domenica 26 novembre 2023

La penultima Simonetta - 26 novembre 2023

Penultima delle letture, ma ultima nel florilegio dedicato a Simonetta Agnello Hornby dalla rivista Oggi. E sono contento che nella cabala delle mie scritture questa settimana ho un pieno di donne da riportarvi. Sia cinque scritti di Simonetta, dove io la preferisco nelle scritture più memoir o più legate a storie della sua terra, rispetto a libri culinari o di altre località. Sia per l’allegato tutto dedicato alla scrittrice spagnola Lucía Etxebarria.

Simonetta Agnello Hornby “Vento scomposto” Corriere Oggi euro 8,90

[A: 30/10/2019 – I: 01/05/2023 – T: 02/05/2023] && ---  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 404; anno: 2009]

Si sa che Simonetta Agnello Hornby è una scrittrice che seguo con piacere, per debiti amicali e viaggianti, ma non solo. Ovvio che c’entri anche la scrittura e la tematica di (molti) suoi libri. Devo però purtroppo confessare che questo, benché con alcuni punti di assoluto pregio, almeno nelle intenzioni se non nella riuscita, non è stata né una lettura facile né, e questo è peggio, una lettura coinvolgente.

Anche se è pur vero che, allontanando i temi di scrittura dalla natia Sicilia, poteva risultare comunque una lettura d’interesse, proprio i temi, che toccano problematiche molto vicine al mondo lavorativo della scrittrice, ne hanno fatto un “romanzo a tema”, che spesso non riesce a raggiungere gli scopi che si prefigge.

Simonetta, per chi non ne conoscesse la biografia, vive dal 1972 a Londra, sia per via matrimoniale, che per via professionale. Infatti, dopo essersi laureato in Legge, si specializza in diritti dei minori, e si occupa (in special modo nel quartiere di Brixton) di violenze contro le minoranze, sia razziali che sessuali.

Questo libro, come ci dice in premessa, nasce dalla volontà di approfondire le tematiche, positive e negative, innescate dal “Children’s Act”, una legge anglosassone approvata nel 1989 che instaurava un diverso modo di approcciare le violenze domestiche: diritto del minore ad un avvocato, nel caso anche a spese dello stato, e maggior attenzione ai rapporti intercorrenti nelle mura domestiche. In particolare, rispetto alla legislatura precedente, si prevedeva una maggiore possibilità all’allontanamento dal nucleo familiare di soggetti, nel caso ci fossero rischi maggiori che rimanere in un’entità integra. Questo, mi si dice, perché spesso, prima di tale legge, si era restii ad intervenire sulle famiglie, con conseguenze a volte spiacevoli per i soggetti. Non esclusi suicidi e omicidi, altrimenti evitabili.

Quindi, dalla Sicilia ci spostiamo nel quartiere di Kensington a Londra, dove vive la famiglia Pitt: Mike, merchant banker, e Jenny, consulente per negozi vari, e le loro due figlie Amy, otto anni, e Lucy, quattro. Tutto sembra procedere passabilmente, finché un’assistente dell’asilo, insospettita da strani disegni di Lucy, non entra nell’ordine di idee di possibili abusi.

Da qui si scatena tutta una serie di piccoli incidenti che presto diventano una valanga, portando alla possibile incriminazione di Mike per abusi. Anche a seguito di una frettolosa perizia di una psicologa. La valanga sembra inarrestabile quando viene messo in campo uno scalcinato studio legale di Brixton (stesso quartiere dove lavora Simonetta) che comincia a porsi domande. Sia sul comportamento della famiglia Pitt, ma anche sulle azioni dell’assistente nonché sulla perizia improvvida della dottoressa.

L’abilità della scrittrice e la sua conoscenza della materia a questo punto mettono in scena anche tutta una piccola serie di sassolini che danno motore alla macchina quasi kafkiana della giustizia. Una narrazione dove per prima cosa spariscono il buon senso e la logica dei comportamenti. E dove compaiono, suddivisi in parti uguali tra tutti i protagonisti, l’incompetenza, la grettezza, fino al tornaconto personale di ognuno.

Non è un romanzo avvincente, e pur tuttavia non si riesce ad allontanarsi dalla pagina in attesa di arrivare al disciogliersi degli eventi. Saranno positivi per Mike? Saranno positivi per gli assistenti sociali? Vedremo. Di sicuro non saranno mai positivi per i bambini, ed è questo il messaggio forte che ci vuole mandare la scrittrice.

Un elemento che salta potentemente agli occhi, tuttavia, è la completa ed assoluta privacy della vicenda. In tutto il corso delle indagini, fino alle aule giudiziarie, mai interviene un giornalista, mai compaiono titoli sui giornali. Forse è un fatto normale in Inghilterra, da noi sarebbe tutt’altro, con i media subito puntati a “mangiare l’osso” e ridurre tutti a carne da stampa.

Però alla fine, non è una storia particolarmente avvincente, non c’è molta tensione, anche se vogliamo saperne la fine. Una prova molto segnata dalle esperienze di giurista di Simonetta, ma che, personalmente, mi ha fatto subito rimpiangere le più toccanti atmosfere siciliane.

Simonetta Agnello Hornby & Maria Rosario Lazzati “La cucina del buon gusto” Corriere Oggi 10 euro 8,90

[A: 05/12/2019 – I: 13/06/2023 – T: 15/06/2023] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 2012]

Un libro che parla di cucina, con anche molte ricette, ma che è qualcosa più di un libro di cucina. Anche se, alla resa dei conti, resta un libro senza un suo vero mordente. Un libro di una decina di anni fa, e dispiace che, nel frattempo, Maria Rosario ci abbia lasciato (in un giorno molto numerico, 2/2/22).

Qui ci distacchiamo molto dalla solita scrittura di Simonetta, sia delle riuscite migliori quando parla della sua Sicilia, sia di quelle, per me, minori come nel precedente descritto libro londinese. Non so quale tipologia di apporto abbia data la co-autrice, che di sicuro era quella con più dimestichezza ai fornelli, avendo aperto a suo tempo una scuola di cucina italiana a Londra. E non solo.

Anche se, rileggendo le varie parti, vediamo come, in un libro che si pone come una miscela non esplosiva di ricordi personali, di esperienze vissute dalle scrittrici condite da ricette, a volte accennate a volte descritte a fondo (soprattutto nella parte finale, dove ho apprezzato i vari menu proposti: sostanzioso, vegetariano, speziato, per buffet, d’inverno o d’estate). Il tutto condito da abbastanza condivisibile considerazioni sociologiche.

Così, con leggerezza ma con la mente molto indirizzata al nostro presente, passiamo in rassegna la gioia che si prova nel cucinare, accompagnata dalle considerazioni sui vari rituali connessi alla preparazione del cibo. Non ci si può esimere, parlando del porsi intorno ad un tavolo, di come ci si ponga nei confronti degli ospiti (vedi ultima citazione), ma anche rispetto agli altri (possibili) commensali, i figli, i parenti, financo gli stranieri.

Poiché ormai intorno al tavolo ci si pone con un generale rispetto verso gli altri, non si dimenticano, le nostre anfitrione, dell’attenzione alle intolleranze (sempre più in aumento al giorno d’oggi), delle diete, dei cibi di moda del momento, ma anche (e qui io sono in completa sintonia con loro) alle tradizioni culinarie dei paesi stranieri. Non solo e non tanto quindi la cucina italiana a Londra, dove le autrici vivevano al tempo della scrittura. Ma anche ai paesi che nel corso del tempo hanno visitato o in cui hanno sostato per lavoro o per diporto (America, ma anche Zambia o paesi orientali o mediorientali).

Uno dei punti che mi hanno preso, e che condivido grandemente con Alessandra, è la cura con cui si apparecchia la tavola. Non solo utilizzando elementi combinati (tovaglie, fiori, oggettini), ma anche piatti, bicchieri, posate. Come dice Simonetta, poi, l’importante non è tanto avere tutto “dello stesso servizio”, ma avere, anche scombinati, elementi in armonia.

Perché, come ampiamente disamina Simonetta, i rituali del cibo si stanno perdendo. Uno dei grossi rimpianti, anche mio personale, è la difficoltà che si ha di condividere la tavola con la propria famiglia. Sedersi a tavola e mangiare insieme, anche se capita, non ha più quel carattere di scambio, di comunicazione reciproca delle cose fatte, delle cose da fare, insomma della vita nei suoi piccoli andamenti minuti e quotidiani.

Uno dei momenti che più mi è rimasto impresso è la tradizionale familiare prettamente siciliana del “rùmpiri”. Quando il piccolo di casa viene posto in cucina e può rompere, gettare ovunque tutto quello che gli viene porto dalla nonna. Così imparerà che a rompere e non dovrà più dimenticarlo avendo rispetto per le cose fragili.

Ho lasciato per ultimo il collante che innerva tutto il libro. Cioè, gli interessanti passi ripresi da un testo fondamentale settecentesco di Jean Anthelme Brillat-Savarin. Il suo, cito il titolo esteso “Fisiologia del gusto, o meditazioni della gastronomia trascendente; opera teorica, storica e di attualità, dedicata ai gastronomi parigini, di un professore, membro di diverse società letterarie e erudite”. Un testo che ragiona sul buon gusto, sul piacere della convivialità, dell’ospitare, di invitare a dividere la tavola, fornendo gli spunti che sono serviti alle nostre autrici per sviluppare i loro ragionamenti.

Il testo francese mescola in maniera amabile riflessioni, aneddoti, consigli culinari, arrivando a tratteggiare la figura del “gastronomo” che da allora ha dominato l’immaginario positivo della cucina e del cucinare. Proprio di Brillat-Savarin riproporrei due aforismi, tra i venti che pone come prologo al suo trattato. Nel IV dice “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” e nel XX chiude con “Invitare qualcuno significa farsi carico della sua felicità durante tutto il tempo che passa sotto il nostro tetto”. Due massime che ho sempre fatte mie.

Un libro di ricordi, un libro di cucina, che, tuttavia, ha momenti forse slegati non riuscendo, pur nella gradevolezza dell’insieme, a trovare un modo unitario e sempre coinvolgente di rivolgersi al lettore. Devo comunque dire che le ricette presentate sono affrontate con piglio moderno, e, leggendole, sembra che si possano fare anche senza troppa difficoltà. Che dire, proveremo.

INGREDIENTI PER LE POLPETTE DI PESCE AL FORNO IN SALSA PICCANTE (per 6 persone):

Per le polpette

1 scalogno grande, pelato e tagliato in quarti;

20 g di foglie e gambi di prezzemolo fresco, sminuzzati;

15 g di origano;

1 bustina di zafferano in polvere sciolto in un cucchiaio di acqua calda;

1 spicchio d’aglio, pelato;

1 cucchiaio di capperi sotto sale;

4 acciughe sott’olio;

750 g di merluzzo fresco o altro pesce tagliato a pezzetti;

la scorza grattugiata di un limone intero non trattato e metà del succo;

100 g circa di pan grattato casalingo;

2 cucchiai di olio;

Per la salsa

1 cucchiaio di olio;

1 scalogno medio, pelato e tagliato sottile;

1 spicchio d’aglio, pelato e sminuzzato;

2 cipollotti primavera grandi, spuntati e tagliati a pezzetti, parte verde inclusa;

400 g di pomodori maturi, pelati e tagliati a pezzetti (oppure 400 g di pomodori pelati in scatola;

peperoncino piccante a piacere; sale

Procedimento per la salsa:

In una padella con manico, riscaldare l’olio e far soffriggere dolcemente lo scalogno con un pizzico di sale per cinque minuti. Aggiungere l’aglio e cuocere per un altro minuto, mescolando con un cucchiaio di legno. Unire i cipollotti e soffriggere ancora per 5 minuti. Alzare la fiamma, aggiungere i pomodori e cuocere per due minuti rimestando. Incorporare il peperoncino e regolare di sale. Abbassare il fuoco al minimo, coprire e cuocere per 20 minuti.

Procedimento per le polpette:

1.    Frullare lo scalogno, il prezzemolo, l’origano, lo zafferano, l’aglio, i capperi con il loro sale e le acciughe nel robot da cucina fino ad amalgamare il tutto. Aggiungere il pesce e continuare a frullare fino a ottenere un impasto omogeneo. Unire la scorza e il succo del limone all’impasto di pesce, frullandolo fino a incorporare tutti gli ingredienti.

2.    Preriscaldare il forno a 200° con ventola.

3.    Rivestire un’ampia placca da forno con carta forno e ungere con un cucchiaio d’olio.

4.    Estrarre l’impasto dal frullatore e metterlo in una ciotola. Di fianco, sistemare un piatto fondo con il pan grattato. Con le mani modellare delle polpette di pesce della grandezza di una noce. Passarle nel pan grattato e allinearle sulla placca da forno. Irrorare con un cucchiaio di olio.

5.    Infornare per 10 minuti. Estrarre dal forno e con una spatola di legno girare le polpette in modo che cuociano uniformemente. Infornarle per altri 10 minuti. Alla fine, devono essere bionde e croccanti.

6.    Sistemare le polpette su un piatto riscaldato e servirle calde con la salsa di pomodoro a fianco.

Simonetta Agnello Hornby “Via XX Settembre” Corriere Oggi 8 euro 8,90

[A: 21/11/2019 – I: 12/07/2023 – T: 13/07/2023] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 218; anno: 2013]

Un educazione sentimentale palermitana, fatta di tutto e di niente, ma di tanto amore e di tanto impegno personale e civile.

Un libro autobiografico a tutto tondo, questo, che ci porta dentro il mondo di Simonetta ed anche dentro il mondo di una città da lei sempre amata, da lei sempre descritta con tutto l’amore e l’odio che Palermo porta con sé.

Che a Palermo, Simonetta, c’è nata quasi ottanta anni fa (e dieci in meno quando scrive questo libro), ma per sbaglio, che le sue famiglie native, gli Agnello paterni ed i Giudice materni erano di Agrigento e dintorni, come vedremo meglio nel suo successivo scritto dedicata alla campagna natia della frazione di Mosè nella campagna agrigentina.

Lì a Mosè trascorre l’infanzia, con la sorella Chiara, fino ai tredici anni, quando, dovendo entrare al ginnasio, si decide di trasferirsi a Palermo. Sarà soprattutto la madre a guidare sia il trasferimento che la vita palermitana, dove il padre preferisce rimanere a guardare le terre facendosi vivo nei tempi giusti ma non spessissimo.

Intanto, mirabile è la zona decisa per il trasloco, quella via XX Settembre del titolo, parallela a via Libertà, nel quartiere Politeama, a due passi dal teatro. In fondo a due passi da tutto, meno a quello che Simonetta sperava: il monte Pellegrino, icona della sua memoria infantile, che il degrado e la speculazione edilizia impediscono di ammirare dalla nuova casa.

Ed è anche, Palermo, il luogo dove può stare a contatto con i suoi amati cugini, in particolare Silvano Comentini, di cui in libri successivi apprezzeremo al meglio le doti culinarie. Perché Palermo è anche il luogo degli odori e della cucina. In primis, il bianco dei pupi di zucchero, quelli preparati per la festa dei morti. Statuine di zucchero riproducenti le colorate marionette siciliane, che non vanno prese a morsi, ma leccate a cominciare dal dorso, per poi tuffarsi nel goloso tutto del trionfo di zucchero e limone. Ma è anche la Palermo dei mercati (Vucciria e Ballarò) e dei loro odori e sapori, dalla meuza sino alle dorature delle panelle dell’Osteria di San Francesco ed alle arancine dell’Orto Botanico (ovvio che nella memoria, la mia Palermo a volte si sovrappone a quella di Simonetta).

Simonetta, quindi, inizia lì ginnasio e liceo statale Garibaldi, quello che ora si torva dietro il parco dedicato a Piersanti Mattarella, quello per cui si faceva la camminata a piedi, passando davanti a villa Trabia, quella della famiglia Lanza, con il famoso Raimondo morto pochi anni prima, ed immortalato dal “Vecchio frak” di Modugno. Fa amicizie che le rimarranno per tutta la vita, entra in contatto, attraverso professori illuminati e amiche lettrici, del mondo che esce dai libri, del mondo della filosofia e della politica. In fondo, del mondo che la circonda. Non è un caso quindi, che la sua pronta intelligenza la porterà nel breve, quando dovrà decidere del suo futuro, ad indirizzarsi verso la Giurisprudenza. Specializzandosi poi in Inghilterra, sua seconda terra, dove troverà il primo marito (Hornby, appunto), i suoi due amati figli, ma soprattutto il mondo dell’infanzia e dei maltrattamenti sui minori, terrano del suo lavoro di una vita.

Escono bene dall’affresco di Simonetta tutte le persone di famiglia e di casa degli Agnello – Giudice. Certo il borbonico padre, Francesco Agnello Gangitano, dei baroni di Signefari, con quel suo rimanere ai margini della storia, ma soprattutto la madre Elena Giudice Caramazza, forte e decisa, motore della cucina di casa, su cui si tornerà in altri libri, che vediamo all’inizio fragile ed indifesa, scivolare verso una perdita della memoria, che tutti noi spaventa. Forse è anche questo, uno dei motori di Simonetta nella sua spinta autobiografica: poter scrivere di ciò che (ancora) si ricorda, non solo per sé, ma per i figli e per i nipoti.

Poi c’è l’affetto, palese anche se pudico, verso la sorella Chiara, le cui doti culinarie apprezzeremo qui e altrove. Ed i “famigli”, come si diceva un tempo: Paolo, l’autista che per quarant’anni non solo porterà il padre da Mosè a Palermo, ma provvederà a gestire gli spostamenti di Simonetta all’interno della città, e Giuliana che nasce bambinaia, per poi evolversi nel corso del tempo in cameriera ed infine confidente di tutte le turbe della scrittrice. Per poi concludersi con quel microcosmo fatti degli altri: zii, cugini, amici ed altri parenti.

Tuttavia, come accennato, il centro e motore del libro è Palermo: colorata, stimolante, profumata, accogliente, e poi degradata dalla speculazione edilizia, laddove il racconto della distruzione di villa Deliella ne è un esempio preclaro. Questa dolce amara città farà quindi da specchio e riscontro alla dolce amara vita di Simonetta, che chiude il libro con la sua partenza verso l’Inghilterra, e con una riflessione sul ruolo delle donne nel 1965 (con lei ventenne) che ci mostra come sia Simonetta nella sua personale realtà (non ve lo dico, leggetelo).

Un libro che a volte mi ha frenato, ma che si è riscattato in pieno quando Palermo è venuta sul palcoscenico, e non lo ha più lasciato.

Simonetta Agnello Hornby “Il pranzo di Mosè” Corriere Oggi 11 euro 8,90

[A: 12/12/2019 – I: 09/08/2023 – T: 10/08/2023] && +  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 195; anno: 2014]

Pur essendo stato scritto l’anno seguente, e pur avendo spostato il luogo deputato del racconto più che dell’azione, in un certo senso è un completamento del libro precedente. È vero che non parliamo strettamente di racconto autobiografico, anche se in molti punti la scrittrice non può non parlare di sé e dei suoi. Usando in modo complementare un elemento fondante della saga familiare della famiglia Agnello-Giudice, la cucina (con un utile quasi mezzo libro dedicato alla descrizione delle ricette per mano della sorella Chiara). Ed è anche vero che la sua genesi è decisamente differente, poiché è anche stato un programma a puntate trasmesso nel 2014 su Real Time.

Tuttavia, non parliamo di libri ed al libro torniamo.

Se nel libro precedente abbiamo assistito al passaggio di Simonetta da Agrigento (e dalle estati a Mosè) con la vita palermitana, qui torniamo in campagna, dove la casa colonica, quella che poi sarà sempre il rifugio del padre, è narrata per descrivere l’approccio al cibo ed alla tavola di tutta la famiglia. In testa, mamma Elena e zia Teresa ed il loro senso del cibo, di come si prepara, di come si porge, di come si apparecchia la tavola, di come si distribuiscono i posti. Subito dietro, gli apprendisti. Ovviamente Simonetta e Chiara, le sorelle Agnello, con un approccio ben diverso agli insegnamenti della generazione precedente. Simonetta che riproduce quasi maniacalmente le ricette, e Chiara che ha l’ardire di introdurre varianti, che tuttavia si amalgamano allo spirito della tavola. E di lato, il cugino Silvano, unico uomo ammesso a pieni voti ai fornelli.

Allora, con Simonetta e tutta la sua famiglia trasferiamoci a Mosè, cominciando con apprenderne la storia, che viene da molto lontano, e di cui, a parte alcuni elementi casalinghi, a me rimane in testa che quello che rimane a testimoniare il passare del tempo e la sua continuità, sono gli ulivi, che ancora danno, pur faticosamente, il loro olio. Un’introduzione, ed un perpetuarsi nel breve racconto, che serve a darci un sottoprodotto della lettura. Un’analisi del contesto sociale in cui si è evoluta una famiglia meridionale di buon livello, penetrandone nell’intimità, e scoprendone i valori, che restano e resteranno validi anche quando Simonetta si trasferisce in Inghilterra.

Valori per me esemplificati dal libro di ricette di nonna Maria, un brogliaccio con ingredienti ed accenni di ricette, spesso completate con il ricordo di come si faceva un dì. Con un modo molto fisico di cucinare, dove l’uso diretto delle mani sul cibo è un modo di appropriarsene e di renderlo al cucinato con qualcosa di molto vicino al cuore. Che a me leggendone, ricorda visivamente il libro di ricette di mia moglie, tanto usato e compulsato, e finalmente, prima di essere distrutto, portato da un rilegatore che ne ha fatto un prezioso simbolo familiare.

Tornando poi all’olio dell’antico uliveto, non ci stupiamo che a Mosè si decide il menu molto in base a quanto in quel momento offre l’orto e la fattoria in toto. Così come cerchiamo di fare anche noi, nella nostra piccola Soriano. Con quella casa sempre aperta, e quel tavolo magico della sala da pranzo (spesso portato fuori sotto il pergolato) che si allunga e si restringe a seconda degli ospiti che, invitati o meno, si recano a Mosè.

Simonetta, in questo contesto, ci svela segrete atavici: le ricette tramandate da generazioni ma anche quelle segrete dei dolcetti che vengono dai conventi, portandoci anche alla considerazioni della sobrietà (come direbbe qualcuno di Barbiana) che ci consente di non sprecare il cibo, anzi di trasformare i resti in nuove e squisite pietanze.

Vi invito comunque a leggere soprattutto la genesi dei sei pranzi descritti in dettaglio e ad affidarvi alle parole di Chiara per trasformare lo scritto in un momento di magico convivio: il pranzo di compleanno o il pranzo in piedi, tanto per citare i classici. Ma soprattutto i due che mi hanno colpito: uno per la golosità che riverso per l’elemento principe, un pranzo di caponate, ed uno perché mi incuriosisce e lo vorrei praticare, un pranzo di soli dolci.

Finisco con due elementi che esulano dal romanzo, ma che mi hanno colpito. Il primo per la sua casualità, laddove a pagina 124 si parla del Manoir aux Quat’Saisons e dello chef Raymond Blanc, di cui avevo appena letto nel libro letto prima di questo, quello della Rowling. L’altro per il ritorno di un amore antico: Simonetta confessa di avere avuto un amore sportivo verso un ciclista che, probabilmente, siamo in pochi ad aver amato e seguito nelle sue imprese, il lussemburghese Charly Gaul. Fu il mito delle mie prime passioni ciclistiche, indimenticato ed indimenticabile, come i primi amori. Grazie anche di questo, miss Agnello Hornby.

“Introduciamo vecchie ricette con sapori nuovi, e ricette nuove con elementi vecchi … [sapendo che] … la cucina casalinga è basata sul gusto del conosciuto che si tramanda da generazioni.” (36)

Simonetta Agnello Hornby e George Hornby “Nessuno può volare” Corriere Oggi euro 8,90

[A: 28/11/2019 – I: 04/010/2023 – T: 06/10/2023] &&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 220; anno: 2017]

Con questo abbiamo terminato la lettura dell’opera (quasi) omnia di Simonetta Agnello Hornby pubblicata dal Corriere ed uscita in edicola. Una serie di libri di diversa resa, ma tutti con una costante: bella e chiara scrittura. A volte si parla di piccoli eventi storici dimenticati, altre si passa al privato, seguendo le vicende di Simonetta e dei suoi cari, come nelle stupende pagine, come ricordo, dei tempi della fattoria di Mosè (inteso come villaggio sito poco sotto a Porto Empedocle).

Qui siamo sul versante privato, ed anche un privato né semplice né solo consolatorio. Perché, come vedete in alto, ho voluto inserire anche il nome del figlio di Simonetta, che non solo, come dice lei, “interferisce” nel racconto, ma né è sicuramente, anche involontariamente, il motore primo.

Tutto nasce nei primi anni 2000, credo, quando a George viene diagnostica un sclerosi multipla. Una malattia rara ed incurabile, che porta ad un progressivo indebolimento dei muscoli, per cui, con il progredire della malattia, si comincia a non riuscire ad eseguire movimenti semplici. Passando presto alle difficoltà di deambulazione, ed alla necessità di sedie a rotelle ed altri ausili, al fine di riuscire ad avere una vita, non normale, ma normalizzata.

Da qui, l’attenzione di Simonetta-madre verso le disabilità, da qui un pensiero alle disabilità incontrate nella vita, piccoli schizzi paesani che ci portano alla luce momenti di vita difficili, ma, nella descrizione della scrittrice, affrontati con dignità e coraggio. Come il piede caprino della zia Teresa (detto medicalmente piede torto congenito), che la zia visse sempre senza modificare la sua indole. Certo, non volle sposarsi, ma operò nel bene, soprattutto verso conventi e ritrovi di suore. E sempre, nel ricordo familiare, con il sorriso sulle labbra.

Ma l’attenzione, e le descrizioni che introducono il volume, servono da introduzione alle problematiche familiari. Certo, la famiglia Agnello è sempre stata presente a sé stessa, e mai ha trattato i diversamente abili come elementi da emarginare, o trattare in maniera poco rispettosa. Tuttavia, è ben diverso, psicologicamente, quando queste disabilità cominciano ad affiorare in famiglia.

C’era stato da sempre il problema del padre di Simonetta, affetto da osteomielosi, e ad un certo punto costretto all’amputazione dell’arto offeso. Capisco quindi, dalle parole scritte, come il sorgere della malattia del figlio sia stata certo affrontata con la stessa coscienza. Comunque, traspare ovviamente, il non benessere di un figlio non è facile da mettere in conto.

Nelle parole di Simonetta e di George, la malattia viene accettata, affrontata ed in un certo senso esorcizzata. Da un lato, cercando, nei limiti del possibile, di costruire una vita normale per George. Che ci racconta il progressivo avanzare della malattia, ed il suo parallelo modo di accettarla ed affrontarla.

Dall’altro, avendo una maggiore attenzione alle barriere architettoniche ed a tutto ciò che impedisce ai disabili di usufruire di beni che dovrebbero essere accessibili a tutti.

L’esempio forte è la decisione di effettuare un viaggio da Londra alla Sicilia, lei, George, ed una troupe televisiva che ne documentasse i vari passaggi. Così che vediamo siti e luoghi che consentono l’accesso, ed altri che, mentendo, purtroppo non lo sono. Come la metropolitana di Napoli, che non ha un accesso dalla banchina ai vagoni. Come il Palazzo dei Normanni a Palermo che non ha un ascensore per salire ai piani. Come il ristorante che aveva affermato di non esserci problemi, ma che, quando i nostri arrivano, scoprono essere tre gradini. Insormontabili per George.

È un libro che aiuta a comprendere come dobbiamo convivere con la diversità. Fa parte del nostro mondo, e non va mai né sottovalutata né emarginata. Mi hanno commosso le ricerche di Simonetta sui quadri che rappresentano la diversità, e come ben sappiamo sono veramente pochi. Che il disabile è “brutto”, e gli unici accettabili sono i nani (vedi Velasquez).

Quindi ci mettiamo vicino a lei ed a George (che mi è piaciuto nelle sue interferenze piene di humor inglese non banale), e mettiamoci a guardare gli uccelli che volano. Loro possono. Gli uomini, no, non possono volare. Ma possono, debbono essere messi in condizione di vivere una vita dignitosa.

Un bel libro di denuncia, leggero, ma pieno di pesantezze.

Come scritto sopra, questa volta le citazioni sono in allegato e dedicate alla scrittrice spagnola Lucia Etxebarria.

Noi ci approntiamo ad affrontare un dicembre che si preannuncia freddoso assai. Vediamo di coprirci al massimo, di non raffreddarci, di continuare ad organizzare come al solito i nostri viaggi e quello dei nostri amici e delle nostre amiche. Al resto pensiamo abbracciandoci.

Citazioni di Lucía Etxebarria

La scrittrice spagnola (anzi basca) Lucía Etxebarria Asteinza non ancora sessantenne, ha sempre affrontato nei suoi scritti il ruolo della donna nella società odierna, la maternità, il femminismo, la sessualità, le relazioni sociali o gli stereotipi di genere. Sono contento di poterla inserire in questa giornata post 25 novembre.

Vediamo qui alcune citazioni dai suoi primi tre romanzi, scritti tra il ’96 ed il ’99.

Il primo fu “Amore, Prozac e altre curiosità”:

“Era la prima scopata del mese… Mi sentivo sola, disperatamente sola, affamata di affetto, avida di coccole …. Abbiamo tutti bisogno di abbracci di quando in quando” (11)

“Se la vita si potesse pulire come le tendine, se potessimo far sparire le nostre macchie in una lavatrice, tutto sarebbe più facile” (80)

“Se qualcosa è giusto perché non funziona? L’amore ci separerà … l’amore distrugge. Ferisce profondamente, dolorosamente” (229)

L’anno successivo vince il premio Nadal con “Beatriz e i corpi celesti”:

“In definitiva, tutto quanto viene scritto finisce per essere una nota a piè di pagina di qualcosa che è stato scritto in precedenza” (17)

“Il fatto è che dall’amore, come dalla vita, ci si aspetta sempre di più e non ci si accontenta mai.” (28)

“E io non voglio impegnarmi prima di essere sicura dei miei sentimenti, perché sospetto che il mio lato peggiore finirebbe per stabilirsi in quella intersezione tra le circonferenze delle nostre rispettive solitudini. Non c’è solitudine peggiore della solitudine condivisa” (29)

“[È] molto meglio cambiare persona piuttosto che cambiare una persona” (189)

“Sapevo che non mi stava usando e che mi amava, che mi amava davvero, che sarebbe stata accanto a me in caso di bisogno, che non mi avrebbe mai fatto del male di proposito, e forse nemmeno inconsapevolmente” (191)

“Perché ti ossessiona ciò che non hai? Perché non accetti una dannata volta che quello che non può essere, non può essere e inoltre è impossibile?” (253)

“Tutti siamo allo stesso tempo vittime e artefici della nostra vita. Nel bene e nel male, tutti i sentieri del possibile sono aperti al passaggio del reale. Ma non tutti siamo così saggi da capirlo né così audaci da aprirci la nostra strada” (263)

Infine nell’ultimo anno del secolo scorso esce “Nosotras que no somos como las demàs” che ho letto in lingua. Tuttavia qui ne parlo come “Noi che non siamo come le altre”, cioè riportando solo le citazioni da me tradotte in italiano.

“Cercò di nuovo di evitare l’immagine riflessa nello specchio … però l’immagine non sta nello specchio, ma nell’occhio di chi guarda.” (74)

“-Tu non parli molto vero? … - Ascoltare è molto più interessante.” (94)

“e città sono dentro di noi, non si fugge da loro facilmente ... così diceva Kavafis.” (114)

“Andrò dove tu vai, mi fermerò dove tu sarai ... la tua terra sarà la mia terra, e il tuo Dio il mio Dio.” (155)

“Elsa odia parlare di amore, perché ha provato che dell'amore ... ognuno ha una idea diversa e che dall’amore ... sempre ci si aspetta di più e non si è mai soddisfatti. ... La gente non capisce perché Elsa si ostina a vivere da sola, e alcuni sostengono che non è capace di amare .... è per questo che ad Elsa non piace parlare di amore, le piace soltanto praticarlo e solo in rare occasioni.” (214)

“Sa che ogni dolore finisce per diminuire, ed allora in linea con Wilde prega Dio di liberarla dal dolore fisico che lei si occuperà del dolore morale.” (232)

“Questo provava ... che aveva perso troppo tempo della sua vita senza fare quello che voleva fare o le sarebbe piaciuto fare, condannata a vivere secondo i desideri degli altri.” (261)

“Niente muore, se rimane nella memoria.” (381)

Con lei, con Simonetta e con le altre, anche io ripeto “Non una di meno”!

domenica 19 novembre 2023

Ancora Italia - 19 novembre 2023

Autori italiani tra il moderno ed il filologico. C’è una delle prime puntate dei romanzi dell’autore considerato il padre del giallo italiano, cioè Augusto De Angelis e il commissario De Vincenzi. C’è una scrittrice di cui seguo sempre i suoi scritti giallo siculi, cioè Giuseppina Torregrossa e la sua Marò Pajno (con alcune ricette che mi aspetto di assaggiare dalla cucina dei miei amici isolani). E per concludere due giallisti della scuola Mondadori, il leggibile Giovanni Valentini ed il poco appassionante Matteo Guerrini.

Augusto De Angelis “Giobbe Tuama & C.” Mondadori euro 6,50

[A: 03/07/2020 – I: 30/04/2023 – T: 01/05/2023] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 167; anno: 1936]

Con questa, sempre a distanze congrue tra l’una e l’altra, siamo al terzo libro in ordine di uscita delle avventure del commissario De Vincenzi, scritte negli anni Trenta da Augusto De Angelis, di cui ho già parlato nella precedente trama a lui dedicata. Ricordo solo, per brevità, che De Angelis fu prima di tutto giornalista (celebre la sua intervista a Mussolini nel ’22) e sinceramente antifascista. Tanto che fu incarcerato dai Repubblichini dopo l’8 settembre ’43, percosso in carcere, e, uscitone, preso a calci da un fascista. Concause che lo portarono alla tomba nel 1944.

Era però riuscito, tra il ’34 ed il ’43, a pubblicare sedici romanzi con protagonista il commissario Carlo De Vincenzi. Benché De Angelis sia romano, per motivi di lavoro si trasferisce al nord, ed è a Milano che ambienta la maggior parte di questi romanzi. Non rinunciando mai a mettere piccoli indizi di sé nella scrittura. Un libro ambientato a teatro (genere per cui scrisse un testo), uno negli ambienti dell’EIAR, come allora si chiamava l’ente radiofonico, uno che accenna alla presenza di ebrei. In effetti, il commissario, scapolo, aveva in gioventù amato una ragazza ebrea. Ed uno in cui tocca gli ambienti librari, questo.

Come si estrapola dai romanzi, De Vincenzi, benché di umili origini, è un uomo colto. Laurea in giurisprudenza, militare, poi entra in Polizia e diviene capo della Squadra Mobile di Milano. Non si sposa, abita in Corso Sempione (a pari distanza del Duomo dal Castello Sforzesco, seppur in direzione opposta), accudito dalla fida Antonietta. Legge molto, conosce Freud, ama la letteratura russa, legge e parla inglese, e ben conosce il cavalier Dupin di Poe. Anzi, è un cavalier Dupin con la cultura di un Philo Vance, ma senza la sua ostentazione.

Al fine di creare un modello poliziesco italiano, De Angelis non lo fa agire per indizi, non è un emulo di Sherlock Holmes. Piuttosto, un Maigret con buone letture, e senza la pipa e la birra. Che il nostro, per le sue indagini, cerca sempre di entrare nella psicologia dei personaggi. Come hanno agito? Quali possono essere le motivazioni? Una volta chiaritosi questo in mente, tutto il resto viene di conseguenza.

Come detto, questo terzo libro è ambientato nel ’34, durante la Fiera del Libro che si teneva nella Piazzetta dei Mercanti. Lì trova la morte un seguace della chiesa evangelica, nonché venditore di Bibbie: Giobbe Tuama. Ovvio che De Vincenzi è incaricato del caso, ed altrettanto ovviamente capisce che c’è qualcosa in più di un semplice assassinio, quando viene trovato avvelenato in un alberghetto milanese tal Giorgio Crestansen. Perché qualcosa in più? Dalle carte di Crestansen si trova una lettera che parla di Giobbe.

Anche se c’è urgenza di scoprire i retroscena, De Vincenzi si prende il suo tempo, indaga negli ambienti evangelici, parlando a lungo con un sodale di Giobbe, Beniamino O’ Garrich. Peccato che anche quest’ultimo muoia presto. Intanto però, tramite la lettera, e gli interrogatori che porta in giro per la città (De Vincenzi è refrattario ad interrogare gente in Questura), scopre che Giobbe in realtà si chiamava Jeremiah Shanahan. Una specie di rogatoria internazionale porta a disvelare che Jeremiah, Giorgio e Beniamino lavoravano insieme in una miniera di diamanti in Sudafrica. Per poi fuggire, prima di essere accusati di furto, e riparare in America.

Qui, Jeremiah si invaghisce di Dorothy che tuttavia è sposata con O’Brien. Ordisce un inganno, fa arrestare O’Brien, sposa Dorothy ed accudisce i di lei figli Giacomo e Lolly. Ma la giustizia pare raggiungerlo anche lì. Per cui, mette nei guai anche Giorgio, e fugge in Italia con Beniamino.

Ed è lì a Milano che riprende la sua attività principale, quella di usuraio.

Ed è lì, a Milano, che durante la Fiera del Libro convergono non solo i tre morti, ma anche Dorothy, i suoi due figli, e Virginia, la sorella di O’Brien.

Ovvio che queste congiunture portano ai tre omicidi. Ma sono legati al passato dei nostri o al presente da usurai? De Vincenzi parla, parla e parla, ed alla fine ci porta la soluzione, spiegandoci, se ce ne fosse bisogno, che non esistono assassini “nati” (alla faccia di Lombroso), ma che tutti possiamo diventarlo, dove la differenza viene solo per la forza delle motivazioni.

Oltre al piacere dell’intrigo, anche se non elevatissimo, è gradevole la descrizione (che per noi diventa ricostruzione) della Milano d’allora. Una penna gentile, dove si sentono gli echi giornalistici, pur se con qualche caduta qua e là (poche invero). La più grave, per me, a pagina 99, dove si sostiene che nel ’34 gli Stati Federali siano 43, mentre a me ne risultano già 48 (mancano solo le Hawaii e l’Alaska, annesse dopo la Guerra).

“La passione nascosta di De Vincenzi erano i libri. Ne aveva una stanza piena nel suo appartamentino, con grande disperazione della buona Antonietta, che si ostinava a volerli spolverare uno per uno almeno una volta a settimana” (32) [solo una stanza!].

Giuseppina Torregrossa “Il basilico di Palazzo Galletti” Mondadori euro 11,50

[A: 07/02/2021 – I: 05/04/2023 – T: 07/04/2023] &&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 249; anno: 2018]

Era più di qualche anno che non leggevo qualcosa della scrittrice siciliana seppur vivente a Roma. Una decina di anni fa ne avevo letto gli esordi letterari (con l’ottimo “Cunto delle Minne”), finendo con quel libro tra giallo e cucina, “Panza e Prisenza”, dove si introduceva il personaggio di Maria Teresa Pajno detta Marò. Cinque anni fa ne ripresi un’uscita spuria seppur interessante imperniata sulle vicende di casa Olivares. Un paio di anni fa, infine, sulla spinta di una riorganizzazione della mia libreria, presi gli altri due episodi dedicati a Marò, di cui infine leggo ora la seconda indagine.

Torregrossa ha sempre una scrittura gradevole, soprattutto per le ambientazioni e per quel po’ di dialetto che infarcisce e colora la sua scrittura. Tuttavia, le storie della commissaria Pajno non sono decollate come ci si poteva aspettare. Cioè, il primo episodio aveva delle punte di interesse, non tanto e non solo per la storia gialla, ma per quegli inserti culinari che ne sorreggevano la prima parte. Inserti culinari presenti anche nella vicenda Olivares, tanto che, a suo tempo, mi fecero includere il libro più che nelle storie “noir” nella sezione “cucina ed altro”.

Ora, a distanza di un congruo numero di anni, la storia dei nostri poliziotti palermitani mostra tutti i suoi limiti. Certo, si parla ancora di cucina, magari evolvendo verso manicaretti più raffinati, che la nostra Marò ha ben imparato a cucinare. Anche se queste sue digressioni (purtroppo non corredate da un supporto di ricettario che poteva essere utile) sono molto “trasversali”, cedendo un po’ alla moda fusion della fine degli anni ’20. Condire spaghetti alle vongole con uno spruzzo di latte di mandorle ha forse un suo perché, ma a me lascia freddo.

Inoltre, la storia “parallela”, quella dei personaggi di contorno, lascia anch’essa a desiderare. Nel primo episodio c’era tutto un fuoco che pervadeva il rapporto tra Marò e Sasà, ispettore focoso e suo sodale, insieme al loro capo Lobianco, delle avventure calabresi per sconfiggere la mafia locale. Purtroppo, nelle more, Lobianco è morto (e questo lo sapevamo), ed i nostri due sembrano procedere verso un possibile rapporto di coppia. Ma fin dall’inizio ne vediamo i limiti, anche se Torregrossa poco affonda in quella direzione. Sasà ha i suoi problemi, anche sul lavoro, e ne riversa le punte negative sul rapporto con Marò. Ed anche lei, non trova più quella corrispondenza “d’amorosi sensi” che aveva caratterizzato lo sbocciare del loro rapporto. Non ci meravigliamo quindi che lo sfilacciamento porterà i due a strade diverse e divergenti, almeno in questo episodio. Dato che c’è il terzo episodio che dovremmo leggere prima o poi.

L’altro punto forte degli scritti di Giuseppina è l’ambientazione palermitana, con quel misto di amore e repulsione che spesso ho trovato nei miei amici siculi. Con piacevole trasporto, infatti, segue le vicende che ci portano a Mondello, ed alle spiagge palermitano (la vicenda si svolge in un torrido agosto), ma soprattutto a Piazza Marina con il suo Ficus monumentale, alla Kalsa, non dimenticando Santa Maria della Catena, una delle chiese a me più care.

Ed è proprio la piazza uno dei protagonisti, anche se non come piazza ma come uno dei palazzi che la delimitano, il Palazzo Galletti di San Cataldo, preso nel momento di passaggio tra la ristrutturazione e l’uso che ora ne viene fatto per gli Uffici dell’Amministrazione comunale. Palazzo in cui vive Giulia, giovane affetta da una particolarissima dermatosi debilitante. Giovane disinibita tuttavia, ma che pensiamo fin dall’inizio farà una brutta fine.

Omicidio la cui indagine viene affidata alla nostra Marò, che non ha molti elementi al suo arco. Giulia non sembra frequentare nessuna, ha rapporti solo con la sua amica Marina e Maria una “bottana” che staziona sotto il palazzo. C’è anche un minus habens, Pinuccio che bazzica la casa per mettere a posto il disordine di Giulia ed aver cura delle povere piante di basilico del titolo.

Pur con questi pochi elementi, facendo leva sulla sua empatia con Maria e riuscendo a conquistare la fiducia di Pinuccio, Marò trova gli elementi per scardinare il castello ombroso di carte che si andava costruendo intorno a Giulia. La seconda parte del romanzo però scivola via senza prendere troppo, arrivando ad una conclusione scontata e prevedibile, almeno a grandi linee, sin dalle prime pagine. Quello che è meno prevedibile è l’evoluzione di Marò, cui torneremo spero con più cognizione nel terzo episodio.

Ultimo punto positivo è invece la tensione verso il 2 settembre e la festa di Santa Rosalia, con le descrizioni dell’agosto palermitano e del modo di approcciare la santa che vi lascio gustare.

Infine, un punto che avrebbe potuto essere positivo, ma che si rivela poco elaborato, è il glossario finale di termini siciliani, che, pur avendo un suo senso, è messo lì senza criterio, senza nessun ordine logico particolare, saltando pagine e commenti vari. Un’altra occasione perduta per confezionare un prodotto più dignitoso.

Giuseppina Torregrossa “Il sanguinaccio dell’immacolata” Mondadori euro 12

[A: 25/02/2021 – I: 06/09/2023 – T: 08/09/2023] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229; anno: 2019]

Come detto nella precedente trama, ecco il terzo episodio di Maria Teresa (Marò) Pajno, vice questora ora passata a dirigere la sezione “anti-femminicidio” della questura di Palermo. Torregrossa è sempre piacevole nella sua scrittura, con alcune punte di gradimento, per l’ambientazione (Palermo è sempre una cara città) e per i periodi in cui fa dipanare le sue trame. Anche se, nel computo finale, non risulta un grandissimo libro. Interessante, ma in alcune parti, forse, leggermente prevedibile

Come tutte le storie seriali, vediamo anche l’evoluzione dei personaggi. Avevamo lasciato Marò in rotta totale con Sasà, rotta che continua e si fa incolmabile. Anche perché lei cede per un po’ alle lusinghe della bella Marina. Un rapporto un po’ di testa, che fin dalle prime battute capiamo abbia poco sviluppo futuro. E nella vita fluida odierna, si intuisce, forse, che verso altri interessi si svilupperà la sua sessualità. Non nego, infatti, di ipotizzare un possibile avvicinamento con il suo burbero superiore.

Marò è anche depressa, tanto che sta prendendo peso oltremisura, e le diete non sembrano sortire alcun effetto. Anche se viene aiutata dalla sorella Nanà, ma poco aiutata dal tempo del racconto, dove ci si avvicina al Natale. Anzi, la trama è scandita da tre feste dicembrine: l’Immacolata, Santa Lucia e il Natale. Per ognuna, poi, come usuale nelle ultime fatiche della nostra, si presentano piatti interessanti, questa volta corredati da ottime ricette ben descritte: il cuccidatu (un impasto di pasta frolla, con una sfoglia abbastanza spessa, farcito con fichi secchi, mandorle, scorze d'arancia e uva passa), la cuccìa (dolce tipico siciliano, a base di grano bollito e ricotta di pecora) e la cannola (nome originario dei cannoli siciliani come dal dizionario di Michele Del Bono del 1530).

Passando alla trama gialla, questa volta la scrittrice si butta a capofitto nella sicilianità, affrontando, pur se da vie traverse, il tema della presenza mafiosa sul territorio. Che tutto inizia con la scoperta di un omicidio: nella sua pasticceria viene trovato, colpito da due proiettili di cui uno mortale, la titolare Saveria Russo. Sembrerebbe una banale rapina se, primo nulla è stato rubato e secondo, Saveria era la figlia del boss della zona, Fofò Russo, e chi si metterebbe in testa di fargli uno sgarbo?

Intanto si capisce il senso del titolo, che sarebbe tradizione locale mangiare sanguinaccio nel giorno dell’Immacolata. Ma il sanguinaccio, quello vero, è messo al bando dai percorsi virtuosi del mangiare odierno. Solo Saveria continuava a farlo seconda la ricetta tradizionale, protetta dal fatto di essere la figlia di Fofò. Ed è per questo che quella benedetta mattina era andata prima nel negozio. Doveva essere aiutata dal fratello, Roberto, che il boss non riteneva essere adatto a succedergli, e quindi lo usava per piccole commissioni.

L’intreccio tra storia e tradizioni locali viene nel corso dei giorni svelato dalla scrittrice. Che dal 7 dicembre al 7 gennaio, a Palermo c’è tutto un intrecciarsi di cerimonie pubbliche e private, che si svolgono in tutti i quartieri della città, ed hanno sempre al centro il gioco. È un mese dove spesso fortune familiari cambiano addirittura di mano.

Marò non può che muoversi in questa confusione, affastellando piccoli indizi. La depressione di Roberto, lo scontento di Saveria verso il padre, l’idea che forse volesse fuggire via da Palermo, con o senza il marito, di cui vengono spesso ricordate le liti (vere o finte?), la presenza, discreta, di Manlio, che molti vorrebbero amante di Saveria, ma che in pochi sanno che è il suo più caro amico gay. Tanto amico che di sicuro sa qualcosa e quindi non ci meravigliamo quando anche lui ci lascia le penne.

Personaggi positivi e personaggi malavitosi si contrappongono nelle pagine. Di sicuro sono buoni la magistrata Palumbo, che avalla le richieste di Marò, ed il questore Bellomo che, nonostante non sia limpido, sembra voler spingere la nostra a fare carriera. Sicuramente Fofò e le “famigghie” sono tra i cattivi. Ma dove si collocano realmente Saveria, il di lei marito, il fratello Roberto e l’amico Manlio?

Con caparbietà ed intuizione, Marò arriverà alla fine del percorso di questo dicembre “sanguinoso” più che sanguinaccio. Lasciandoci a Capodanno per … una nuova puntata?

Dicevo che non raggiunge grosse punte di coinvolgimento, ma ribadisco che la scrittura italo-siciliana di Giuseppina fa piacere alla lettura, in egual modo delle descrizioni, della città e del cibo. Aspetteremo comunque altri scritti.

Giovanni Valentini “La sirena delle Azzorre” Mondadori euro 6,50

[A: 30/08/2022 – I: 21/07/2023 – T: 23/07/2023] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150; anno: 2022]

Giovanni Valentini è stato per anni nell’orbita di Repubblica, giornalista, editorialista, vicedirettore del giornale e direttore de “L’Espresso”, per poi allontanarsene quando Repubblica entra nell’orbita della famiglia Agnelli, rientrando nella carta stampata come editorialista per “Il Fatto quotidiano”. Dopo una vita passata a parlare della quotidianità, dal 2018 comincia anche a scrivere romanzi. Ovvia la scelta di usare il genere giallo per impostare un discorso che tocchi tempi sensibili, lasciando un certo grado di libertà nelle parole proposte al lettore.

Comincia così la storia di Alfonso Delgado, eteronimo dell’autore e giornalista in pensione, che, come molti pensionati, decide di trasferirsi altrove per godere al massimo i proventi di una vita. Così Alfonso e la moglie Marianna si trasferiscono in Portogalli, da dove partono le inchieste dei suoi due primi romanzi. Qui, siamo alla terza uscita di Alfonso, motivo per cui troviamo la sua struttura romanzesca già formata, così come ben strutturata è Marianna, ed altrettanto il loro rapporto. Non avendo letto i precedenti episodi, ci accontentiamo di quanto si desume da questo, e tutto sommato, è un ritratto di personaggi credibili e che hanno poco bisogno di farci sapere del loro passato.

Certo, alcune cose potrebbero essere più chiare. I rapporti con la polizia portoghese, ad esempio, qui utilizzati ma non spiegati (forse nei primi libri…), e le consuetudini con il giornale lasciato in Italia, per il quale qualche bell’articolo può ancora uscire fuori.

La storia inizia con la volontà, visto che siamo in terra lusitana, di visitare le splendide isole dell’arcipelago delle Azzorre, isole che prima o poi cercherò di visitare anche io. Qui Alfonso incappa in un primo mistero: nell’albergo prima tappa del suo tour isolano trova una sottoveste insanguinata con un taglio all’altezza del petto. Da buon giornalista, fiuta qualche possibile storia torbida, e comincia, con discrezione, ad indagare su chi avesse occupato la stanza, e sui motivi della sottoveste nascosta.

Pur con fatica, trova nomi e indirizzi, che sembrano tutti finire nel nulla, senza particolari conseguenze, se non che, la donna della stanza (che tuttavia risulta viva sebbene introvabile) ha lo stesso nome di un’infermiera italiana, fuggita in quanto ricercata per possibili omicidi di anziani nelle strutture ospedaliere dove lavorava.

Parte allora una trama che si allarga a macchia d’olio, coinvolgendo elementi diversi (appunto, polizia locale, giornali italianai in cerca di scoop), e dove Alfonso, con arguzia e metodo, riesce a rannodare tutte le fila. A trovare i motivi della sottoveste, a trovare la donna, a convincerla a costituirsi ed a subire un processo, la cui fine sembra già scontata dalle prime battute.

Ma sarà proprio così, o ci saranno (ci saranno di sicuro) colpi di teatro a ripetizione, che servono al “vecchio” giornalista Valentini (virgolettato che ha solo cinque anni più di me) per lanciare i suoi strali sulla malasanità e sulla malagiustizia italiana.

L’andamento dello scritto, tuttavia, non è dei più accattivanti, che la storia si srotola a salti: a volte accelera inopinatamente, a volte rallenta e si perde in momenti poco utili al contesto. Tuttavia, oltre agli strali di cui si potrebbe discutere (tanto per esemplificare: sanità italiana non più all’altezza dell’eccellenza passata, giustizia che viene fatta prima sui giornali e poi nelle aule, ed altro), l’interesse è anche dato dal contesto: la descrizione dell’ambiente naturale delle Azzorre, che suscita la voglia di prendere il primo aereo ed andare a vedere, tocchi culturali che colpiscono alcune corde a me care, come i racconti di Antonio Tabucchi, uno degli scrittori del mio pantheon privato, ma anche le dotte citazioni delle poesie di Luìs de Camões. Nonché un contorno di relax e piccole manie: le camminate sui campi da golf di Alfonso (mai capito questo sport), le partite a burraco di Marianna (dove ogni volta mi torna in mente l’anziano accanimento della signora Laura). Ma anche le scivolate verso elementi poco correlati con la trama, come le turbe amorose-erotiche di Alfonso e le risposte costruttive di Marianna.

Non un risultato riuscito a tutto tondo, ma un libro che non sfigura tra le possibili letture estive, sotto un ombrellone o sotto una magnolia, decidete voi. Di Valentini, poi, non si cercherà affannosamente altro, ma nel caso, se ne potrà leggere ancora.

Matteo Guerrini “Zōo – La rabbia” Mondadori euro 6,50

[A: 13/07/2022 – I: 08/09/2023 – T: 10/09/2023] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno: 2022]

Matteo Guerrini, quarantacinquenne biologo milanese, imprime una svolta alla sua vita sposando una signorina giapponese ed andando a vivere nel paese del Sol Levante. Probabile che anche in precedenza abbia avuto interessi per quel mondo (e non nego che lo capisco). Di certo, ora aumentano, si approfondiscono, e si uniscono alla passione per la scrittura.

Ne esce così un libro poliziesco con alcuni accenni (che io ho capito poco) alla sua professione ed ambientato in Giappone. Anzi, ad essere precisi a Kanagawa, cittadina a sud di Tokyo che ben ricordo dovendoci passare ogni volta che da Tokyo si va a visitare il Grande Buddha di Kamakura.

Purtroppo, però, benché partendo da buone premesse, il romanzo non si sviluppa armoniosamente, e devo dire sono stato un po’ sorpreso che abbia ricevuto il Premio Tedeschi 2022, assegnato agli inediti che pervengono alla Mondadori.

Perché è un po’ slegato, e la storia sembra fatta a cipolla, ogni volta che si arriva a scoprire qualcosa, c’è dell’altro che ricopre il cuore duro delle vicende. Ma è una cipolla strana, come se si ricoprisse una cipolla bianca con della buccia rossa, per far finta che sia di Tropea.

C’è un nucleo investigativo che si mette all’opera a fronte di fatti delittuosi, composto dal commissario Jo Hara (nome un po’ bizzarro, che mi riporta alla mente il quadrato di Johari ed in particolare il quadratino a sinistra, quello del “cieco”) e dal suo assistente Suzuki (nome forse solo apparentemente bizzarro, ma comune in Giappone). Le parti migliori sono quelle in cui Jo evoca il suo passato e di come sia nata e maturata la sua amicizia con Suzuki.

Il fattore scatenante è il ritrovamento, nei corridoi di una stazione della metropolitana di Tokyo, del cadavere di un uomo. Aveva un trolley passatogli da una misteriosa signorina mascherata. Poi, nella folla, l’uomo viene pugnalato, ed il trolley e la signorina spariscono i diverse direzioni.

Con solo questo in mano, i nostri indagano, vagliano le immagini, scoprono, con un po’ di fortuna, prima un altro morto, poi la signorina che viene a parlare di come sia stata incastrata. Mattone dopo mattone, Jo ricostruisce questa parte della storia: droga importata, comprata, rivenduta, soldi legati alle transazioni che spariscono, uomini anch’essi legati alle transazioni che anch’essi spariscono o muoiono.

Sembra tutto semplice, ma non è così. Che si passa agli altri strati della cipolla. Ci sono infatti collegati ai precedenti, morti misteriose, anche un po’ pulp, inspiegabili seguendo la logica. Poi si ipotizza la presenza di qualche altra droga che altera l’equilibrio psicofisico degli assumenti, portandoli ad azioni inconsapevoli e trucide.

Jo risale la catena degli eventi, arriva ai laboratori producenti la droga sintetica, assiste ad altre morti, ma alla fine avrà un quadro più chiaro degli avvenimenti. Avere un quadro più chiaro non significa però risolvere tutto, assicurare i cattivi alla giustizia, o altri possibili finali. Che anche il finale è molto ingarbugliato.

Dato che c’è un’incursione verso l’Italia non particolarmente chiara, dove seguiamo un tizio effettuare delle azioni a fronte delle quali noi lettori diciamo: ecco un altro tassello, vediamo come si incastra. Ma non si incastra che il tizio non compare più, o se compare è talmente nascosto nelle pieghe del testo che io me lo sono perso.

Dato che c’è un collegamento con il passato giapponese di campi di concentramento, di unioni tra nipponici e nazisti, di medici irresponsabili, ed altre storie proveniente da un passato forse chiaro ai nativi, ma di cui io sono rimasto spiazzato nel ricordo.

Insomma, ogni tanto dalla cipolla nasce un piccolo fiore, pensiamo che sia il fiore definitivo, quello che ci fa smettere di piangere. Invece no, si rimescola di nuovo in un calderone che, per aver messo troppe pietanze sulla brace, alla fine un po’ sono bruciate ed un po’ sono crude.

Non mi ha fatto quindi una grande impressione, se non per i ricordi delle visite giapponesi che mi restano in cuor sempre gradite. Né penso che, al momento, sia il caso di seguire la carriera editoriale del pur bravo Guerrini.

Dimenticavo, il titolo, pur non conoscendo io il giapponese, è molto pertinente alla trama, una volta tanto. Come dice il cantante, lo scoprirete solo leggendo.

Al solito cercando una legge di omogeneità, ad una trama di libri italiani fa da contorno un piccolo florilegio di una autrice italiana. Veniamo quindi alla non particolarmente nota Valentina Brunettin ed al suo unico libro a me noto “I cani vanno avanti” (che ho letto quasi quindici anni fa). Si parlava di scritture, e “spesso sembra che tu sia capace di scrivere grandi cose senza veramente capirle. Di questo non dispiacerti, perché nessun lettore vuole comprendere quanto sai, ma solo quanto sei in grado di dimostrare di sapere” (122). Poi dei rapporti tra le persone sulle vesti e sugli amori. “Emma predilige gli abiti che la fanno sentire a suo agio (e il suo agio è vulnerabile e volubile, oltre che mimetico) mentre Virgilio predilige gli abiti che fanno sentire a loro agio coloro che lo circondano” (145) “È troppo bruttina per innamorarsene ed è troppo intelligente per evitarla del tutto” (153).

Infine, un bel pensiero sui cani (visto che il libro era dedicato alla cagnetta Laika), anche prima che i cani entrassero nella mia vita: “oggi mi accorgo che la cosa più importante nella nostra esistenza non è dire, ma tacere. E questo me l’hanno insegnato i cani. I cani stanno zitti: quando li accarezzi, quando dai loro da mangiare, quando li stai per sopprimere con una puntura. I cani mi hanno fatto capire che nessuno di noi deve avere sempre qualcosa da dire” (156).

Un novembre transitivo, in cui si celebrano una messe enorme di compleanni (come sarà anche nei prossimi mesi), ed in cui (anche dopo incontri con le strutture preposte) non si intravedono viaggi nel breve termini. O quanto meno, viaggi di lunga gittata.

Per cui, insieme ad amici fidati, ci si dedica alle occupazioni solite dei nostri tempi, con il solo pensiero che, forse, si riuscirà ad auto-organizzare qualcosa, ma non prima di marzo. Anche se il freddo non incalza, tuttavia, meglio stringerci assieme in un abbraccio.