domenica 27 settembre 2020

Due su e due giù - 27 settembre 2020

Avevo pensato ad una “disfida di Barletta” tra Mondadori e Neri Pozza, ma il risultato è una deludente parità. Un buon libro ciascuno per le due case editrici, ed un libro evitabile a testa. Anche qui, poi, torniamo a scrittori di patria non anglofona, anche se due scrivono in inglese.

I più riusciti sono senz’altro i primi, l’israeliano Kashua ed il nigeriano Achebe. Mi è dispiaciuto per l’indiano Ghosh, che mi ha spesso deliziato in altre prove. Così come il nostrano Fabio Volo, che ormai è un po’ troppo ripetitivo e ripetitivo al ribasso, tanto che di lui salvo soltanto la playlist classica che riporto in finale.

Sayed Kashua “La traccia dei mutamenti” Neri Pozza s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 21/04/2019 – I: 14/05/2020 – T: 15/05/2020] - &&& e ½

[titolo: Aquv acher shinuim - עקוב אחר שינויים; lingua: ebraico; pagine: 239; anno: 2017]

Un altro dei tanti regali di Alessandra, alla vigilia di un nostro viaggio, anche se non in Terrasanta (in effetti si partiva per il Messico), seguendo lo stimolo di quei mutamenti che da tanti anni (mai troppi) seguiamo e tracciamo. Anzi, come direbbe più esattamente il titolo ebraico, il senso della frase sarebbe “Tenere traccia dei mutamenti”. Una piccola eppur significativa nuance.

Mi sono accostato al libro seguendone il filo, senza entrare nel metatesto, di cui parleremo più avanti. Devo però dire che seguirne le tracce non è stato semplice, che, purtroppo, come molti autori moderni, Sayed mescola anche bene le acque. Quindi, invece di una trattazione lineare, abbiamo un su e giù nel tempo e nello spazio, un accumularsi di indizi, che solo alla fine hanno una forma, seppur non proprio compiuta. O meglio, una forma cui vengono lasciate ombre su cosa potrebbe succedere dopo aver viaggiato per una ventina di anni lungo le più di duecento pagine. In un certo senso, sembra quasi un’autobiografia, che si scosta volutamente dal reale, in modo da sollevare interrogativi umani e politici.

Il narratore è, come lo scrittore, un arabo nato in terra d’Israele, entrambi proveniente dalla città di Tira, che ho scoperto essere a metà strada tra Tel Aviv e Netanya. Una cittadina a forte presenza araba, visto che è non lontana (in linea d’aria) da Nablus. Dopo studi vari, il protagonista comincia a fare il giornalista a basso costo. Un giorno gli viene pubblicato un racconto (inventato? Ricordato? Non lo sapremo mai veramente) in cui parla di una ragazza di nome Palestine che fa liberamente l’amore con lui sulla terrazza di una scuola di Tira. Tornato a casa, scopre che a Tira c’è proprio una ragazza, anzi una donna, di nome Palestine. Le malelingue la identificano con la libertina protagonista. Ma Palestine è sposata, ed il marito ne chiede subito il divorzio. Mentre il narratore viene costretto ad un matrimonio riparatore. Ma viene anche scacciato dalla famiglia, il padre gli dice di non farsi più vedere. Così lui e Palestine si sposano, vanno a vivere a Gerusalemme, vivacchiano.

Nasce una figlia, Jasmine, forse sua, forse no. Ma il loro rapporto non è d’amore, è una semplice convivenza. Per andare avanti, il narratore accetta di fare il ghost writer di persone che vogliono narrare la propria storia, pubblicando una trentina di romanzi sotto i falsi nomi. La “moglie bianca” (che non dormono nello stesso letto) si laurea, ha una sua crescita universitaria. Nascono anche altri due figli, maschi, anche se loro continuano ad essere separati in casa. Approfittando di un’offerta a Palestine, decidono poi di trasferirsi in America, vicino Chicago.

In America, la routine si evolve: il narratore non può più fare il ghost, mancandogli la materia prima. Dovrebbe studiare, ma si sente “anziano”. Vive nel campus universitario, si alza la mattina, va da Palestine, prende i figli e li porta a scuola, per poi gironzolare senza essere molto concludente. Il là a tutta la vicenda arriva da una telefonata del padre, che si fa vivo dopo quindici anni, e gli dice di essere in gravi condizioni. Lui prende e si precipita in Israele. Cercando, oltre a capire meglio il padre, di tirar fuori la storia della sua famiglia, così come faceva quando scriveva per altri. Questa, seppur spezzettata, è una delle fasi più intensa, per ripercorrere un rapporto un tempo saldo, poi spezzato, ed ora cercato disperatamente. Anche contro la madre, anche contro i fratelli. Ne escono righe molto belle. Ma com’è ovvio, il padre muore, lui torna in America. Torna alla vita straniante di prima, con qualche forza in più. Sarà sufficiente a modificare il suo vivere? Sarà sufficiente a farlo uscire da una ignavia che mi fa ribollire il sangue?

Come detto, la scrittura è ben registrata, anche se i salti temporali mi spiazzano sempre. La storia lascia dei margini all’interpretazione, ma è abbastanza comprensibile. Ritorno infine sull’autore. Che a posteriori ho scoperto essere stato, quando viveva in Israele, un promotore di spettacoli ironici e di scritti che mi si dice siano pieni di humor. Ad un certo punto però, così come il protagonista del libro, decide di andare via. In un’intervista dice che non ritiene più possibile uno sbocco positivo alla convivenza arabo – israeliana in terra d’Israele. Si rifugia quindi in America, ed abbandona completamente il registro ironico che lo aveva caratterizzato. Credo quindi che questo scritto, così dolente, così pieno di rimembranze, sia un tentativo di esorcizzare questa realtà che l’autore non condivide e che non sa più come modificare. Una considerazione amara, che tuttavia, purtroppo, mi ritrova concorde. Anch’io, ora, nel mio piccolo, ritengo difficile una soluzione positiva, anche se spero sempre ci possa essere un sorriso che tutti seppellirà.

“La bambina era nata l’undici ottobre.” (158) [e non dico altro]

“Mi metterò la camicia button down … ha il logo di un giocatore di polo a cavallo [ndt: Raplh Lauren? Lamartina?]. … Quando ero uscito dal camerino … lei aveva commentato: ‘Questa camicia ti sta bene’ … era una delle poche frasi gentili che lei mi aveva rivolto in tutti questi anni.” (163)

Chinua Achebe “Il crollo – Ormai a disagio” Mondadori s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 27/02/2018 – I: 18/05/2020 – T: 20/05/2020] - &&& +

[tit. or.: Things Fall Apart – No Longer at Ease; ling. or.: inglese; pagine: 341; anno 1958-1960]

Un altro libro della biblioteca genitoriale, recuperato dalla memoria e letto con interesse. Un libro doppio, che contiene i primi due capitoli della trilogia fondamentale dello scrittore nigeriano. Una bella scrittura che riesce a riportarci in Africa, e ben dal di dentro. Si sente l’amore per la sua terra e l’odio per chi l’ha fatta diventare una colonia, terra bruciata di conflitti insanabili. Achebe è duro, inflessibile, e forse per questo, come dice la sua biografia, non fu mai premiato con onori internazionali. Mostra troppo il suo astio verso l’Occidente per poter ambire a suo tempo a Nobel ed altro, così come invece successe al suo connazionale Wole Soyinka. Anche se connazionale fino ad un certo punto, che Achebe è stato sempre più biafrano che nigeriano. Ma viene ora ai testi, i cui titoli entrambi derivano da brani di poesie di Yeats.

“Il crollo”

[tit. or.: Things Fall Apart; ling. or.: inglese; pagine: 1-168; anno 1958]

Il titolo originale, come dalla recente ripubblicazione nelle edizioni “La Nave di Teseo” recita in effetti “Le cose crollano”, ripreso dal brano della poesia di Yeats “The Second Coming”, dedicato dal poeta irlandese al crollo del suo vecchio mondo, quello cristiano, corrotto e superato dall’avanzare del mondo stesso. Achebe ne prende lo spunto, per descrivere quello che fu in verità un crollo. Quello del vecchio mondo pervaso dalla cultura del suo popolo (gli “igbo”) frantumato dall’avanzata del colonialismo inglese.

La scrittura di Achebe segue la parabola di uno dei maggiorenti locali, Okonkwo, che, in alcuni tratti, sembra ripercorrere la vicenda ancestrale della famiglia Achebe, quasi ne rivedesse il nonno paterno. Okonkwo è fortemente legato alla cultura igbo, ne segue le leggi, ne percorre, nel bene e nel male, le parabole di vita. È un uomo che si fa da sé. Vediamo infatti nella prima parte il conflitto con l’ignavo padre, che si comporta come una cicala, dissipando al sole le sue scarse fortune, per bere e cantare con gli amici. Fino a morire povero e solitario.

Okonkwo invece è un gran lavoratore, è stato il re dei lottatori al culmine dell’adolescenza. E si capisce dai cenni alla vita locale quanto la lotta sia uno strumento di innalzamento sociale degli igbo. Si sposa, ha tre mogli e tanti figli, anche se è fortemente legato solo al suo primogenito Nwoye. La scrittura di Achebe ci porta dentro questa vita rurale, con tutti i suoi riti: le chiacchiere nella piazza principale, la semina delle piante sostentamento e nutrimento del popolo igbo, i rapporti con le mogli, sempre improntati alla supremazia maschile. Strano mi fa leggere che Okonkwo aspetta il cibo dalle tre mogli, e mangia da tutte e tre, in ordine di anzianità di sposalizio. Bello è anche l’inciso sulla terza moglie e sulla sua unica figlia femmina. Poi avvengono due fatti che segnano la vita del nostro eroe.

Il debito di sangue di un villaggio vicino, che per riscattarsi dà in pegno al villaggio di Okonkwo un ragazzo, che diventa il miglior amico di Nwoy. Per tre anni il ragazzo cresce con la famiglia, poi l’oracolo del villaggio, non si sa in base a quale legge ancestrale, ne decreta la morte. Sarà proprio Okonkwo che dovrà eseguirla, e questo fatto comincia a segnare il crollo dei valori su cui il nostro fonda la sua vita.

Il secondo fatto è l’uccisione, pur casuale, di un membro del villaggio durante una festa da parte dello stesso Okonkwo. In base alle leggi interne, la famiglia subisce un esilio di sette anni dal villaggio. Sette anni che vivranno in ristrettezze, che l’esilio comporta l’abbandono di tutti i beni posseduti. Sette anni che vedono l’ingresso dei missionari protestanti nel paese. Missionari che cominciano a distruggere tutti i valori delle loro pur semplici esistenze.

Qui, Achebe ha un grosso scatto di scrittura, riuscendo a farci percepire lo scontro tra le due culture. La differenza, anche, tra alcuni missionari, empatici delle situazioni locali, ed altri che vengono con la presupponenza dell’uomo bianco che vuole imporre la propria democrazia. Vediamo tutta la cattiveria dell’oppressore. Vediamo anche come, per diverse ragioni, i locali “cadono” nelle trappole dell’occidente. E per sventura di Okonkwo, uno dei primi a “passare al nemico” è proprio suo figlio Nwoye. Altro colpo fatale al nostro eroe. Che tornando dopo sette anni al villaggio natio, ne vede la degradazione da parte dell’uomo bianco, cerca di opporsi, finendo con l’uccidere un soldato inglese. Questo porterà al crollo finale di Okonkwo e del suo credo, con un finale duro e spietato, che però mette di nuovo a confronto i valori ancestrali con le affettate maniere degli inglesi invasori.

Non vi porto sino alla fine, se non per rimarcare come anche la scrittura stessa di Achebe sia parte integrante di questo processo di sconfitta. Achebe scrive in inglese, ma (e l’ultima versione de “La Nave di Teseo” meglio ne riporta), gran parte dei dialoghi tra i nativi è scritta in “igbo”, facendo quindi risaltare la differenza, linguistica ma anche mentale tra i due idiomi. Molto si perde nella traduzione, e molto se ne recupera leggendone commentari, soprattutto in alcuni siti africani. Seppur con qualche lentezza (in particolare nei primi capitoli) è un documento forte, pieno di pugni allo stomaco.

“Ormai a disagio”

[tit. or.: No Longer at Ease; ling. or.: inglese; pagine: 169-341; anno 1960]

Anche il secondo capitolo della trilogia di Achebe riprende un verso di una poesia di Yeats. Questa volta è “The Journey of the Magi” i quali, al ritorno nelle loro terre, diranno: “Non siamo più a nostro agio”. Ed è così che gli igbo si sentono dopo i primi anni di colonizzazione inglese.

Per farci sentire continuità nel tempo, e discontinuità nei comportamenti, seguiamo ora le vicende di Obi Okonkwo, il nipote dell’eroe del primo capitolo, nonché figlio di quel Nwoy che primo si unì ai missionari protestanti, in aperta sfida del padre, uccisore del suo amico fraterno di gioventù. Siamo quindi alla seconda generazione, Nwoy cambia il suo nome in Isaac, e diventa un prelato della chiesa protestante. Il figlio Obi, educato dalla rigida disciplina paterna, è sempre nella pattuglia di testa degli studenti locali, tanto che, finite le scuole secondarie, i maggiorenti igbo gli danno una borsa di studio per laurearsi in Inghilterra. Cosa che Obi farà, ma in inglese e non in legge come gli aveva chiesto la sua tribù.

Certo, al suo ritorno, con una laurea inglese, potrà trovare un buon posto, anche se non così remunerativo se avesse fatto l’avvocato. Il dipinto che Achebe ci fa di Obi è tuttavia, pur se con qualche condiscendenza, di una persona ormai non più attaccata ai valori ancestrali, ed anche (o forse per questo) debole e indecisa. Si sentirebbe meglio a rimanere ad Oxford, fra i suoi libri e i suoi pensieri, ma la borsa è un prestito, e lui deve restituire quanto ricevuto, seppur con tutti i tempi del mondo.

Ma una volta nuovamente in patria, la sua supponenza di laureato, lo pone, intimamente, al di sopra delle miserie locali. Non si adatta, presuntuoso e poco combattivo, ad essere una ruota qualsiasi. Cerca protagonismo che non è capace di gestire. E viene anche preso da ingranaggi più grandi di lui. L’amore con Clara, certo, ma il loro matrimonio è osteggiato per il fatto che lei è una “osu”, che nel sistema tradizionale delle caste degli igbo, è una persona reietta e che non può uscire da quel sistema. Tanto meno sposarsi con un “non-osu”.

Obi prova a portare avanti la relazione, ma anche la sua famiglia, benché cristiana, lo isola e maledice. Così, quando Clara rimane incinta, non resta che l’aborto. Ed il conseguente allontanamento tra i due. Così che i debiti aumentano: per la sua scarsa oculatezza, ad esempio per pagarsi una macchina per andare a lavorare, e poi per pagarsi l’assicurazione. Per restituire il prestito, come detto, ma anche per dare i soldi ai suoi fratelli al fine di pagarne gli studi. Si trova così a lavorare in un posto di non grande reddito, ma di certo prestigioso, perché si trova a selezionare i candidati per le borse di studio all’estero, come quella da lui ricevuta. Un posto che è facilmente al centro di corruzioni più o meno grandi. Che lui, tra la ferrea dottrina paterna e una giusta rigidità verso gli anziani già inseriti nelle leve del potere inglese e già (come ben sappiamo) corrotti e corrompibili, osteggia. Rifiuta regali e servigi vari, ma lo stipendio limitato non gli consente di essere all’altezza economica della situazione. Cadrà così in uno stupido tranello della polizia coloniale, e cadrà miseramente in basso anche da quel poco da cui si era elevato.

La ferocia di Achebe nel dipingere le sventure della sua Nigeria è qui molto forte. Non usa più la lingua degli antenati, come nel primo libro. Ora è solo inglese, ed è verso gli inglesi corruttori ed imbarbaritori delle tradizioni che lancia i suoi strali. Ma anche contro l’ignavia delle nuove generazioni. Purtroppo, la tensione verso la costruzione di un’idea e di una denuncia viene a scapito della piena caratterizzazione dei personaggi, che invece era ben presente e di forte impatto nel primo libro. Tuttavia, si capisce perché l’Occidente, pur considerandolo uno scrittore di livello molto interessante, l’ha sempre lasciato in disparte. Troppo africano e troppo poco occidentale. Ma forse proprio per questo a me più gradito. Devo dire infatti che mi ci ero accostato un po’ dubbioso. Seppur non facile, alla fine, la ritengo una lettura fondamentale per capire il continente ad un passo da noi.

Amitav Ghosh “L’isola dei fucili” Neri Pozza s.p. (prestito di Fako)

[A: 03/06/2020 – I: 04/06/2020 – T: 05/06/2020] - & e ¾

[tit. or.: Gun Island; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 2019]

Dietro insistenza pressante del prestatore, ho “dovuto” impegnarmi nella lettura di quest’ultima fatica del generalmente buon scrittore indiano. Purtroppo, preso dalla necessità di delineare una tesi, il romanzo non decolla mai. E se nella prima parte ha qualche elemento di interesse, pur nella sua lentezza, la seconda parte è altamente deludente. Si salvano alcuni elementi di derivazione lessicale ed un’invettiva quasi finale assolutamente condivisibile.

L’idea che persegue Amitav è di rileggere una delle tante leggende indiane, percorrendone alcuni tratti, per aggiornarne i contenuti, ma anche per farci vedere alcune realtà particolari e di scottante attualità. La leggenda parla di un mercante di fucili che non vuole omaggiare una delle tante dee indiana, Manasa Devi, dea dei serpenti. Che farà di tutto per convertirlo al suo culto, perseguitandolo, uccidendogli i figli, facendolo naufragare e rapire dai pirati. Chandar fugge per tutto l’orbe terracqueo ma alla fine troverà il modo di pacificarsi con la dea.

Il protagonista che cerca di capire la storia è un indiano riparato in America, dove finisce nel fare il fine bibliofilo a New York. Ma non dimentica certo il suo retroterra indiano, anzi bengalese. Che il nostro Deen è di Kolkata, ed i suoi parenti venivano da una delle regioni poi confluite nel Bangladesh. Seguiamo quindi le peripezie di Deen, con i parenti e gli amici della bellissima città indiana a me rimasta nel cuore. Conosce una brava signora anch’essa espatriata, Piya, che lo porta nelle bellissime isole di Sundarban alla ricerca di un raro tempio della dea dei serpenti.

Per i pochi amanti della letteratura esotica, ricordo che quelle isole erano il teatro delle avventure salgariane de “I misteri della jungla nera”. Per chi invece conosce Ghosh, Piya è la protagonista del libro “Il paese delle maree”, tutto ambientato nelle Sundarban.

Nell’isola incontra sia Tipu, un mezzo parente di Piya, tecnologicamente provetto, e Rafi, discendente islamico dei guardiani dell’isola. Nascono amicizie e conoscenze che non possono non segnare i protagonisti. Poi comincia una girandola di spostamenti. Prima a Los Angeles, dove Deen ha incontri poco piacevoli con serpenti, ragni velenosi (di cui riparleremo in finale) e con gli incendi americani (di cui ricordo bene uno nel Sequoia National Park). Non manca un salto a Venice, anche lì teatro di bei ricordi ovviamente miei e non di Deen, e propedeutico all’ultima parte del viaggio che porterà i nostri eroi a Venezia. In ordine sparso. Ci arriva Deen per aiutare una troupe a fare un reportage sugli immigrati bangla. C’è già arrivato Rafi, che scopriamo essere fuggito con Tipu dall’India, e seguendo le rotte dei migranti, ha fatto il giro di mezza Asia, con una specie di via della seta veloce, attraverso Pakistan, Iran e Turchia. Dove Rafi ha perso Tipu, che invece prova a passare via Egitto e barconi in Sicilia. Ci arriverà Cinta, l’amica dotta di Deen, che per tutto il libro rimpiange la morte di marito e figlia, e coinvolge Deen con le sue visioni.

Insomma, una mentalmente vorticosa gita intorno al globo, che ci porta dalle povere strade di Kolkata ai grandi alberghi di Los Angeles, dal mondo marino e fermo di Venezia alle turbolenti acque del canale di Sicilia. Ghosh inframmezza anche momenti ecologisti (lo spiaggiamento dei delfini nelle mangrovie delle Sundarban, che rimandano a quello sulla foce dell’Irrawaddy dell’altro libro con Piya), ma soprattutto momenti a favore delle migrazioni globali. Infatti, quando i nostri corrono al salvataggio di una nave in difficoltà, carica di migranti ovviamente (anche se inframmezzato da momenti scarsamente coinvolgenti di catastrofi naturali ed animali) li salvano, in modo che si riesce ed a chiudere il cerchio narrativo.

Chiusura in minore, ma che permette, e noi qui siamo con lui, a Ghosh di lanciare una filippica sacrosanta contro Salvini e le sue posizioni quando questi era sfortunatamente Ministro. Forse uno dei pochi punti interessanti del libro.

L’altro elemento coinvolgente è un po’ più complesso da seguire. Siccome tutta la storia ruota intorno alla vicenda dei Bonduqi Sadagar (uno dei nomi con cui è conosciuto il fuggitivo dalla dea dei serpenti), che Deen traduce all’impronta come “mercante di fucili”, dopo lunghi giri, scopriamo che “bunduq”, oltre che fucile è il nome arabo di Venezia, che in arabo si chiama “al-bunduqia”. E questo già dall’anno mille, prima dell’avvento della polvere da sparo. Infatti, la radice “ndq” sta per “eterogeneo, diverso”, e Venezia da sempre è stata punto d’incontro di culture diverse. Così, tutta la leggenda si rovescia da “isola di fucili” a “isola veneziana”.

Queste scoperte filologiche permettono a Deen di reinterpretare in chiave moderna tutta la leggenda indiana. Cosa che seguiamo con la testa, ma che non appassiona minimamente. Come lascia freddo un commento relativo all’ascolto delle storie indiane da parte degli isolani della Sundarban, con grande partecipazione. Perché lo paragona, in modo rovesciato, al seguito (per lui minimo) che potrebbe avere la narrazione di un Orlando Furioso. Purtroppo, sono in completo disaccordo, dopo aver partecipato in gioventù a quell’evento storico che ne fu la trasposizione teatrale di Ronconi.

Finisco le citazioni con un’altra piccola chicca personale. I ragni che assalgono Deen sono del genere “Laxosceles reclusa”. Per chi legge di tutto non può che ricordarsi siano lo stesso tipo di ragno protagonista del libro di Fred Vargas “Il morso della reclusa”. Comunque, benché tenti in tutti i modi di tirarne fuori qualcosa di buono, devo confessare che è un libro che non mi è piaciuto, e che mi farebbe allontanare da Ghosh se fosse il solo libro dello scrittore che avessi mai letto nella vita. Fortunatamente c’è stato altro.

Fabio Volo “Quando tutto inizia” Mondadori euro 7,90 (in realtà, scontato a 6,72 euro)

[A: 12/06/2018 – I: 01/07/2020 – T: 02/07/2020] & e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno: 2017]

Francamente, mi aspettavo qualcosa di meglio da Fabio Bonetti, che qui di certo non fa certo un grande Volo di gloria. Il decimo libro del poliedrico autore (anche se ne ho letti solo nove) ripete un po’ sé stesso, cercando magari di rinnovarsi. Tuttavia, non ci riesce, per i miei gusti, e così la cosa migliore riamane la musica. Sia la playlist classica che Silvia “regala” a Gabriele per renderlo edotto di sonorità diverse, sia i vari pezzi rock & pop che sono invece sparsi qua e là da Gabriele. Come il bellissimo “For What It’s Worth” dei Buffalo Springfield, su teso di Stephen Stills ed arpeggi in sottofondo di Neil Young. Senza dimenticarci piccoli richiami che sottolineano momenti significativi (soprattutto per Gabriele) come “Never play” di Emily & the Woods, come “Better Things” dei Massive Attack. O come l’ultimo pezzo rock citato, “Honey Jars” di Bryan John Appleby. Dove il testo dice ad un certo punto “And there's too much room inside our bed”.

Fabio non lo dice, ma sa che chi conosce la musica, fa i giusti collegamenti. Purtroppo, essendo il metatesto a disposizione di tutti, ci accontentiamo di tornare al testo, e di confermare la poca vivacità e concretezza di questa decima prova.

Volo tenta di spiazzarci, con un primo capitolo dedicato alla rottura tra i due protagonisti. Per poi passare le successive cento pagine a spiegare che da una parte è giusto che Gabriele e Silvia si lascino, e dall’altra a descrivere in che modo hanno cominciato e proseguito il loro rapporto. Gabriele è un tipico personaggio di Volo, un po’ irrisolto, un po’ timido, ma anche solidamente basato su principi, ancorato a tradizioni familiari (spesso più verso i nonni che verso i genitori). Ha passato gran parte della giovinezza e dell’iniziale maturità coltivando molti rapporti sporadici ed alcuni più duraturi, tuttavia rimanendo ancorato alla voglia di stare solo, di non crearsi legami, di vedere nel futuro una felicità per sé, ma di non capire la possibile esistenza di una felicità per noi.

Silvia è sposata, ha un bimbo di tre anni, e viene colpita dal fascino altro di vivere un momento senza pensieri. Senza i pensieri della casa, senza i pensieri del figlio piccolo, senza i pensieri della baby-sitter. Un piccolo colpo di fulmine, concretizzatosi tra una libreria ed un bar. Iniziato senza troppi pensieri, e senza pensieri continuava ad essere. Vediamo tutto dal lato Gabriele, osservando solo di riflesso l’agire di Silvia. È Gabriele che descrive i propri momenti (forse con molta indulgenza), è Gabriele che ci parla di Silvia, ed ovviamente dal suo punto di vista. I due momenti topici avvengono in concomitanza di viaggi pensati o realizzati per stare insieme. Silvia propone a Gabriele un week-end di fuga a Madrid, e lui si tira indietro per paura di legami. Gabriele propone un week-end a Verona, dove deve fare una presentazione di una campagna pubblicitaria (lui è uomo di marketing, lei dà ripetizioni di pianoforte). Silvia accetta, ma quando Gabriele si dichiara, tutto finisce, al contrario del titolo.

Gabriele quasi inconsciamente chiede a Silvia di stare con lui e lasciare alle spalle la sua vita. Per Silvia, il rapporto con Gabriele è soprattutto una parentesi rosa all’interno di una vita sempre più complicata. Che Gabriele non capisce, non vede le difficoltà di organizzare i loro incontri, di incastrare lavoro, marito, baby-sitter. Silvia si accorge che Gabriele non ha capito molto del loro rapporto. Se ne va. E lui fa una presentazione ai limiti del licenziamento. Ma questa “fine” serve a Gabriele per riflettere su di sé, e sulla propria vita. Poi ci sarà il finale.

Vi lascio in sospeso: troveranno un modo di rimettersi insieme su terreni diversi e magari più intimi o troveranno il modo di lasciarsi e ricominciare altre vite? Dubbi legittimi, che tuttavia non portano in alto né la scrittura né il gradimento di un romanzo che, alla fine, ci pone solo una domanda: per qualche motivo è stato scritto? Cosa ci vuole dire Volo che non ho capito? Caro Fabio, torniamo alla nostra musica, che là ci si esprime di certo al meglio.

“Non sopportava il mio modo caotico di cucinare, mi rimproverava di sporcare troppi cucchiai e padelle per fare un sugo.” (57)

La playlist classica di Gabriele:

1.    Frédéric Chopin “Preludio in Mi minore n. 4 op. 28”

2.    Sergej Rachmaninov “Vocaliste”

3.    Erik Satie “Je te jeux”

4.    Claude Debussy “Clair de lune”

5.    Ludwig von Beethoven “Sonata n. 14 in Do diesis minore”

6.    Claude Debussy “Rêverie in Fa maggiore”

7.    Erik Satie “Gymnopédies – 1. Lent et douloureux”

8.    Alfredo Catalani “Ebben! Ne andrò lontana” aria da “La Wally”

Quarto ed ultimo week-end di settembre, quindi dedito a trame pure senza allegati. A suggellare la fine di un settembre iniziato con molto sole e terminato con molta pioggia. Certo, ci aspetta ottobre, dove tante, innumerevoli, sono le feste che attraverseremo, gli auguri che faremo, le speranze di viaggiare che continueremo a coltivare. 

domenica 20 settembre 2020

Duemila in salita - 20 settembre 2020

Torniamo a volgere la nostra attenzione all’interessante collana dedicata ai libri riscoperti negli anni Duemila. In salita, che si comincia con dei racconti di Stefan Zweig, laddove ho amato i suoi romanzi, mentre questi scritti di giovane età mi hanno lasciato assai freddo. Si sale subito con l’afroamericano Teju Cole e la sua saga di espatriati. Si sale un po’ con un ipocondriaco libro di Mark Haddon. Per finire con una buona lettura del solo libro scritto da Leonard Gardner negli anni ’60.

Stefan Zweig “Notte fantastica” Repubblica Duemila 8 euro 9,90

[A: 12/03/2018 – I: 01/05/2020 – T: 02/05/2020] - & e ½  

[tit. or.: vedi racconti; ling. or.: tedesco; pagine: 154; anno 1914-1928]

Quattro racconti scritti con una maestria impareggiabile ma che non riescono ad arrivare né al cuore né al cervello né allo stomaco. Per questo, il mio gradimento è veramente basso, seppur riscattato dalla scrittura e da alcune piccole chicche. Intanto vediamo di fare ordine nelle pubblicazioni, che i primi tre racconti, insieme ad altri, escono in volume nel 1922. Come “quartetto” in realtà verranno solo editi da Frassinelli nel 1992 e da Adelphi venti anni dopo. Prima di esordire nella collana dedicata alle “scoperte” del Duemila, pubblicata da Repubblica due anni fa. È vero che c’è un “fil rouge” conduttore, che, come sempre in Zweig, si indaga nell’animo umano, nelle sue manifestazioni, magari sviscerando proustianamente minuto per minuto una vicenda, tanto che sessanta pagine del secondo racconto sono dedicate a narrare le vicende che avvengono in sole sei ore.

Il più antico dei quattro è il terzo “Il vicolo al chiaro di luna” (Die Mondscheingasse) del 1914, dove seguiamo il protagonista perdersi nelle vie scure di una cittadina e ricevere le confessioni di un messere ormai ridotto al lastrico ed al lumicino, che racconta le proprie pene d’amore verso la moglie diventata per una serie di vicende prostituta di classe. Da dimenticare presto.

Più intenso, forse nonostante tutto il migliore, il secondo, che poi è il primo ad essere letto. “La donna e il paesaggio” (Die Frau und die Landschaft) del 1917 è altamente evocativo. Zweig descrive la collina, l’avvicinarsi e l’allontanarsi della pioggia, l’albergo, la notte, il sonnambulismo della bella ed il turbamento del protagonista con una capacità di utilizzo delle parole che raramente avevo riscontrato altrove. Si sa che Zweig è austriaco, si sa che frequenta l’intellighenzia locale. E si sente la forte carica onirica del testo, che risente senza dubbia di letture e frequentazioni sia dello psicanalista Freud (all’epoca sessantenne) sia dello scrittore Schnitzler (di cinque anni più giovane di Freud). Mentre Zweig era un baldo trentacinquenne.

Devo dire che mi aspettavo molto dal più lungo, quello che dà poi titolo alla raccolta. Questa “Notte fantastica” (Phantastische Nacht) del 1922 ci fa immergere in sei ore della vita di Friederich Michael von R…, un apatico aristocratico che in seguito ad un evento fortuito, fa una specie di esame di coscienza, capisce alcune cose di sé e della propria vita, per poi vivere un anno in questa condizione e quindi morire nella grande battaglia di Rawa (svoltasi dal 3 all’11 settembre 1914) a fronte dello sfondamento del fronte austro-ungarico da parte dell’esercito russo. L’inizio mi aveva di molto preso, che mi sentivo in sintonia con una persona che andava denudano il proprio animo, a fronte di un avvenimento che ha significato solo per lui, ma che, a valle del quale, il soggetto si sente diverso ed in modo diverso si comporta. Mi ricordavano tanti piccoli avvenimenti personali ed interiori, che hanno senso solo per me, e che le persone a me vicine scoprono solo per i mutati comportamenti.

L’ultimo e più tardo racconto è “Leporella” (Leporella) del 1928, apologo che fin dal titolo riprende la vicenda del servitore di Don Giovanni, seguendo la vita della contadina Costanza. Divenuta governante in una casa aristocratica, si infatua del signore spensierato e spendaccione a scapito della moglie aspra e ricca. Farà di tutto per lui, ma non potrà che scontrarsi con la realtà dello scapestrato che non ne capirà neanche un’azione, fors’anche la più irreparabile.

Ora, nelle mie letture di Zweig ritornava ogni volta in mente la bellissima “Novella degli scacchi”, ed il confronto con questa lettura diventava impietoso. Ma gli scacchi erano già nella parte finale della vita dello scrittore, mentre qui siamo in un trenta-quarantenne pensieroso e bisognoso di esprimere alcune urgenze interiori. La psicanalisi, il mondo onirico, la ricerca di sé, la caduta senza remissione, le scelte sbagliate e le decisioni conseguenti, per chi è corretto nella vita e verso sé stesso. Ma questo mondo, tra l’altro senza dialoghi, cosa che a me un po’ è mancata, non riesce ad avvicinarmi al testo.

Rimangono chicche sparse. Quel parlare sempre e comunque, anche se non esplicitamente, di Vienna e dell’austricità. In particolare, nelle passeggiate e nelle camminate del tormentato protagonista della “Notte”. Dove c’è l’altra chicca matematica: le vicende salienti si svolgono per 6 ore il 7 giugno (6 e 7/6), e sono legate alla vittoria di un cavallo che porta il numero 7. Poiché sei è da sempre legato a mio padre, ed il sette è il mio numero di riferimento, capite bene che mi aspettavo di più. Ma non importa, mi accontento del rimando a vicende personali ed altamente insondabili.

“Chi è finalmente riuscito a trovare sé stesso, non potrà più perdere nulla a questo mondo. E chi è finalmente riuscito a comprendere l’essere umano che vive in lui, saprà comprenderli tutti.” (101)

Teju Cole “Città aperta” Repubblica Duemila 42 euro 9,90

[A: 20/11/2017 – I: 04/05/2020 – T: 05/05/2020] - &&& --

[tit. or.: Open City; ling. or.: inglese; pagine: 297; anno 2011]

Una nuova lettura della collana dedicata ai romanzi del Duemila che riserva qualche bella sorpresa e qualche lettura di interesse. Qui abbiamo uno scrittore per me assolutamente sconosciuto, e che anche in rete non è che sia tanto presente. Tant’è che alcuni siti lo danno originario di New York altri di qualche posto nel Michigan.

Quello che è certo è il suo vero nome che suona Obayemi Babajide Adetokunbo Onafuwa, ed il nome con cui firma le sue opere, cioè Teju Cole. Opere che sono solo un paio di romanzi, ma anche molte fotografie, di cui pare sia maestro. Quello che è altrettanto vero è che l’autore è nigeriano, in quanto figlio di nigeriani seppur emigrati in America, che ha vissuto alcuni anni della giovinezza in Nigeria, per poi studiare, laurearsi e vivere negli States.

Per dirla tutta, questa sua prova letteraria non è che sia stravolgente, ma direi potremmo definirlo un romanzo onesto. Non sbava, non promette più di quello che mantiene, non è, soprattutto, intriso di velleità narrative particolari. Ci sono belle e coinvolgenti descrizioni paesaggistiche che mi fanno venire in mente l’occhio fotografico dell’autore. E ci sono problematiche dure, legate al rapporto, allo scontro tra mondi diversi.

Per attenuare alcune asperità (ma anche per accentuarne altre) il romanzo, che sembra una bio-fiction dello scrittore, si inventa un retroterra mix. Il narratore è sì nigeriano, ma solo da parte di padre, con una madre tedesca ed una nonna teutonica che vive a Bruxelles. Inoltre, il narratore si avvia a diventare psicologo, motivo per cui studia a New York, frequenta un dottorato, ed alla fine aprirà un suo studio privato, seppur sotto l’egida di un nume tutelare. Come molte persone, incluso il sottoscritto, camminare è uno dei motivi di fondo della sua vita non lavorativa, e anche dei suoi spostamenti. Per cui ne seguiamo i passi, e le descrizioni nei luoghi ove trascorre la sua vita (o ne ha trascorso, visto che ci sono puntate anche nella natia Africa). Tutto il percorse del narratore è un attraversare il tempo dallo studio al volare con le proprie ali, alla ricerca di brandelli di sé. Capiamo che ha avuto grossi ed insanabili contrasti con la madre, dopo la morte precoce del padre. Lo seguiamo volare per tre settimane in Belgio alla ricerca di tracce della nonna, che però non seguirà dedicandosi ad altro.

Incontra amici, vede gente, ritrova la sorella di un suo vecchio amico nigeriano che non vedeva da una dozzina di anni. Incontro che lo porterà a scavare dentro di sé, a tirar fuori una ferita profonda, che però non ha né il coraggio né la voglia di affrontare. La lascia lì, la ferita, come fanno i bravi psicologi, che più che risolvere, sanno che c’è un problema e cercano di capire, laddove non si può guarire, come si può convivere. Inoltre, tutti gli incontri portano il narratore ad interrogarsi sulla convivenza.

C’è il bellissimo rapporto con il giapponese Saito, suo mentore all’università, uno che ha dovuto subire i campi di contenzione americani durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando tutti i giapponesi immigrati in America venivano visti con sospetto (dopo Pearl Harbour, ovvio). Saito ha tratto riflessioni interessanti sui rapporti tra razze diverse. Che il narratore confronta con molti altri incontri di amici di razza mista. Con la sua ex fidanzata. Con l’amica di cui sopra. Ma in particolare con l’arabo di cui diventa amico in Belgio. Che lo porta anche sul terreno del confronto tra uguaglianza e differenza. Perché se è vero che tutti dobbiamo essere trattati in ugual modo, e rispettati per questo, dobbiamo anche rispettare ed essere rispettati nelle differenze. Non dobbiamo appiattirle, ma analizzarle e conviverci. Certo, l’arabo, per la sua storia narrata come un microracconto all’interno del flusso narrativo, è portato ad estremizzare questa discussione, arrivando ad esaltare Malcom X rispetto a Ghandi. Ora questo è un terreno interessante, al di là delle controversie sulla figura di Malcom stesso, ma foriera di pensieri appunto su quanto sia più importante accettare le differenze, che tentare di egualizzarle.

Alla fine, Cole ci narra circa un anno della vita del narratore, senza grandi scosse (eccetto qualche sussulto nel finale che vi lascio scoprire), ma che da buon psicologo il protagonista accetta cercando in sé quelle radici che lo legano alla terra. Anzi, alla città aperta che potrebbe essere il nostro mondo se tutti fossimo meno egocentrati e più portati ad ascoltare l’altro.

Una piccola chicca, durante le camminate (che ritengo uno degli elementi che mi accomunano con il narratore) passando per una piazza a East Broadway incontra la statua di Lin Zexu. Che per molti dirà poco, ma che per chi ha letto i libri di Amitav Ghosh sulle guerre dell’oppio è senz’altro un altro personaggio interessante. Come di curiosità è appunto averne una statua a New York, per uno delle persone più odiate dalla Compagnia delle Indie. Quindi, come riflettevo durante la lettura, di certo non un capolavoro, ma un romanzo onesto vissuto con onestà.

“Non credo nelle coincidenze, mi disse. Le cose succedono o non succedono, le coincidenze non c’entrano niente.” (184)

Mark Haddon “Una cosa da nulla” Repubblica Duemila 50 euro 9,90

[A: 02/01/2018 – I: 11/06/2020 – T: 12/06/2020] - &&& +

[tit. or.: A Spot of Bother; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2006]

Torno a leggere qualcosa di Haddon dopo molto tempo dal primo, unico e fortunato caso del cane ucciso a mezzanotte. Mi ero accostato un po’ titubante, dato il successo del suo “libro della vita”. Devo dire tuttavia che è invece scorrevole, leggibile e con qualche punto di interesse. Certo, avrei forse lasciato il più calzante, anche se di poco, titolo inglese, che parlava di “Un po’ di fastidio”, che è quello che provano tutti i protagonisti del romanzo. Piuttosto che una cosa da nulla, forse riferito al protagonista, George Hall, ma che minimizza al di là del titolo i sentimenti di tutta la cricca.

La struttura del libro ricalca, idealmente, quella del primo: vedere avvenimenti dall’interno di una persona “irregolare”. Nel primo era un autistico. Qui abbiamo, e ce ne sentiamo solidali, un ipocondriaco terminale. George fa montagne di ogni piccolo avvenimento medicale che lo coinvolge. Certo, ci sono anche elementi reali, ma il motore della vicenda è l’angoscia di sentirsi malati, e l’angoscia ancor maggiore di non voler sapere se si è malati veramente.

Da un piccolo eczema, George estrapola di aver un tumore all’ultimo stadio. Non sappiamo se sia vero, ma di certo soffre di disturbi legati all’età, mancanza di memoria, svenimenti, ed altre patologie forse pre-Alzheimer. Il tutto collocato in un contesto sociale e personale pieno di problematicità.

C’è la moglie Jean che, in mancanza delle attenzioni di George, trova consolazione, mentale e fisica, con Davide. C’è il figlio Jamie, omosessuale tormentato, con una relazione complicata con Tony, e con la difficoltà/impossibilità di condividere i suoi stati d’animo con la famiglia. C’è infine la figlia Katie, uscita da un matrimonio con Graham, che la abbandona alla nascita del figlio Jacob, e che ora, dopo un po’ di convivenza, decide di sposare Roy. Ci sono, infine, e sono l’ossatura dorsale di tutto il libro, i rapporti interpersonali che, dalle varie situazioni personali si instaurano.

La meta finale del libro sarà il sospirato, atteso, negletto, rifiutato e poi celebrato matrimonio tra Katie e Roy. Nel mezzo, Jean che si consola dell’autismo ipocondriaco del marito con l’amico Davide. Consolazione che George, inopinatamente, vedrà consumarsi, e che lo getterà nello sconforto. Perché si sente malato, ed ora anche abbandonato. Si rinchiude nel suo mondo di auto sofferenza, sia con atteggiamenti comprensibili, come la paura di andare dal medico, sia con improbabili salti di tono. Quando si dimentica chi sia e dove sia e si comporta come se… Ma non vi dico come. Vediamo Jamie che non riesce a trovare il modo di comunicare con Tony, avendo anche paura del giudizio, che mai ci sarà realmente, della sua famiglia al suo essere omosessuale.

Haddon gira molto intorno alle paure sociali di Jamie, riuscendo al fine, a farlo riscattare con una frase, unica e felice, che riuscirà a dire a Tony. “Ti amo”. Una frase che, al contrario, la sorella Katie non riesce a dire a Roy. Certo, Roy è un po’ rozzo, meno intellettuale della famiglia Hall, a volte non in sintonia con quello che accade intorno. Ma ha una grande pregio, che risalta in controluce. Una modestia verso sé stesso. Sa di saper fare delle cose, e di non saper farne altre. Allora, è sulle prime che si butta. In particolare, riuscendo a trovare un modo di essere, di giocare, di comunicare con Jacob, mostrando quindi a Katie che non sempre l’intelligenza è nelle parole. A volte, e con più efficacia, è nei fatti.

Ma poi, il pallino torna sempre su George, sulle sensazioni, che capisco fino in fondo, di chi sente di non essere in perfetta forma. Lo è stato fino a pochi anni prima, quando lavorava e pensava ad altro. Ora, pensionato, e forse non proprio convinto di quello che fa, ha troppo tempo per guardare il proprio ombelico. Certo, pensa di poter costruirsi uno studio dove riprendere a disegnare come faceva da ragazzo. Si accorge però che non è più capace, non ha più quella mano, quell’occhio. La malattia, vera e finta, lo trascina verso uno stato mentale da cui potrebbe non riemergere. Ci vorranno momenti forti, sensazioni forti, legami ugualmente forti, sebbene a volte oscurati, per permettere a George di fare un bagno di realtà con sé stesso. Arriveremo quindi alle nozze, alla catarsi.

Riuscirà Jamie ad essere leale verso i suoi genitori e verso Tony? Riuscirà Katie e comprendere la differenza tra Roy e Graham? Riuscirà Jean a vedere nella giusta luce sia Davide che George? Riuscirà George a capire che c’è sempre una via d’uscita, anche alla paura di morire? Cari amici ipocondriaci, leggetene che sarà utile a voi come a me, per essere sinceri con sé stessi. Una sincerità di una difficoltà a volte insormontabile. Tuttavia, noi pensionati con delle idee in testa, dobbiamo riuscirci.

“Ed era bello, lì. Perché lui riusciva anche a fare silenzio. E nella sua esperienza erano pochissimi gli uomini capaci di fare silenzio.” (84)

Leonard Gardner “Città amara” Repubblica Duemila 19 euro 9,90

[A: 14/05/2018 – I: 15/06/2020 – T: 16/06/2020] - &&& e ½ 

[tit. or.: Fat City; ling. or.: inglese; pagine: 172; anno 1969]

Tutto sommato, un’altra buona uscita della collana di Repubblica dedicata ai libri del Novecento che sono stati riscoperti nel Duemila. Gardner non è un autore particolarmente noto, né particolarmente prolifico. Anzi, è praticamente “one book writer”, di questo che è un buon libro, e che diventò anche un buon film nelle mani di John Huston.

Gardner è giornalista e soprattutto sceneggiatore televisivo, con un grande contributo alla serie “NYPD”. Ha anche una divertente particolarità numerologica: è nato il 3 novembre 1933, quindi 3/11/33 (cioè giorno per mese uguale anno). Ma questo è solo un mio piacere mentale. Come capriccio è stato andare a cercare il perché del titolo. Ora, l’italiano mi risulta leggermente oscuro, mentre l’inglese ha un duplice significato. Da un lato, “Fat City” è uno degli antichi soprannomi di Stockton, la città nativa di Gardner, nonché ambientazione del libro. Ma ancor più densa di significati è la derivazione del gergo negro. Quando nello slang dici che vuoi andare a “Fat City”, significa che vuoi fare una bella vita, piena di soldi e di successo.

Esattamente il contrario di quanto capita ai due protagonisti della storia: Billy Tully e Ernie Munger. Gardner segue le loro vicende, inserendole in un ambiente che conosce bene, quello della boxe di periferia, delle palestre scalcinate e dei pugili che si battono, vivono e muoiono per poche centinaia di dollari ad incontri.

Nella memoria un inciso, che mentre lì a Stockton si combatte per una cena, sulla grande scena ci sono fior di pugili che vivono a fior di dollari (nel ’69 campione del mondo dei pesi massimi era un certo Mohammed Alì). Ma torniamo a Stockton.

Come detto abbiamo i due protagonisti la cui storia si intreccia, si interseca, e poi si lascia, sempre con quel fondo di amarezza e disperazione che permea tutto il romanzo. Billy ha quasi trent’anni, ha fatto una buona carriera pugilistica, arrivando quasi ad incontri internazionali. Poi si è sposato, si è rilassato, ha cominciato a bere. Una volta lasciato dalla moglie, non riesce più a risalire la china. Prova ad allenarsi di nuovo, ed in palestra si incontra con Ernie. Nel più giovane intravede possibilità e lo spinge sul ring. Assistiamo così ancora una volta ai due paralleli. Entrambi sul ring e sulla vita.

Billy che tra un incontro e l’altro deve trovare il modo di sopravvivere, visto che tutti i soldi guadagnati quando era “in carriera” li ha dilapidati con la bella che lo ha lasciato. Vediamo quindi il caporalato californiano per le più infime raccolte nei campi, con accenni che ricordano pagine di Steinbeck. Billy prova ad essere forte come i messicani, come i neri, ma è bianco e fuori allenamento. E poi, appena ha un soldo, si attacca alla bottiglia.

Dall’altra parte Ernie è un ventenne che esemplifica alla meglio il giovane senza meta americano. Poca cultura (anche se studiare non è sempre un toccasana, puoi essere capace anche nei mestieri, che diamine), un lavoro che non gratifica nulla (addetto notturno ad una pompa di benzina), una ragazza. Gardner riesce con pochi tratti anche a farci vedere bene il rapporto tra Ernie e la sua ragazza. Lui vorrebbe solo divertirsi, e magari fare un po’ di sesso. A lei va bene, all’inizio. Poi vuole di più. In quella provincia dove al massimo si segue la televisione, lei fa un po’ il broncio, fa un po’ qualche moina. C’è affetto (non sembra certo amore). Ed ovviamente lei rimane incinta. Ed ovviamente lui si sente costretto alle nozze. Anche qui, una vera cartolina americana: matrimonio, e poi si avvertono i genitori, che sono altrove. Ernie allora deve anche trovare più soldi, e prova anche a passare tra i pugili semi-professionisti.

Stiamo comunque sempre lì, tra il ring e il pub, tra le macchine parcheggiate e le camminate nella sera. Lo scenario potrebbe essere anche più pugilistico. Ed anche più desolante. Lo straniamento, la capacità di renderci amare queste città, è il capovolgimento del classico quasi finale delle storie di pugni. Dove il pugile viene sconfitto e comincia la sua inarrestabile china. Verso la fine sia Ernie che Billy hanno incontri importanti, per loro. Ma loro vincono, anche se questo non basta ad invertire la crisi che vivono dentro. Vincono, ma non sono contenti. Vincono e l’unico risultato è che bevono un po’ di più, aspettando altro. Aspettando un Godot che non sanno di aspettare, e che non riconosceranno se venisse.

Gardner riesce in questo praticamente isolato romanzo (come detto, è sceneggiatore ed altro, ma non risultano altre prove di sostanza) a darci una fotografia americana basata su perdenti ed emarginati, che rimangono tali in qualsiasi situazione. Una totale mancanza di prospettive. Sarà un libro isolato, ma è ben scritto, e raggiunge il centro dello stomaco con i suoi pugni, fuori e dentro il ring. Ed anche con il film, che forse non ha avuto una grande risonanza, ma che Huston riesce a rendere interessante, così come la recitazione di Jeff Bridges nella parte di Billy.

Terza uscita di questo mese anomalmente caldo ed un allegato che gira intorno all’insicurezza cronica.

Comunque, non ci possiamo dimenticare che oggi è un giorno molto “simmetrico”, anche se non completamente. Un bel 20/09/2020 , con quella sfilza di 20 che speriamo siano di auspicio e non solo di ricordo di una brecci di 150 anni fa (anche se una breccia fondamentale).

Ma rimaniamo sul vago, sui possibili week-end di relax e, magari, dopo aver parlato ai miei amici avventurieri, ipotizzare che si possa ripartire prima di quanto pensi Fauci. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

SETTEMBRE 2020

Visto che stiamo anche sotto gli internazionali di caldo, parliamo pure di insicurezza.

BLISTER D’AUTOSTIMA 4

Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione. Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.

Andre Agassi “Open”

Paolo Giordano “La solitudine dei numeri primi”

Chi è affetto da insicurezza cronica è perseguitato dalla sensazione di essere un perdente e l’ansia di un’eventuale sconfitta esercita una tale pressione sulla sua autostima da inibire del tutto la volontà di affrontare qualunque sfida. Per contrastare rapidamente questi fastidiosi sintomi, suggerisco di inghiottire la seguente pillola: «Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta» perché «vincere non cambia niente». Se a formularla fosse una persona qualunque, non ci sarebbe niente di speciale. Ma se a metterla nero su bianco in una brillante autobiografia è uno dei più grandi campioni di tennis di tutti i tempi, uno che ha vinto tutto quello che si poteva vincere, è un’altra storia. È la storia di Andre Agassi. Chi ne ha seguito la carriera e le vicende personali sa che il tennista americano non è solo l’uomo dei record e la sua carriera è stata un continuo sali e scendi tra schiaccianti vittorie e cocenti sconfitte, sul campo e nella vita, in un alternarsi di grandi imprese e altrettante delusioni. Personaggio decisamente particolare. Agassi ha portato scompiglio nell’inflessibile e solenne mondo del tennis con il suo look anticonvenzionale (capelli da punk, orecchini, pantaloncini jeans, uniche scelte ribelli in una vita di obblighi), i chiacchierati matrimoni (con Brooke Shields e Steffi Graf, l’amore della sua vita) e le sconcertanti confessioni, tra cui l’ammissione di aver fatto uso di droghe e di par-nicchino. Sono anche queste scomode verità, coraggiosamente svelate al mondo, a rendere terapeutica e salutare la lettura di “Open. La mia storia”. Ma la rivelazione più scioccante è quella che sintetizza in una frase tutto il dramma di Agassi: «Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l’ho sempre odiato». Tutti immaginiamo che una persona che per lavoro "gioca (e gioca da campione) e viene pagata (anche bene) per fare ciò che per il resto dell’umanità è uno sport, come minimo debba amare alla follia il suo lavoro ed essere l’uomo più felice del mondo. E invece no, può anche non essere così. Scopriamo allora un’infanzia segnata da un padre padrone, narcisista, rabbioso e torturatore che lo costringeva a colpire 2.500 palle al giorno convinto che solo così sarebbe stato imbattibile. Insieme al talento Agassi cova fin da piccolo un sentimento che non lo abbandonerà mai: il conflitto tra ciò che vuole e ciò che fa. Una questione che tormenta molti di noi e dalla quale scaturisce quell’insoddisfazione che può avvelenare, più o meno lentamente e letalmente, una vita intera. In fondo tutti, anche se in modo differente e meno plateale, viviamo come il campione, costantemente sotto pressione, con gli occhi di familiari, amici, colleghi e conoscenti puntati addosso, sempre in sfida con noi stessi per soddisfare le aspettative degli altri prima che le nostre, sforzandoci di essere sempre vincenti perché perdere è da sfigati. In sostanza ci ritroviamo tutti dietro lo stesso bancone ad agitare un cocktail micidiale a base di ricerca di perfezione e autodistruzione (ovvero le due facce della stessa medaglia). Certo, la maggior parte di noi non vive sotto i riflettori, ma non per questo la pressione e la paura del fallimento sono meno forti, né meno pericolosa è la solitudine che ne consegue. La nostra è probabilmente la “solitudine dei numeri primi” (ne approfitto per dire che il romanzo omonimo di Paolo Giordano è un rimedio forte per curare tutti i disagi derivanti dalla solitudine esistenziale) mentre quella di Agassi è la solitudine del numero uno, ma la sostanza non cambia. Anche chi vive sotto il peso della notorietà può passare metà della vita a domandarsi chi sia, anche un campione piange, è agitato, ha paura, è pieno di manie e dolori (la descrizione del suo faticoso risveglio mattutino, con il corpo che si ribella in un coro polifonico di dolori e la sensazione di avere novantasei anni quando non ne ha neanche quaranta, è un potente antinfiammatorio che allevia ogni eventuale acciacco e rinforza la convinzione di ogni pigro cronico che troppo sport fa davvero male!). L’originale sincerità di Agassi, i suoi ricordi e le sue riflessioni, riempiono le pagine di questo memoir che si legge con la stessa ipnotica attenzione e trepidazione con cui si segue una finale di tennis, rimbalzando da una pagina all’altra in un ritratto senza veli (e peli sulla lingua) in cui con ironia corrosiva, autoconsapevolezza, malinconia e umiltà, il campione passa in rassegna se stesso, «sconfitte, vittorie, rivalità, capricci, assegni, ragazze, tradimenti, giornalisti, mogli, bambini, divise, lettere di fan, animosità e sbornie tristi».

È un errore pensare che “Open” sia una lettura della serie “anche i ricchi piangono, solo che si soffiano il naso con fazzoletti di seta”, che la sofferenza del campione sia il prezzo da pagare al successo e che la sua storia non possa in alcun modo farci stare meglio, perché, come ha scritto Alessandro Barrico, «quella a cui si assiste è un’unica, grande, affascinante partita giocata da un ragazzo contro il buco nero che si porta dentro: che poi è la stessa partita che giochiamo tutti, lo si voglia o no». La storia del campione diventa quella di un uomo, di ogni uomo alle prese con la vita perché «ogni match è una vita in miniatura». L’esperienza di Andre Agassi aiuta a riempire eventuali buchi neri esistenziali, facilitando il recupero di un equilibrio tra l’insoddisfazione e il senso d’inadeguatezza che, come dice il campione, rende ugualmente amare le vittorie come le sconfitte. Quando vi sentite sotto pressione, terrorizzati di non essere all’altezza delle aspettative altrui, bloccati dalla paura di fallire, stanchi di competere, gareggiare e rischiare di perdere, “Open” è un valido integratore di sali minerali per ritrovare un corretto tono psicofisico. Calandoci nei panni di Agassi, indossando le sue scarpe e facendo quattro passi con lui (per dirla come Atticus Finch de “Il buio oltre la siepe”), scopriamo che in quelle scarpe da record si può stare anche parecchio scomodi (fanno venire le vesciche, anche al cervello) e che terrore, infelicità, panico e agitazione possono tormentare perfino un numero uno. Il farmaco è anche utile per contrastare i danni causati dalla competizione che, quando degenera, rischia di sconfinare nell’odio e «l’odio [mi] mette in ginocchio, l’amore [mi] fa alzare in piedi». Per prevenire i dolori di schiena causati da una quotidianità eccessivamente pesante, consiglio l’assunzione di questa compressa di saggezza: «La vita ti getta tra i piedi qualsiasi cosa, tranne forse il lavello della cucina, e alla fine anche quello. Sta a te evitare gli ostacoli. Se lasci che ti fermino o ti distraggano, non stai facendo il tuo dovere, e non farlo ti provocherà dei rimpianti che ti paralizzeranno più di una schiena malandata». Il farmaco offre un immediato sollievo anche in caso si fosse totalmente negati per il tennis (e qualsiasi altro sport, compreso il ping-pong), provocando una piacevole sensazione di gratitudine nei confronti dei genitori che se ne sono fatti una ragione. Grazie alla sua capacità di contrastare i danni provocati dall’ossessiva ricerca di perfezionismo (da considerarsi una delle principali cause di insoddisfazione cronica e infelicità), il libro può essere d’aiuto a genitori troppo esigenti e competitivi che, spinti da frustrazione e senso di rivalsa, tendono a confondere le vittorie dei figli con la loro felicità. Tutto sommato essere una schiappa ha anche i suoi vantaggi. Campione o schiappa, però, Open ci ricorda che la partita con noi stessi è sempre aperta. E tocca giocarla al meglio, con coraggio e consapevolezza.

Se, pur appassionandovi alle alterne grazie e disgrazie di Agassi, durante la lettura sentite un dolorino dalle parti del fegato causato da una leggera forma d’invidia verso un campione del tennis che scrive anche dannatamente bene (cavoli ce le ha tutte lui, meno male che è pelato!) potete alleviare il fastidio con la consapevolezza che questa sfida letteraria è un match a due che Andre ha giocato con il premio Pulitzer J.R. Moehringer.

Avvertenza: al termine della lettura, i lettori più sensibili potrebbero non essere più in grado di assistere a una partita di tennis con la stessa spensieratezza.

Un consiglio: anche quella con il passato è una partita sempre aperta e così, a quattro anni da “Open”, il padre di Agassi ha pubblicato la sua versione dei fatti in un’autobiografia scritta con Dominio Cobello: “Indoor. La nostra storia”. Se vi immaginate un mea culpa, siete fuori strada perché il padre-padrone rifarebbe tutto allo stesso modo e non si dichiara pentito di niente. Il suo unico peccato, dice, è stato quello di amare i figli e aiutarli a vincere. Così è, se vi pare.

A proposito di padri e figli, Agassi spera che per i suoi bambini “Open” sia «uno dei molti libri che gli daranno conforto, guida, piacere. Ho scoperto tardi la magia dei libri. Dei miei errori che vorrei che i miei figli evitassero, questo è quasi in cima alla lista». “Open” garantisce conforto, guida e piacere a tutti gli inguaribili lettori.

Commenti

Due libri pieni di rimandi, non sempre bellissimi, non sempre condivisi. Ma due libri regalati, e quindi con il piacere della loro ricezione.

Andre Agassi “Open. La mia storia” Einaudi s.p. (regalo di ConAllegria)

[pubblicato il 24 novembre 2013]

Cominciai a sentir parlare di questo libro il 13 novembre del 2011, quando, nella pagina domenicale di Repubblica, Alessandro Baricco cominciò il suo anno di recensioni (quello poi uscito in libro, anch’esso dolce regalo, con il titolo “Una certa idea del mondo”, e che è quella che vi sto proponendo in tutti questi anni, con le mie trame; forse non una certa, ma di certo una mia idea del mondo).

E lo cominciò proprio con questo libro, che divenne presto un best-seller, ed ora, due anni dopo, mi è stato regalato dal mitico Roberto (quello allegro, ah ah) in cambio di tre bottiglie di birra perdutesi nelle Poste. E, a lettura effettuata, mi trovo (abbastanza) in accordo sia con il piacere di chi me l’ha donata, sia con le parole di Baricco. Anche se non completamente, che io invece non riesco a scordarmi che il libro l’ha scritto J. R. Moehringer, premio Pulitzer del 2000; certo (e Andre lo dice nei ringraziamenti finali), loro si sono messi a parlare davanti ad un registratore. Ed è lì che Agassi ha tirato fuori la sua storia. Ma dalle parole al libro c’è voluto il filtro potente del “ghostwriter”, che ne ha ripulito le frasi, asciugato i sensi, allentato e ristretto nei punti giusti, donandoci una confezione preziosa. Una confezione in cui sentiamo “parlare” Agassi e raccontarci la sua vita, mentre leggiamo quello che ne scrive il padrone della penna. Quindi, fatti gli auguri al redattore, veniamo al libro “in sé”.

Che ovviamente è appassionante, per uno sportivo “laterale” come me, sia sul lato prettamente sportivo (anche se non indulge in troppi tecnicismi) sia sul lato umano, sulla vicenda che porta il piccolo Andre dal cortile del Nevada ai grandi cortili del tennis ed alle grandi praterie della vita. Un ribelle, si diceva quando era nel pieno delle attività. Uno che perdeva più punti mandando a quel paese gli arbitri delle partite che direttamente dall’avversario. Scopriamo così che, proprio da quelle costrizioni infantili, dove a sette anni il padre lo costringe a colpire per ore le palle da tennis sputate da una macchina, arriva ciò che non ha mai espresso: l’odio per il tennis. E poi per il padre, e le ribellioni, verso la famiglia ed il mondo. Ma tutte queste ribellioni (che seguiamo con arguzia sulla carta) lo porteranno poi a confessare, verso la fine della carriera, che in fondo, il tennis, è l’unica cosa che sa fare per guadagnarsi la vita.

Intanto lo vediamo crescere, portando avanti le rivincite del padre (un profugo iraniano, eliminato come pugile al primo turno delle Olimpiadi di Londra e di Helsinki). Poi passare all’accademia tennistica (quasi lager) del famigerato Nick Bollettieri. E cominciare a vincere, perché di tennis è bravo. Ma anche fare “lo strano”: capelli da mohicano, mechati, hot pants jeans, orecchino. Ed anche a contornarsi a poco a poco di persone sempre più simili a lui: il fratello, l’amico Perry, l’allenatore Brad (Gilbert, per chi non lo conoscesse un tennista di valore), il preparatore atletico Gil. Per ognuno c’è una storia, c’è un momento della vita di Andre che viene fuori (il piacere di mangiare McD, la scivolata verso qualche anfetamina, poi passata, i grandi sperperi di denaro, poi rientrati). Persone piene di sensi (generalmente buoni) e di sensibilità.

Seguiamo anche la sua grande storia d’amore con Brooke Shields, che probabilmente ancora risente degli strascichi ribelli giovanili. E poi la ricerca, la conquista e la vita piacevole quando confessa a sé stesso di amare Stefanie Graff. Che corteggia, che sposa, con cui fa due figli. E con la quale mette su una serie di iniziative benefiche per dedicarsi “agli altri”. Ecco, qui, con Baricco, mi trovo d’accordo sul fatto che sia un po’ troppo “melenso” il finale buonista (il ribelle che si sposa, mette famiglia e scopre l’altruismo). Certo, è così, ed è questo che vediamo in Agassi (anche fuori dal libro).

Ma possibile che tutto il resto si appiani miracolosamente? Che faccia la pace con il padre? Che non pensi di mandare a quel paese un giorno sì e l’altro puro Pete Sampras o Boris Becker? O almeno i giornalisti che continuano a rompere. Ma nel complesso, è una bella storia, proprio per far vedere una storia di chi cerca sé stesso, lo trova, e trova la sua vita. Prima o poi.

“A pochi di noi è concessa la grazia di conoscere sé stessi, e finché non ci riusciamo, la cosa migliore che possiamo fare è essere coerenti.” (260)

Paolo Giordano “La solitudine dei numeri primi” Mondadori s.p. (prestito di Alessandra)

[pubblicato il 25 dicembre 2011]

Ecco un altro premiato che viene dalla fucina dei prestiti di Ale. Qui lo Strega lo vince il 26enne Giordano con questo libro d’esordio, che solo ora, lasciatolo decantare come un bel vino di corpo, ho letto e, devo dire, discretamente gustato. Ci sono degli spunti interessanti. C’è una scrittura sapiente ed accattivante. C‘è tanta tristezza (leggendolo mi veniva in mente il titolo di uno dei libri di Peter Handke “Infelicità senza desideri”). Ci sono anche situazioni irrisolte ed una visione globalmente funerea della vita adulta che un po’ mi lascia perplesso.

Lo spunto interessante è quello che fa da filo conduttore e materia prima della nascita del libro. Giordano è un fisico, e quindi sa maneggiare anche i numeri (non come un matematico, certo) e ci presenta le storie dei due protagonisti come fossero numeri primi gemelli. Ora, penso (spero) che tutti sappiano cosa siano i numeri primi. Quelli gemelli sono i numeri primi separati solo da un numero (tipo 5 e 7, 11 e 13 o che so 1997 e 1999). Numeri primi già di per sé singolari, perché isolati, come Mattia e Alice. I primi gemelli poi sono vicini, ma non si toccano mai. E Mattia ed Alice sono singolari.

Lei, vittima di un incidente di sci a sette anni, rimane un po’ claudicante, e quel suo passo mancante la fa rimanere sempre un po’ in ritardo. Con le compagne di scuola sicure di sé e ben tronfie. Con le decisioni della vita, il lavoro, lo studio, l’amore. Sarà sempre in cerca di non pesare mai sulla terra, tanto da viverla anoressicamente (e non solo in senso metaforico).

Lui che vede scomparire la sorella gemella nel nulla. Morta? Rapita? Chissà? Ma il suo interno senso di colpa di averla lasciata sola non lo abbandonerà. E dovrà rivolgersi alle cose materiali, ferme, della vita stessa, per continuare a vivere. Per questo studia (i libri non tradiscono, dice). Per questo si dedica ai numeri, e farà il matematico in un’Università del Nord Europa. Giordano segue le loro vite parallele dai sette ai trentadue anni. Che si incrociano, si mescolano, forse trovano dei sensi. Ma sono loro stessi gemelli e non usciranno mai dalle loro singolarità in questo scarsamente aiutati dagli adulti.

In primo luogo, dai genitori che non li capiscono, che non li aiutano, che rimangono figure sterili come a dire che si possono avere sprazzi di lucidità e di gioia da adolescenti, ma arrivati all’età adulta non si può far altro che mettersi in un angolo, magari leggere il giornale e guardare la tv. Ecco, questa visione della vita è quella che meno mi convince, che meno mi prende. Possibile che non ci sia nessuno che si rimbocchi le maniche e si sporchi le mani in questa storia che sta sempre lì lì per diventare altro, per svoltare verso altipiani sereni. E non lo fa mai.

Anche quando sembra che Alice ritrovi Michela scomparsa. Sarà vero? Non lo sapremo mai, che Alice stessa si tira indietro. E Mattia non trova la forza di uscire dal suo bozzolo per fare una domanda cruciale. La domanda che ci aspettiamo dalle prime pagine. E quindi tutto scorre, con una dolenza di fondo che lascia molti amari in bocca. Ma la scrittura è buona, coinvolgente, tanto che dopo le prime cinquanta pagine un po’ direi normali, mi ha preso nella morsa di seguire le loro vicende. E sono andato avanti tutta la notte, senza riuscire a staccarmi. Ecco, questo è senz’altro un merito dell’autore.

Chiuso il libro, mi frullano ancora nella testa loro due, e quello che faranno poi. Anche questo, un merito dei buoni libri. Non so, vedremo poi, se Giordano riuscirà a produrre nuove cose, o rimarrà chiuso nel limbo degli autori “primi” e premiati, come Piperno per capirci. Aspettiamo fiduciosi.

“Passavo così tanto tempo da solo che una persona normale sarebbe impazzita nel giro di un mese.” (207)

“Alzò gli occhi verso la lampadina che pendeva dal centro del soffitto, spenta. Si era fulminata appena un mese dopo il suo arrivo e lui non l’aveva mai sostituita. [Erano sette anni che] mangiava ancora con la luce accesa nell’altra stanza.” (208)

Finalino

D’accordo con l’inserimento di Agassi. Mentre penso che Giordano poteva anche essere tralasciato.