione globale, visto che non si sa chi stia parlando in soggettiva. Ed ogni capitolo (spesso breve) ha un titolo che fa parte della narrativa del punto della trama in cui si è arrivati. Ma ad un certo punto, tra un indagine e l’altra, c’è il seguente microcapitolo:

“ADESSO il nostro sole / è uno sghembo bidone ammaccato / in cui arde un mobiletto ritrovato.” Inutile e incomprensibile.

Per rimanere in temi polizieschi o quasi, questa settimana vi dedico tre citazioni del mio amatissimo scrittore islandese Arnaldur Indriðason. Perché mi piace sempre leggerne e magari affinché sia un viatico per quasi vicini viaggi (vicini all’autore non al tempo). Nel quarto episodio del commissario Erlendur “La signora in verde” ci ammonisce: “Il tempo … non risana alcuna ferita” (60).

Mentre nel sesto, “La voce”, il commissario riflette sul rapporto con sé: “So cosa si prova a non sopportare più se stessi … è una sensazione che non ci togliamo mai di dosso. Ce ne possiamo liberare per un po’, ma poi quella torna sempre” (177), ma soprattutto sulle motivazioni delle nostre inamovibilità caratteriali: “Quando uno prende una posizione, poi non fa niente per cambiarla. Perché non vuole, credo. E il tempo passa, gli anni passano, finché poi si dimentica la sensazione, il motivo che aveva scatenato tutto quanto, e io ho dimenticato, di proposito o meno, le occasioni che avrei avuto per rimediare a quanto era andato storto, e poi a un tratto è stato troppo tardi” (237).

E come dicevo la volta scorsa, già si comincia ad organizzare il prossimo viaggio, e si continua a leggere il prossimo libro, e si fanno gli auguri a tutti (tanti?) amici e parenti che compiono gli anni in questo primo mese del ’24. Anche se fa freschino (non freddo, però) un abbraccio caldo vi travolgerà.