domenica 28 ottobre 2012

Deludenti avventure - 28 ottobre 2012


Volevo passare un’altra settimana di avventuroso riposo, ripescando un quartetto di letture “movimentate”. Andando a rivedere i testi, mi sono però accorto che quasi tutto cominciavano con una nota dolente. Ed in effetti, solo il testo della spagnola Asensi raggiunge un discreto livello, di forma e aspettativa. Sotto il minimo invece la canadese Doody, da cui mi aspettavo di più per il suo nuovo Aristotele, e la premiata ditta Cussler, con un’avventura in minore del capitano Cabrillo. E meglio speravo nel libro di Ziedan, vantato come scoperta di un nuovo autore arabo. Ma lasciamo la parola alle trame.
Youssef Ziedan “Azazel” Beat euro 9
[A: 08/01/2012 – I: 13/07/2012 – T: 19/07/2012]
[titolo: Azazil; lingua: arabo; pagine: 364; anno 2009]
Sono rimasto un po’ deluso da questo libro, che pur partiva con tutte le premesse per essere una piccola scoperta. Purtroppo è rimasto solo “piccolo”. Intanto si partiva con un autore arabo (primo elemento di interesse), tradotto dall’arabo (quando ormai ultimamente gli editori italiani comprano direttamente traduzioni inglesi o francesi). Libro ambientato prima dell’avvento di Maometto, nelle terre che in quegli anni vedevano, con tutti i problemi connessi, la nascita  ed il radicamento del cristianesimo. Mi era inoltre ingolosito, scoprendo che il nostro Youssef è un cultore dei manoscritti antichi (quindi congeniale alla tematica, e viceversa). Insediato e lavorante in quel di Alessandria, città che ha comunque del suo fascino. E pare sia reputato un buon scrittore storico, come lo sono in certo grado molti scrittori arabi, autore di una rinomata storia ambientata tra i nabatei di Petra. Insomma, mi aspettavo un epigono del libanese Maalouf. Purtroppo tutte queste premesse hanno prodotto un libro, che ha un certo fascino, non lo nego, ma è pieno di altro, e di altro pedante. Mi spiego, seguiamo la narrazione, ricavata da manoscritti antichi in pergamena (collegamento con il lavoro di Ziedan) delle vicende in prima persona narrate dal monaco Ipa. Se Ipa si limitasse a narrare di sé, dalla nascita in un paesino verso la Nubia, attraverso tutte le vicende che da lì lo portano in un monastero tra Antiochia ed Aleppo, ci sarebbe stato (forse) un livello di agilità nella scrittura che avrebbe reso (forse) avvincente il narrato. Siamo tra la fine del 300 e l’inizio del 400. In tutto il Medio - Oriente, ed in Egitto in massimo grado, infuriano lotte e diatribe varie tra pagani e cristiani, e tra cristiani e cristiani. Il nostro Ipa, morto trucidamente il padre, decide di entrare in seminario, e divenuto monaco (non si capisce se al tempo si veniva ordinati in qualche modo), decide di salire il Nilo e di stabilirsi ad Alessandria. Qui ha una serie di incontri sconvolgenti. Viene accolto da una bellissima fanciulla che lo salva dall’annegamento. E passa tre giorni di amore e passione con la bella Ottavia. Non si capisce bene il rapporto tra sesso e monachesimo, ma probabilmente all’epoca (e Youssef dovrebbe esserne esperto) vigevano costumi meno stringenti. Ma quando Ottavia scopre che lui è monaco, lo caccia essendo vedova di persona massacrata dai cristiani dell’epoca. Il secondo incontro è con l’affascinante Ipazia, di cui segue qualche lezione, ma che poi abbandona essendo clausurato dai monaci alessandrini. Ed in particolare dal vescovo Cirillo, strana figura su cui si tornerà. Ma dopo due anni di isolamento, assiste impotente al martirio di Ipazia per mano del lettore Pietro istigato da Cirillo. Sconvolto, fugge da Alessandria, si auto-battezza con il nome di Ipa (abbreviazione di quello di lei), e si incammina verso Gerusalemme. Dove fa il secondo incontro fondante della sua vita. Quello con il vescovo Nestorio, che lo affascina con la sua umanità e con le sue parole. Sul di lui consiglio, si rinchiude nel monastero di cui all’inizio, dedicandosi alla medicina (piccola parentesi, una parte felice dello scritto è imbastita di piccoli rimedi medicali, a far vedere la comunque progredita conoscenza pre-islamica della materia da parte dei locali). Sarebbe tutto più o meno per il meglio, se non incappasse nella bella Marta, una donna ripudiata che si rifugia nel convento. Bella di bellezza radiosa, ne rimane turbato al massimo grado. Qui scopriamo (fra le righe) che i monaci non si possono sposare mentre i preti sì. Lei cerca di convincerlo a farsi prete. Ed arriviamo al culmine della tenzone, con Ipa dilaniato tra i problemi con Marta (farsi prete o restar monaco), aggravato dal fatto che Marta sarebbe (in termini attuali) divorziata, quindi per un cristiano non frequentabile, ed i problemi della fede, che proprio in quei giorni viene indetto il Concilio di Efeso dove si svolge l’epica battaglia tra Cirillo e Nestorio. Il dilemma lo prostra, cade nel delirio febbricitante, ha visioni, e comincia a dialogare con Azazel. Che sarebbe il Satana tentatore del deserto. Che è quello che troviamo anche citato nella bulgakoviana palla. Come ben capite, ho rovesciato i termini del racconto, che invece viene sempre pervaso della lotta interiore tra Ipa e Azazel. Per cui (forse anche per tagli di lunghezza) alla fine sappiamo che Ipa trova sé stesso. Ma non sappiamo come finisce con Azazel, né con Marta, né con Nestorio. Già tutto questo faceva scendere di gradini il piacere del testo. Che poi è anche riempito, con giusta dovizia di particolari, ma con scarsa partecipazione, della diatriba tra Cirillo e Nestorio, tra duofisismo e monofisismo, tra Maria madre di Dio e Maria madre di Cristo. Tra la cacciata solo 100 anni prima di Ario e dei suoi segaci. E con la vittoria, lì ma anche nel tempo, di Cirillo. Che viene anche fatto Beato e Padre della Chiesa (non mi pare Santo ma non sono espertissimo). Per la sua conoscenza e per le sue posizioni. Ma a me pare che nessuno ne abbia messo in mostra criticamente limiti ed altro. Nel suo isterismo verso gli avversari, di fede e non. Andate a vedere il bel film “Agorà”, o leggete la vita di Ipazia. Era tutta una questione politica, che da Roma l’imperatore appoggiava Alessandria, per bilanciare il peso crescente di Costantinopoli. Ma tutta questa parte è trattata non proprio in modo accattivante. E ci si trascina per quasi quattrocento pagine aspettando che Ipa abbia un moto in positivo, che decida, che prenda una posizione. Mai. Ecco perché alla fine il libro mi ha deluso. Spero prima o poi di leggere qualcosa di quegli anni che abbia il sapere romanzato del libro sul profeta Mani di Maalouf ed il sapere storico dei libri di Barbero sulla caduta dell’impero.
“Le lingue non esprimono nulla di per se stesse, ma sono espressione della gente che le parla. E se la gente cambia, anche la lingua cambia.” (34)
“Ogni ricordo contiene dolore. Anche i ricordi dei momenti felici sono in qualche modo dolorosi, perché sono tracce di cose passate.” (123)
“Posso offrire [venti anni della mia vita] in dono a una ragazza di vent’anni quando fra dieci anni sarò un decrepito cinquantenne e lei una bella trentenne?” (332)
“Scrivi …  chi scrive non muore mai.” (358)
Clive Cussler & Jack du Brul “La nave dei morti” TEA euro 8,90
[A: 15/04/2012 – I: 22/07/2012 – T: 27/07/2012]
[titolo: Plague Ship; lingua: inglese; pagine: 502; anno: 2008]
Sono rimasto un po’ deluso da questo nuovo romanzo del vecchio Clive. Forse perde qualche colpo (e ci può stare dopo gli ottanta) o forse (anzi più probabilmente) il sodalizio con Jack du Brul sta arrivando al capolinea (anche se mi risulta che continuano a scrivere a quattro mani, pur se Jack comincia ad essere letto e pubblicato anche da solo). Comunque, veniamo alla delusione. Pur avendo un ritmo decente, ricalca un po’ troppo alcuni stereotipi delle saghe di Cussler, prendendo però le parti meno riuscite. C’è un prologo, al solito collocato nel passato. Ma questa volta è un passato molto vicino (si colloca in Norvegia nel 1943), e non è molto avvincente, se non nella simpatia verso il mitragliere del bombardiere tedesco. Simpatia che svanirà completamente nell’epilogo che, molto velocemente, cerca di collegare tutte gli avvenimenti descritti nel corpo del romanzo. Secondo elemento poco simpatico è il “rilascio” di personaggi senza spiegazioni. Ora, nel precedente romanzo ambientato in Namibia, c’era una possibile storia tra il capitano Juan Cabrillo e la bella Sloane. Bella che qui scompare miseramente. Anche Dirk aveva avventure in ogni porto (d’altra parte i marinai si sa). Ma se la storia non terminava nel romanzo, il romanzo seguente, prima o poi, dava qualche spiegazione degli avvenimenti intercorsi. Qui si accenna ad alcuni temi, ma della bella nulla. Come in tutte le avventure della Oregon, poi, si segue (dopo il prologo mutuato dalle altre serie), una trafila standard. C’è una missione dei nostri che, per conto della CIA, si occupano di “bastonare” qualche cattivo. Nella fattispecie, rubano due missili nucleari che la Russia ha venduto all’Iran. Durante la fuga, si imbattono nel mistero che poi sarà il centro del romanzo stesso. Una nave piena di morti, dove solo una signorina asmatica si salva. Detta signorina non sarà presa da folle amore per Cabrillo (che qui, abbiamo detto, non si occupa dell’altro sesso), anche se marginalmente coinvolgerà qualche membro della squadra. Da qui in poi (ma anche prima, devo dire) le cinquecento pagine sono praticamente una lunga e pluriepisodica battaglia. Che alla fine si focalizza in un duello tra il gruppo di Oregon ed una non meglio identificata setta dei responsivisti. Una setta para-ambientalista New age, che, preoccupata del sovraffollamento della terra, predica l’astinenza sessuale come metodo per la regolazione delle nascite. Ma, siccome sono cattivi e molto, decidono che la predica non basta. E con i soldi del fondatore, stra-pluri-miliardario, ricercano e mettono a frutto un virus che, se ben coltivato, provoca la sterilità. L’idea è che per far risorgere il genere umano dagli abissi attuali c’è bisogno di una bella scossa: visto che non c’è la possibilità di una guerra, proviamo con qualcosa di simile alla peste. E quindi, inseguimenti, rapimenti, sparatorie, ruberie a fin di bene, catarsi ed altro. Ma senza una partecipazione come in altre vicende della ditta Cussler & Co. Ci sono solo lunghe sparate contro la setta, giuste si dirà, ma quasi che fossero rivolte ad altro. Sembra come se Cussler voglia mettere in guardia dalle sette in generale e da Scientology in particolare (non a caso i responsivisti reclutano divi ad Hollywood per l’immagine, non a caso chi si unisce dona tutti i suoi beni alla causa, ed altre abbastanza smaccate similitudini). Son tuttavia sparate un po’ sterili e (lo posso dire?) pallose. Si arriva alla fine con qualche bella chiusa, con tutto che torna a posto, ma senza un vero rilassamento del cervello (che a questo doveva servire). Speriamo nella prossima, Clive!
“Se fosse nato in un’epoca diversa e in un posto diverso … si sarebbe visto alla guida di una carovana di cammelli nel Sahara privo di piste … ad attrarlo era il mistero di ciò che era in serbo dietro … la prossima duna.” (167)
“Quando perdi qualcosa la trovi sempre nell’ultimo posto in cui la cerchi … perché smetti di cercarla quando la trovi.” (409)
Margaret Doody “Aristotele e la favola dei due corvi bianchi” Sellerio euro 11
[A: 15/04/2012 – I: 30/07/2012 – T: 31/07/2012]
[titolo: Aristotle and the fable of two white crows; lingua: inglese; pagine: 95; anno: 2011]
Questa volta sono rimasto un po’ deluso, ma in maniera inversa rispetto all’ultimo, un po’ prolisso romanzo su Aristotele in Egitto. Lì, in un profluvio di pagine, si svolgeva un romanzo che poco aveva delle brillanti idee della Doody di inizio carriera, con quella frammistione tra fiction e filosofia, che, se non altro, era innovativa rispetto a romanzi che prevedevano solo l’uso di personaggi famosi, per farli diventare improbabili detective (da Dante a Oscar Wilde, passando per tutta una sfilza di primari e comprimari). Qui c’è un racconto, più che un romanzo, tutto incentrato, se ben guardiamo, su di un paio di libri della Politica di Aristotele, e la parte di fiction non solo è rilegata al contorno, ma quasi non si vede, quasi non viene neanche scritta. Ha un bel dire il notista che c’è un furto, un assassinio, ed altre attività di ricerca da para – detective, ma sono veramente esauribili in tre pagine e con poco sforzo. Certo sono di rinforzo all’idea che sottende il racconto, e che è esemplificata dalla lunga parabola (la favola del titolo) dei due corvi bianchi. Corvi antagonisti, che rubano, che si fanno i dispetti, e che alla fine faranno una diversa fine, proprio seguendo i detti della parabola sul governo della città del Secondo libro della Politica. Ha buon gioco poi, la nostra filosofa a scrivere una bella post-fazione che, per i pochi che non lo avessero capito, fa vedere quanto questa favola (mutuata dall’antichità) sia attuale proprio nel momento di crisi che attraversa la politica ed il buon governo. Ci sono tutti i soliti personaggi della Doody (Stefanos l’io narrante, Aristotele, Teofrastos e gli altri dell’Accademia) e poi i cittadini ateniesi emblemi (totemici?) delle categorie narrate. Simmaco che a parole si professa buon cittadino, ma che cerca di frodare il fisco con commerci illegali (diremmo oggi mazzette ed appalti). E sarà il secondo corvo bianco a rappresentarlo. C’è il cugino Caronide che accumula beni nascostamente professandosi povero, e nel suo solipsismo si isola dalla vita cittadina, immaginandosi nemici ad ogni dove. Ed è lui il primo corvo bianco. E la favola direte voi? Un corvo ruba pietre preziose (a mo’ di gazza ladra) ed un uomo (la polis) lo prende a ben volere, gli apre le porte del suo giardino e gli dà la sua acqua. A patto di continuare ad avere altre pietre preziose. Ed il corvo continua a rubare; ma ruba troppo, ed allora comincia anche ad accumulare e nascondere. Arriva il secondo corvo, invidioso. Che scopre il nascondiglio, ruba al ladro e si sostituisce nel ben volere della polis. Avendo perso tutti i suoi beni, il primo corvo viene scacciato. Ma si redimerà e diventerà un onesto cittadino. Il secondo corvo continuerà a rubare ed anche lui ad accumulare. Fino a decidere che preferisce i beni per sé che per la polis. Ma come chi troppo sale, spesso scende precipitevolissimevolmente, così… E non ve lo dico. Che poco più di 90 pagine in ottavo si possono far leggere anche da sfaticati lettori (e voi non lo siete). Dicevo: senz’altro è un buon sunto dell’idea di città e comunità di Aristotele, dove tutti (anche gli stranieri, i meticci) convergono al bene comune, pagando per i servizi comuni. Questa comunità non disdegna la proprietà privata (non siamo ai prodromi di comunismo, suvvia), ma il bene di tutti è comunque il fine della condivisione. Che non a caso nasce (Libro Primo) nella prima idea di “polis” quella dell’unione tra uomo e donna, nella famiglia. È lì che il bene comune della famiglia è garantito dal bene individuale dei componenti della stessa. Ma stiamo andando un po’ troppo sul filosofico (mi faccio prendere la mano). Certo che vedendo il gretto utilitarismo personale di molti nostri politici, questi trattati sul buon governo andrebbero letti e commentati in ogni piazza. Ringrazio la Doody di avercelo ricordato, ma spero che torni presto ad allungare i brodi filosofici con qualche sapore più deciso, con qualche “mistero”, e con quel po’ di peperoncino che ci davano il giavellotto o la poetica, ed altro. Minore, forse estivo (anche perché chi conosce la Doody si aspettava di più e chi non la conosce mi sa che lo salta a piè pari).
“È un modo per offrire il mio contributo ad una città che amo e in cui ho scelto di vivere … Non possiamo dispiacerci di pagare le tasse per sostenere la comunità che amiamo.” (21)
Matilde Asensi “L’origine perduta” BUR euro 10,90 (in realtà, scontato 8,17 euro)
[A: 15/07/2012 – I: 29/08/2012 – T: 03/09/2012]
[tit. or.: El origen perdido; ling. or.: spagnolo; pagine: 502; anno 2003]
Dopo un paio di prove in minore, con questo libro, la scrittrice spagnola mi ha riportato ad un discreto livello, di fattura e di interesse, verso un romanzo storico – avventuroso. Ritorna a muoversi nel presente (come aveva fatto nel primo “La casa d’ambra”) con qualche mistero che viene da lontano. Anche la compagine che si muove su e tra i misteri è più interessante delle ultime prove lette, creando un bel connubio di interesse e conflitto tra informatici ed hacker da una parte ed umanisti e archeologi dall’altra. Il tutto condito con la salsa di qualche sorgente primigenia perduta, che mi ha subito riportato all’inizio dei miei viaggi per il mondo. Di quelli intenzionali, ovviamente, quando si decise di affrontare le sorgenti del pensiero extra-europeo, facendo uno di seguito all’altro i viaggi in Egitto, in Cina ed in Perù. Il filone avventuroso della trama si snoda attraverso le vicende narrate in prima persona da Arnau, un (ormai) ricco informatico, che, partendo da una sua natura ribelle ed anti-relazionale di hacker, ha fatto bei soldini con società “.com”. Ed ora si trova ad affrontare il mistero dell’apparente agnosia del fratello archeologo. Per capire la natura della malattia, Arnau, aiutato dai suoi fidi alter-ego Marc e Lola, decide di buttarsi a capofitto nelle ricerche di Daniel, ipotizzando (abbastanza facilmente) che siano correlate con quanto sta avvenendo. I tre si imbattano quindi nella cosmogonia Inca e nella lingua aymara, da subito individuata (anche sulla scorta di una conferenza di un tale Umberto Eco in America nel 1996) come possibile lingua perfetta. Lingua duttile e non binariamente aristotelica (non la conosco ma pare che in essa non valga il principio “tertium non datur” e, in maniera rovesciata rispetto alle lingue occidentali, si pone il futuro dietro alle spalle ed il passato davanti), che pare non aver lasciato testimonianze scritte. Ben presto (ma noi visitatori del Sud America già lo sapevamo) si scopre invece l’esistenza di tessuti e trame di lana che non sono altro che modalità di scrittura. Scontrandosi, e poi alleandosi, con l’equipe archeologica del capo di Daniel, guidata dall’interes-sante Marta, un gruppo ristretto di 3 informatici e 3 archeo-antropologi, decide di buttarsi nella foresta amazzonica alla ricerca della radice del mistero. Non prima di aver passato pagine e pagine, che ho letto con immagini e immagini che passano dietro agli occhi, in Bolivia a La Paz e poi a Tiwanacho, un sito che ho esplorato a fondo nella penultima visita boliviana. Un sito all’apparenza povero, ma in realtà (ed il libro ne dà una spiegazione interessante) denso e fondante. Anche perché sulle rive del lago considerato uno di quelli primigeni (il Titicaca) e perché teatro delle gesta sia del mito “Viracocha”, il Viaggiatore venuto dall’altrove (non si sa se altrove dall’America o dalla Terra) sia del primo imperatore, il grande Inca Manco Capac. Ho ritrovato miti e leggende, ma anche testimonianze di quanto visto nelle scorribande andine (ed è stato un piacere sottile). Il gruppo, tra peripezie ed agnizioni, riesce a trovare il bandolo della matassa, sia della scomparsa della stirpe dei Capac, sia delle possibilità della lingua aymara, sia di una possibile cura per Daniel (e non vi dirò se funzionerà o no). Alla fine, in ogni caso, dall’Inferno Verde, si ritorna alla natia Barcellona. I nostri avranno soprassalti di saggezza, laddove il mondo non è ancora in grado di apprezzare un utilizzo superiore al 5% degli emisferi cerebrali. Ma soprattutto il nostro Arnau scoprirà le connessioni tra informatica, cervello e scoperte, riuscendo a creare un ponte fra mondo scientifico ed umanistico (ognuno dei due è migliore se collabora con l’altro). Decidendo di dedicarsi alla radice dei problemi: l’evoluzione. Perché poi tutto il discorso, inventato e para-scientifico, si riduce alla ricerca della comprensione di come siamo arrivati ad essere quello che siamo. Non tanto per entrare, in modo errato, in una battaglia tra evoluzionismo e creazionismo, quanto per raccogliere tutte le testimonianze al fine di poter interpretare meglio quanto ci circonda. Certo, ho caricato un po’ qualche aspetto dello scritto che mi ha stimolato, e che consiglio come libro di avventura piuttosto che come saggio antropologico. Ma a me, è piaciuto. Una buona risalita, dopo alcune letture non troppo esaltanti.
“Nella vita si impara, si sperimenta, si matura, ma cambiare, in effetti, non si cambia molto.” (23)
A chi (e non sono pochi) sostiene che qui si legga soltanto (fatto salvo che negli ultimi mesi poco tempo per fare altro mi rimane), consiglio anche l’ultimo film che ho visto. Non eccezionale, ma dignitoso. “Il comandante e la cicogna” di Soldini, con alcuni intarsi garibaldini ben curati. Intanto si avvicina anche il ponte dei morti e forse una nuova gita in campagna (nonché un saluto a chi ho finalmente aggiornato la rubrica).

domenica 21 ottobre 2012

Scandinavi - 21 ottobre 2012


Stavo quasi per fare un’infornata svedese, ma nel mazzo si è inserita la norvegese Holt, per cui facciamo una trama che ripensi le atmosfere dell’estate 2011. Certo, continuano a latitare i finlandesi, categoria di scrittori non molto presente nei miei scaffali. Abbiamo l’ultimo episodio finalmente uscito del commissario Beck, la saga di quarant’anni fa che inaugurò un buon filone di giallo sociale. Abbiamo il secondo episodio del commissario Barbarotti. Abbiamo un nuovo episodio dei personaggi norvegesi, dove si incontrano Hanne Wilhelmsen, la prima eroina dei romanzi della Holt, e Johanne Vik e Yngvar Stubø, protagonisti degli ultimi suoi libri. Ed abbiamo la nuova entrata, Erica Falck (ed aspettiamo le nuove uscite della Läckberg).
Camilla Läckberg “La principessa di ghiaccio” SuperPocket euro 6,90
[A: 29/07/2011 – I: 28/03/2012 – T: 31/03/2012]
[titolo: Isprinsessan; lingua: svedese; pagine: 458; anno: 2003]
E così abbiamo conosciuto un’altra giallista del grande Nord. La svedese Camilla, classe ’74, definita dai risvolti editoriali l’Agatha Christie scandinava, definizione che mi pare un tantino fuori luogo, che per scrivere di Miss Marple la britannica attese il quarantesimo anno, e le atmosfere di Poirot sono decisamente diverse. Fatta quindi la tara alle banalità pubblicitarie, abbiamo una scrittrice di un certo interesse, di buone capacità descrittive e sicura atmosfera. Pensando anche che ha scritto questo suo primo libro a 29 anni. E pare (ma lo vedremo nel futuro) che questo sia il primo romanzo con protagonista Erica Falck. Il romanzo in sé inizia in discreta sordina e fatica un po’ a decollare. Nelle prime pagine assistiamo alla morte di Alexandra detta Alex, che viene ritrovata nella vasca da bagno, con i polsi tagliati, ghiacciata con tutta l’acqua intorno. La principessa del titolo, ovvio. Lentamente facciamo quindi la conoscenza della cittadina di provincia, a due ore di macchina da Göteborg, ma in riva al mare (sarà nella Scania tanto cara al commissario Wallander?). Dove ha casa la famiglia Falck, dove ora si è rifugiata Erica, dopo la morte dei genitori in un incidente d’auto. E dove Erica aveva trascorso una bellissima infanzia, proprio con Alex. Nessuno crede in un suicidio, ed Erica tenta di ricostruire la vita di Alex, dal momento della loro inspiegabile rottura di quando avevano 12 dodici anni. La famiglia di Alex fa fortuna, si trasferisce a Göteborg, nasce la sorella Julia. Alex studia arte, si laurea, si sposa, apre una galleria d’arte con l’amica Francine. E parlando con Francine, Erica scopre che a) Alex non ha mai amato il marito; b) aveva una storia d’amore non si sa con chi; e c) era incinta. Nel frattempo conosciamo altri personaggi, che credo torneranno nelle storie successive. Patrik, poliziotto locale, che da solo e poi con Erica, comincia a ricostruire tassello dopo tassello le storie che probabilmente hanno portato a questo epilogo. Anna, la sorella di Erica, sposata ad un losco affarista pseudo-inglese, con il quale ha fatto due figli, ma che la maltratta al limite della rottura (che forse ci sarà, vedremo). Ed i vari personaggi della polizia locale, da Annicka che aiuta Patrick a Berti, il capo, che invece sembra un troglodita che sarebbe bene andasse in pensione quanto prima. E poi i personaggi legati alla vicenda. Dan, il primo amore di Erica, da cui la Bridget Jones di Stoccolma non sembra ancora essersi ripresa, anche se Dan è felicemente sposato a Pirnilla, e con prole. Anders, altro amico d’infanzia di Alex ma non di Erica, pittore maledetto, ubriaco a tempo pieno che dipinge quadri dai colori bellissimi, che pare abbia, avesse, o altro, una storia con Erica, ed è il maggior sospettato. Almeno finché non muore anche lui. La famiglia Lorentz, i potenti del paese, con l’anziana Nelly che guida tutti con il pugno di ferro, da quando più di 20 anni prima, il figlio maschio scompare, il marito muore d’infarto, e lei adotta un ragazzo sbandato che, pare, subisse abusi dai genitori, e che per questo incendia la stalla forse lasciandoli morire. Nelly che comanda anche i genitori di Alex, chiedendo e disponendo, che comanda anche Vera, la sua vecchia domestica nonché, a sua volta, madre di Anders. Ce n’è di carne da cuocere in questo grande calderone. Si possono imbastir tante vicende e tanti modi di legare e sciogliere i problemi. Che in un paese piccolo, tutti sanno tutto. Ma forse non si parla. Per rispetto. O per la natura riservatezza che gli Scandinavi riservano alle cose private. Comunque, Patrik si trova ben presto invischiato con Erica, scrittrice anche di biografie di donne svedesi e famose. Ed almeno lì, sembra nascere (vedremo poi) un bel rapporto d’amore. Ed il loro sodalizio, facendo scivolare più rapidamente la seconda parte del libro, porta alla fine allo scioglimento di tutti i nodi e di tutti i cadaveri della vicenda. Gli attuali, i passati. Insomma, una vicenda che decolla nella seconda parte, non dico in maniera travolgentemente avvincente alla Nesbø, che mi è piaciuto di più, ma con sicuro piglio. Anche perché Erica, da scrittrice fredda ed un po’ spaesata, diventa una cicciottella simpatica (che si mette mutande contenitive al primo incontro per essere più sexy, non pensando che, se veramente sexy, poi si dovrebbe mostrare senza vestiti), e ragionatrice, ed ironica. Uno svolgimento classico, anche se i nodi al pettine sono un po’ scontati. Tuttavia di simpatia e di compagnia.
Anne Holt “La porta chiusa” Repubblica Noir euro 6,90
[A: 29/07/2011 – I: 28/06/2012 – T: 29/06/2012]
[titolo: Presidentens Valg ; lingua: norvegese; pagine: 411; anno: 2006]
Constatato preliminarmente che c’è un bel salto tra il titolo norvegese (Elezioni presidenziali) e quello italiano. E ribadito che entrambi non c’entrano che una parte della problematica di questo tutto sommato decente giallo norvegese. Veniamo a parlarne. Anche perché segna un bel punto di incontro tra le due serie della scrittrice ex-ministro. Qui, infatti, convergono Hanne Wilhelmsen, la prima eroina dei romanzi della Holt, e Johanne Vik e Yngvar Stubø, i due eroi degli ultimi romanzi. La trama è anche ben articolata: durante la prima visita ufficiale all’estero del neo eletto presidente degli Stati Uniti (o meglio Presidentessa, visto che è la prima donna ad essere eletta), questa viene rapita in un albergo di Oslo. Si caccia subito alla grande, vengono in massa FBI ed altri intelligence americani. Tra cui l’intelligente ma odioso Scifford, che nel passato, ma non sapremo bene perché, ha avuto un burrascoso rapporto proprio con Johanne. E che pare anche abbia avuto una storia con il Presidente Helen. Si crea subito tensione tra i cow-boy ed i pacifici ma solidamente corretti nordici. Ed a far da ufficiale di collegamento viene incaricato Yngvar (guarda tu). La moglie minaccia ed attua di lasciarlo per questo, e si rifugia dall’amica Hanne. Intanto si infittisce il mistero della scomparsa. Donne simili vengono avvistati in tutto il paese. Si pensa ad Osama. Ma, seppur sul versante arabo, veniamo a conoscenza che si tratta di una vendetta privata, del ricchissimo Abdallah, che da decenni trama nel silenzio una vendetta per l’inutile morte di suo fratello. Una trama complessa e costosa, che prevede di trascinare nel panico gli Stati Uniti, privandoli della guida, poi del petrolio e poi della televisione. I miti americani, che diavolo. E tutto questo, utilizzando centinaia di micro-incidenti, da parte di centinaia di persone che nulla sanno l’una dell’altra. Intanto il sodalizio Hanne – Johanne porta prima a capire come è stato attuato il rapimento. Poi, con un gioco di parole basato sul non tradotto termine inglese “child” che può indicare sia un figlio maschio che una figlia femmina, le motivazioni della riuscita del rapimento stesso. E degli scheletri che tutti hanno nell’armadio, anche il potente ed incorrotto Presidente Helen. Che guarda caso aveva avuto in gioventù una storia con un immigrato arabo, tale Ali (che ora si è naturalizzato, de-islamizzato, e si fa chiamare Al), il cui fratello è, guarda caso, l’unico amico “vero” del potente Abdallah. E guarda caso, gli uomini dell’arabo trovano un insonorizzato studio di registrazione dove rinchiudere Helen, che, guarda caso, è nello stesso condominio dove abita Helen. Intanto Yngvar, procedendo come un carro armato sulle tracce concrete, riesce a smantellare pezzo dopo pezzo la costruzione dei momenti di rapimento e dei coinvolti ma ignari norvegesi. Insomma, i nostri fanno la loro porca figura, rispetto ai poco chiari, ambigui quando non corrotti americani. Soprattutto il nostro Scifford, che in realtà è l’unico ad aver capito la trama, ed in quanto tale non verrà mai cassandramente creduto. Tutto si risolve. O almeno nelle parti più visibili. Che non ci si aspetti che Abdallah sia accusato di nulla, lui che si muove nell’ombra e non si muove da Riyad. Il resto si incastra e si spiega. Ed anche l’amore tra Johanne e Yngvar (che adora in quanto orso panzone) continuerà, almeno fino a nuovo ordine. Una trama consistente, scritta con penna scorrevole. E, per finire ma non guasta, alcuni cenni alla bella cittadina di Oslo, e soprattutto al quartiere dove vive Hanne, il bellissimo Lokka, che mi riporta allo scorso anno, alle passeggiate, e ad un gradevolissimo ristorante.
Maj Sjöwall & Per Wahlöö “Terroristi” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato 12,75 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 05/09/2012 – T: 09/09/2012]
[titolo: Terroristerna ; lingua: svedese; pagine: 561; anno: 1975]
Ed eccolo, finalmente, il decimo ed ultimo volume della saga di Sjöwall & Wahlöö. La coppia svedese aveva programmaticamente deciso di scrivere dieci romanzi accomunati da uno stesso sotto-titolo “Romanzo su un crimine”, ed imperniati sulla figura del commissario Martin Beck. L’idea era di descrivere, in un certo senso, di parlare della vita quotidiana di una stazione di polizia alle prese con una serie di attività criminose. Di seguire il lavoro delle forze dell’ordine, come si direbbe ora ‘day by day’. In parallelo questa descrizione sarebbe anche servita a presentare i problemi della società svedese, i guasti dell’assistenzialismo selvaggio, il lassismo che ne deriva, le storture di una società basata sul mercato, quando questo si spinge all’eccesso. Cominciando con dei romanzi molto “polizieschi” (ricordo che il primo “Roseanna” si incentrava sulla morte di un passeggero di una nave), e, una volta catturato il lettore, proseguire con romanzi dal risvolto sempre più politico. O che contenessero sempre più interventi di critica sociale. Abbiamo seguito questa parabola passo dopo passo, anche se con 40 anni di ritardo. Rimarcando tuttavia che quello che allora si poteva dire della società svedese, si è pian piano esteso a molte società occidentali (e non solo). Romanzi con alti e bassi (come ho detto recensendoli tutti), ed ora anche noi mettiamo il punto finale. Su quest’ultimo romanzo che è anche il più politico, e forse per questo riesce a volte un po’ prolisso e divagante. Inoltre la struttura è complessa anche sul piano poliziesco, dove seguiamo varie vicende che sembrano a prima vista slegate. Per poi ricomporsi in un unico grande rompicapo. Una ragazza viene accusata di una rapina in banca. Invece, è solo una persona che si fida troppo degli altri, e, con amarezza, Sjöwall & Wahlöö fanno vedere quanto sia doloroso farlo. La rapina non è altra che una serie di equivoci ben presto smontati, anche senza la testimonianza di un certo Petrus. Che nel frattempo viene ucciso. Morte che Beck risolve lentamente ed in parallelo all’attività principale che gli viene affidata nel romanzo: l’organizzazione delle forze di sicurezza in vista della visita di un poco gradito senatore americano. E riuscendo gli autori a dare qui un colpo al sempre più evidente sfruttamento del sesso da parte della società svedese (Petrus, infatti, era un produttore di film porno). Il senatore è, infatti, mal visto da destra e da sinistra (anche se più da questa per le sue posizioni sull’invasione del Vietnam e sul golpe in Cile). E molti lo vogliono morto. Sopratutto un’organizzazione (tipo una CIA multinazionale) che seguiamo in altri e vari attentati riusciti. E che su Stoccolma fa intervenire la sua squadra migliore, guidata da un sudafricano (ovviamente anche razzista). Beck, con l’aiuto di un nuovo alter-ego, l’insopportabile ma pur bravo Gunvald Larsson (potenza delle iniziali!), impiega 300 delle quasi 600 pagine per arrivare ai bandoli della matassa (plurale perché sono più d’uno). E trovare ingegnosamente il modo di sventare l’attentato più pericoloso (tanto ingegnoso che devo dire mi ha decisamente meravigliato). Ma Sjöwall & Wahlöö non sono consolatori. E ritirano in ballo la ragazza di cui all’inizio, che abbiamo scoperto avere un figlio con un americano fuggiasco dagli States per non andare in Vietnam. E che le autorità (svedesi e americane) convincono a tornare in patria millantando indulgenza. Promessa tragicamente tradita, con tristi conseguenze per Jim, per Rebecka ed anche (ma qui lo intuiamo soltanto) per la piccola Camilla. Detto ciò, ritorniamo a quelle digressioni politiche presenti due pagine su tre. C’è, ovviamente, quella contro la politica americana in Vietnam. Ma anche contro i passati re svedesi, accusati di collusione con i nazisti, contro la falsa socialdemocrazia svedese, che tradisce entrambi le parti del suo nome. Contro i poliziotti scemi e la presupponenza del potere. Tanti i contro, funzionali al discorso politico dei due, ma alla lunga anche un po’ pallosi. Per fortuna che si salva il lato personale. Che almeno Martin trova conforto tra le braccia della simpatica Rhea (un’ottima cuoca tra l’altro). E si intuisce (si spera?) una bella prosecuzione tra i due, malgrado (o forse grazie) anche alla differenza di età. Storia che tuttavia non seguiremo, fermati da una X alla fine del libro (di cui lascio il mistero). Non sarebbero comunque andati avanti, Sjöwall e Wahlöö. Aiutati purtroppo dal misterioso fato, che fa morire il buon Per poco dopo l’uscita del romanzo. E Maj non ritornerà mai (scusate il bisticcio) sulle storie del commissario Beck, anche se continua a scrivere, e lo fa tuttora sulla soglia degli ottanta anni. Nel complesso, tuttavia, una storia intrigante, soprattutto se traguardata nello scorrere dei dieci romanzi. Non eccelsa, ma globalmente leggibile e piena di spunti anche attuali. Dispiace solo (ma ora si può rimediare) che Sellerio abbia fatto uscire i libri in ordine casual. Adesso, chi vuole, può leggerli cronologicamente. E lo sguardo totale ne giova.
Håkan Nesser “Era tutta un’altra storia” TEA euro 9 (in realtà, scontato 7,55 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 14/10/2012 – T: 19/10/2012]
[titolo: En helt annan historia; lingua: svedese; pagine: 528; anno: 2007]
Ed eccoci alla seconda puntata della saga che ha per protagonista il commissario italo-svedese Gunnar Barbarotti. Devo dire che, a parte alcune lentezze, mi è decisamente piaciuta. In tutto l’impianto, oserei dire: la parte poliziesca, la parte misteriosa (su cu non torno), la parte sulla vita privata del commissario, dei poliziotti, e di Marianne. Insomma, una costruzione pensata e coerente, con soltanto due punti minori, che personalmente non ho capito e/o decifrato e che mi impediscono di dare il massimo dei voti al nostro Håkan. Vi dico subito che sono la mancanza di spiegazione (esplicita) delle motivazioni per cui arrivano le lettere al commissario e quale sia il punto in cui il questore (credo sia questa la qualifica) Asunander arriva a decifrare il caso. Caso che si risolve sempre intorno al titolo, seminando per tutte le 500 pagine indizi che poi portano in direzioni diverse da quelle che sembrano inizialmente. La storia, lineare, sarebbe poi la seguente: al commissario Barbarotti arrivano delle lettere che annunciano la morte di alcune persone (una persona per lettera, più o meno). Non si capiscono le motivazioni. Fatto sta che le persone cominciano a morire, e le prime indagini della polizia non fanno luce su nessun motivo per cui possano essere assassinate. Sembrano in realtà scelte a caso. E come dice il nostro Gunnar, un serial killer che sceglie a caso le vittime, ed ogni volta cambia il modus operandi, è praticamente impossibile da scovare. Queste morie si innescano sui problemi personali del buon commissario. Separato dalla moglie, che è andata a vivere in Danimarca con i due figli più piccoli (poco più che decenni), vive con la figlia grande Sara, ora quasi ventenne, che intanto si è trasferita a Londra dopo la maturità. Sta intrecciando una relazione con la simpatica (almeno a me) Marianne, che vive a 250 chilometri da Kymlinge (questo è un luogo inventato, ma dove Nesser è riuscito a costruire una comunità che rappresenta un momento svedese tipico), separata con due figli più o meno quindicenni. E la storia delle lettere si intreccia con i momenti in cui Gunnar cerca di capire se, e poi chiede a Marianne di unire le loro vite. In parallelo c’è la personale mania del commissario, che instaura un suo dialogo interiore con il protagonista della Bibbia, facendo una gara a punti sull’esistenza di, come lui rispettosamente chiama, “Nostro Signore”. Ed al momento clou della vicenda, l’esistenza ha un vantaggio di 11 punti. Su tutto questo impianto, che scorre nei mesi di luglio e agosto del 2007, si inserisce una narrazione parallela, in prima persona, di avvenimenti che si sono svolti nello stesso periodo cinque anni prima. Dove casualmente, in Bretagna, si sono ritrovati una combriccola di svedesi. Che ridono, scherzano, fanno gire in mare. Ed una di queste, verso Les Glénants di renatiana memoria, una ragazzina fortuita passeggera, muore in mare. Il gruppo decide di occultare la vicenda, e ben presto si scioglie. Peccato che gli assassinati siano le persone che fanno parte del gruppo stesso. Su questo doppio binario si innesta anche la persecuzione che i poliziotti hanno dalla carta stampata, anch’essa allertata dalle morti. Ed i nervi saltano a Gunnar che malmena un giornalista. E Marianne si domanda se ce la può fare a vivere con un poliziotto. E l’ex-moglie di Gunnar decide di spostarsi in Ungheria e rimanda i due figli a Gunnar. E Sara torna da Londra. E … Ma che casino. Intanto è il capo di Gunnar, lo strano Asunander che risolve il mistero insinuando dei dubbi e imprendo una svolta alle indagini. Perché, appunto, è una storia diversa, come dice il titolo svedese, che anche la soluzione non viene trovata dal protagonista ma da altri. Appunto che tutto è visto in maniera un po’ laterale e sghemba. Ma proprio questa è la caratteristica che mi è di molto piaciuta. Il fatto è che niente sia come sembri. E che la soluzione al caso non la porti Maigret, ma il suo aiutante in campo Janvier. Straniante, ma efficace. Aspettiamo altre vicende, con rinnovato interesse.
Siamo ancora nel caldo estivo, nonostante il calendario ci porti già nella seconda metà di ottobre. E stiamo quasi alla fine della gran massa di compleanni bilancini, tra cui cito, prima inter pares, la mia mamma, ancora, e fortunatamente, sulla breccia dell’onda. Gli altri li so, e li ho festeggiati. In questa fine giornata, allora, ancora un pensiero che vola ai miei amici, vicini e lontani.

domenica 14 ottobre 2012

Et revenons. 14 ottobre 201


Ai nostri montoni, come diceva il primo testo che la mia vecchia professoressa di francese citava a piè sospinto. Torniamo cioè ad autori francesi. Anzi, li ritroviamo che già di loro si è letto. Qui Schmitt l’ho trovato in ribasso, mentre, per diversi motivi, gli altri tre sono di buon livello. Sia per il ricordo del Mali, o dell’Armenia. O solo per riflettere sui rapporti umani, come ci fa fare Khadra.
Eric-Emmanuel Schmitt «Ulysse from Bagdad » Livre de Poche euro 7,30 (in realtà, scontato con FNAC BXL 7 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 20/06/2012 – T: 22/06/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 275; anno 2008]
Sono un poco dispiaciuto di questa lettura del mio peraltro benvoluto E-E (Eric-Emmanuel). D’altra parte, come ho rimarcato in altre trame, non sempre un autore a me caro mi rimanda livelli di godimento come in altri suoi scritti. Qui l’operazione generale di Schmitt non è formativa come in Monsieur Ibrahim, non è liberatoria come nelle favole dei suoi racconti brevi, non è ironica come nel teatro dei crimini coniugali. È una storia che cerca di mettere a fuoco alcuni aspetti delle contraddizioni odierne, mettendosi (come spesso accade in Schmitt) nei panni di un altro. In questo caso dell’irakeno Saad Saad. E portandoci in soggettiva nella sua storia, facendocene passabilmente partecipi, con un breve volo sull’infanzia e la giovinezza sotto Saddam, ed una lunga disamina del presente post-invasione (o post-liberazione?). Ma il tutto gestito sulla falsariga del viaggio di ritorno di Ulisse da Troia verso Itaca. Cerca di metterci molto dello spirito omerico (gli interventi del padre morto a guisa degli interventi degli dei dell’Olimpo, i lotofagi, la fuga da Polifemo, Nausicaa, Didone, le sirene, e molto altro). Con due grosse differenze: non c’è Penelope in fondo al viaggio; non è un ritorno ma una fuga. E Saad non ha la spigliatezza ulisseide, neanche se rivisto con gli occhi di chi ha letto Jean Giono e la Nascita dell’Odissea. Intanto, mi aveva storto dalle prime righe quando l’io narrante si presenta, dicendo di chiamarsi Saad, che vuole dire Speranza in arabo, ma non Triste in inglese che fa solo Sad. Giocare con i nomi, facendo qualche piccolo inganno è una cosa che mi manda fuori di sentimento. Poi c’è quella assurda morte del padre (ma quali non sono e furono assurde nelle tutt’ora imperversanti guerre mediorientali?). E soprattutto, quel tornare del fantasma del padre morto, a far da contraltare e compagno al lungo viaggio di Saad. Certo, ha la sua funzione retorica, ma mi manca la sua funzione realistica. Infine questo ripercorrere un viaggio omericamente scandito, certo ha il solito fascino delle costruzioni intellettuali (quando si riconoscono i passaggi che l’autore cerca di camuffare) ma lascia perplesso per la sua funzione narrativa. Infatti, se segui Omero, io mi aspetto ad ogni cambio di scena la riproposizione di un diverso momento omerico, perdendo di vista quello che mi stai cercando di narrare. Se ne vuoi fare ironia, questa si perde. Se invece vuoi usare il viaggio come metafora, e Ulisse come eponimo dei migranti attuali, la costruzione fatta in questo modo perde di incisività, di spontaneità. Rimane certo quel bel passaggio sugli emigranti che viaggiano con troppi bagagli o che partono leggeri. Quelli con i bagagli, in realtà, non partono mai, si spostano ma portano sempre con sé il loro io, il loro problema, quello che li ha spinti alla partenza. Mentre il buon viaggiatore parte leggero, pronto ad approfittare del nuovo paesaggio, a modificarsi, ad adattarsi. Ma dopo questo mini-saggio, il resto naviga da una città all’altra, da una nazione all’altra. Finendo lì dove Saad voleva arrivare. Ma sarà giusto essere giunti sino a lì? E ci si è arrivati leggeri, come si era decisi, o, pur senza bagagli, si è ancora dei cattivi emigranti che portano tutti i problemi con sé stessi? Anzi dentro sé stessi. Io propendo per la seconda ipotesi. Dopo anche che ci sono tutta una serie di passi con giuste invettive su personaggi cattivi e poco affidabili, ma anche su doganieri comprensivi e disposti all’aiuto. Tutto un mondo, direte voi. Certo, ma poco partecipato e partecipativo. Tant’è che la fine lascia freddini e dubbiosi sui motivi della scrittura. Hai scritto di meglio. E di meglio di tuo leggerò, senza dubbio. Alla prossima E-E.
“Le plus difficile dans une discussion, ce n’est pas de défendre une opinion, c’est d’en avoir une.” [La cosa più difficile in una discussione, non è difendere un’opinione, ma averne una] (43)
« Le passé n’est pas un pays qu’on laisse facilement derrière soi. » [Il passato non è un paese che si lascia facilmente dietro di sé.] (194)
« L’homme n’aurait jamais dû devenir sédentaire, il aurait dû rester nomade, ainsi il n’y aurait pas de frontières. » [L’uomo non sarebbe ma dovuto diventare sedentario, sarebbe dovuto rimanere nomade, così non ci sarebbero state le frontiere.] (242)
« Les rêves ne nous apprennent pas ce qui va se passer mais ce qui se passe. » [I sogni non ci insegnano del futuro ma ci parlano del presente.] (175)
Gilbert Sinoué “Erevan” J’ai lu euro 7,60 (in realtà, scontato con FNAC BXL 7,30 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 08/07/2012 – T: 11/06/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 376; anno 2009]
Un libro almeno da meditare. Dopo “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan (e lo struggente film che ne hanno tratto i fratelli Taviani), dopo un viaggio in Armenia finito in Provenza, dopo un trekking sul monte Ararat mai cominciato, dopo una commemorazione del genocidio armeno cui ho assistito una Pasqua tardiva a Gerusalemme, torniamo a concentrarci sull’Armenia, e, visto che siamo qui per questo, sulla scrittura. Che qui affrontiamo due corni del problema: da un lato il fatto in sé e dall’altro la scrittura di Gilbert Sinoué, di cui si è letto (e con gusto) la storia di Avicenna e quella del ragazzo di Bruges sulla nascita della pittura ad olio. Lo strano scrittore casualmente nato al Cairo, ha scritto poi anche altre cose che mi incuriosiscono (e prima o poi troverò la storia del papa Callisto I°), avendo sempre (o spesso) questa cifra di scrittura tra il vero, il verosimile ed il romanzesco, quasi che dovesse partire da basi solide prima di spiccare il volo. E certo, qui di basi solide ce ne sono. Che appunto la storia armena degli ultimi 150 anni ne è piena. Come immaginabile, si concentra giustamente sul periodo centrale, sul periodo turco. Con un inizio una ventina d’anni prima, sempre ad Istanbul, ed un’appendice qualche anno dopo, in una Berlino non ancora nazistizzata. Non vi complico la vita con gli impronunciabili nomi armeni (dove per fortuna i cognomi finiscono tutti in –ian), ma giocando sui due registri Sinoué narra l’epopea di una famiglia, che prima partecipa alla rivolta del 1896 con l’occupazione della Banca Ottomana, poi prosegue con l’appoggio alla rivolta dei Giovani Turchi del 1909, che sembrava annunciare aree di liberalizzazione. Infine si incentra sui due nipoti del rivoluzionario, che all’epoca dei fatti sono tra 13, lui, ed i 17, lei. Dell’amorazzo di lei per il bel giovane in partenza per la Germania. E da lì, dalla periferia dell’Impero, seguiamo il precipitarsi degli avvenimenti. La costituzione delle bande armate anti-armene. Fino al grande massacro iniziato il 24 aprile del 1915. Tutti gli uomini della borghesia turca vengono imprigionati in Costantinopoli e poi barbaramente uccisi. Le popolazioni rurali, per fittizi motivi di sicurezza, vengono deportate e cominciano a vagare scortate da Erzegoum a Urfa ad Aleppo al deserto siriano. Ogni volta sempre di meno. Anche la nostra famiglia viene deportata, salvandosi solo il più giovane che, nell’appendice berlinese, ritrova il bel giovane innamorato della sorella. Fanno parte di una setta segreta chiamata Nemesis, che si occuperà di uccidere i vari responsabili dei massacri, lasciati impuniti dalla giustizia turca. Tanto che il Thelirian diventerà un eroe per il popolo armeno. Lo scritto non ha la crudezza della Arslan, anche se non mancano scene forti. Ha però il merito di cercare di spiegare (o di cercare di comprendere) motivi ed atteggiamenti del genocidio. Perché il triumvirato uscito dalla rivoluzione dei Giovani Turchi diventa poi artefice ed organizzatore del massacro? In nome di un ideale pan-turco, che voleva vedere fuori dai piedi prima gli armeni, poi i curdi, i circassi e via discorrendo? E quale fu anche il ruolo dei curdi, all’epoca sodali e solidali con il potere e poi anche loro in via di sterminio? Questa la parte migliore, la descrizione della mollezza dei costumi dei governanti (mi ricorda qualcosa…) che porta popoli alla rovina. C’è da chiedersi, tornando al primo corno del dilemma sopra esposto, perché poi questo massacro sia stato ignorato per decenni. Solo recentemente alcune nazioni parlano di genocidio (e solo 21 paesi lo hanno bollato così ufficialmente), ed i governi turchi ancora lo tengono nel cassetto. Tento che, per un’incauta frase, anche il Nobel Pahmuk ha rischiato di venir imprigionato. Certo non si può pensare che sia stata solo la follia di tre ufficiali anche se di alto grado, che abbia permesso lo sterminio di un milione e trecentomila persone (e come suggerisce altrove De Luca, utilizzo le lettere perché si tratta di persone). E certo non siamo sui sei milioni di ebrei, ma il numero è impressionante. Una ferita ancora aperta, che spero porti, almeno in occasione del vicino centenario ad un ripensamento generale e mondiale. Un solo unico appunto alla pur sempre fedele descrizione del nostro amico storico francese: la Manon che il vecchio nonno ascolta a ripetizione è cantata da Tito Schipa e non da un certo Tito Schippa!!
Erik Orsenna “Madame Bâ” Le livre de poche euro 8,40 (in realtà, scontato con FNAC BXL 8,10 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 27/07/2012 – T: 04/08/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 503; anno 2003]
Premesso che sono sempre affezionato ad Orsenna (e dopo vi ricordo perché) questo libro mi è piaciuto diciamo all’80% (ma già fin d’ora ne consiglio la lettura anche in italiano, essendo uscito da TEA a 8,60 euro). L’affezione avvenne per quella serie di libri scritti per la grammatica, con molta poesia ma anche con molta precisione (e tra un po’ ne cercherò un altro se ne ha scritto). E questo libro me lo ha riconfermato, riuscendo in una doppia operazione: scrivere un libro interessante sulla condizione della donna in Africa (ed anche se scritto da un uomo va bene) e scrivere sui guasti della colonizzazione (sia per i colonizzati che per i colonizzatori, a valle delle sue personali esperienze nel campo). Infine perché si svolge nel Mali. E mi ha dato finalmente un modo di guardare correttamente le diverse etnie: i peul, i bambara, i soninke, i Dogon e tutti gli altri che forse non ricordo. L’idea di partenza, che con maestria Orsenna sviluppa per almeno ¾ del romanzo, è questa: una donna, Marguerite Dyumasi sposata Bâ, si è vista rifiutare il visto per la Francia (e poi scopriremo perché), e per fare ricorso, analizza casella dopo casella, le risposte che le vengono chieste nel formulario standard. E per ognuna, apre un piccolo racconto, che alla fine ricostruisce la vita di una comunità maliana, che si trova tra Bamako e il Senegal. E la sua vita, figlia di un ingegnere delle acque con otto tra fratelli e sorelle, studiosa, poi innamoratasi di un nomade peul. Bella la pagina in cui il padre convince il futuro genere a sposare il nomadismo con la modernità, diventando macchinista per le locomotive della linea Bamako – Dakar. L’amore per il signor Bâ, la nascita e la crescita dei suoi otto figli, l’amore per il nipote Michel (chiamato così in onore di Platini). Ma anche i dolori e le morti: dei genitori, del marito. Il doversi ricostruire la vita. Rimboccarsi le maniche e diventare insegnante. Ed ogni volta scontrarsi con la burocrazia coloniale. Dice ad un tratto Orsenna che la corruzione dei funzionari francesi è anche dovuta alla connivenza con gli africani (così come gli schiavi venivano portati via dall’Africa con l’aiuto di capi tribù corrotti). Sono bruciature le pagine sulla costruzione di duecento metri di strada asfaltata nel deserto, che servono solo a riempire di mazzette francesi e maliani. Ma tante sono le pagine degne di essere sottolineate: tutte quelle in cui si fa vedere ad esempio, come poter dire quale sia il paese di nascita, per gente abituata a grandi spazi senza confini. O lo stato sociale, sposata, sola, vedova, quando i morti rimangono sempre vicino, prima e dopo la morte nel sincretismo africano. O la professione di questa donna di cinquanta anni, che ha dovuto cambiare stato sociale e lavoro e tanto altro prima di ritrovarsi ad essere tante cose senza riuscire a definirne una. Tutta la parte finale, di molto incentrata sul rapporto tra la Francia che attira come una forte luce le falene africane per farle bruciare nei miraggi di belle città, di soldi facili, di sfondare in poco tempo come divi del pallone. Tutta questa parte è di un dolore unico. Come dolore ha il ritrovare la corruzione tra i suoi stessi parenti: e sarà un fratello del marito, gran trafficone, che le farà rifiutare il visto dopo che lei non accetta le sue profferte sessuali. Ma la positività dell’africanismo della nostra signora non potrà che portarci del sorriso anche nelle situazioni difficili. E ci farà riconciliare con quelli, pochi ma esistenti, che sono corretti ed onesti. Non vi dirò come va a finire, che è bello tutto il percorso per partire dal grande nonno Osmane per arrivare al nipotino Michel. Ripeto, un bel libro e interessante, che noi reduci dal Mali si deve assolutamente leggere.
“Le savoir nous cache la vérité !” [Il sapere ci nasconde la verità!] (108)
“N’oublie jamais qu’un amour immobile est un amour mort.” [Non dimenticare mai che un amore fermo è un amore morto.] (148)
“[après du sexe sauvage] Tu t’imagines un enfant conçu dans cette position ? Forcément mal formé, les jambes au-dessus de la tête, un vrai Picasso !” [dopo aver fatto sesso selvaggio… Ti immagini un bimbo concepito in questa posizione? Sicuramente mal formato, le gambe sopra la testa, un vero Picasso!]  (177)
“La boussole et la télévision étaient de la même famille néfaste … Un piège qui vous force à regarder loin de vos racines, toujours vers le Nord, au-delà du bout du monde.” [La bussola e la televisione erano della stessa famiglia nefasta … Una trappola che costringe a guardare lontano dalle vostre radici, sempre verso il Nord, oltre la fine del mondo.] (350)
“Celui qui n’a pas compris la différence entre nomades et voyageurs, celui-là est un imbécile.” [Chi non comprende la differenza tra nomadi e viaggiatori è un imbecille.] (433)
“Aman Iman : l’eau c’est la vie, en bambara.” [l’acqua è vita, in dialetto bambara.] (482)
Yasmina Khadra « Ce que le jour doit à la nuit » Pocket euro 8,75 (in realtà, scontato con  FNAC BXL a 8,45 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 02/09/2012 – T: 13/09/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 441; anno 200x]
Dopo più di un anno di riposo dall’ultimo Khadra, quello del commissario, che alla fine mi aveva lasciato delle perplessità, riprendo in mano un libro dello scrittore algerino. Benché ormai allontanatosi dalla polizia, ed a tempo pieno dedito alla scrittura, mantiene il suo nom de plume, con il quale è ben conosciuto. Mi sono accostato allo scritto un po’ titubante. Non sapevo se la mancanza dell’eroe commissario mi avrebbe portato a sottostimare il libro. Non sapevo anche se la trama che elaborava mi avrebbe tenuto sulla pagina e fatto riflettere, come le sue prove cui ormai ero abituato. E di cui conoscevo meglio pregi e difetti. Alla resa dei conti, devo dire che il risultato, pur altalenante, non mi ha deluso. Un libro non tutto alla stessa altezza, con qualche punto in cui, pur conoscendo il mondo arabo, le sue ritrosie ed i suoi tabu, sono rimasto dubbioso (sarà religione, costume o idiosincrasia del personaggio, a farlo agire così?). La storia di quello di cui il giorno è debitore alla notte, è la storia di Younes detto Jonas, che seguiamo dalla nascita negli anni ’30 ad un epilogo, bello, dolente e necessario ai giorni nostri. La prima parte è molto forte sul piano personale, mi ha coinvolto e addolorato. La storia della caduta della famiglia di Younes, dovuta all’intransigenza del padre, che, pur di non piegarsi, di non scendere a nessun compromesso, fa una profonda discesa negli abissi della povertà sempre più povera. Younes guarda il padre dannarsi, e non sa come aiutarlo, cosa fare. In fondo, come può un ragazzo sui dieci anni trovare i modi? Il padre, tuttavia, dopo aver perso la campagna, poi la casa di campagna, e poi tutto, non può che arrendersi, e confidare il figlio al fratello farmacista, cercando (ma senza riuscirci) di salvare sé stesso, con moglie e figlia piccola. Da qui partono i brani centrali, quelli più “leggeri”, che ci portano via dalla brulicante periferia di Orano, per la piccola cittadina di Rio Salado, che sarà l’orizzonte di tutto il resto della vita del nostro. In questa parte c’è tutta la doppiezza del mondo algerino negli anni quaranta fino a metà dei cinquanta. Quando i francesi erano sull’onda vincente, erano i gestori del territorio. E qui Younes diventa Jonas. Frequenta scuole e compagni e ragazze per la maggior parte francesi. Ha anche qui dei piccoli drammi, tra amore e rifiuto. E l’incontro che sarà il perno di tutta la sua vita. Con Èmilie, la bella, la dolce, di cui si invaghisce, forse ricambiato, ma di cui ben presto perde le tracce. Passano anni spensierati, Younes sempre più impegnato nella farmacia dello zio, con una grande iniziazione all’amore dalla bella signora misteriosa incontrata sulla spiaggia. Peccato che (ma si scoprirà dopo) la signora sia anche la madre della bella Èmilie. Che quando torna a Rio Salado farà strage di cuori nel cerchio dei 3 amici di Younes. Ma lei ha gli occhi solo per lui. E lui (questa è la parte che mi lascia dubbioso) per un sentimento di rispetto per quell’infatuazione, la rifiuta, soffrendone per tutta la vita. Sì, ha fatto l’amore con la madre, ma… Non so, discutiamone i risvolti etici. Khadra sfrutta questo elemento per impostare tutta la storia di Younes, che non si rimetterà mai, anche se avrà altri momenti, avrà storie, e mogli e nipoti. Ed in fondo sarà partecipe di una sua parte di felicità. Ma quella storia che il giorno non saprà mai lo costringerà, sempre e comunque, a rimanere sempre vivo nelle sensazioni. Qui comincia, anche se sviluppata in poche pagine, la rivisitazione dei momenti di lotta algerini, tra le prime rivolte della fine dei cinquanta, sino alla rivoluzione ed alla riconquista del territorio (quella che mi rimane immortalata nel bellissimo film ‘La battaglia d’Algeri’) nella prima metà di sessanta. Younes farà la sua parte. Ed i suoi amici, francesi, saranno invece costretti all’esilio. Ci saranno anche drammi ed altro, che non vengo a svelare. Trovatelo in italiano, c’è e si legge bene. Sarà solo l’epilogo sulla tomba di Èmilie ad Aix-en-Provence che cercherà di ricucire tutto un mondo che si sgretolò. Khadra, nella parte politica, cerca (e sono con lui) anche di trovare parole di descrizione rispettose delle bontà di alcune posizioni, anche contrapposte. Non tutti i francesi occupanti sono assassini, come non tutti i ribelli sono puri di cuore. Il grigio c’è ed impera. Nel complesso, un bel libro, che non concede nulla al facile ottimismo, all’happy end ed altro. Riuscendo in quell’operazione che solo i buoni libri riescono a portare avanti. Descrivere un pezzo della vita. E darci modo di rifletterci su.
In fondo, una bella proposta di lettura. Dopo una bella settimana illuminata da una candela sopra una bilancia. Ed programmando una nuova settimana per festeggiare il compleanno della mamma. Intanto, come si diceva anni ed anni fa con il mio amico Agostino, 50 giorni all’alba.
Un bacio
Giovanni

domenica 7 ottobre 2012

Il Commissario e l’Ispettore - 07 ottobre 2012


Settimana dedicata a due poliziotti, di cui sono presenti in libreria diversi libri. Da un lato, abbiamo l’Ispettore Ferraro, che lo scrittore-architetto Biondillo eleva a contraltare del degrado di un paesotto milanese (Quarto Oggiaro per la previsione), facendoci vedere miserie locali e pensieri sulla vita e la città. Dall’altro, il giornalista-scrittore Varesi che con il suo Commissario Soneri (ormai con la faccia di Barbareschi) ci porta nella Bassa Padana, e nelle sue nebbie, come titola il primo romanzo.
Valerio Varesi “Il fiume delle nebbie” Sperling euro 9,50
[A: 02/06/2011 – I: 29/04/2012 – T: 30/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 245; anno: 2003]
Mi aspettavo qualcosa di meglio. Certo, l’ambientazione è buona, i personaggi (abbastanza ben) caratterizzati. Ma la trama in sé è fragilina, e non solo perché si capisce il mistero (mistero?) fin dalle prime battute. La storia è tutta scontatina, e si avvolge su sé stessa senza coinvolgerti mai troppo. Ed un po’ mi dispiace che mi aspettavo qualcosa di meglio dall’autore, redattore di edizioni locali di Repubblica, dove il primo libro che ne avevo letto, mi era sembrato più equilibrato. Fortunatamente, non ho mai visto il Commissario Soneri in TV, anche se, leggendone, Luca Barbareschi ha il fisico adatto. Non certo la Stefanenko, né tanto meno (per quanto mi piaccia assai) Ferrara, sostituita inopinatamente alla bassa parmense. Lì, dove il Po la fa da padrone, e detta i ritmi delle stagioni e delle persone. Con le sue tracimazioni, con la nebbia e con le gelate, con le chiatte che vanno su e giù, con le Osterie sull’argine, che hanno scorte industriali di grane e salumi (qui, spalla cotta, non la salama da sugo di Ferrara), accompagnate da quel Lambrusco leggero che ha il nome di Fortanina (e che più su, verso Mantova vien presto sostituito dalla Bonarda). Questa l’ambientazione, e qui il tocco sapiente di Varesi si fa sentire in modo magistrale. Descrive gli argini, e noi vediamo le chiatte chiamate “magane” che scivolano sull’acqua. Vediamo i paletti con le tacche per segnare l’alzata del Po. Vediamo e sentiamo la nebbia che sale, che ti avvolge, ovatta il mondo e fa paura. Ma in auto con Soneri, piano, magari ad un appuntamento con la bella Angela, ci andremo di sicuro. E i vecchi che stanno di guardia, la radio fluviale che avverte dei pericoli, gli stessi vecchi alle osterie, due, ovviamente, una per i rossi ed una per i neri. Che questa è poi la grande passione locale. Qui sono nate e si sono sviluppate radici profonde. Non è lontana Predappio (saranno meno di 100 chilometri in linea d’aria). E siamo nell’Emilia profonda e rossa. Proprio da queste contrapposizioni mai sopite, nasce la storia. Con la morte di due fratelli, ora quasi ottantenni, i fratelli Decimo e Anteo Tanna. Fascisti della prima ora, repubblichini dopo ‘il 43, poi riparati all’estero. Quindi tornati, su passi antichi. Ma sempre defilati. Anteo su e giù sulla chiatta per il Po. Decimo quasi volontario in ospedale a confortare dialitici. Defilati, ma non pentiti di quello che successe negli ultimi anni di guerra. Le uccisioni per ripicca, le piccole stragi locali, fucilazioni alla schiena, delazioni. Lì, tra la nebbia e gli argini, queste storie non vengono dimenticate. Se ne parla intorno ad un bicchiere di Fortanina, fumando sigari pestilenziali. Soneri comincia ad indagare di queste morti, e a poco a poco, prima le collega tra loro, poi le collega al territorio ed ai fatti di guerra. Aggirandosi come corpo estraneo tra i rossi locali, che benché rossi ormai son ben divisi. I duri e puri, stalinisti immarcescibili. I Pepponiani di Guareschiana memoria, più adusi a compromessi. Ma anche lì si aggirano segreti e sospetti. Poi tutto si conclude come ci aspettiamo da pagina 12, anche se alla fine le pagine sono 245. Riamane questo rimpianto di non vedere, in questo romanzo di 10 anni fa un po’ più di “leggerezza” o un po’ più di approfondimenti, cosa che avevo meglio rilevato nel primo che ho letto. Seppur, lì come qui, anche se con in mezzo il fiume, il cabotaggio tra la riva destra e la riva sinistra non risulta mai agevole. Anzi, manca un pelo per risultare irritante. Speriamo si fermi prima.
“Invecchiando tendeva ad assomigliare sempre più a suo padre e il ricordo lo intenerì.” (95)
“Si era sentito sollevato di poter dormire in solitudine assecondando le sue cadenze rituali.” (145)
Gianni Biondillo “Il giovane sbirro” Guanda euro 9,50
[A: 29/07/2011 – I: 05/07/2012 – T: 08/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 345; anno: 2007]
Un libro gradevole frutto di una scelta consapevole ed intelligente. Dopo i primi due libri dedicati all’ispettore Michele Ferraro, Biondillo (che mi è simpatico già per il solo fatto che si chiama Gianni e fa principalmente l’architetto) scrive qua e là racconti con episodi diversi della parabola di vita del nostro Michele. Decidendo di pubblicarli insieme, invece di buttarli lì, un po’ alla rinfusa, ha la benaugurante idea di cucirli in un’organica biografia dell’ispettore. Filo conduttore la fa un’inchiesta al presente, in cui il fruttivendolo Don Ciccio gli chiede di ritrovare il suo lavorante albanese Kledy. E questa ricerca, nonché le vicende di Kledy, che, pur con permesso di soggiorno, viene trovato alticcio e senza documenti, e per questo spedito inopinatamente in un CPT, fanno da contraltare all’excursus storico di Michele. Dai furori giovanili, suonatore di basso in una band cover dell’ultimo Lucio Battisti (e qui apriamo una parentesi, che Biondillo fa una bella analisi di Battisti, delle sue canzoni, quelle dette del primo periodo e quelle del secondo; e lancia qualche provocazione, ai noi mogoliani della prima ora, tanto che non sarebbe male, prima o poi, tornare sulle sue canzoni), e dove alla batteria c’è la sua ragazza Francesca, alla necessità di trovarsi un lavoro. La domanda in polizia, accolta, ma dove sempre si presenta come un corpo alieno. Perché continua a fare battute che nessuno capisce. Perché continua a farsi domande sulle cose che accadano. E le diverse stazioni della sua personale via crucis sono scandite da altrettante inchieste in cui viene coinvolto. Prima, ed è ovvio, come tirapiedi, come ultima ruota del carro. Poi come capo in seconda in una stazione alpina periferica. Poi di nuovo a Milano, nella sua amata – odiata Quarto Oggiaro (con la musica di Manfredi in sottofondo). La conoscenza con l’ispettore Lanza, l’unico che capisce sia le sue battute sia il suo porsi perplesso in un mondo che non si fa domande. La frequentazione con alcuni amici dei tempi giovanili, soprattutto Mimmo, lo scassinatore felice di vivere un po’ allo stato brado (e per questo soprannominato ‘o animalo). Un mondo che già conosciamo perché presente nei suoi altri libri. Qui, ci si aggiunge il progressivo deteriorarsi dei suoi rapporti con Francesca, nonostante la presenza dell’adorata figlia Giulia. Così che scopriamo i veri motivi della separazione, di cui già sappiamo l’esito. Tutti i racconti hanno una loro spiegazione, anche se non sempre è Ferraro che la trova, anche se spesso la immagina. Certo le sue intuizioni portano alla scoperta dei motivi della tragedia del rettore Janin o di quella degli amici di montagna, Rebecca e Carla e Pietro e Adriano, con le loro storie di silenzi incrociati. La sua prontezza non fa degenerare le violenze dello “sciupafemmine”, in un racconto incentrato per altro su di uno scrittore fallito, quasi adombrante quello che lui sarebbe potuto essere ma che fortunatamente non è. Ma non risolve (o almeno non in modo palese) la tragica gita scolastica o la morte della prostituta Giovanna. Tuttavia il risultato complessivo è piacevole proprio perché non ne fa un’antologia sterile né un romanzo in tono classico. Diventa quasi un romanzo sulle musiche di quel secondo Battisti, dove testo e suono sembrano divergere più che convergere. Assonanze più che consonanze. Ci verrebbe solo da chiosare, sempre con Lucio, “lo scopriremo solo vivendo”.
Valerio Varesi “L’affittacamere” Sperling euro 9,50
[A: 25/04/2012 – I: 25/07/2012 – T: 30/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 271; anno: 2004]
Ormai è abbastanza chiara la cifra elaborativa dello stile di Valerio Varesi. Un racconto giallo che si immerge in problematiche diverse, per creare un affresco del mondo della Bassa Parmense. Altre volte era stato un ritorno di fantasmi del passato dovuti alle un dì feroci lotte tra fascisti e partigiani. Qui ci spostiamo avanti negli anni, ma l’assassinio dell’affittacamere Giuditta Tagliavini detta Ghitta è un modo per portare il nostro commissario Soneri – Barbareschi a ripensare anche al suo passato. Che lì, nella pensione Tagliavini conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie. E che, dopo anni di matrimonio persi nelle brume del passato, muore di parto. Una ferita che il commissario non ha ancora risanato. E che si riapre nel tentativo di comprendere i misteri di quella morte. Morte di una persona che sembra a prima vista normale (come persona non come morte). Tuttavia l’indagine porta a galla tante altre cose. I ricordi degli studenti che frequentavano squattrinati la pensione, negli anni dei furori ardenti della rivoluzione possibile. Estremisti, forse ai margini della lotta armata (e quanto era vicina al tempo quella scelta!). La scoperta di un vecchio amore della moglie Ada di cui lui non sapeva nulla. E la scoperta che la Ghitta era anche una praticona. Aborti, prestiti ad usura, tentativo di riscatto dall’umile nascita montanara, rivalità con la gente di montagna, e poi la decadenza, l’affitto di stanze ad ore. Ma anche i tentativi di rimanere a galla, fornendo alibi e luoghi sicuri per traffici ai limiti della legge. Allora erano i rossi, fino alla strana morte di uno di loro, mistero mai risolto (vendetta fascista o faida interna? Esecuzione mafiosa o estremo atto di gelosia?) Ora sono i trafficoni degli appalti, quelli che fanno girare mazzette e costruiscono cartelli a prova di bomba, per aggiudicarsi lavori e, soprattutto, soldi, soldi, soldi. Soneri si muove al solito un po’ stordito, sembra non capire nulla, ed intanto elabora e collega. Collega la morte di Ada con un aborto mal praticato dalla Ghitta. Collega gli andirivieni del gay Pitti, con il giro delle mazzette dei vari imprenditori. Collega la scomparsa dell’ex di Ada con un possibile passaggio verso la clandestinità. Collega la paura della Ghitta verso un fantomatico “Rosso”, con il partigiano montanaro padre dell’ex di cui prima. Il tutto entrando ed uscendo dalla trattoria dell’Alceste, dove si scola bottiglie su bottiglie di Bonarda, accompagnandola con truculenti piatti invernali. E discutendo seduto sulla poltrona del barbiere che tanta gente vede passare, e che lo aiuta a ricostruire tutti i tasselli. Con un pizzico di buon “Guareschi” d’annata nei rapporti di velato aiuto con frate Fiorenzo. E con il rapporto, sempre sull’onda della difficoltà con l’avvocato Angela (sempre più difficilmente identificabile con la bella Stefanenko). I due filoni di inchiesta alla fine troveranno il loro sbocco naturale. Piccole incriminazioni per i faccendieri. Operazioni alla Digos in grande stile per i nuclei “terroristici” toscani. Soneri ha visto e collegato tutto e tutti. Ma si tira in disparte, per naturale ritrosia, e perché qualche brandello di conoscenza viene ad illuminare il suo di passato. E quando si capiscono cose che era meglio lasciare sepolte, si rimane sempre un po’ defilati. Un buon ed onesto prodotto, sempre un po’ vagolante, mai fulmineo alla meta. Ma rimanda le sensazioni della bassa, i profumi, i suoni attutiti dalla nebbia. Non dispiace, anche se non travolge.
“Quel che facciamo da un certo punto in poi della vita è cercare di riempire il vuoto che ci si para davanti. Per questo progettiamo, ci poniamo dei traguardi, corriamo per raggiungerli. Ma nelle pause, ci tormenta, implacabile, la convinzione che tutto ciò non serva a nulla.” (54)
“Non puoi cambiare ciò che è già accaduto, quindi è inutile che ci pensi. Se facessi lo scrittore potresti cancellare una pagina e riscriverla, ma nella vita non si può mai tornare indietro.” (89)
Valerio Varesi “Le ombre di Montelupo” Sperling euro 9,50
[A: 13/05/2012 – I: 15/09/2012 – T: 17/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 248; anno: 2005]
Terzo episodio delle storie del commissario Soneri – Barbareschi, almeno di quelle reperibili, che le prime due non si riesce a trovare in nessuna libreria. Come a darci un po’ di tregua, dopo due episodi pieni della nebbia del Po, ed anche per cercare un po’ di sfogo alla scrittura (e di riposo al nostro commissario), Varesi gli fa prendere qualche giorno di ferie. Lasciamo così la bassa parmense, ed anche la bella Angela che era stata troppo pressante nell’ultima scrittura, e ci trasferiamo sui monti. Diremmo sui monti natii, che Soneri si va a rintanare, ed a cercar funghi, nella natia Montelupo, sull’Appennino tra Emilia e Liguria. Lì dov’era la casa paterna, lì dove, appunto con il padre, si andava da ragazzo per boschi. E lì dove tutta l’economia della cittadina ruota intorno alla fabbrica di prosciutti e salumi del commendator Palmiro Rodolfi. Fabbrica che dà lavoro a quasi tutti gli abitanti del paese, direttamente o indirettamente (vedi alberghi, ristoranti e bar). Il commissario, per tutto il romanzo, ci porterà tra questi boschi, facendoci sentire un po’ a casa (ovviamente a casa sua, che io di boschi ne conosco pochi e li conosco male), con le descrizioni dei sentieri, delle forre, dei dirupi, dei caprioli, dei cinghiali, delle trombette da morto (dovrebbero essere funghi). Conditi con gli altri sapori di montagna delle solite mangiate e bevute, a cui Varesi ci ha abituato, e che ci fa piacere accompagnare con il pensiero. Una zuppa di pere e castagne, molliche di grana, culacci di prosciutto, Bonarda a fiumi. Paese di montagna dove si gioca a carte ai tavoli del bar, dove si parla introno ad un grappino. Paese anch’esso con alcuni rivoli dei tempi di guerra e partigiani (anche se meno incidenti che negli altri precedenti romanzi). Tempi antichi dove il paese stesso si fondava sull’alleanza dei tre amici montanari: Palmiro, Cappelli e il Macchaiolo. Amicizia prima incrinata dalla guerra, con Palmiro che prospera legato a fasci e democristi. Poi dal denaro, che illude il Cappelli, e poi lo rovina, tanto che non trova di meglio che appendersi ad un ramo. Infine le donne, per cui Palmiro rimane in paese, trionfante e tronfio di soldi. E il Macchiaiolo si rintana per sempre sui suoi monti. In questo scenario, mentre il commissario pensa a riposarsi, si innesca la crisi. Prima sparisce Palmiro. Poi ritorna e sparisce il figliol suo Paride. Poi Palmiro segue le orme di Cappelli, e si appende. Infine, ritroviamo Paride, sbudellato a pallettoni nel bosco. I carabinieri brancolano. Cercano di incastrare il Macchiaiolo. Ma sarà ovviamente il nostro buon Soneri, che andando per boschi, scavando tra i rovi, scucendo sillaba a sillaba mezze verità sul fatto che la grande industria dei Rodolfi è in realtà sul fallimento. E con il fallimento, tutto il paese farà bancarotta. Ed i Rodolfi, anzi Palmiro, perderà la cosa più preziosa per un montanaro: la faccia. Sulla base di questi indizi, aiutato dalla cagnetta Dolly che trova per boschi e che a lui si affeziona, Soneri metterà puntini ai posti giusti. Magari facendo in tempo a riappacificarsi anche con la figura paterna, morta ahimè troppo presto. Insomma, la storia scorre, forse su binari quasi prevedibili, ma piacevoli. Belle, per me cittadino, le descrizioni boschive e montane. Giusta, in questa fase, la mancanza di figure femminili, quasi che Varesi non abbia ancora la mano per tratteggiarne a dovere. Alla fine, un paio di serate di buona lettura, sorseggiando una buona grappa d’Albana.
“Nella mezza età … piace tornare da dove si è partiti se da giovani si è andati per il mondo.” (36)
Prima trama del mese, qualche commento di letture passato. Ecco il mese di luglio, un mese di buona intensità, cominciato con bei libri ed altrettanto bene finito, con il libro della Héritier che non finirò mai di (ri-)commentare. Una parte centrale in calando, ma un mese caldamente da consigliare.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Rosella Postorino
Il mare in salita
Laterza
10
3
2
Gabriel Garcia Marquez
La mala ora
Mondadori
9
3
3
Erri De Luca
Il torto del soldato
Feltrinelli
11
3
4
Paola Mastrocola
Palline di pane
Guanda
11
3
5
Gianni Biondillo
Il giovane sbirro
Guanda
9,50
3
6
Gilbert Sinoué
Erevan
J’ai lu
7,60
3
7
Donatella Di Pietrantonio
Mia madre è un fiume
Elliot
9,90
4
8
Roberto Alajmo
L’arte di annacarsi
Laterza
9,50
4
9
David Baldacci
Il candidato
Mondadori
9,50
2
10
Annamaria Fassio
Di rabbia e morte
Mondadori
4,90
2
11
Youssef Ziedan
Azazel
Beat
9
2
12
James Petterson & Liza Marklund
Cartoline di morte
TEA
8,90
3
13
Isabel Allende
D’amore e ombre
Feltrinelli
s.p.
4
14
Alexander McCall Smith
Semiotica, pub e altri piaceri
TEA
8,60
3
15
Françoise Héritier
Il sale della vita
Rizzoli
6
5
16
Clive Cussler & Jack du Brul
La nave dei morti
TEA
8,90
2
17
William Langewiesche
Esecuzioni a distanza
Adelphi
7
3
18
Valerio Varesi
L’affittacamere
Sperling
9,50
3
19
Margaret Doody
Aristotele e la favola dei due corvi bianchi
Sellerio
11
2

Anche se poche, le castagne c’erano. E soprattutto, c’era un dolce che adoro: il Montebianco di Soriano. Cioè, castagne passate al setaccio, con un cucchiaio di panna ed una spolverata di cacao. Niente meringhe, grazie! Come mi ricorda Franco, un saluto al nostro amico Cesare che ci ha lasciato un anno fa, e via per un nuovo mese pieno di bilance.
Un bacio
Giovanni