domenica 24 dicembre 2023

Natale (e Capodanno) in giallo - 24 dicembre 2023

Ancora gialli italiani, ma soprattutto un saluto, come dice il titolo. Questa è l’ultima trama del 2023, che siamo a Natale ed io mi riposo (penso sia meritato) dalla scrittura fino all’Epifania.

Qui abbiamo in ogni caso una rappresentanza sfaccettata degli autori italiani. C’è l’ormai classico de Giovanni con l’ultima puntata scritta dedicata a Sara Morozzi. Una scrittura iniziata discretamente ma andata in calando, episodio dopo episodio. Ci sono poi due scrittori, Alessandro Reali e Alberto Minnella, uscita dalla grande fucina giallistica dei Fratelli Frilli, ma con dei risultati non proprio esaltanti. Leggibili, al più. Fortuna che si sale di livello e gradimento con gli ultimi due episodi di Giovanni Ricciardi che con il suo ispettore Ponzetti mi permette utili divagazioni, personali e romane.

Maurizio de Giovanni “Sorelle” Rizzoli euro 19 (in realtà, scontato a 18 euro)

[A: 30/05/2023 – I: 30/06/2023 – T: 01/07/2023] &&     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2023]

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Purtroppo, si va peggiorando di Sara in Sara. Cioè, la scrittura di de Giovanni è sempre di buon livello, ma ci sono momenti in cui riesce ad imbastire storie che si tengono bene in piedi ed altri in cui il romanzo fa acqua da tutte le parti. Qui, siamo a metà del guado.

Intanto, come avevo detto nel sesto volume delle storie di Sara Morozzi, anche se tutti ne conoscono la storia, il nostro mentore ci porta di nuovo in giro per raccogliere pezzi sbrindellati di quello che succede prima dell’inizio delle storie. Per chi non avesse avuto né voglia né tempo di leggerne a suo tempo, ricordo intanto che le avventure di Sara cominciano che lei non solo è pensionata dal suo lavoro di intelligence, ma è anche rimasta senza il suo grande amore Massimiliano, portatogli via da un tumore.

Non ripercorro tutta la trafila che porta al presente (questa volta, con una punta di cattiveria, vi rimando all’appendice del libro, che elenca i personaggi e le storie, così forse sarà servito a qualcosa), ma vi aggiorno sullo stato dell’arte.

Ritiratesi in buon ordine e con la prospettiva di dedicarsi alle gioie familiari ed amicali abbiamo appunto Sara Morozzi, detta la Mora, esperta in pensione dell’interpretazione delle posture umane e dell’interpretazione dei labiali insonorizzati. Con lei la nuora Viola, fotografa e maga della rete, con il nipotino Massi, l’innamorato non dichiarato di Viola, Davide, con Boris, il suo fantastico cane Bernese del Bovaro. Completa la squadra l’ipovedente Andrea, super campione dell’ascolto di nastri e di rumori.

In mezzo al guado c’è Teresa Pandolfi, detta la Bionda, un tempo sodale di Sara nell’Unità Speciale, di cui ora ne capeggia una sezione. Anche se la segretezza piramidale non permette né a lei né a noi di capire chi fa cosa in quelle strutture da Servizi Segreti. Poi ci sono “quelli”, che si vorrebbero cattivi (e probabilmente lo sono) ma che sicuramente sono dediti ad attività non sempre al di qua del lecito.

Come e più delle altre storie, questa è ben legata alla precedente, con un’unica fondamentale divergenza. C’è sempre un andar su e giù nel tempo, che, anche se lo sappiamo a memoria, il nostro autore ci deve delucidare sulle avventure di Sara prima che diventi Sara. Ma questa volta, tanto per mandare in confusione il lettore, queste parti non sono in corsivo. Così, se ti distrai un attimo, non capisci più cosa stai leggendo, o meglio, in quale parte del tempo si svolge l’azione descritta. Un rimedio forse peggiore del male.

L’altro elemento è appunto il concatenarsi delle vicende. Nel sesto episodio avevamo visto tutta una serie di avventure legate ad un individuo, il Bombardiere, poi alla sua morte, al ritrovamento di nastri compromettenti. Tutto questo agito da Sara ed i suoi. Con un finale in cui, per togliersi da tutti gli impicci, sarà Teresa a dare una piccola mano ai nostri. Piccola ma definitiva.

Un aiutino (come dicono i televisionari da odio) che non è stato gradito dai Servizi deviati (ma poi neanche tanto), che decidono di rapire Teresa, farla rinsavire, cercare di capire se nasconde altri segreti ed eventualmente, una volta messa in grado di non nuocere, eliminarla.

Sarà solo Sara che intuisce, da alcuni piccoli segnali, che Teresa è in pericolo. Sarà Davide che in una non autorizzata perquisizione trova un nome che stona con il contesto. Nome che solo Sara sa collegare con la madre dell’unico amore di Teresa, morto anni ed anni prima in un conflitto a fuoco. E sarà la nostra squadra che viene in possesso di elementi interessanti per disinnescare la bomba che sta per scoppiare sotto la sedia della Bionda.

Il tutto condito dalla presenza di elementi deviati a tutti i livelli, dall’esercito alla politica, dalla magistratura alla chiesa. Insomma, una summa del mondo italiano così come lo conosciamo. Ma forse descritto in maniera tropo didascalica. Non prende il lettore, né si sviluppa in una trama credibile. Rimane il motivo di fondo, quello del titolo, dove la Bionda e la Mora, pur nella diversità delle scelte di vita, grazie ad un sentimento reciproco di stima e di affetto, si scoprono a scegliersi come sorelle. Che i parenti te li trovi, gli amici li scegli.

Resta anche un fondo di accenno ad altro. C’è un cameo del dottor Nico (incontrato nell’episodio 6), che riempie un paio di pagine all’apparenza inutili. Ed un accenno ad un trafficante bulgaro di alto livello malavitoso, che appare e scompare dalle pagine. A prima vista sembrano accenni inutili, a meno che non servano ad introdurre un qualche intreccio in eventuali futuri episodi.

Dispiace un po’ che, preso dalla ragnatela dei Servizi e dai ricordi del passato dei protagonisti, rimanga un po’ in ombra il loro presente. Riuscirà il nostro esimio scrittore a raddrizzare il tiro? Con Ricciardi c’è riuscito, con Pizzofalcone sta in modalità dormiente e quindi non sappiamo. Qui, vedremo.

Alessandro Reali “Fitte nebbie” Corriere Noir Italia 03 euro 7,99

[A: 22/06/2023 – I: 18/07/2023 – T: 20/07/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 152; anno: 2012]

Alessandro Reali inizia dopo i quarant’anni un’attività interessante di scrittore, in generale di libri gialli, affiancando (ed a volte sostituendo) il suo lavoro ufficiale presso l’ENI. In particolare, viene contattato dalla casa editrice genovese dei Fratelli Frilli, che all’inizio del secolo ha un’idea vincente: chiedere a svariati scrittori di ambientare le loro storie, in generale noir o thriller, nei luoghi della loro vita, regione, città, provincia che siano.

Così Reali ha buon gioco, a fronte di una buona, pur non eccelsa scrittura, di sfornare negli anni ’10 una serie di romanzi ambientati a Pavia, intorno ad un’agenzia investigativa gestita dai due personaggi fissi dei vari episodi. Sono Gigi Sambuco, tranquillo avvocato di provincia, sposato, ma segnato dal dramma della recente morte del figlio, e Anselmo, detto Selmo, Dell’Oro, ex-teppista cresciuta nelle strade, di cui conosce segreti e misteri, ha una morale rivedibile, e l’ossessionante bisogno di avere (sempre) una donna accanto).

Non nuova, anche se non frequentissima, l’idea di avere una coppia investigativa in azione. Ovviamente non parlo delle coppie sbilanciate, come Holmes & Watson o Wolfe & Goodwin, ma di quelle che si muovono in modo paritetico come Nick & Nora Charles di Dashiell Hammett o Hap & Leonard di Joe Lansdale. In questo in nostri Gigi & Selmo si muovono bene, uno braccio, l’altro mente, ma complementari per arrivare alla soluzione del caso.

Seppur il contesto ed il contorno ne farebbero un inizio interessante (ed in effetti, il sottotitolo recita: “La prima inchiesta di Sambuco & Dell’Oro”) ci sono alcune riserve che bloccano una partenza a tutto gas. La prima riguarda questa collana, di cui questo è il primo titolo che leggo. Una collana edita dal Corriere e pubblicata come allegato alla Gazzetta dello Sport. È una collana di tutti testi provenienti dalle edizioni dei Fratelli Frilli, e questo è un bene. Ma di una confezione poco curata. Ad esempio, non viene indicato l’anno di pubblicazione, come se fossero tutti titoli scritti a tale scopo. Mentre questo, pubblicato a giugno 23, vede la luce undici anni prima.

La seconda riguarda un po’ tutto l’impianto del giallo, laddove, scritto come detto nel 2012, riporta l’azione ai primi anni ’90, e non ci si meraviglia che ci si vada ad impantanare in discorsi molto vicini a tangentopoli, con un senno di poi che non ne illumina o schiarisca il contesto.

L’azione si svolge poco fuori Pavia, in contrada Borgo Ticino ed il punto centrale sembra il giornalista d’assalto Felice detto per contrappasso Felicino, per la sua stazza. Autore poco ascoltato di articoli che vanno alla ricerca dei possibili scandali che porteranno alla tangentopoli vera e propria, viene colpito dalla morte da Marisa sua appena ex compagna (lo lascia nelle prime righe del romanzo), uccisa pare in una rapina ad un distributore di benzina. Rapina che non convince Felicino, e che incarica i nostri investigatori di fare chiarezza, di trovare i veri motivi della morte.

Indagando nei vari ambienti frequentati da Marisa, dalle inchieste di Felicino su Tiziano Ferri (comunque, l’autore poteva trovare un nome un po’ meno musicale), i nostri investigatori ricostruiscono trame scontate. Inquinamento, carabinieri deviati che aiutano dietro compenso, killer prezzolati. Anche Marisa diventa una figura ambigua, laddove tutto è ambiguo.

La vena politica di Reali si stempera in un discorso assai scontato dove certo la morte di Marisa verrà chiarita, dove il corrotto avrà il suo fio, ma che, come insegna tangentopoli, tutto cambia per rimanere uguale. Ci meravigliamo forse che il deputato che stava dietro a tutto poco dopo i fatti cambi squadra passando da Craxi a Berlusconi? Ci meravigliamo che Ferri, dopo un paio d’anni di carcere, tornerà sulla cresta dell’onda?

Tutto forse vero, ma tutto assai scontato e con poche novità. Fa piacere che i fratelli Frilli pubblichino e che il Corriere presenti al grande pubblico questi libri (che forse si avrà un buon riscontro per il giallo italiano). Tuttavia, questa prima lettura non soddisfa gran che, anche perché, anche se varia critica ne parla, non ho trovato né nuove idee né battute da ricordare.

Da ricordare e da tenere a mente che il Borgo Ticino dell’azione, in quel di Pavia poco oltre il fiume stesso, non è quella che conoscevo io, cioè Borgo Ticino nel Piemonte novarese, che le due contrade distano un’ottantina di chilometri.

Alberto Minnella “Il gioco delle sette pietre” Corriere Noir Italia 11 euro 7,99

[A: 28/08/2023 – I: 02/09/2023 – T: 04/09/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 117; anno: 2013]

Eccoci ad una nuova lettura dei noir italiani uscite per i tipi di RCS Media che ripropongono una serie di pubblicazioni edite dalla benemerita casa editrice Fratelli Frilli di Genova. Una casa che promuove gli autori italiani, con un buon parco scrittori ed alcune punte di rilievo, come Bruno Morchio. Il punto dolente è che in queste edizioni non viene mai riportata la data delle edizioni originali, che ogni volta devo ricercare nel catalogo dei libri editi in Italia.

Alberto Minnella è un giovane quasi quarantino nativo di Agrigento, laureato in musica e cronista per alcuni giornali siciliani. Dieci anni fa ha cominciato una saga noir imperniata sulle indagini del commissario Paolo Portanova, ed ambientate (almeno quelle a me note) nella bellissima città di Siracusa. Città che qui fa la sua prima comparsa, diventando comunque un protagonista silente del romanzo.

Andando in fatti per le due parti storiche aretusee si svolge la vicenda, che a me ha fatto tornare in mente le mie belle, e non solitarie, passeggiate per Ortigia, con visita alla fonte e giri sul lungomare. Per non scordare l’interno con il bellissimo teatro greco, che ospitò una meravigliosa rappresentazione della “Conversazione su Tiresia” con Andrea Camilleri.

Il filo rosso di Minnella, nascosto assai bene all’inizio e palese alla fine, è l’arroganza del potere, o dei poteri che, economicamente e politicamente, hanno governato (e governano) la Regione Siciliana. Per non fare quindi un discorso troppo modernamente oscuro, l’autore colloca la vicenda una sessantina di anni fa. Per la precisione tra il 31 dicembre 1963 ed il 4 gennaio 1964. Una precisione che ha portato una piccola chicca che riprenderò in finale.

In quel Capodanno, la squadra al comando di Portanova sta tranquillamente cercando di passare una serata senza troppe scosse, quando viene interrotta dall’insistenza di una zitella, la signorina Russo, che è convinta di aver visto un rapimento davanti al ristorante “La Spada Blu”. Recatisi sul posto, i nostri trovano tracce di colluttazione, sangue, ma nessun corpo, né ferito né cadavere. Risulta solo, ma sarà verificato solo in mattinata, la scomparsa del proprietario del ristorante, il signor Passanisi.

Come avviare un indagine con un possibile morto ma senza cadavere? Portanova, testa pensante, sigaro accesso nella mano destra, comincia ad indagare, con un piglio che ricorda le ronde parigine di Maigret. Chi era Passanisi? Come se la passava il locale? Aveva nemici?

Con molta difficoltà si scoprono alcuni piccoli filamenti. Passanisi era probabilmente sotto schiaffo dal boss mafioso locale. Per la gestione giornaliera del locale era coadiuvato dalla bella Rosaria. Il locale poi era frequentato, spesso e con agio, da Giampiero Fortuna, giovane rampante in via di fidanzamento con la figlia del boss.

Scoperte varie si susseguono in breve tempo. Foto compromettenti di Giampiero e Rosaria, scagnozzi mafiosi che si aggirano per la città, uno stagnaro misteriosamente scomparso. Portanova, con il suo fare un po’ distratto (sono giorni in cui piove sempre ed al nostro la pioggia porta brutti ricordi), unisce a poco a poco i punti sparsi sulla tela del noir, per arrivare ad una resa dei conti che un improvvido prologo aveva già preannunciato.

Un bagno di sangue che al nostro porta la soluzione e molte ferite. Ma c’è sempre qualcuno più in alto che i puntini li unisce in modo coerente ma diverso. Un sottofinale sciasciano che vi lascio scoprire a vostro piacimento. Disegni sgradevoli ma realisti.

Purtroppo, ed è questo il punto “minus” del romanzo, è tutto già prevedibile. Anche se la scrittura sorregge bene il testo, vedrò in futuro se altre vicende siracusane porteranno acqua fresca alla fontana di Ortigia.

C’è un punto, inoltre, che mi lascia perplesso. Il gioco del titolo è un gioco “d’infanzia”: si mettono sette pietre a formare una piramide. Una squadra (ma anche un solo ragazzo) con una piccola palla prova a buttar giù le pietre, e con la stessa palla cerca di colpire la squadra avversaria che, contemporaneamente, devo ricostruire la priamide distrutta. Come Portanova che distrugge la trama, ma qualcuno la ricostruisce da un’altra parte. Peccato che il gioco, secondo uno scritto di Nicola Saliani, esperto di tradizioni locali, fosse inventato alla fine degli anni ’60, mentre qui ne siamo all’inizio.

Riprendendo il punto lasciato in sospeso, ad un certo punto un procuratore viene descritto in un atteggiamento che ricordava il portiere russo Lev Yashin. In particolare quando, pochi mesi prima della vicenda, nel novembre del ’63, parò un rigore a Sandro Mazzola. Una partita che poi finì in parità, portando all’eliminazione dell’Italia dai Campionati Europei. Me lo ricordavo, pur nell’infanzia poco rimembrante.

Giovanni Ricciardi “L’undicesima ora” Fazi editore 16 (in realtà, scontato a 12,80 euro)

[A: 04/10/2020 – I: 30/08/2023 – T: 31/08/2023] &&& ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno: 2017]

Dopo quasi quattro anni eccoci a riprendere in mano le storie oneste e pulite del commissario Ottavio Ponzetti, contornato dalla sua “famiglia allargata” (cioè moglie, figlie, genero potenziale nonché dall’aiutante ispettore e dall’ex-avvocato, che qui tuttavia compare meno). La scrittura di Riccardi continua ad essere lineare, con pochi fronzoli come si addice ad un professore di liceo. Con qualche spunto d’interesse, forse pochi questa volta, ma qualcosa c’è.

Purtroppo non uno spunto “noir” o “giallo”, tuttavia. Che la vicenda narrata sembra avere poco del poliziesco classico, anche se poi, dopo una prima metà che non decolla, qualcosa da trovare, un mistero forse da decifrare c’è.

Intanto c’è la morte di Paolo Rossi (non del calciatore, che è sì morto, ma in diverso contesto, né dell’attore che, solo di un mese più giovane, è ancora fortunatamente vivo), architetto e, quasi contemporaneamente, un incendio che ne devasta la casa padronale (non quella in cui muore). La morte sembra (è) naturale, l’incendio no. E dentro il computer di Rossi, compare una mail d’amore non spedita. Tutti elementi che implicano coincidenze, possibilità, e che non possono non mettere il nostro buon Ottavio sul chi va là.

Chi era l’architetto? Chi è la donna misteriosa? Cosa li lega e cosa li collega alla Spagna? Tutto complotta affinché Ponzetti decida di recarsi a Barcellona, dove non solo conoscerà i futuri suoceri, ma comincerà a fare collegamenti. Che Rossi era stato spesso in Spagna, ed era un appassionato del grande architetto catalano, Antoni Gaudí. Tanto che la casa incendiata riprende alcune tematiche architettoniche di Gaudì stesso.

Il fido Iannotta gli rivela anche che Rossi era stato coinvolto, senza mai prove, in possibili furti d’arte. Come confermano amici spagnoli. Inoltre, in una delle residenze disegnate da Gaudì sembra domiciliarsi la donna misteriosa. Si accumulano indizi, ma non si va avanti di molto. Sarà solo quando si scopre l’identità della donna, se ne scoprono i legami con Rossi, e con altre situazioni legate a disegni attribuiti a Gaudì stesso, e di alto valore, che le indagini cominciano ad avere una svolta. Ed il romanzo ad essere un po’ più coinvolgente.

Ci saranno tante altre coincidenze che verranno alla luce. Architetti riveli che cercano gli stessi disegni, la malattia terminale di Rossi, uno sgabuzzino di un pittore romano, una finestra a Trastevere. Confermando che la morte di Rossi era naturale, Ponzetti riesce invece a risolvere i misteri di contorno. Forse non proprio esaltanti dal punto di vista poliziesco, ma coinvolgenti dal punto di vista umano.

Ed è l’elemento umano che a noi ed a Ricciardi interessa di più. La storia della figlia grande di Ponzetti con il suo compagno catalano che non si decide a sposarla, nonostante i figli presenti e futuri. La figlia piccola, in via di laurea, ma senza un vero centro. La moglie sempre presente, attenta (che in un certo senso ricorda in modo romanesco la moglie del commissario Charistos di Markaris). La presenza, costante e molto romana, del fido Iannotta. Che aiuta Ottavio con la speranza che il suo grande capo nonché amico nonché commissario riesca a trovare i biglietti per una partita.

Questo ci dà anche l’orizzonte temporale della vicenda, che la partita non è altro che l’addio al calcio di Totti, avvenuto il 28 maggio 2017 (all’Olimpico, con il Genoa, finita 3 a 2, ma immortalata dallo striscione della curva Sud “Speravo de morì prima”).

C’è il ricordo di tanti piccoli angoli della mia città, custodi di momenti indimenticabili. Come il bar Foroni a via Britannia (anzi la Torrefazione Drogheria Foroni) foriera di tante prelibatezze gastronomiche.

Ed infine c’è l’omaggio ad Antonietta Meo detta Nennolina. Una bambina romana di una devozione profonda fin dai quattro anni, dedita alla Chiesa ed a pensieri spirituali, che muore a sette anni, nel 1937, per un tumore osseo, e che, inseguito alle sue vicende personali ed alle lettere scritte a Gesù ed alla Madonna, nel dicembre del 2007 è stata proclamata “venerabile” da Papa Benedetto XVI. Cosa c’entri con la vicenda di Rossi e Ponzetti ve lo lascio scoprire.

Ripeto, la bellezza della pulizia degli scritti di Ricciardi, sta proprio in questi piccoli tocchi, e nella figura di Ottavio Ponzetti. Un commissario senza grandi difetti, che non è permaloso, intrattabile o altro. E che soprattutto, come me, ama passeggiare per la nostra città, con gli occhi aperti sulle sue meraviglie. Una lettura non eccelsa, ma sempre gradevole.

Giovanni Ricciardi “La vendetta di Oreste” Fazi editore 16 (in realtà, scontato a 12,80 euro)

[A: 04/10/2020 – I: 23/09/2023 – T: 24/09/2023] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 221; anno: 2019]

Passiamo quindi al nono e credo, per ora, ultimo romanzo uscito dalla penna del professor Giovanni Ricciardi. Un libro che realmente segue il crinale del precedente, andando oltre, verso un giallo che non è più giallo. Verso una ricerca di verità nascoste, intessute da una trama interessante, e purtroppo poco nota. Tanto che, a sorpresa, nel 2020, fu anche inserito nei cinquanta libri che costituirono la base per la scelta del romanzo premiato poi con il Premio Strega (non andò molto avanti, e quell’anno il premio fu vinto da un libro che per altre ragioni, spiegate in altre trame, a noi si caro viene, “Il colibrì” di Veronesi).

Il non-giallo si concretizza nella ricerca che Marco Zarotti, figlio di Oreste, chiede ad Ottavio (non al commissario, ma all’uomo). Ottavio aveva conosciuto Oreste, un geometra pacato, onesto. Amicizia rimasta nell’aria del tempo, che ognuno ha il proprio tempo da vivere. Oreste muore senza riuscire a parlare con Ottavio, come avrebbe voluto. Dieci anni dopo muore anche la moglie. Mettendo a posto le carte, Marco trova due “cose” strane: una lettera che inizia con “Caro Ulisse…”, ed una pistola a nove colpi ma con solo sette proiettili nel tamburo. E chiede a Ottavio di indagare su questo mistero.

Comincia così la “Chanson de Gest” dei nostri. In primo piano, oltre ad Ottavio, il sempre fido Iannotta, ma anche Maria, la seconda figlia, l’irrequieta, che nell’aiuto al padre trova uno scopo e forse qualcos’altro. Si scava allora sulla figura del geometra, che geometra non era, o non era stato per molto tempo, avendo passato gli esami professionali solo poco prima di andare in pensione. Ma produceva progetti, firmati da un amico architetto. Con il quale faceva anche viaggi di lavoro. Viaggi che, negli anni Novanta, con le crisi economiche finiscono. Non per Oreste, che continua ad assentarsi (primo mistero) senza svelarne i motivi.

Come detto, poi a passare gli esami, fornito di un attestato di un Istituto Tecnico, una prova superata negli anni Cinquanta a Trieste. Così Maria si sposta al nord, per seguire questa traccia, e trovandone riscontri tra il Veneto, la Venezia Giulia e poi anche l’Istria. Mentre Ottavio segue le tracce rimanendo a Roma, parlando con tutti, con Marco, con la sorella di Marco, con una lontana zia (lontana di discendenza, non di età). L’unione di tutti gli sforzi porterà a scoprire la natura delle prove sopra citate. Porterà a scoprire l’intera storia di Oreste, dei suoi amori, della sua vita, dei suoi odi, dei suoi perdoni, anche di un quadro che ad un certo punto compare per mescolare le già ingarbugliate carte.

Come vedete un non-giallo che è una ricerca sull’identità, ed è permeato da tutta una storia che è altra, ma che è strettamente legata ai personaggi. Che gli Zarotti vivevano in un particolare quartiere di Roma, verso l’Eur, chiamato “villaggio giuliano-dalmata”. Ed Oreste era di Pola, mentre Nina, la moglie, di Fiume. Così che Ricciardi ha modo, parlando di loro, di parlare della vicenda dei profughi istriani. Nina parte per Roma già nel ’47, anno in cui Istria viene consegnata alla Jugoslavia. Oreste solo nel ’54. Entrambi poi per ritrovarsi vicino l’Eur, e costruire la loro vita insieme. Ma Ricciardi ci parla anche dei drammi degli esuli, delle zone triestine dilaniate, delle foibe. Insomma, di tutta una parte di storia per lungo tempo rimossa, e che solo da pochi anni si riesce a ripercorrere, a farne vedere appunto il doloroso percorso.

Ricciardi inserisce anche un personaggio storico, Maria Pasquinelli, una convinta fascista, all’epoca, che il 10 febbraio 1947 uccide con un colpo di pistola il brigadiere generale Robert de Winton, comandante della guarnigione britannica di Pola, nel giorno in cui, con la firma a Parigi del trattato di pace, Pola e la Dalmazia venivano ceduti alla Jugoslavia.

Cosa c’entra tutto questo con Oreste Zarotti è la materia che riempie il libro, e che solo per questo assurge ad una sua dignità di lettura, ai miei occhi. Che però si completa con altre due coincidenze: mia suocera Laura viene proprio da Trieste, anche se andò via prima dei fatti narrati, ma che a Trieste è sempre rimasta legata. L’altro è un curioso caso di sovrapposizione di date. Oreste muore, dopo una frattura femorale, nel 2008. La moglie Nina muore di vecchiaia nel 2018. Esattamente le stesse date della morte dei miei genitori.

Spero che Ricciardi continui ancora a tessere le sue trame romane di gialli poco gialli, che mi mancano le passeggiate di Oreste per la città e la scoperta dei suoi (di Roma) angoli segreti (anche se qui fanno capolino la biblioteca di San Marco Evangelista al Giuliano-Dalmata, l’ospedale Sant’Eugenio, il Museo di Palazzo Merulana e l’Esquilino, dove tornerei volentieri a chiacchierare a casa del mio amico Ciccio).

Allora, come detto, dovendo con dispiacere lasciarvi per un po’ di tempo, vi riempio le pagine e la mente di una serie di frasi che sono rimaste nel retino della mia memoria a valle della lettura di “Rossovermiglio” scritto da Benedetta Cibrario.

Una frase d’amore: “Allora ebbi solo l’indubitabile certezza di essere bella, ai suoi occhi, come mai più sarei stata agli occhi di qualcuno” (28), ed una sui sentimenti: “Se sono stata pigra, forse lo sono stata di sentimenti: ho faticato a esprimere un’emozione o un turbamento. Sono stata semmai una lunediante del cuore” (81) (lunediante = operaio che non si presenta al lavoro il lunedì mattina per smaltire l’ubriacatura della domenica, per esteso sinonimo di pigro).

Alcune frasi sullo scorrere degli anni e sui rapporti tra la gente: “Se osserva la propria vita a ritroso, ognuno di noi è in grado di valutare il peso di alcuni momenti, che, per lo più, si sono annunciati in sordina – mattine annoiate, o serate che avrebbero dovuto essere uguali a tante altre e che invece, inopinatamente, sono state dei punti di svolta” (65); “Penso che non conosciamo mai veramente le persone. O forse, dobbiamo ammettere che gli individui cambiano, che le loro qualità nascoste emergono in superficie o s’inabissano definitivamente quando la vita entra in rotta di collisione con loro” (94); “Curioso come alla volte, per conquistare ciò che si desidera fortemente, ci vogliono in pari misura coraggio e sventatezza.” (105)

Una frase che mi ha riportato al mio nomadismo: “I veri nomadi, lo so, hanno uno sguardo fermo e sereno, quando osservano il mutare dei paesaggi e delle consuetudini; uno sguardo che guarda fisso, avanti; è la prossima tappa ciò che conta, non quello che si lascia dietro; non li turba il cambiamento, né quella forma più sottile e incurabile di mutazione che è la sparizione.” (202).

Finendo con una considerazione, amara forse, ma sempre più reale: “sono invecchiata rapidamente, un secolo mi è sgusciato tra le dita in un soffio. Quando mi guardo indietro, mi pare di aver avuto vent’anni fino a ieri l’altro. Ne ho invece più di ottanta, anche se tutti si fa finta di non pensarci. Come si dice nel calcio, siamo giocatori in panchina …; in attesa di uscire, però, non di giocare” (142)

Quindi, finiamo con i soliti auguri di fine anno per poter affrontare serenamente un anno che pur bisestile ha una scomposizione intrigante (2024 = 23x23x11). 

Tanti auguri!!!

domenica 17 dicembre 2023

Ancora nero? - 17 dicembre 2023

Scusandomi del salto di settimana, di cui parlo in chiusura, devo rispondere: ebbene sì, avendo avuto una super lettura di autori italiani, ecco che vi fornisco una nuova messe di autori, vecchi e nuovi. Con risultati discreti, pur se non sempre brillanti. In topo position l’unica donna del lotto, Marilù Oliva, con una lettura che si avvicina molto agli attuali tempi di femminicidi. Subito a ruota Fulvio Ervas con un’avventura nel triangolo industriale veneziano. Poco distante due letture di pari efficacia: Roberto Centazzo ed i suoi anziani detective e Filippo Iannarone con una storia che mescola sapientemente realtà e finzione. In coda, ma solo perché mi aspettavo di più, un thriller poco riuscito della coppia emiliana Guccini-Macchiavelli.

Filippo Iannarone “Il complotto Toscanini” Repubblica Passione Noir 32 euro 7,90

[A: 21/01/2019 – I: 15/04/2023 – T: 16/03/2023] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 382; anno: 2018]

Sono sempre favorevolmente colpito da chi, partendo da piccoli frammenti di storia, tra il vero e l’ipotetico, riesce ad imbastire pagine che, in fin dei conti, si fanno leggere. Come queste di Filippo Iannarone, che non saranno eccelse, ma scivolano gradevolmente, facendo sì che qualche neurone si muova.

L’autore (quasi mio coetaneo, ed è un punto in più) ha fatto lunghi percorsi, partendo da Roma, laureandosi in Giurisprudenza, diventando manager all’ENI, poi aprendo uno studio di avvocati, ed ora (anche se non so da quanti anni, ma spero che siano tanti e felici), vive in Germania, sposato e lavorando nel settore alberghiero.

In questo suo primo, e per ora unico, libro riesce a condire realtà e finzione in un mix che tuttavia non stride, facendo in modo di imbastire questa trama a cavallo di circa quindici anni, tra il ’35 ed il ’49, coinvolgendo personaggi reali, e cucendo loro addosso un’ipotesi di filo “noir” che se non è vera, è comunque ben trovata.

Ho detto primo che alcuni accenni nel finale del romanzo fanno supporre che il colonnello Luigi Mari ed il tenente Barbetti potranno essere coinvolti in una nuova indagine, magari legata, come si evince dai trafiletti giornalistici riportati, alle vicende svoltesi in una fabbrica di Omegna nel giugno del ’49.

I personaggi storici sommamente coinvolti sono in realtà due, benché compaiano in modo diverso nel corso del testo: Arturo Toscanini e Alberto Rinaldi. Il primo è il filo che congiunge le pagine, ma non compare mai in prima persona se non in un telegramma dal ben noto testo, inviato da Toscanini al presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Il secondo, medico e studioso, compare solo nelle vesti del morto da cui prendono le mosse le indagini.

L’antefatto, che i soliti flashback poi ci fanno parzialmente rivivere, avviene appunto nel ’35. Il dottor Rinaldi è uno stimato medico, operante in quel di Cetona in Toscana, che ha trovato una cura interessante ed efficace per problemi artritici, cura che utilizza anche Toscanini. I due diventano amici, sia per le cure somministrate, sia per un comune senso antifascista. Amici tanto che Toscanini presenzia al battesimo di una parente del Rinaldi.

Il fattaccio è che, poco prima dell’inizio della Guerra d’Etiopia (ricordo, era l’ottobre del ’35), Rinaldi viene ucciso a bastonate. Indagini poco accurate, depistaggi e menzogne portano alla condanna di alcuni compaesani, con prove circostanziali e risibili. Come se qualcuno volesse insabbiare il tutto (ma davvero? E questo durante il Ventennio?).

La storia sarebbe rimasta uno dei tanti misteri italici, se non che, nel ’49, il presidente della Repubblica, come gli consente la Costituzione, vuole nominare alcuni senatori a vita, tra cui, per l’appunto, Toscanini. Si mobilitano allora polizie, eserciti e servizi segreti per setacciare la vita di Toscanini, affinché nessuna macchia possa comprometterne la nomina (certo che se fosse così anche adesso, avremmo il Parlamento italiano pressoché vuoto).

Da qui cominciano le indagini di Mari e Barbetti, che troviamo anche gustosamente immerse nell’epoca narrata (in particolare quella fine primavera del ’49). Leggono i resoconti giudiziari, i giornali dell’epoca del delitto, vanno in trasferta a Cetona, parlano con parenti e compaesani. Che Toscanini era in Cetona nei giorni del delitto, ma poi non vi torna più, trasferendosi stabilmente in America fino alla fine della Guerra.

Alla fine, Mari riesce ad imbastire una soluzione della grande avventura/imbroglio intorno alla vicenda di quello che le cronache descrissero come “l’uccisione del medico di Toscanini”. Non è dato sapere se sia la verità, ma di certo è plausibile. Come è certo che non vene parlo, per non svelare troppo.

Ho detto anche che è gradevole la descrizione ambientale. Sia degli avvenimenti durante gli anni Trenta, ma soprattutto in quel ’49. Dalla visita della principessa Margaret ricevuta dal presidente Einaudi il 13 maggio alle radiocronache del Giro d’Italia del ’49, quello della famosa tappa di montagna Cuneo – Pinerolo, stravinta da Fausto Coppi con 11’ di vantaggio su Gino Bartali.

Un romanzo alla fine gradevole, anche se la trama, il complotto del titolo risulta un po’ leggerino e forse con la necessità di qualche pagina in più. Mentre di sicuro andavano eliminate (o ridotte) le pagine dedicate a troppi dialoghi tra i protagonisti.

Una chicca finale, nella frase sotto riportata, generalmente attribuita a Giulio Andreotti, ma che risulterebbe parto del giornalista americano Henry Louis Mencken. Frase che riporto come risulta dagli archivi storici (la prima) e poi come viene riportata dall’autore.

È un peccato credere nel male degli altri, ma è raramente un errore.”

“H. L. Mencken: Si fa peccato a pensare male degli altri, ma raramente è un errore.” (348)

Fulvio Ervas “C’era il mare” Repubblica Emozione Noir 17 euro 7,90

[A: 07/10/2019 – I: 06/07/2023 – T: 07/07/2023] &&& ---   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 332; anno: 2018]

Secondo quanto è scritto sui suoi siti, l’ottimo Ervas, natio nei dintorni del Piave, ha pubblicato nove libri dedicati a problemi “noir” nelle zone che vanno dalle marche trevigiane al mare, tra Venezia e le sue lagune, e questo ne è il penultimo, che dal ’18 al ’22, tra altri impegni e pandemie varie, l’ispettore Stucky e compagnia è stato messe un po’ da parte.

Un giorno o l’altro, riuscirò a reperire anche i primi volumi di questa serie, di cui ho libri sparsi, e magari ricostruire le vicende di tutti i personaggi, che, purtroppo, la scrittura di Ervas non ci restituisce a pieno. Mi rendo anche conto che uno scrittore voglia sganciare un libro dall’altro, creando una scrittura che possa stare in piedi da solo. Tuttavia, questo non è il caso di Ervas, e quindi, pur in un libro che risale la china rispetto ad altri dell’autore, siamo sempre sull’orlo.

Come in tutti i romanzi seriali, il racconto si svolge su diversi piani: le vicende personali, le indagini sui morti, ma soprattutto, come personaggi che vengono a galla pian pianino, le città ed il loro territorio.

In primo piano abbiamo ovviamente i due ispettori. Che, se all’inizio c’era solo lui, l’italo-persiano Stucky, ora compare sempre più in parallelo anche l’ispettrice Luana Bertelli. Stucky è sempre più uguale a sé stesso, riflessivo, discendente pieno delle sue due culture originarie. Negli episodi precedenti, qua e là aveva avuto delle storie, qui lo ritroviamo solo, con i suoi pensieri, con l’assenza dei giudizi verso i fatti che incontra (e non è poco), con le sedute verso l’aeroporto a veder le stelle e gli aerei che atterranno, assieme ad un simpatico vecchio soprannominato Bisat. Inciso: divertente è l’origine dei nomi. Bisat deriva dal nome locale delle anguille (da cui abbiamo per derivazione, le piccole anguille, i Bissattini…); mentre Stucky è il nome di una grande costruzione, il primo grande mulino costruito alla Giudecca di Venezia dall’imprenditore svizzero Giovanni Stucky. Una storia che meriterebbe un suo discorso puntuale che però non è di queste righe.

Intorno a lui, i suoi sottoposti, le solite “macchiette” anche se poco pronunciate, una dedita allo studio dello spagnolo per venire incontro alla sua fidanzata brasiliana (con Stucky che gli domanda perché non il portoghese, allora?), l’altro all’hata yoga. Poi le due sorelle del vicino vicolo, Veronica e Sandra, sempre sull’orlo di qualcosa di più di un’amicizia. Ed ovviamente lo zio Cyrus, che lo aveva allevato, e che finisce sempre le storie (o quasi alla fine) con dei manicaretti persiani.

Sull’altro versante, Luana Bertelli, un po’ fluida, amante delle armi (si trova spesso al poligono, dove farà incontri decisivi), ma soprattutto presa delle sue nipotine forse troppo prese dalle fashion blogger. Anche lei ha i suoi aiutanti, uno palestrato (e di poco cervello), l’altro dedito ad infarcire discorsi ed interrogatori con le massime di Spinoza (e ricordiamone una, quando riporto come il grande Baruch, che le azioni umane non vanno derise, compiante o detestate: vanno comprese).

Le inchieste (vedremo presto perché) si sviluppano in parallelo. A Treviso, da Stucky, viene ucciso Remo Canton, un cronista di nera, ormai anziano, ma all’epoca sempre pronto a dare battaglia anche sui processi politici. A Marghera, il morte è Leone Forti, un anziano sindacalista, che, ormai in pensione, aiutava tutti, in particolari gli immigrati sottopagati e iper-utilizzati di cantieri di Marghera. E lo sviluppo duale è anche sottolineato dai capitoli, dedicati alternativamente alle due città.

Che si riuniscono quando appare un terzo morto, l’avvocato Casagrande, a metà strada tra le due città, dove quindi nono solo per ragioni logistiche ma anche per i problemi connessi alle varie storie, i nostri due ispettori devono indagare insieme. Perché i tre assassini sono collegati in diversa maniera, e le indagini porteranno i nostri a dover indagare in un mondo di rancori che viene da lontano. Dalle inchieste sull’inquinamento a Marghera, dai processi, dagli scioperi e da chi, nonostante il passare degli anni, non si è rassegnato alla realtà dei fatti. 

Ed è quindi sempre al territorio, il mitico nordest, come spesso accade nei suoi scritti, che Ervas lega le sue storie. Un territorio complesso, soprattutto per Marghera, per le sue storie, per i disastri del petrolchimico. Dove si incrociano, quindi, molte storie e molti risentimenti. Certo, Marghera è proletaria e popolare, mentre Treviso è nobile, borghese, ed anche con un filo di ipocrisia. Ervas, tuttavia, riesce ad imbastirvi una storia sensata, anche se, ed è qui che cala un po’, a volte macchinosa, e non sempre completamente disvelata nel pur abbastanza chiaro finale. Anche se con Ervas e Stucky ci piace sottolineare i momenti, storici, ma anche di cronaca recente, di cui, qua e là si infarciscono le storie. Come la sottolineatura della proliferazione delle telecamere di sorveglianza nel centro delle città, che Stucky rileva con amarezza.

Finisco con quello che dove essere l’inizio. Cioè, il titolo, che si rifà ad uno degli etimi della città, anche se non tra i più accreditati. Perché a Marghera, prima delle fabbriche, c’era solo il mare. Cioè, il Mar ghe gera, da cui si capisce come derivi negli anni l’attuale nome. E come omaggio il nostro scrittore professore non poteva che metterlo in testa a tutto.

Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli “Tempo da Elfi” Repubblica Emozione Noir 12 euro 7,90

[A: 12/09/2019 – I: 24/07/2023 – T: 26/07/2023] && +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 280; anno: 2017]

Torniamo dopo tanto, troppo tempo, alla lettura della coppia bolognese, ormai diventata la coppia veterana del noir all’italiana (e co-autrice di 9 romanzi). Dato che, all’epoca della scrittura, Guccini aveva 77 anni e Macchiavelli già 83. Una lettura dedicata alla credo ultima puntata delle avventure del forestale Marco Gherardini detto Poiana, che avevamo lasciato dieci anni fa in “Malastagione”, e che ritroveremo nella seconda puntata dove (forse) scopriremo perché non funzionò tra Poiana e Francesca. Questo per sottolineare una mia (rara) imprecisione: leggere avventure seriali non in ordine cronologico. Sarà una sfida anche per me se capire in che modo, a volte, possano funzionare questa tipologia di libri.

Intanto, ci godiamo anche il sottotitolo, forse esplicativo, o forse no, “Romanzo di boschi, lupi e altri misteri”. Legato anche al titolo, che si collega alla gente che vive ai margini della comunità montana di cui si tratta in questi libri. Se fossimo negli anni ’60, parleremo di hippie. Ora, quelli che non accettano tutta la società consumistica, vengono etichettati con il termine di “elfi”, un po’ sulla falsariga delle creazioni epigone di Tolkien. Ma questo sarebbe un filone di indagini che esula dal libro e dalla mia competenza.

Quello che ci rientra è invece l’approccio mio personale di gran favore verso la coppia bolognese (per nascita e tradizione) che di sicuro porta qualche punto in più ad una storia che, in sé, non ha molto da dire. Ci sono troppi personaggi, non sempre caratterizzati. C’è una trama gialla che vaga per le pagine, non riuscendo mai a coinvolgere il lettore in qualche momento di suspense. C’è infine una confezione che provoca un anticlimax nella parte “noir”, laddove titoli ad effetto dei capitoli sminuiscono sia il contenuto sia la suspense che dovrebbero provocare. Certo, l’affetto con cui la nostra coppia parla delle comunità dell’appennino tosco-emiliano è senza dubbio privo di secondi fini, e la descrizione del mondo di Casedisopra e della gente che vi gravita è forse l’altro punto forte del romanzo.

Che lì, in quel punto imprecisato dell’appennino, convivono la comunità montana, con i suoi riti e le sue cadenze, incluse le forze dell’ordine, che, appunto, in montagna guardano più alla Forestale che ai Carabinieri, con gli hippie-elfi di cui sopra che fondano il loro stile di vita sull’uso dei prodotti della natura, sul baratto e sul non utilizzo della tecnologia.

In questo mondo dal difficile equilibrio, si innesta il ritrovamento di un giovane ucciso. Un ramingo, cioè un elfo che non è parte integrante della comunità, e che si ferma un po’ qua ed un po’ là. Il protagonista del romanzo, il forestale Marco Gherardini detto Poiana, in assenza dei Carabinieri, si vede costretto ad indagare ed a cercare di stanare le due comunità nei loro punti deboli. Così da un lato si trova ad affrontare i montanari, come Benito o Paolino, rudi, chiusi, che forse sanno, che di sicuro tacciono. Dall’altra, a frequentare gli elfi, come Elena, Joseph o Nicola, anche loro impenetrabili e con più di un segreto alle spalle.

La parte noir, sotto l’esperta guida di Loriano, andrà a poco a poco ad incasellarsi, magari allargando l’orizzonte a problematiche non solo locali, ma presenti ovunque, legate al malo modo di trattare le donne in tutto il mondo. Non mancano alcune puntate linguistiche verso il tedesco che, per la mia nota carenza verso i teutonici, ho faticato a seguire.

La parte libertaria, qui in mano a Francesco, si segue magari più a cuor leggero. Non verremo a sapere perché Marco è detto Poiana, ma lo vedremo accompagnarsi con Elena, questa volta sperando che il rapporto a due abbia un esito migliore. Vedremo anche i forestali interrogarsi sul loro futuro, e probabilmente, come in modo discutibile viene detto nella presentazione dei personaggi, per ora forestali, poi chissà.

Ma tutto il libro denota un profondo amore per le terre appenniniche, dove i boschi e le montagne dominano il paesaggio, e rendono il libro più leggero. Che, appunto, per il resto, non mi ha soddisfatto gran che. Troppi personaggi, solo alcuni approfonditi, altri quasi di passaggio. Una trama gialla che non prende, una trama romanzesca che non riesce a farsi largo tra le parole leggere che ci si aspetta. Forse dovrò leggere il secondo libro per riannodare il fili. Per ora, come suol dirsi, soddisfatto a metà.

Roberto Centazzo “Operazione sale e pepe” Repubblica Emozione Noir 22 euro 7,90

[A: 08/11/2019 – I: 25/08/2023 – T: 26/08/2023] && e ½    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 296; anno: 2018]

Anche senza indulgere in ricerche compulsive, c’è l’ottimo staff di Repubblica che, periodicamente, mi fornisce una nuova edizione delle avventure della “Squadra Speciale Minestrina in Brodo”, così com’è chiamato il trio di pensionati ex-poliziotti che, in quel di Genova, aggirandosi annoiati, aiutano (o meglio indagano per) le forze di Polizia. Spesso in sana competizione, come in questo terzo episodio, con i “cugini” Carabinieri.

Uno scenario non complesso, ma reale, che Centazzo ben conosce essendo egli stesso un Ispettore di Polizia, ed in quanto tale, l’unico ad avere la concezione di poter prendere in giro sia alcuni aspetti della Polizia sia molti aspetti dei “Caramba”.

Per chi, e spero siano in molti, ha lisciato i primi episodi, ricordo che la squadra pensionistica è composta da Ferruccio Pammattone, ex vice dirigente della Squadra Mobile di Genova detto Semolino, perché se mangia pesante si riempie di macchie rosse ed è poi costretto dalla sua compagna Jasmina ad una dieta durissima, Luc Santoro, ex addetto all’Immigrazione soprannominato Maalox, per la sua dipendenza dal solo antidoto in grado di aver ragione dei suoi lancinanti bruciori di stomaco, che cerca nello jogging un’alternativa alla pigrizia post-lavorativa) e Eugenio Mignogna, ex addetto alla Scientifica, ribattezzato Kukident, per essersi regalato una bella dentiera con la buonuscita del pensionamento e che sogna di andar per fiere con un camper e vendere panini con la salsiccia.

In questo episodio c’è un po’ più di mix tra pubblico e privato, con un conseguente miglioramento dell’andamento generale. Le indagini della nostra Squadra partono dall’alto, che il grande capo chiede aiuto ai nostri visto che Lugaro, il successore di Semolino sembra un pesce lesso. Così questa volta escono fuori diverse indagini da seguire: appartamenti di persone anziane svaligiati, piccoli furti sui mezzi di trasporto, truffe ai danni di vecchie signore e financo un feticista che ruba gli zatteroni di signorine più o meno trentenni.

Tra l’altro i nostri hanno pure problemi personali da affrontare: Jasmina è stata derubata degli zatteroni, una vecchia signora si rivolge a Maalox per una possibile truffa, e Kukident deve decidersi se accettare la corte di una distinta signora che però vive in Francia. Non ultimo poi il problema dei Carabinieri che sembrano sempre un passo avanti, tanto che risolvono ben presto due dei quattro casi.

Ai nostri rimangono quelli cui sono più legati: gli zatteroni e le truffe.

I primi, legati come detto anche alle problematiche familiari di Semolino, procedono in via parallela, per arrivare ad una conclusione poco coinvolgente, anche se serve a riscattare (parzialmente) il povero Lugaro. A noi interessano le truffe che coinvolgono maggiormente e che danno agio a giustificare il titolo. Che ben presto si individua una signora con i capelli grigi con piccole mèche bianche come l’artefice del tutto. Motivo per cui i nostri la battezzano Salepepe (per quale motivo poi il nome venga diviso in due nel titolo ce lo spiegheranno gli editor).

I motivi del coinvolgimento dei nostri è che Luc, da giovane, spesso stava a casa di Amelia, ora anziana, sia per giocare con il suo coetaneo Stefano sia per guardare e sognare la di lui sorella Patrizia. La cattiva Salepepe avvicina le truffande ai cimiteri, si finge anche lei vedova sconsolata, entra nelle loro grazie, e, pian pianino, le fa cadere nella rete. Che, preventivamente (si vede che ha qualche aggancio) si informa sulla situazione patrimoniale e personale delle future vittime. Così Amelia, che, come tutti i pensionati fatica ad arrivare a fine mese, prima viene blandita con piccole somme. Poi le viene prospettato un affare “lucroso” per cui consegna a Salepepe tutti i suoi risparmi. Ovvio che la truffatrice a questo punto si dilegua.

Amelia chiede aiuto a Luc, ma, per il dispiacere della sua ingenuità, si toglie la vita. Luc ed i suoi a questo punto non possono che ingaggiare una lotta all’ultimo appostamento per trovare Salepepe. In questo aiutati dal loro tecnico informatico che, saputo di una costosa borsa con cui gira Salepepe, rivela loro l’esistenza di microchip collegati e rilevabili se la borsa si avvicina ad un rilevatore. Per farla breve, alla fine, troveranno il modo di incastrare Salepepe, anche se non vi dico di più, che la nostra squadra ha una bella trovata.

Nelle more finali, assistiamo anche ad un revival dei sentimenti di Luc verso la ritornante Patrizia (che si era trasferita al Sud, ma che ora sta divorziando e torna nella Genova natia). Di certo se ne potranno vedere le evoluzioni, visto che nel tempo Centazzo ha scritto altri due episodi. Forse se ne leggerà. Intanto rilevo che la sua scrittura migliora di libro in libro, lasciandoci un prodotto questa volta non eccelso ma godibile, e con la solita ambientazione genovese che a me di certo non dispiace.

Ultima chicca: nelle fasi finali un aiuto fondamentale ai nostri viene dato da un poliziotto delle Volanti, Cosimo Patané, che di cognome rimanda al commissario Biagio Patané delle avventure siciliane del vicequestore Vanina Guarrasi (penso tutti sappiate chi sia, oramai).

Marilù Oliva “Le spose sepolte” Repubblica Emozione Noir 32 euro 7,90

[A: 20/01/2020 – I: 13/09/2023 – T: 14/09/2023] &&&     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 368; anno: 2019]

Non conoscevo, se non di nome ma non di scrittura, Marilù Oliva, ma devo dire che questo noir mi ha discretamente convinto. Una buona scrittura, un dosaggio sapiente dei personaggi, un’ottica femminile ma non sciovinista. Certo, rimane ancora, come spesso ho rilevato, quell’andare su e giù nel tempo per narrarci fatti avvenuti nel passato che in qualche modo sono preliminari a quanto avviene nel presente.

Un giorno mi piacerebbe assistere ad un esperimento, come prendere tutte le parti in corsivo di questo libro, collocarle all’inizio e poi seguire quel che avviene nel presente. Capisco che a volte questo espediente serve a spezzare dei ritmi e ad introdurne altri, ma io sono e resto curioso, per cui continuo a leggerne ed a domandarmi.

Tornano alla scrittrice, da sempre è impegnata sul fronte delle donne, ne ha scritto di saggi e di interviste. Qui si cimenta con una complicazione. Narrare femminicidi dalla parte delle donne. O meglio, più che narrare femminicidi, trattare una materia complicata: c’è un killer che va uccidendo persone (in genere uomini) accusati ma mai condannati per aver (forse) ucciso le loro compagne.

Le indagini, a parte il capo, il commissario Elio Maccagnini, e il secondo (a pari, ma uomo) Antonio Iacobacci, sono principalmente condotte dall’ispettore Micol Medici, un personaggio da subito simpatico, sia perché sa gestire le sue imperfezioni fisiche sia perché non sa gestire la sua vita extra-lavorativa (dove siamo subito con lei quando lascia un fidanzato che definire assente è dargli già un titolo di iniziativa, quando l’unica cosa che fa, realmente, è sminuire Micol su tutti i fronti).

E le indagini portano Micol e gli altri ad indagare nel piccolo comune di Monterocca, incastonato nell’Appennino bolognese, e nei cuori di chi ha passione per il ruolo della donna. Monterocca è infatti gestito da donne, tanto da essere soprannominato “Città delle Donne”. Il sindaco ed i maggiori esponenti della vita cittadina sono donne. Non che gli uomini siano negati, ma (utopisticamente) ognuno ha un suo ruolo. E donna è il direttore del Centro Studi Rita (tutte le istituzioni e le vie hanno nomi afferenti a donne illustri) è una donna. Ed è anche da quel Centro che si produce un nuovo anestetico, che non ha gli effetti secondari pesanti del Pentothal, ma che, inoltre, prese in giuste dosi, induce a dire la verità, tutta la verità.

Dato che nel corpo della vittima si trova il farmaco, e dato che il farmaco è prodotto solo a Monterocca, non stupisce che lì si devono indirizzare le indagini.

Soprattutto è con Micol ed attraverso Micol che conosciamo le varie figure simbolo di Monterocca, dove, a parte il sindaco, quella che più rimane alla mente è la farmacista-erborista quasi maga. Cura tutto con le erbe, ma non disdegna di scrutare le persone e di indovinarne (o meglio divinarne) atteggiamenti e sentimenti e relazioni.

Anche con Micol in loco, le morti in alta Italia continuano. E continua il progredire del corsivo, dove seguiamo il terrificante percorso di una bambina bullizzata dalla baby-sitter, che diventa l’amante del padre, e con lui uccide la madre, “produce” un fratellastro, prima di schiantarsi in auto, lasciando i due alla deriva. Ma la bambina, nonostante l’infelice avvio, rimane sempre legata (e reciprocamente) al piccolo fratello, che ha cercato e cercherà sempre di proteggere.

È un trucco abbastanza banale che le due storie siano destinate a convergere, anche se non vi dico né come né perché (anche se questo è intuibile). Marilù, mentre porta avanti la tram principale e combatte i femminicidi, trova il modo, con la città delle donne, di mirare anche ad altri bersaglio: la dignità del ruolo femminile, il perbenismo che maschera ambiguità (e malvagità), l’utopia di una città che funziona, ma dove tutti (o quasi) hanno qualche scheletro da gestire. La risposta di Marilù è di affrontare e mostrare i propri scheletri, che solo l’onestà permette di portare avanti una vita giusta, malgrado errori possibilmente fatti.

Lettura interessante, quindi, forse anch’essa un po’ utopistica, e dove ci si aspetta che Marilù non abbandoni tento presto Micol, come sembrerebbe da notizie colte in giro. Intanto ci accompagnano le figure femminili di Monterocca (e non dimenticherei Jolanda, anche se non vi dico chi è). Forse un po’ più di incisività nel finale non avrebbe guastato il tutto, ma può anche andare abbastanza bene così.

Cercando sempre i bilanciamenti tra trame e citazioni, rimango sul versante noir con Giancarlo De Cataldo ed il suo “Nero come il cuore”, anche se poi le citazioni possono debordare dal contesto. Che la prima fotografa un atteggiamento da Peter Pan che ho riscontrato spesso nella vita: “la vita avrebbe deciso per me e non sarebbe stato un gran danno. Avevo sentito dire, una volta, che gli indecisi sopravvivono grazie ai capricci del caso” (41). Mentre la seconda si rivolge a tutti color che non sono attenti all’altro: “ricorda che … non esiste al mondo la donna che fa per te. Tu sei un Attila dei sentimenti” (60).

Come dicevo, ho saltato una settimana, dovendo, e con piacere, festeggiare in ritardo il mio compleanno, praticando un week-end di regalo in una città che non conoscevo. Eravamo a Bordeaux, tra luci di Natale, vini e, purtroppo, anche molta acqua (dal cielo…). Ho gradito molto la scoperta di nuovi luoghi e di immagini che ritornano (la città ha alcuni tratti parigini inconfondibili). E poi, quando si viaggia è sempre un bel momento. Perché “chi legge è un viaggiatore” e viceversa (per me).

Ormai siamo anche vicini al Natale che ingloberà l’ultima trama di quest’anno di alti e bassi. Poi ci sarà un altro viaggio ed un nuovo anno da affrontare, insieme, con tanti abbracci.