domenica 27 febbraio 2022

Insalata mista - 27 febbraio 2022

Ancora della letteratura in giro per le varie espressioni linguistiche, anche se questa volta non ci occupiamo della collana di Repubblica, ma di libri di varia provenienza. Regali di diversa natura, consigli librari, suggerimenti in viaggio. Su tutti, un libro molto datato, italiano, di Massimo Bontempelli. Subito a ruota un libro sui migranti e sulle migrazioni ed uno di ricordi cretesi ma non cretini. Il resto un po’ o un tanto più in giù.

Amets Arzallus Antia & Ibrahima Balde “Fratellino” Feltrinelli s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2021 – I: 28/07/2021 – T: 31/07/2021] - &&&  

[tit. or.: Miñan; ling. or.: spagnolo (basco); pagine: 112; anno 2020]

Una gradita sorpresa per un compleanno non viaggiante (per quanto ancora?). Anche perché, pur nella sua brevità, è un libretto intenso, non eccelso, che pone domande a noi lettori occidentali. E non domande banali.

Il libro è narrato da Ibrahima Balde, migrante della Guinea Conakry (per i non viaggiatori ricordo che di “Guinea” ce ne sono tre: la Repubblica di Guinea o Guinea Conakry, la Repubblica della Guinea Equatoriale e la Repubblica di Guinea-Bissau), e scritto da Amets Arzallus Balde, personaggio poliedrico, giornalista, lavoratore con i migranti nella sua terra natia, il Paese Basco, anche se nato nella parte francese. Ma Amets è in particolare un “bertsolari”. Questa è una particolare forma espressiva del mondo basco, una specie di canzone improvvisata, ma con rima e metrica ben definiti. Volendo fare un paragone, si apparenta ai “poeti a braccio”, tipici della Toscana, laddove uno dei maggiori esponenti è stato in gioventù Roberto Benigni. Amets è molto versato in questo certame poetico, tanto da aver vinto il Campionato di Bertsolari nel 2013, ed essere stato più volte finalista.

Già questo rende il libro un’espressione particolare, perché, con la sensibilità poetica che lo contraddistingue, Amets riesce a renderci il narrato di Ibrahima in tutta la sua fresca potenza espressiva, le pause, i silenzi, le riprese. Insomma, una lingua scritta che renderebbe molto bene ad essere letta ad alta voce.

Ibrahima, in prima persona, ci narra quindi la sua storia, dall’infanzia africana al presente come migrante in Spagna, ma anche con un lavoro (fa il meccanico in un’officina a Madrid).

In Arica nasce, in un piccolo villaggio dell’entroterra della Guinea Conakry. Maggiore di quattro fratelli (un maschio e due femmine), come tutti i veramente poveri di ogni dove, deve ben presto pensare a portare soldi al budget familiare, pur continuando (con fatica) ad andare a scuola. Il padre è un venditore di scarpe itinerante, la madre vive al villaggio, cucendo, allevando animali e coltivando l’orto, aiutata dai fratelli più piccoli. Lui aiuta il padre sin dall’età di cinque anni. Ma a tredici il padre muore, e lui deve assumersi non solo il ruolo di capofamiglia, ma soprattutto quello di procurarsi con il lavoro la maggior parte del budget familiare.

L’unico modo è andare nella capitale, dove ci sono più possibilità. Ma sono in tanti, in troppi, quelli che cercano le stesse cose che non riesce a trovare Ibrahima. Così che il ragazzo approfitta (o tenta di approfittare) di ogni piccolo spiraglio, di ogni velato suggerimento, iniziando una lunga serie di avventure che lo porteranno in tante città ed in tanti stati al suo limitrofi. Ogni volta, sentendo un posto, un luogo, un lavoro dove si poteva guadagnare di più, dove si potevano avere migliori condizioni di vita, si mette in moto per arrivarci. In autobus, in minibus, in treno (se riesce a mettere da parte i soldi per il biglietto), altrimenti a piedi.

La sua vita di adolescente è allora dominata da questi elementi che non permettono di pensare ad altro. La fame, la sete, i rischi da affrontare, il caldo, la mancanza di sonno costante, le dolorose attraversate dei deserti. Non ci sarà più una vita scandita da giorno e notte, ma solo da lavoro e non lavoro. Tutte le categorie, morali e quotidiane, volano via. La casa e la strada sono i posti dove si vive e si dorme, quando si può. Il bene ed il male sono rapportati solo al metro di poter mandare soldi a casa.

Una vita già penosa e difficile diventerà drammatica quando la madre gli comunica che il fratellino Alhassane non è tornato a casa da scuola. Non vuole pesare sulla famiglia, vuole raggiungere l’Europa ed iniziare una nuova vita. Ibrahima, allora, dovrà, si sentirà in dover di, lasciare tutto ed i quanto responsabile della famiglia si metterà alla ricerca di Alhassane. Una responsabilità non solo oggettiva, instillatagli dalla madre, ma soprattutto soggettiva, che lui si sente addosso per l’affetto che ha per il fratellino.

Comincerà così anche lui un nuovo percorso, da migrante alla ricerca delle piccole tracce lasciate. Si attraversano deserti, si incontra brutta gente, si va anche per mare. Dove saprà che Alhassane è affogato durante la traversata dalla Libia verso l’Italia. Ma ormai anche il percorso di Ibrahima è segnato. Riuscirà, lui sì, a raggiungere l’Europa, la Spagna dove ora vive. E da dove manda, quando e se possibile, sostegni alla madre ed alle sorelle, rimaste in Africa, e che continuano a vivere una situazione altamente precaria.

Non si potrà, alla fine, rimanere indifferenti a tutto ciò. Non si può non pensare alle tonnellate di morti, ai muri che fermano, alle parole che ostacolano. C’è tutto un mondo di riflessione dietro la migrazione, che non si può, non si riesce ad affrontare qui. Ma è tutto il sistema sociale, tutto il modo di distribuire ricchezza e lavoro che andrebbe ripensato a livello globale. Per ora, ci accontentiamo di un libro doloroso, che fa affiorare ferite che non sapremo quando si riuscirà a rimarginare. Di un narrato che, in Africa, ora, non è l’eccezione, ma la regola. Un libro da leggere, anche se fa male.

Nikos Kazantzakis “Zorba il greco” Crocetti euro 15

[A: 10/08/2021– I: 15/08/2021 – T: 17/08/2021] - &&& 

[tit. or.: Βίος και πολιτεία του Αλέξη Ζορμπά; ling. or.: greco; pagine: 383; anno 1946]

Che fai stai a Creta e non leggi di Zorba?

Ma andiamo con ordine. Intanto, era uno dei libri consigliati dalle ormai endemiche libropeute, che cercavo di trovare a prezzi giusti, senza riuscirci. Poi, nella bellissima città di Rethymno trovo una libreria favolosa, con scaffali densi di libri, in tutte le lingue “turistiche” di Creta. E tra queste, ecco spuntare una versione italiana direttamente dal greco, e non, come Mondadori, dall’inglese. Ovviamente, subito preso, e, disteso in spiaggia, pronto alla lettura.

Secondo elemento, collegato alla bella traduzione di Nicola Crocetti, è la scoperta che il titolo originale è “Vita e imprese di Alexis Zorba”. Ma, a partire dal film di Cacoyannis, tutti lo individuano come “Zorba il greco”, e questo sarà il titolo che si porterà scritto fino alla fine dei giorni. Inciso: a Matala, ma non solo, ci sono fior di ristoranti che si chiamano “Alexis Zorba”.

Ma veniamo al testo ed al contesto. Devo dire che il film con Anthony Quinn e Alan Bates (nonché Irene Papas), rimane molto indietro nelle nebbie della memoria, riaffiorando solo per qualche musica (ovvio), la faccia di Irene, e l’espressione “giusta” di Quinn per tutto il film.

Poco, invece, veniva alla memoria, della storia in sé. Certo Zorba è un affabulatore, che gode e si gode la vita, che pensa all’oggi (tutt’al più), che non si perita di mettere il mondo in difficoltà, se questo può andare a suo vantaggio ora. Poi, dopo, si vedrà. Per il resto, era buio pesto.

Dal testo, allora, prima di tutto, emerge la figura di Basil, l’io narrante, scrittore in crisi, in cerca di uno sbocco per la propria arte e per la propria vita. Da cenni della vita ante-Creta, si intuisce un rapporto quasi omosessuale con Stefanos, velato da una patina d’amicizia, e non riscattato dalla breve notte d’amore con la vedova. Basil per tutto il libro cerca di finire il suo scritto (inopinatamente intitolato “Buddha”) dove prova a riscattare un testo verso la mancanza di desideri (“nirvana”?), e dove (spesso) la sua etereità si scontra, perdendo, con la carnalità di Zorba.

Siamo negli anni ’30 (così si evince da cenni storici) ed i nostri due eroi si erano incontrati ad Atene. Schermaglia dopo schermaglia, Alexis si impone alla vita di Basil. Perché Alexis, macedone sessantenne, è innamorato della vita e dell’oggi. Canta, balla (sirtaki?), ma soprattutto suona, quando gli viene l’estro, il salterio (la cetra greca, in pratica). Tra l’esuberante Alexis ed il tormentato Basil nasce alla fine un sodalizio per la miniera. Dove, organizzando l’estrazione della lignite per Basil, Alexis trova il modo di corteggiare la vedova Hortensia. Ma anche di prendere i soldi destinati ad altro, e sperperarli con una donna in una settimana di follie a Megalo Kastro (il nome originario di Iráklion).

Tutta una parte del libro, forse un po’ pesa, è dedicata ai monaci eremiti cui i nostri due devono sottrarre la concessione per il legname. Qui, c’è molto dell’iconoclastia di Nikos (che poi è un suo modo di vedere la religione, che sarebbe interessante ripercorrere magari leggendo il suo “L’ultima tentazione di Cristo”). Si trattano male i frati (di cui si evidenziano sia i tratti gay che la possessione diabolica), in una sezione del libro che ho trovato un po’ pesante.

La narrazione alterna spesso i momenti duali tra Alexis e Basil, con quelli corali, del villaggio e dei frati. Ma anche momenti di vita e di morte. C’è la vita tra Hortensia e Alexis, c’è un accenno di vita tra Basil e la vedova. E c’è la morte. Di un giovane innamorato non ricambiato dalla vedova. Della vedova, uccisa dal padre del giovane. Di un frate indemoniato che aveva tentato di dar fuoco al monastero. Insomma, luci ed ombre. Ah, alla fine muore anche Hortensia, dopo aver fintamente sposto Zorba. Quando poi il progetto strampalato di Zorba della costruzione di una teleferica fallisce, i due non possono far altro che dire addio ai sogni di gloria nell’isola. Di lasciarsela alle spalle, con il viso rivolto a nuove avventure.

Attraverso lettere che arrivano negli anni e nei posti più disparati, Basil segue le vicende della vita di Zorba, e ce le comunica tutte. Io ve le lascio leggere, pensando sempre a quei rapporti che Alexis ha con le donne. Come un marinaio d’altri tempi, anche nei posti più sperduti, riesce a vivere storie d’amore con le donne. Ce ne comunica anche la filosofia di vita che attraversa questo sentimento. Anche se, sinceramente, il ruolo della donna risulta un po’ bistrattato.

D’altronde, siamo poco dopo la fine della Guerra, in quegli anni tra il ’45 ed il ’55 che sembravano forieri di grandi promesse, non sempre mantenute. Anche Kazantzakis se ne fa interprete, a suo modo. Ed alla fine, ne esce un libro interessante, con spunti da approfondire, ma con qualcosa meno di quello che mi aspettavo dal clamore che ne risuona nella memoria.

David Madsen “Amnesie di un viaggiatore involontario” Meridiano Zero s.p.

[A: 07/05/2021 – I: 27/08/2021 – T: 28/08/2021] - &  

[tit. or.: A Box of Dreams; ling. or.: inglese; pagine: 242; anno 2003]

Come dico sempre, e qui ripeto, un libro regalato è sempre un libro in più dove accumulare esperienze. Per cui, è sempre gradito. Anche in questo caso, che credo sia frutto di una cattiva volontà dell’editore che induce in una lettura distorta del titolo. Che credo volesse indurre riflessioni sul viaggio. Cosa che, in realtà, nel libro è assolutamente assente.

Anche perché, se vedete bene in alto, il titolo originale è “Una scatola di sogni”, che in effetti, leggendo il libro, si entra in una dimensione onirica, ed in un gettarsi a capofitto in un universo di “matrioske”. Ora, ci si domanda da dove nasce l’anodino titolo italiano. È vero che il protagonista inizia dalle prime pagine a non ricordare nulla (chi sia, dove sia, cosa faccia nella vita, e così via), da cui l’iniziale “amnesie”. Ed è anche vero che il “male” lo colpisce su di un treno, da dove si intuisce il secondo termine “viaggiatore”. Ma “involontario”? Siamo subito inseriti nella dimensione del sogno, che si dice essere un meccanismo non volontario di tutti noi (tutti sognano, non tutti ricordano). Ma il passaggio dall’inglese all’italiano è una captatio benevolentiae di scarsissima lega.

Seguiamo così, senza purtroppo parteciparvi più di tanto, le vicende del protagonista, narratore anche della storia. Si trova senza memoria sul treno, incontro un omonimo di Sigmund Freud che fa anche lui lo psicanalista e ci delizia con sparate senza troppo senso, anche queste di bassa lega psicologica. Il protagonista, che forse si chiama Hendryck, ma in mancanza di meglio lo chiamiamo così, si trova senza pantaloni, poi inquisito dal capotreno, poi tutti e tre abbandonati dal treno nella campagna, finché non vengono raccolti dai servitori del conte.

Che ovviamente li stava aspettando, poiché Hendryck, il giorno seguente, dovrebbe tenere una conferenza sullo jodel, un ululato (così lo definisce) di cui non sa nulla. Il conte è un maniaco cacciatore di vacche, le cui teste imbalsamate troviamo alle pareti (e scopriremo che sono mucche che vanno fuori di testa per gli ululati, così da poter fare un facile gioco di parole con la ‘mucca pazza’).

Hendryck conosce anche Adelma, la contessina (simpatica solo perché si chiama come mia nonna paterna, e, di riflesso come la mia villa sorianese) con la quale consuma (o sogna di consumare) amplessi amorosi a volte piacevoli a volte un po’ eccessivi. Fatto sta che i sogni si moltiplicano, Freud non riuscendo a spiegarli. Nella magione del conte incontrano altri personaggi (di cui vi risparmio descrizioni e manie, assolutamente poco sensate).

Fino alla sciagurata conferenza, che si rivela un disastro, che innesca una serie di altre catastrofi, finché il nostro Hendryck scopre di essere probabilmente Hendryck, anche se non un esperto di jodel, e finalmente rimette piede sul treno, andando (durante tutto il testo non è mai riuscito a mangiare altro che pane) al vagone ristorante. Non vi dico ovviamente cosa succede dopo, che forse è l’unico elemento interessante del libro, che mi consente almeno di accendere un lumicino, invece che farlo sprofondare nel buio.

Un buio da cui emerge il tema centrale della scatola dei sogni: chi è che sogna? E cosa succede se chi sogna si sveglia? Si vede che l’autore ha letto a suo tempo “I fiori blu” di Queneau, ma non l’ha di certo compreso.

Anche, e qui abbiamo l’ultimo inutile tassello, perché Madsen è uno pseudonimo, e non si sa di chi, né si sa se la quarta propone una biografia utile a rintracciarlo. Quello che si scopre in rete è che, qualche anno dopo questo, pubblica un secondo libro, “Memorie di un nano gnostico”. Anche lì, se ne leggono commenti vari, e piccoli riassunti. Forse, se volete, leggete i riassunti e lasciate perdere i libri di questo scrivano.

“Essere anche solo in parte convinto di essere ‘qualcuno’ è infinitamente meno penoso della certezza assoluta di non essere ‘nessuno’” (110)

Massimo Bontempelli “Gente nel tempo” Utopia euro 16 (consigliato da Robinson)

[A: 15/06/2021 – I: 16/09/2021 – T: 17/09/2021] &&& e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 184; anno: 1936]

Un consiglio questa volta utile di Robinson. Un libro che probabilmente non mi sarebbe venuto in mente di leggere, di un autore che non conoscevo e che non avrei avuto modo di approfondire. Il tutto per dire che, seppur il testo in sé meriterebbe qualche decimale in meno, il contesto generale ne porta ad una approvazione di buon livello, sollecitandovi a leggerne.

Non entrerò qui in una spiega su chi sia stato Bontempelli, cosa ha fatto, cosa ha scritto. C’è tanto in Internet scritto ben meglio di quanto possa io. Diciamo solo, anche per inquadrare il signore, che da insegnante si fa giornalista, soprattutto in Firenze. E da giornalista, scrittore, vicino alle correnti del tempo, vicino alle avanguardie futuriste. Fascista, sì, come Pirandello, ad esempio. Ma poi, emarginato perché contrario alle leggi razziali.

Mi fermo qui, e faccio un passo di lato, che nella vita in quel di Toscana, spesso passa l’estate a Forte dei Marmi. Lì viene a conoscenza della strana storia della famiglia Vietina abitante lì vicino, nel borgo Montignoso (incuneato tra il Forte e Marina di Massa). Ne pensa e ne ripensa, ne elabora la storia, facendo dei Vietina altro dal reale. Poi pubblica il testo a puntate sull’illustre rivista “Nuova Antologia” (nello stesso anno in cui vi scrisse il suo primo articolo Indro Montanelli, nella stessa rivista da cui uscirono le prime scritture di Eugenio Scalfari). Si sente, leggendolo, questa frammentarietà, che spinge un gruppo di capitoli a chiudersi per rimandare ad altro che uscirà più tardi (una tecnica che ebbe il suo apice con i grandi dell’Ottocento, da Dickens a Hugo).

Il romanzo si concentra in pochi personaggi, quella della famiglia Medici. La capostipite, detta la Gran Vecchia, il figlio Silvano con la moglie Vittoria e le nipotine Nora e Dirce, nonché Maurizio, l’amico di famiglia. L’inizio è cupo e terribile. La Gran Vecchia annuncia, nell’estate del 1900, la sua morte. Donna forte e autoritaria, che comanda tutti a bacchetta. E nell’ora della morte avverte la famiglia che non sono mai stati buoni a nulla, e dopo la sua morte sarete ancora più inutili. Quindi, sarà meglio che sappiate di dover morire tutti giovani.

La morte libera le angosce di casa, Silvano e Vittoria cominciano a vivere, frequentano sempre più assiduamente Maurizio, che sembra avere un debole per Vittoria. Ma l’inutilità di ognuno si manifesta presto. Silvano rimane nelle sue lettere, Vittoria non riesce a metter mano al rinnovamento di casa auspicato. Ha uno scatto, invitando Maurizio a raggiungerla a Venezia, a fuggire con lei. Cosa che Maurizio non si risolve a fare. Mentre Silvano, colpito da strani malori, muore nel quinto anniversario della prima morte.

Vittoria torna, si allontana Maurizio, le figlie crescono. Sempre in un clima che non sembra portare benefici. Tant’è che cinque anni dopo, nel solito anniversario, anche Vittoria si ammala e muore. Nora e Dirce decidono allora di andare per il mondo, o almeno per l’Italia. All’entrata in guerra, per dedicarsi ad opere di bene, tornano nel borgo natio, e vengono a conoscenza della profezia. Aspettano ansiose allora la fine dell’anno, pensando che una di loro morirà.

Non succede, ed allora pensano sia finita. Dirce rimane al borgo. Nora fugge con un’amante che presto la lascerà. Se ne perdono le tracce. Nel frattempo, un amico di famiglia torna raccontando che Livio, il fratello di Silvano fuggito giovane in America, allo scoppio della guerra, era tornato per combattere, morendo nei primi giorni di guerra, nel 1915.

Dirce è sconvolta, ed accetta con gioia il ritorno di Nora, ormai donna perduta, ed anche incinta. Nel 1920 nasce il nipotino, che però avrà poco tempo da vivere. Le due capiscono l’ineluttabilità delle parole della nonna. Si incartano nella ricerca di una soluzione, che non trovano. Arriviamo così al 1925, che porterà un epilogo, ed una coda che non vi narro.

Qualcuno volle leggere nelle parole di Bontempelli una critica al mondo borghese ed una previsione della sua folle corsa verso il nulla, che solo al suo disfacimento può portare. Noi ci vediamo un terribile proposito, che sintetizzo nell’ultima citazione. L’angoscia che ci trasmette l’autore è lì: cosa fare se sappiamo di avere solo cinque anni di vita davanti?

Il romanzo scorre con una velocità impressionante, sembra di entrare in tunnel, alla fine del quale (ed alla fine del libro) la domanda sopra riportata ci abbaglia, ci stordisce. Inoltre, Bontempelli, da buon laureato in Lettere, usa i tempi verbali con un funambolismo ed una capacità che ci meraviglia ancora per la sua freschezza. Certo, ci sono situazioni che hanno fatto il loro tempo. Ma questa Gente che vive il proprio tempo, siamo noi, con il nostro presente, che dobbiamo usare meglio. Con il nostro futuro, che non sapremo mai quanto durerà, se non quando sarà finito. Da leggere, assolutamente.

“Non riuscivano a credere che fossero passati … anni. … non ci pensavamo quando la vita era bella; se uno quando c’è ci pensasse forte … il tempo non dovrebbe andarsene a questo modo.” (178)

“Non importa morire, importa non sapere quando. … La vita è essere incerti … la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va.” (184)

Takis Würger “Il club” Keller editore euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 01/05/2021 – I: 31/10/2021 – T: 01/11/2021] - && +

[tit. or.: Der Club; ling. or.: tedesco; pagine: 209; anno 2017]

Un interessante consiglio della rivista Robinson, anche se mi aspettavo forse una cosa leggermente diversa. Infatti, come da scaffali da cui era collocato, pensavo fosse da annoverare nei gialli, ma invece, una volta letto, ritengo sia più giusto spostarlo tra i romanzi d’autore.

Würger è un non ancora quarantenne tedesco, per anni giornalista in zone di guerra, anche infiltrato in missioni pericolose. Di certo, sa usare la scrittura, e qui ben lo dimostra. Anche se, personalmente, il suo modo di scrivere l’ho trovato spezzettato. Certo, l’idea di saltabeccare tra i vari personaggi, sia di primo che di secondo piano, è interessante. Tuttavia, il ritmo ne risente. Ne risente anche per la quasi totale assenza di voci femminili (voluta?), sebbene intorno alla donna si svolge una parte significativa del testo.

Il protagonista del romanzo si chiama Hans Stichler, giovane tedesco con una vagonata di problemi. La madre muore di cancro quando lui è molto piccolo. A scuola viene maltrattato (bullizzato diremmo ora), allora il padre gli regala un paio di guantoni da boxe, così può sfogare la rabbia ed eventualmente rispondere ai soprusi. Ma presto anche il padre muore, e lui si inserisce in un collegio di Gesuiti, dove, per sopravvivere, studia e si allena alla boxe.

La svolta arriva quando deve andare ad una università. Riceve allora una lettera di sua zia Alex, che insegna Storia dell’arte a Cambridge, e che gli fa un’offerta che potrebbe cambiargli la vita. Lei gli offre una borsa di studio per l’Università, in cambio dovrà indagare per conto suo su qualcosa di spregevole che è successo, che succede all’interno dell’Università. Qui, appunto, scatta il lato giallo, che ha fatto mettere il libro fuori posizione.

Perché è vero che Hans indaga, cerca, collega fatti, ricostruisce, ed alla fine si farà artefice, anche se non in prima persona, della relativa vendetta. Ma non è questo però che risalta bene nella trama del libro. Sì, c’è giallo, c’è qualcosa da scoprire, e noi siamo messi, sapientemente, da Würger nella stessa condizione di Hans. Non sappiamo cosa dobbiamo scoprire, ma perseguiamo lo scopo guidati dalla nostra intrinseca dignità.

Quello che è in realtà il vero sviluppo del testo, è questo in effetti. Scoprire comportamenti non corretti, mettendo in gioco sé stessi. A contatto con un mondo dorato, con la ricchezza, con il potere, rimaniamo integri o ci facciamo travolgere? Rimaniamo noi stessi o ci facciamo integrare in qualcosa che sembra luccicare ma che forse è solo smalto falso-berlusconiano?

Hans percorre tutte le tappe per arrivare al nocciolo della questione. Diventa un buon boxeur, entra a far parte della squadra di boxe dell’incontro tra Cambridge ed Oxford. Per questo viene ammesso all’elitario Pitt Club, una confraternita che riunisce i più ricchi ed i più sportivi dell’università. Per questo incontra Charlotte, una dottoranda di Alex che lo aiuta nell’impresa senza però dargliene i confini. E lì, arrivato al vertice conoscitivo, deve fare una scelta.

Ignorare i misfatti? Oppure trovare il modo di vendicare chi quei misfatti ha subito? Odiare? Oppure prendere il potere che gli viene offerto? La vita intera di Hans non potrà che portarlo a fare la scelta giusta, in questo aiutato, al fine, non da zia Alex, ma da Charlotte.

Würger lascia il finale in una specie di zona d’ombra, quasi a voler dire che potrebbe esserci altro. Ma a noi basta così. Abbiamo visto la cattiveria, e la prevaricazione che offre il potere a chi ce l’ha, o pensa di averlo. Che tifiamo grandemente per Hans.

Anche se tutta la parte sulla boxe mi lascia freddo. Uno sport che non ho mai capito fino in fondo. Anche se la pluralità delle voci non mi ha aiutato a scorrere il romanzo. Anche se preferisco sapere cosa pensa l’autore e non mi piacciono i finali (troppo) aperti. Ma è un libro interessante, e mediamente godibile.

“Non sapevo se qualcuno di loro mi avrebbe considerato il suo migliore amico. Non è questo quello che conta davvero nella vita? Poter definire qualcuno il tuo migliore amico?” (57)

Ultima trama di febbraio, nessun allegato così ci si riposa, ma un pensiero ecologico che, in questi giorni, torna (o non è mai passato) d’attualità. Viene da un libretto di Antonio Pascale, intitolato “La città distratta”, e ci ricorda: “il territorio che la Domiziana delimita è stato dichiarato dall’ONU uno dei tre esempi di maggiore devastazione ambientale al mondo. Caso unico in Italia … presenta il fenomeno della subsidenza, ovvero la terra frana sotto il livello del mare”.

Queste letture in giro per il mondo rinforzano la sensazione di sgomento in questi giorni dove, al termine di un biennio pandemico, iniziano giorni tambureggianti di rumori di guerra. Come dice il noto proverbio “Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia”. Sperando tuttavia, che ci sia risparmiata l’ultima catastrofe. Dobbiamo essere forti e consapevoli in questi giorni, ed anche fermi nelle nostre posizioni. Non posso quindi che avvicinarmi a tutti voi, amici, lettori, viaggiatori, per tenerci vicino in un grande abbraccio.

domenica 20 febbraio 2022

Ancora per il mondo - 20 febbraio 2022

Almeno con i libri. Eccoci quindi, che spaziamo tra Africa (il Marocco), Asia (la Thailandia) e l’Europa (Grecia, Francia ed Inghilterra). Non una cinquina di stravagante bellezza, e, nelle more di titoli elevati, la Thailandia di Bunnag vince di una incollatura, anche se scrive in inglese e non in thai. Mi ha un po’ deluso Ben Jelloun, che scrive in francese invece che in arabo, da cui speravo un racconto più marocchino, anche se le sue parole rievocano vecchi e nuovi viaggi. L’Europa sta in seconda fila con autori e scritti che mi hanno fatto viaggiare ma non emozionare.

Tahar Ben Jelloun “Marocco, romanzo” Repubblica Mondo 2 euro 9,90

[A: 02/01/2019 – I: 14/07/2021 – T: 15/07/2021] - && e ½ 

[tit. or.: Marabouts, Maroc; ling. or.: francese; pagine: 262; anno 2009]

Non è facile il mio rapporto con Tahar Ben Jelloun, che apprezzo, e molto, nelle sue uscite, nelle sue posizioni, ma che, sovente, mi ha lasciato perplesso nei suoi scritti. Tanto che alcuni ne ho letti a fatica, tipo “Creatura di sabbia”, laddove scritture magiche, oniriche, diventano nelle mie letture ondivaghe, dove non riesco a trovare appigli.

In questo lungo scritto, d’amore per la sua terra, mi sono trovato meglio, anche se non tutto è riuscito, dosato, compreso o comprensibile. Il romanzo “del Marocco” è in realtà un lungo viaggio nella terra natia, e qui ci sta, mi ritrovo, anche perché ripercorre luoghi a me cari. Meno, mi sono trovato invece, in quella parte che spesso altri esaltano. In quel finale dedicato a Eugene Delacroix, ed ai suoi “schizzi marocchini”. Ne capisco la necessità dell’autore per tirar fuori un tema, il rapporto tra Oriente ed Occidente. Ma non mi ha coinvolto, come spesso accade quando qualcuno cerca di mettersi in panni altrui.

In effetti, nonostante il titolo, il libro non è un vero romanzo. È un viaggio, nello spazio e nel tempo, dove, facendo un percorso sulla terra natia, troviamo in ogni angolo storie, scritti, pensieri, momenti. Ci sono le bambine che invece di andare a scuola in campagna, sono schiavizzate nelle grandi città. C’è la descrizione dei quartieri abbandonati e diventati delle invivibili bidonville. Con l’odio della povertà, e la follia religiosa che sfocia dal rancore. Eppure, e Tahar ce lo dice con bella capacità, il Marocco era anche un paese d’incontri, un paese dove ebrei e mussulmani, per secoli hanno convissuto.

Il viaggio – racconto dell’autore comincia dal Nord, da Tangeri, un posto che c’è ora, ma forse è meglio dire c’era un tempo. Che negli anni ’50 tutte le persone eccentriche in giro per il mondo facevano scalo nella città, al Cafè de Paris. Solo a titolo di ricordo, mi sovviene passassero da quelle parti Tennessee Williams, Truman Capote, Gore Vidal, Jean Genet, William Burroughs, nonché, ma questo era molto facile, Paul Bowles. Ma io ricordo invece il Café Bleu, dove con Ale prendemmo un caffè vedendo in lontananza la Spagna.

Poi si scende verso le città ora più note e più frequentate dagli Occidentali. C’è Casablanca, dal passato di porto franco, che ci ricorda Humphrey Bogart, all’attuale status di città dei commerci e di capitale morale. Ma soprattutto c’è la mia sempre amata Marrakech. Certo la città degli alberghi lussuosi, dei Riyad impagabili, della bellissima villa di Yves St. Laurent con quel giardino che ci fece innamorare. Ma anche la città della baraonda di Jamaa el Fnaa, del suk impenetrabili, e dei sette santi islamici. Perché nella città dove tutti sono passati prima o poi, ci sono mausolei che ricordano i sette santi, o meglio, come dice l’arabo, “sab’a al-rijal” (i sette uomini). Un’istituzione voluta nel XVII secolo dal sultano Mulay Ismāʿīl per rispetto di teologi o mistici sufi che facevano da intermediari verso colui che non si può disegnare. Anche per questo, anticipando, è particolare e di impostazione delicata il rapporto descritto in fine di libro con Delacroix, che, appunto, era un pittore.

Si scende ancora, si va un po’ di lato, si sale e si scende dall’Atlante. Vogliamo parlare delle antiche città imperiali, di Fés e di Meknes? O forse, meglio ancora di Tetouan, una città dove si radunarono tutti i profughi arabi scacciati dall’Andalusia ai tempi della “Reconquista”. Ma lì non c’erano solo i mussulmani, ma anche gli ebrei sefarditi, entrambi in pace per secoli, poi …

Poi si scende ancora, si arriva ai villaggi sperduti dove pochi sono i turisti che arrivano, passando per quei momenti del deserto che venti anni fa costituirono la mia prima meta di viaggio da me organizzato. Dove con il mio gruppo si arrivò fino a Tarfaya, quasi verso il confine con il pericoloso Sahrawi. E dove suscitammo scandalo in spiaggia con i nostri costumi da bagno di foggia occidentale (un momento epico).

Ogni luogo descritto dall’autore per lui (ma anche per noi) è l’occasione per tirare fuori un ricordo, per imbastire un racconto, per elaborare i temi, che da sempre Tahar narra nei suoi scritti. La condizione femminile, nel mondo islamico ma non solo, l’analfabetismo, una delle piaghe irrisolte del secondo mondo (che il terzo è un po’ più in giù). Per arrivare al terrorismo passando a narrare dell’intensa e profonda spiritualità che permea la quotidianità dei marocchini. Passando per i marocchini che vanno in occidente e gli occidentali che si perdono nel deserto, in una continua giostra di racconti e sentimenti.

Con tutte le sue alternanze, un buon libro, una bella scrittura, con il ricordo cui concordo del modo di presentare il libro – viaggio: “Un paese è ciò che noi siamo nel momento in cui lo visitiamo”.

È leggendo che si impara a scrivere.” (201)

Tew Bunnag “Il viaggio del Naga” Repubblica Mondo 4 euro 9,90

[A: 24/02/2019 – I: 28/08/2021 – T: 29/08/2021] - &&&--

[tit. or.: The Naga’s Journey: A Novel; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 2007]

Nella sempre interessante collana dedicata alle letterature “intorno al mondo”, questa volta mi imbatta in una scrittura poco nota, anche se il luogo dell’azione è ben presente in molti scrittori di tutte le nazioni. Siamo in Thailandia, e soprattutto siamo in presenza con uno scrittore che, seppur scrive in inglese, è nato a Bangkok e lì, dopo vari giri per diverse nazioni è tornato.

Bunnag, tra l’altro, viene da una famiglia di nobili origini. Era di certo una famiglia estesa, ma è storia che uno dei suoi maggiori esponenti fu Chuang Bunnag che dal 1868 al 1873 ricoprì la carica di reggente del Siam per conto del futuro re Rama V. Dalla fine di quel secolo in poi, i Bunnag persero potere, pur rimanendo tra le aristocrazie preminenti della Thailandia.

Il nostro Tew nasce nel ’47, quindi quando scrive questo romanzo è sulla sessantina. Ma non è, e non sarà, scrittore di professione. Scrive un altro romanzo, racconti vari, ma la sua principale occupazione è occuparsi di poveri, di diseredati, e soprattutto, di malati di AIDS. Non solo, ma anche quello di allertare sui pericoli dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, come scrisse in due pamphlet successivi allo tsunami del 2004. Un pallino, questo delle inondazioni che è ben presente anche in questo romanzo, profetico (visto che viene scritto 4 anni prima) dell’inondazione che minacciò la capitale nel 2011.

Per questo, il libro è pervaso dallo spirito del Naga, elemento presente in tutta la cultura indocinese, che si manifesta nelle sembianze di serpenti. In Thailandia, in particolare, i Naga sono considerati i signori delle acque, ed i responsabili dei sismi acquatici.

Bunnag allora, nella sua “Novel” come recita parte del titolo inglese, ci fa seguire in controluce la presenza dello spirito del Naga, che si manifesta in diverso modo ai protagonisti del testo all’inizio del romanzo, e che ha una sua parte importante nella sua conclusione. Ma questa è la parte direi emozionale, interiore, del romanzo, legata alle credenze storiche locali. Poi abbiamo la parte palese del romanzo stesso, che si può seguire ed interpretare a prescindere ed anche senza la presenza dei Naga.

Anche se impiega tempo a carburare, il nocciolo della storia si cristallizza sulla figura di Pi O, un ricco uomo d’affari, la maggior parte illegali, che, alla sua morte, incidentalmente, riunisce i quattro protagonisti “veri” della storia. Che ovviamente avevano avuto, in vario modo, contatto con lui. Così che l’autore ha modo di raccontarcene le storie, che diventano emblematiche di diverse anime thailandesi.

C’è Arun, il figlio del fratellastro di Pi O. Le due famiglie, un tempo unite, si erano bruscamente divise quando Pi O riesce ad esautorare il padre di Arun dall’eredità paterna. Arun intraprenderà la sua strada, di pittore moderno (rispetto alla tradizione rigidamente religiosa locale), traendo ispirazioni da un lungo studio della pittura di Bosch. Anche se nella vita privata sarà sempre frenato, da amoretti inutili, o mal diretti (vedrete perché), fino a trovare una via che, purtroppo, non riuscirà a percorrere, troppi essendo i suoi freni interiori.

C’è Marisa, pseudonimo di un’attrice un tempo famosa, ed ora riciclatasi, con un buon successo, come regista e produttrice di film. Lei fu aiutata da Pi O agli inizi, che lui le costruì una falsa storia, e la instradò verso i contatti giusti (ovviamente anche sessualmente orientati), che spalancarono a Marisa la carriera. Anche lei attraversa grandi problemi di rapporti, non riuscendo a trovare l’uomo giusto, fino a trovarsi impantanata tra un amore impossibile ed un cancro alle ovaie.

C’è Don, che incontriamo alla fine di un percorso da monaco buddista (ricordo ai non addetti, che nel buddismo, si può entrare ed uscire dallo stato laicale e clericale, ci si può sposare, poi si può tornare indietro, basta ogni volta essere puri di cuore), iniziato per aver investito ed ucciso un bambino. Dal carcere lo salva Pi O, in virtù del fatto che Don era anch’esso di buona famiglia, e quindi, probabilmente, utile ai fini dell’uomo d’affari.

Infine, c’è Nong Da, la ragazza presa a otto anni sotto la protezione di Pi O, cresciuta nelle sue scuole, che servono ad avviare le giovani all’industria del sesso. Ma lei si ribella, viene stuprata e quasi uccisa per vendetta. Si salva, perde l’uso della voce, fa scenate al funerale di Pi O. ed è questo il motivo che fa riunire i quattro. Li seguiamo allora nei loro vari percorsi, soprattutto vediamo Don e Nang impegnarsi nelle periferie cittadine, verso i poveri (un po’ riflettendo l’esperienza stessa di Tew). Fino alla catarsi, all’inondazione che travolge gran parte di Bangkok, e che per ognuno di loro rappresenterà un punto di arrivo. E per qualcuno un punto di partenza.

Sono state molto interessato dalle immagini che Bunnag mi rimandava nel testo, per come ho visto e vissuto Bangkok in tutti questi anni. Dai momenti “lussuosi”, quando ci passavo per lavoro nella città elegante ed occidentale, ai momenti viaggianti, quando l’ho percorsa anche nelle parti meno folcloristiche ma più reali, insieme ai mei amici viaggiatori.

Il testo non è il massimo, la presenza del Naga mi rimane sempre di difficile interpretazione, ma per chi intende avere un piccolo assaggio di quel mondo, va sempre bene. Anche se consiglio, per motivi opposti, di leggere anche i libri di John Burdett da una parte e di Lawrence Osborne dall’altra.

“Avrei dovuto essere sincero con voi sin dall’inizio … scelgo sempre la strada che mi sembra più facile.” (207)

Christos Ikonomou “Dal mare verrà ogni bene” Repubblica Mondo 28 euro 9,90

[A: 03/06/2019 – I: 22/09/2021 – T: 23/09/2021] - & e ½ 

[tit. or.: Το Καλο θα 'ρθει απο τη Θαλασσα; ling. or.: greco; pagine: 140; anno 2014]

Un libro agile e maneggevole, per questo meritevole di essere portato in viaggio con noi, su e giù per l’Andalusia. Peccato che alla fine si sia rivelato un insieme di quattro racconti, con qualche elemento in comune, ma che non hanno retto il peso della mia attenzione. Non sono riuscito ad entrare in sintonia né con l’autore né con i suoi personaggi, portando verso il basso un giudizio che poteva essere migliore. Anche perché le idee che muovono questa scrittura sono interessanti, condivisibili. Si parla di bene e male, di amore e odio, di crisi. Insomma, di una Grecia com’era ma anche di un qualsiasi posto com’è. Che anche ora c’è crisi. E tanta.

Cominciamo comunque con un accenno alla difficoltà della trasposizione del titolo. Che viene giustamente lasciato inalterato, ma che in greco ha anche un secondo più sottile significato: infatti Thalassa è sì la divinità del mare che genera Afrodite, ma è anche una progenitrice di Egeo, il nono re di Atene nonché padre di Teso. Per traslazione, poi, in greco il Mar Egeo viene esteso a tutto il Mediterraneo, e non solo alla mare tra le due terre, la greca e la turca.

Dal greco poi non si può prescindere, che Ikonomou ha intriso le sue pagine del senso tragico delle tragedie greche, descrivendo con enfasi epica vicende attuali. Che tuttavia si istanziano non in un romanzo, ma in quattro racconti, tutti incentrati sulla vita di un’isola del mar Egeo, dove un gruppo di Ateniesi cerca rifugio alla crisi dell’economia greca (siamo nel 2014). Anche per sfuggire ai ricatti, ai soprusi. Ma gli “ateniesi” troveranno sull’isola una mini-cosmo della vita che avevano lasciato, anche se il filo conduttore della ricerca del bene, della speranza in un miglioramento rimane. Così come per loro, come anche per tutti noi ora.

La prima storia riguarda la figura tragica ed eroica di Tassos, storia che ci viene narrata da un suo amico. Tassos è uno dei primi ad arrivare sull’isola. È lui che diffonde il credo che unisce le speranze degli ateniesi “il bene verrà dal mare”. Tassos vuole sfidare il sistema mafioso che regna nelle relazione isolane. Sogna di costituire una cooperativa di lavoro, laddove l’unione può sconfiggere il male. I nuovi immigrati infatti stanno fuggendo i problemi che la macroeconomia europea aveva indotto all’economia locale. Ma anche lì, la “mafia” riproduce in piccolo le stesse violenze, la stessa ferocia che ha portato alla crisi. Un po’ confusa (per me) è poi la questione della fine di Tassos. Che non viene travolto dai mafiosi, ma in un certo senso si arrende alla consapevolezza che non riuscirà a modificare l’esistente, andando verso quella tragedia che ciascuno eroe greco sogna.

Il secondo testo è la storia di Chronis, una forse delle più comprensibili, almeno nella scrittura. Chronis è ridotto su di una sedia a rotelle, assistendo, da quella poco invidiabile posizione, ogni giorno alle violenze che un vecchio soprannominato “il Tedesco” perpetua su di una ragazzina. Il dramma ed il dilemma di Chronis è che tutta l’isola lo sa, nessuno fa niente, e lui, che non è autonomo cerca di interrogarsi su cosa fare, su quale sia il confine tra bene e male, se sia giusto un atto di forza verso un altro essere umano per fermarlo. La domanda di fondo è se si possa usa la violenza per fermare una violenza.

La terza storia, quella di Lazaros, è la più straziante. Lui ha aperto una taverna sull’isola, e quando i mafiosi locali gli chiedono di permettere a suo figlio Petrakis di lavorare per loro, lui acconsente. Poi il figlio scompare. Tutti ne sanno i come ed i perché, anche Lazaros. Che però non lo ammette e continua a lottare contro i suoi mulini a vento. Ponendoci una domanda senza una risposta: “…se perdi il padre ti chiamano orfano. Se perdi la moglie ti chiamano vedovo. Se perdi tuo figlio come ti chiamano?…”

L’ultima storia è quella di una coppia, Stavros e Artemis. Sono due giovani che decidono di trasformare un vecchio rudere in una taverna. Rudere che era dello zio di Artemis, zio che chiamavano “il Tedesco”, rudere dove si sviluppò la violenza descritta da Chronis. Taverna che battezzano “Il bene verrà dal mare”, e dove saranno serviti solo cibi prodotti sui raccolti isolano. Ce la faranno o saranno ostacolati dal male? Ci sarà speranza?

Non porto lo velamento sino a queto punto, perché sarebbe bene che, nonostante non sia il massimo, abbiate voglia di acquistare e leggere il libro.

Un solo ultimo commento sulla struttura del libro: sono storie isolate percorse e vissute da personaggi solitari. Forse se ci si unisce, un cambiamento potrà realmente avvenire.

“Il finto amore esiste, mentre non esiste il finto odio.” (83)

Samuel Benchetrit “Cronache dall’asfalto” Repubblica Mondo 25 euro 9,90

[A: 13/05/2019 – I: 24/09/2021 – T: 25/09/2021] - && e ½

[tit. or.: Chroniques de l’Asphalte; ling. or.: francese; pagine: 141; anno 2005]

Primo dei cinque previsti volumi dell’autobiografia dello scrittore, laddove tuttavia ne sono usciti solo i primi tre. Benchetrit, francese d’origine marocchina, regista e sceneggiatore più che scrittore, è stato sposato con Marie Trintignant, avendo con lei un figlio, Jules. Da questo testo, nel 2015, lo stesso Samuel trae un film (“Il condominio dei cuori infranti”) con Isabelle Huppert, Valeria Bruni Tedeschi e suo figlio Jules.

Devo subito dire che il film non mi piacque, mentre questa scrittura, con tutti i suoi limiti (a volte spezzettata, altre piena di rimandi forse troppo personali), ha un suo fascino. Soprattutto nel raccontare di queto condominio della banlieue parigina, simile (e molto) a quello dell’infanzia dell’autore. Che si identifica nell’io narrante e ci narra, di piano in piano, le vicende quotidiane, assurde, reali, dolorosi, di questi abitanti periferici. Sia nella città che nella vita.

Al primo piano, tanto per cominciare, abita l’anziano Stern. Che vive di poco e senza prospettive. Attento al centesimo, in una burrascosa riunione condominiale si rifiuta di pagare il rinnovo dell’ascensore. Così gliene viene impedito l’accesso. Così, anche perché ha problemi alle gambe, sarà costretto a prenderlo di notte.

Al secondo piano c’è la famiglia degli spazzini, che una volta stavano al nono, poi la madre viene colpita dalla sclerosi multipla, e devono a forza scendere per evitare problemi di trasporto.

Salendo, al terzo c’è Peter, invidiato per il suo successo, ed al quarto Catherine che, provando a dimenticare i continui tradimenti del marito, decide di concedere le sue grazie a tutti i maschi, meglio se giovani, che le capitano sotto tiro.

Più in alto c’è Tourè, il piccolo e solitario che passa il giorno appollaiato sul davanzale. Si vuole buttare di sotto? Forse. Arrivano gli amici che cercano di fermarlo. Arrivano i vicini, senza riuscire a dissuaderlo. Arriva la polizia, arrivano i pompieri, ma lui niente, lì, ad urlare a tutti di andare via. Poi torna la madre, due urla ben assestate e Touré, mogio, rientra e chiude la finestra.

Possiamo dimenticare le gesta della grassa Nathalie? Dell’introversa Mina, quella del decimo piano, che ogni pomeriggio va al cinema a vedere lo stesso film? O i due sfigati, Karim e Daniel, che un giorno rubano un camion pieno di chitarre.

Uno dei più toccanti è quello che si svolge nella Hall, ed ha per protagonista Samuel, ebreo per parte di padre e zingaro per parte di madre. Affrontato da due bulli, viene pestato a sangue, e finisce con il naso rotto. Ma con la faccia da duro. Così che conquista la bella Karin, e passano ore al cinema a sbaciucchiarsi. Quando però il viso guarisce, Karin lo schifa (non è più interessante) e va dicendo in giro che bacia da schifo. Samuel passa una anno a cercare i due malviventi, per fargliela pagare. Non perché siano razzisti, ma perché, per colpa loro, tutta la scuola sa che non sa baciare.

Salendo, salendo, arriviamo in terrazzo, dove incontriamo l’immigrata dura d’orecchi, la signora Hamida. In uno dei testi più surreali, assistiamo al suo incontro con un astronauta incautamente atterrato sul terrazzo. Vedendo il rapporto tra due incomunicabilità (la marocchina e l’americano che sanno poco di francese). Ma non c’è bisogno di parole quando c’è l’umanità.

Benchetrit ci parla delle sue periferie, della violenza che le pervade, guardandole tuttavia con un misto di ironia e di rimpianto, per quello che era e per quello che ha lasciato. In fondo era anche il suo “asfalto”. Allora, c’è ancora un barlume di speranza che, nonostante tutti i conflitti, i condomini sono al fine una comunità. dall’esterno impenetrabile, ma all’interno ci si aiuta.

Restano al margine le rivolte del tempo (se ne vede il controluce essenziale della loro nascita), si sentono da lontano le provocazioni di Sarkozy, allora ministro dell’interno. Ma non c’è la cattiveria finale, non c’è l’atmosfera del finale del film di Mathieu Kassovitz, “L’odio”.

C’è al fine l’ironia che Benchetrit si porta dietro ed altrove, chiudendo questo primo capitolo con quello che, all’epoca era il suo mestiere principale: la fotografia. Un clic chiude il libro. Un clic che penso farete bene a leggere anche voi. Uno sguardo su Parigi che non è disperato, ma neanche fintamente melenso.

Edward St Aubyn “Senza parole” Repubblica Mondo 29 euro 9,90

[A: 23/06/2019 – I: 30/09/2021 – T: 01/10/2021] - && e ½  

[tit. or.: Lost for Words; ling. or.: inglese; pagine: 187; anno 2014]

Ho spesso sentito parlare di questo autore, ovviamente in relazione con la sua opera più nota. Tra l’altro ho sempre avuto problemi ad inquadrarla, anche per l’uscita in un unico volume di quattro dei cinque volumi della saga dei Melrose. Qui St Aubyn si cimenta in una ironica parodia del sistema letterario inglese (e non solo), attraverso la descrizione delle avventure e delle disavventure che contornano l’assegnazione di un fantomatico premio letterario, l’Elysian Prize.

Seguiamo quindi un variegato gruppo di professori e letterati di varia natura che viene chiamato a fare da giurati per l’assegnazione del premio in questione, sponsorizzato da una ditta, l’Elysian, che produce pesticidi mortali, che, per esempio fornivano frumento ibridato con merluzzo artico per renderlo resistente al gelo. Per rinnovare la propria immagine la ditta decide di dare il proprio nome al premio.

Giurati che guardano più al proprio ombelico, ed al proprio tornaconto, piuttosto che ai libri ed agli altri scrittori. Come la cinica Vanessa Shaw, che ignora bellamente la figlia anoressica, ma che si veste da professoressa per correggerle un racconto scritto per un blog di anoressiche. Come l’improbabile presidente Malcom, spesso e volentieri altrove. Come la giornalista Jo Cross, ossessionata dalla domanda di quanto sia rilevante lo scritto per i suoi lettori. O infine l’attore bello e fuori posto, che cita brani dei libri in concorso come li avesse letti. Quando poi si scopre che i giurati generalmente non li leggono, se li leggono ne leggono a sprazzi, o, meglio, se ne fanno dare audiolibri da sentire in macchina-

Ci sono poi gli autori. Come Penny, che cerca di sbarcare il lunario scrivendo improbabili romanzi gialli, licenziandosi da un sicuro posto al ministero, e che utilizza un app di scrittura per arricchire i suoi scritti. Un app che se lei scrive “rifugiato” le suggerisce di modificarlo con “un patetico fagotto stretto tra le mani”. C’è il trionfo nobile indiano, che pubblica a sue spese una saga familiare intitolato “L’elefante di Mulberry”. E poi c’è Katharine Burns. Scrittrice che passa compulsivamente da un uomo all’altro. Che scarica il suo editore per aver sbagliato l’invio del suo libro (e su questo torniamo), ma che da lui salta al collega che non fa che ripetere concetti filosofici campati per aria, passando per uno scrittore che l’adora ma che ha una funzione passiva, praticamente il suo zerbino.

Dicevamo dell’errore dell’editore, anzi della sua segretaria, che imbusta male il racconto di Katherine, anzi sbaglia proprio, inviando al suo posto un libro di ricette indiane, scritto da una vecchia signora indiana, parente del nobile di cui sopra. La “Zietta” aveva intenzione proprio di scrivere un libro di cucina, ma lo infarcisce dei ricordi della sua vita nell’India di un tempo. contro ogni pronostico, e contro la volontà di tutti, sarà proprio lei a vincere il premio gettando scrittori e giurati nello sconforto totale. Chi perché non ha vinto, chi perché non capisce per chi ha votato. Ed altre piacevoli amenità.

La bravura indubbia dell’autore si istanzia in piccoli siparietti che farciscono il libro. Cambi di punti di vista, scambi di telefonate alla ricerca di Katherine che scompare. Brani dei libri, in cui si cimenta nell’esposizione di quanto peggio possa produrre un autore all’apice della sua non-cultura. Purtroppo, St Aubyn viene a mancare non sul lato ironico, ma sulla presenza di una trama che possa coinvolgere il lettore. Si va avanti a colpi di ironie e discussioni da salotto, che credo rendano contento e divertano solo l’autore stesso.

A ben vedere, quello che resta è un messaggio, valido per tutte le giurie del mondo, su come non comportarsi in questi frangenti. Su come sentire cosa viene realmente detto. Prendo ad esempio il discorso di accettazione del premio della Zietta, che parla di riso e spezie, e tutti pensano stia facendo un grande discorso antropologico. Quasi che alla fine, l’autore rovesci l’ironia, partendo dall’incapacità di scrivere (esemplificata da quei brani inseriti e dove si prendono in giro i vari generi letterari, dal romanzo storico a quello sulle difficile realtà delle periferie urbane, dal thriller un po’ sgangherato a, appunto, le ricette di cucina sbandieriate come saggio) ed arrivando ad una più amara sentenza, quella sull’incapacità di leggere.

Un monito che io, lettore compulsivo, sento di dover condividere, ed a cui spingo con queste mie righe a volte sgangherate. Leggete, anche poco, ma leggete bene.

Alla terza trama, avendo esaurito i “libri felici”, spero che vi porti un po’ di serenità rileggere citazioni passate.

Come credo ci farà riflettere Carola Susani che in un libro su terremoto nel Belice, “L’infanzia è un terremoto”, ragionava sul sentimento di perdita, di inadeguatezza, anche di paura, perché, dice, “avevo gli anfibi, ma la protezione che danno i miei anfibi è un’apparenza, hanno un buco invisibile, se finisco dentro a una pozzanghera imbarco acqua”.

Noi, di certo, non si rischia di imbarcare acqua, che tanto piove poco. Ma si rischia di trovarci in un nuovo guaio che la pandemia ci farà sorridere. Perché temo gli slavi anche quando stanno zitti. Avrei voluto anche viaggiare tra l’Ucraina ed il mar Nero, e spero che la guerra annunciata non ci sia. Quindi, cantiamo, riscaldiamoci, stringiamoci a coorte, ed abbracciamoci rimanendo vicini.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di febbraio

Credo, a posteriori, che il 2009 sia stato un anno di grandi riflessioni personali. Tante sono infatti le frasi che mi sono rimaste addosso, che mi hanno fatto riflettere su di me e sul mondo intorno a me. Tante che per riempire i ricordi di questo mese, ci concentriamo tutto nel mese di giugno di quell’anno. Con la nota tecnica che indico, ormai che lo facevo, le relative pagine.

Iniziammo quel mese con alcuni romanzi italiani. Il primo, poi, venne da un autore allora sconosciuto e che tale è rimasto. Mi riferisco a Francesco Ceccamea ed al suo primo libro “Silenzi vietati” dove c’erano due filoni di riflessione: i rapporti con le donne e il proprio essere personale, la propria strada. Sulla seconda via, diceva alcune cose condivisibili (in tutto o in parte). Cominciava (15) con “l’idea di leggere mi piace, e mi piace di più comprare libri, e poi non leggerli”; poi (88) proseguiva “forse spero di trovare qualcuno che capisca che ho bisogno di aiuto”. Mentre la chiusa con citazione (129) era magistrale (ed io l’ho ritrovata anni dopo): “c’è un antico detto indiano che dice più o meno così: ‘Quando si è da soli a sognare è un sogno, ma quando si è in due a sognare si è già nella realtà”.

Verso le donne, invece, c’è un sentimento ambivalente. Cominciando (63) con una considerazione un po’ maschile: “le donne sono come gli uomini. O almeno credo. Sono complesse quanto noi, solo che prima lo nascondevano”. Prosegue poco dopo, prima (70) con una punta di straniamento: “io ho paura delle donne. Ho paura, anche se le amo. Non so se si possa aver paura di ciò che più si ama. Non saprei amare le padelle senza manico, solo averne un terrore smisurato, perché, al pari delle donne, non le capisco proprio.” Poi (80) con una considerazione alla Woody Allen: “ho preso a lungo in seria considerazione di diventare ginecologo, per lo meno avrei visto un po’ di fica, ma poi non ricordo dove ho letto che una donna, quando va a farsi visitare dal ginecologo, a tutto pensa tranne che al sesso, al di là delle barzellette e dei film di Tinto Brass”. Concludendo (102) con un pensiero che a me e ad altri maschietti è di certo passato nella testa (anche se forse non a tutti i maschietti): “quando incontro una ragazza che mi piace io ho paura di fraintendere, di cogliere un interessamento dove interesse non c’è. E questo perché mi è capitato un sacco di volte di farmi un film tutto da solo”.

I problemi di donne e di sesso furono rafforzati dalla prima lettura di Alessandro Perissinotto. Nella storia gialla o quasi “Una piccola storia ignobile” ci si perdeva (48) in pensieri tipo “occhio non vede…”: “…ti trovi in una situazione che sembra per forza portare al sesso. Sei lontano da casa… e nasce una complicità, un desiderio reciproco al quale non puoi resistere; anche se lo sai che il giorno dopo non rimarrà più nulla. Anzi, lo fai proprio perché sei sicuro che non resteranno strascichi…”. Lo stesso autore, poi, in uno dei suoi interessanti libri “storici” usciti per Sellerio “Treno 8017”, proponeva un’idea (95) dalla quale dissento totalmente: “ma come si fa a fare il turista? Fare il turista è un’arte; bisogna esserci nati; essere inglesi, o almeno ricchi, da generazioni”.

Sempre quaggiù in Italia, assaporando “Il giorno prima della felicità”, Erri De Luca diceva due frasi, una (78) nello stile del suo ultimo periodo di uscite, un po’ criptico, un po’ magico: “Hai paura… di me? Sì, e nessun coraggio sarà bello come questa paura”. L’altra (113) che mi portava a riflettere sui nostri rapporti con gli altri, su quello che ci diciamo, e su quello che tacciamo: “le parole … dopo che le dici non le puoi ritirare”.

Non ha mai scritto cose che mi hanno lasciato un segno. Anzi, quasi tutte le poche cose che ho letto di Margaret Mazzantini non mi sono piaciute particolarmente. Così anche il suo tanto osannato “Venuto al mondo”, se non fosse (135) per un dialogo sulla voglia e la bellezza di avere figli:

“- Voglio un figlio con questi piedi qui …

- Che cosa hanno di bello questi piedi?

- Sono i suoi”.

La fine del mese, invece, si passò ad autore stranieri.

Lessi i “Soldati di Salamina” di Javier Cercas e lo ricordo come unico libro decente tra i suoi che mi sono passati per le mani. Anche se parlava di altro, nel libro c’erano alcuni interessanti pensieri sulla scrittura. Sia all’inizio (19): “era un bravo scrittore, ma non un grande scrittore, anche se non avrei saputo spiegare chiaramente la differenza tra un grande scrittore e uno bravo”, si verso metà (138): “giunto [al benessere] … si rese conto… che si poteva vivere ma non scrivere, perché scrittura e piena soddisfazione dei bisogni sono incompatibili”. Ribadendo poco dopo (149) un pensiero che deriva da uno scrittore, e si riferisce ad un modo di essere, anche dello scrittore: “John Le Carré dice che bisogna avere una tempra da eroe per essere una persona decente… ma una persona decente non è di per sé un eroe”.

Ma soprattutto, ad un anno dalla morte di mio padre, mi portava a pensare (44): “mi trovai a pensare a mio padre… tra non molto … quando non mi ricorderò più neppure vagamente di lui, allora sarà definitivamente morto”. Ora, dopo altri più di dieci anni lo ricordo ancora. Non è ancora definitivamente morto.

C’era poi quest’autrice a volte melensa, Penelope Lively, che tuttavia scriveva di un luogo che a me rimane tutt’ora nel cuore e nella mente. Penso a “Incontro in Egitto” con due filoni di ragionamento: i diversamente adulti ed i diversamente amanti. Sui bambini ecco (46 e 57) due affermazioni che ho sempre portato con me: “i bambini non sono come noi… non vivono nel nostro mondo, ma in un mondo che abbiamo perso e non ritroveremo mai più. L’infanzia non la ricordiamo, la immaginiamo” e “per tenere testa ai bambini bisogna avere una certa mentalità”. Mentre per l’amore, sosteneva qualcosa sul distacco (115) “voglio comprarti qualcosa. Cerchiamo qualcosa che tu possa guardare con occhi umidi quando me ne sarò andato” e qualcosa sul rimanere attaccati (151): “perché sono rimasta a lungo con lui? Quando mai le scelte sessuali sono razionali o sensate? … era un’ottima persona con cui andare a letto, e per giunta divertente”.

Inoltre, memore dei miei lunghi studi arabistici, ricordava una cosa (115) cui tuttora sono rimasto. Prima si rivolgeva a dei postulanti: “Non le vogliamo. Imshi” e poi concludeva con la persona con cui stava passeggiando nel suq del Cairo: “le uniche parole di arabo che conosco sono comandi o insulti”.

Poi venne una delle mie prime scoperte della letteratura svedese, Henning Mankell. Con due libri di natura opposta, come ambienti. La prima “La leonessa bianca”, con i ricordi sudafricani, mi ha riportato nei grandi parchi, tra il Kruger e lo Swaziland. Con una frase (120) molto legata al razzismo imperante: “nel mio paese [il Sudafrica] esistono grandi parchi naturali dove gli animali sono lasciati in pace. Contemporaneamente, abbiamo dei grandi parchi per esseri umani dove quelli che ci vivono sono costantemente molestati. Per questo, nel mio paese, gli animali vivono meglio degli esseri umani”. Ed una discussione sul potere (189) delle storie:

“- Non sempre si può capire… una storia è un viaggio che non ha mai fine.

- Forse questa è la differenza fra noi due … Io sono abituato e mi aspetto che ogni storia abbia una fine. Per te, una buona storia non finisce mai”.

La seconda, “Scarpe italiane”, si interrogava sui rapporti. Sul rapport con sé stessi (39): “…guardai di sfuggita il mio viso … capelli spettinati, labbra serrate, occhi infossati. Per niente bello. … Penso di essere stato un bell’uomo da giovane, se non altro in quegli anni un buon numero di ragazze mi trovava attraente. … a un certo punto tolsi i tre specchi che erano in casa, non volevo vedermi”. Sul rapporto con il tempo (51): “Raramente le persone diventano quello che avevano pensato di diventare”. Sui rapporti con gli amici (259): “Tu non sei mai stato una brava persona… Sei sempre sfuggito alle tue responsabilità. Non diventerai mai buono. Ma forse potrai migliorare”. Sul rapporto di coppia e sulla fine (268): “Le nostre vite sono state quello che sono state. Presto morirò. ... poi anche tu te ne andrai. Allora la traccia sarà cancellata. La luce ha brillato fra due grandi oscurità”.

Io penso ai miei, di rapporti, al mio, di futuro, perché sempre si pensa e…