domenica 26 luglio 2020

Un’estate italiana - 26 luglio 2020

Visto che non si viaggia, rimaniamo a fare i turisti in Italia, sia per vedere posti, che per leggere libri. Anche se il fatto che siano “gialli” ci frena nella possibile cinesofobia. Comunque, quattro trame in salita, cominciando da un Carlotto un po’ fuori fase, proseguendo da un Costantini (Roberto) poco convincente, e finendo con due Ballarini non entusiasmanti, ma di sicuro interessanti (purtroppo non forieri di altre letture, come potete scoprire più avanti).

Massimo Carlotto “Il turista” Repubblica Noirissimo 12 euro 7,90

[A: 18/09/2017– I: 08/03/2020 – T: 10/03/2020] - && e ½  

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 265; anno 2016]

Peccato dell’occasione sprecata. Carlotto, di cui si sa che io sono uno dei fan della prima ora, aveva una buona idea di plot noir – thriller, che ben sviluppa nella parte inziale del romanzo. Poi però si perde, sia per voler complicare troppo la trama stessa, sia per lasciare uno spiraglio che consenta di iniziare una nuova serie. Purtroppo, da queste pagine né Pietro Sambo né il Turista sembrano avere qui lo spessore e la profondità dell’Alligatore. Allora, il bravo lettore si domanda perché lasciare porte aperte quando si poteva chiudere tutto, casa e bottega (come diceva il mio compagno di stanza).

Abbiamo almeno la piacevolezza di seguire le vicende in un luogo a me caro, e che Carlotto ben conosce, pur essendo padovano. Siamo a Venezia, e, a parte la storia, non posso che sentirmi a mio agio e riportato indietro nel tempo, quando si passa per la strada con la statua di Goldoni, per campo Manin, per la rosticceria che faceva il miglior baccalà mantecato di tutto il Veneto, per Frezzeria, e… beh forse è meglio non indulgere in ricordi che rischiano di risalire a quasi 50 anni fa (ahi, ahi, ahi, siamo diventati grandi, eh?).

Come dicevo, l’inizio è intrigante. Cominciamo conoscendo lo psicopatico, il Turista, un assassino di donne, più o meno belle, ma, questa è la sua firma, tutte con delle borse belle e firmate. Che lui segue per la borsa, le uccide, per rubare la borsa ed immergersi nel mondo contenuto in quegli scrigni femminili. Sembra si chiami Abel, ha una sua vita in Danimarca, con moglie ed amante, nonché una normale carriera di musicologo. La zeppa nella sua vita è quando, per la sua psicopatologia, uccide non una donna qualsiasi, ma un’ex agente francese, ora nei servizi segreti per sventare un grosso complotto mondiale, che coinvolge molti ex-agenti che si sono messi in proprio dai rispettivi governi, creando una rete chiamata “Liberi Professionisti”. La sua maldestra uccisione provoca la discesa in campo sia dei buoni, sodali della morta, sia i cattivi, cui la morta dava la caccia. Per dare sapore alla vicenda, viene anche coinvolto, dai servizi italiani, l’ex-ispettore Pietro Sambo, una volta capo dell’Omicidi veneta, poi caduto in disgrazia per questioni di tangenti (anche se forse coinvolto in ingranaggi che non aveva saputo prevedere).

Carlotto spesso mette al centro, o quasi, delle sue trame qualcuno che ha fatto degli errori. Se conoscete i suoi scritti, potete farne il conto, io penso solo al suo miglior personaggio, l’Alligatore, a cui rimando per approfondimenti. Secondo Carlotto (e forse edotto dalla sua storia personale), spesso chi fa errori, chi deraglia dalla retta via, non sempre lo fa per malvagità, ma anche per incuria, per indolenza, o proprio per sbaglio. Tant’è che i suoi eroi sbagliati mantengono comunque un retto comportamento morale. Chi sbaglia paga, come l’Alligatore, come Sambo, come Carlotto, ma rimane integro in una sua propria dirittura morale.

Sambo, prima un po’ a forza, poi sempre più convinto, mette in moto le sue leve pregresse, e riesce a ricostruire fili della vita di Abel. Ma i cattivi sono alle porte. Intanto, fanno piazza pulita dei primi contatti di Sambo. Poi utilizzano Abel, in unione con l’altra psicotica Laurie, per portare avanti un loro piano: uccidere un tenente della Finanza che ha messo troppo il becco negli affari di una banda di trafficanti montenegrini. In aiuto di Sambo, vengono anche le forze italiane, guidate dalla bella vicequestore Tiziana. La lotta si fa senza quartiere, anche se i colpi di scena non sono tanti. C’è un crescendo di incertezze, dato che Sambo riesce a sventare l’attentato al tenente, anche se muore la moglie di lui. Nel fare questo, Tiziana si scopre troppo e viene presa dai cattivi. Nel crescendo finale, a parte un’intrusione poco felice dell’amante di Abel, si arriva al punto nodale. Per liberare Tiziana, Sambo deve decidere se promettere o meno ad Abel e Laurie di eclissarsi. Qui siamo alle parti finali, che portano alcuni punti a favore dei buoni, ma come detto la partita rimane sospesa. Come, appunto, se Carlotto pensasse di inscenare una nuova puntata con al centro il buon Sambo.

Come in tutti i bravi serial writer (ed il rimpianto Cussler era maestro in questo), si fa una puntata esplorativa. E solo se va bene, se ha successo (non importa se di critica o di pubblico), si decide il suo proseguimento. Rispetto ad altre prove, c’è poco approfondimento reale dei personaggi, che vengono si dipinti, ma per ora a bassorilievo e non a tutto tondo. Sembra quasi che Carlotto stesso non abbia ancora deciso chi sia il personaggio cui dobbiamo volgere il nostro tifo. Per questo, alla fine, non mi è piaciuto come invece di solito mi convincono i suoi scritti. Vedremo (frase che purtroppo sta ricorrendo troppo in queste mie ultime trame, quasi mi aspettassi sempre un miglioramento, seppur piccolo).

Roberto Costantini “La moglie perfetta” Repubblica Noirissimo 17 euro 7,90

[A: 05/10/2017– I: 04/04/2020 – T: 05/04/2020] - &&& ---  

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 458; anno 2016]

Primo romanzo che leggo di Costantini. Buona l’idea della trama, anche se ad un certo punto si incasina talmente che si segue con difficoltà. Anche per la scelta stilistica di presentare il romanzo come un libro a più voci, dove c’è sempre qualcuno che parla in soggettiva. Scelta che non mi è molto piaciuta, che spezzata il racconto. Inoltre, c’è un certo sbilanciamento tra le voci che parlano. Per un certo periodo è preponderante quella di Nanni, poi soppiantata da Bianca, ed infine chiusa con lunghi discorsi di Michele Balistreri. Che tra l’altro è il protagonista dei primi tre romanzi di Costantini, quelli che si indicano nelle bibliografie come “Trilogia del male”.

Devo intanto tirare le orecchie e quant’altro tirabile all’estensore della retrocopertina, dove si parla di un delitto riaperto dopo 10 anni. Ora, siccome la prima pagina, come un diario, porta la data di aprile 2001 e si parla di delitti, una si aspetta che dopo poco si salti al 2011. Invece, il salto temporale avviene a pagina 348, cioè a ¾ del libro! Nella stessa pagina, Costantini fa un sunto di cosa sia avvenuto in questi dieci anni di buio, facendo evolvere i personaggi, qualcuno muore, qualcuno si scopre padre, ed altre vicissitudini, che fanno scendere molto il gradiente positivo del libro. Tra l’altro, e per tornare ai nostri montoni, come diceva la mia professoressa di francese (citazione super dotta, chissà se decrittabile), l’inizio è anche spiazzante. Dato che abbiamo un’inchiesta per l’uccisione di tal Donatella, inchiesta affidata a Balistreri, che viene ben presto, anche se non ben positivamente, risolta. Donatella è figlia di Caruso, un imprenditore in gara per appalti. I concorrenti di Caruso, per farlo desistere, lo rovinano a poker ed uccidono Donatella. Il nazista laziale detto “Il Sordomuto”, uccide l’assassino, rileva il debito, e convince Caruso al suicidio. Caso chiuso. Inciso, sugli appalti truccati sta lavorando il magistrato Bianca Benigni.

Tutto il secondo filone della prima parte si incentra invece su Nanni, psichiatra marito di Bianca. Terapeuta di coppia, si trova casualmente invischiato nelle paturnie sentimentali di un genio della matematica e della finanza, tal Victor. Che è anche assai manesco con la moglie Nicole, nonché puttaniere alla grande. Di mezzo c’è anche la ventenne sorella di Nicole, Scarlett, sciacquetta in cerca di divertimenti maschili con chi capita, forse anche con il cognato. Nanni è attratto dalle sorelle, anche se sa che con Nicole non ha spazio, mentre con Scarlett avrebbe spazio ma non ha voglie (impotenza coeundi e pippe mentali). Nicole lo convince ad accettare lei ed il marito in terapia, anche se obtorto collo. Non solo, mentre la moglie Bianca è sempre più invischiata nelle trame mafiose degli appalti, tanto che sparisce per due giorni senza dar traccia di sé, lui viene coinvolto da Nicole in una “gita” a Firenze per trovare le prove del tradimento di Victor e Scarlett. Nanni e Nicole, con molti dubbi, tornano a Roma, fanno in tempo a convergere nello studio per la seduta con Victor, dove quest’ultimo si comporta in modo stranamente alterato. Nicole è sconvolta, Nanni la consola (ma senza toccarla, ahimè), poi la riporta a casa, dove trovano il corpo di Victor, morto soffocato in un gioco erotico.

Arriva la polizia e la magistratura. Ovviamente si tratta di Balistreri e Bianca, che da questo punto lavoreranno di conserva. Per smontare e rimontare gli alibi di tutte le persone presenti. Dove, alla fine, Nanni dovrà confessare e fornire lui stesso un alibi a Nicole, mettendo nei guai Scarlett. Che però, non essendoci prove indiziarie, verrà condannata solo per una pena accessoria. Lì c’è il salto, con Scarlett uscita di prigione, e tornata dopo anni in Italia per il lancio di un libro sulla vicenda. Spalleggiata da Greg, che dieci anni prima era un addetto di secondo piano dell’ambasciata americana, ed ora ne è più di punta. Nicole è sparita. Bianca si è dimessa e fa l’avvocato in campagna. Balistreri ha smesso di fumare. Qui, un appunto di una persona coinvolta nella prima fase, di cui salto l’operato che tanta (troppa) carne al fuoco ha messo l’autore, scatena Michele (finalmente il commissario viene anche chiamato per nome). L’appunto collega la morte di Donatella con quella di Victor, dove si dice che appunto Victor è il baro che rovinò a poker Caruso. Michele, con i suoi agganci (pare che una trentina di anni prima sia stato lui stesso laziale ed ultras, prima di lavorare come infiltrato nei gruppi terroristi di destra, farne arrestare un buon numero, e poi far carriera alla Omicidi) scopre alcune piste. Soprattutto che Victor era il tramite dei mafiosi siciliani per riciclare del denaro ed aggiornare il software delle giocate online. Che Victor doveva avere 5 miliardi da consegnare che invece spariscono (come Nicole o con Nicole?). Che Greg in America era stato amante sia di Nicole che di Scarlett (scoperta che avviene guardando le foto di una rappresentazione teatrale con Greg nella parte di Iago e Nicole in quella di Desdemona). Michele, anche con l’aiuto di qualche personaggio strano, finalmente riesce a risalire tutte le fila delle morti, di chi le ha perpetrate, di come si incastrino l’una con l’altra. Di come Nanni sia ancora psicologo, anche se ha una nuova compagna. Di come prende una macchina per andare a trovare Bianca.

C’erano tanti sottofinali, ma alla fine, il finale definitivo arriva. E meno male, che con tutti i giri fatti dall’autore ci stavamo perdendo. Mi domando anche come si incastri la “Trilogia” di Michele scritta prima di questo libro, e che prende le mosse, a quanto ne so, dal lontano 1982. Mi incuriosisce, ma ora ci sono troppi libri in attesa. Per quasi finire, l’idea della trama è gradevole, le sue complicazioni forse inutili, che come detto quasi ci si perde, la scrittura in soggettiva su soggetti multipli di faticosa gestione. In conclusione, una sufficienza ma con qualche affanno. Un appunto veramente finale: se non erro, le intemperie degli ultras laziali di fede nazista contro Anna Frank sono emerse negli ultimi 5-6 anni, mentre l’autore le fa risalire al 2001. Non so chi ha ragione, forse qualcuno più tifoso di me ne sa qualcosa.

Andrea Ballarini “Giallo Viola” Repubblica Noir 28 euro 7,90

[A: 22/12/2018 – I: 30/04/2020 – T: 01/05/2020] - &&& + 

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 333; anno 2003]

Avevo da tempo nelle liste di lettura i libri di Andrea Ballarini, che mi sembravano promettenti nel titolo e nell’impostazione, per quello che se ne poteva immaginare. Certo, non immaginavo che, leggendone il primo, scoprissi che l’autore è morto l’anno scorso!! Questo ha fatto scendere un velo di tristezza sugli occhi della lettura. Anche perché, per spigliatezza, scorrevolezza e citazioni cinefile varie, il romanzo è gradevole.

Dico subito le tre cose che non mi hanno convinto, dovute una all’autore, una all’editor ed una al typewriter. La prima riguarda le colte e divertenti note legate alla cinematografia, che, se è vero vengano imputate alla colf intellettuale della protagonista (che dimenticavo di dire si chiama Viola Anhalt, da cui il titolo), secondo me andavano inserite nel corpo della narrazione e non come note di chiusura. In tutti i libri, romanzi o saggi che siano, sono assolutamente favorevole alle note a piè di pagina. Per l’editor, invece, una tirata d’orecchie, che, se è vero questo essere una rilettura del primo libro scritto da Ballarini, avrei comunque mantenuto il titolo originale, cioè “Giallo Viola. Casanova, il cinema e l’amore”. Cassare la seconda parte del titolo ne fa mancare un sapore che insaporisce sin dall’inizio la pietanza che stiamo leggendo. Infine, il correttore di bozze avrebbe fatto bene a leggere con accuratezza il testo, che è pieno di errori di stampa. Tipo, a pagina 88 far diventare “teutone-laguare”, il fascino “lagunare” della bella Viola. O a pagina 94 i faldoni consultati “secondo le ricevuto” invece che le “ricevute”. E ce ne sono altri, dal che desumo che il controllo ortografico e grammaticale sia stato saltato a piè pari.

Il giallo in sé non è che sia poi veramente privo di difetti e degno di essere incluso negli annali. Ha una sua dignità, è vero, ma ci sono passaggi che vengono fatti troppo frettolosamente, dato che, in fondo, quello che Ballarini cercava di porre su carta è una “tranche de vie” di una circa trentenne di bell’aspetto e di ancor migliore intelletto. Prima parentesi: qui si cade nell’ovvia critica, da parte mia e che ho già spesso fatto, quando un uomo cerca di raccontare in soggettiva le vicende di una donna. Non entro nel merito, ma quando Viola parla del sesso e del suo approccio ad esso, mi sembra più un sentire maschile che femminile. Saltato (o rimosso) questo ostacolo, la storia ruota intorno appunto alla bella Viola, ai misteri legati al suo lavoro, con sparizioni e morti connesse, ai continui rimandi cinefili ed alla ricerca, non spasmodica ma di sicuro presente e costante, dell’amore.

Viola è una “settecentista” specializzata soprattutto in Casanova. Mentre prepara un convegno, viene invitata dal suo mentore, il professor Altiero a raggiungerlo a Parigi, per un qualche mistero. Il suo editore veneziano Stefano cerca di fermarla (e lo cercherà spesso nel corso del romanzo, tanto che sia io che la sua amica Erica ci si domanda perché invece di cercare l’amore altrove non prova a vederlo nelle vicinanze). A Parigi scopre la morte di Altiero, secondo Viola di sicuro legata a qualche “casanovata”. Così (e sono questi passaggi che spesso sono troppo rapidi e che scopriamo a volte solo dopo un po’ che se ne legge) Viola da Parigi si precipita a Duchov (al tempo di GGC nota come Dux) per capire nella biblioteca del castello se c’è qualche traccia. Lì trova sia una svampita dottoranda inglese che un più che quarantenne professore di storia di Aix dall’improbabile nome di Julien Sorel (il protagonista di “Rosso e Nero” di Stendhal per i deboli di memoria).

Fatto un buco nell’acqua a Dux, alcuni mesi dopo Viola e Julien si ritrovano a Venezia, che Julien trova delle pagine delle memorie di Casanova posteriori al 1774, data in cui si interrompe l’immensa opera casanoviana della “Histoire de ma vie”. Vere o false? Anche qui, saltando il libro dei passaggi, vediamo che viene coinvolto l’antiquario marocchino Mellah, che ne dà parere positivo. Viola e Julien si dividono le pagine manoscritte, ma quelle di Julien (che Viola non aveva ancora visto) vengono rubate. Ecco allora Viola precipitarsi a Marrakech sulle orme di Mellah, dove chiede l’aiuto di un detective francese colà parcheggiato, tal Robert. Dopo l’ennesimo buco nell’acqua, tornano tutti a Venezia. Poi a Parigi che pare si sia trovato l’assassino di Altiero. Ma il mistero si risolverà soltanto a Venezia, seguendo un’intuizione di Viola sulle pagine manoscritte mancanti. La persona responsabile di tutto l’intrigo viene così alla fine smascherata e fermata. Con l’aiuto anche del commissario francese Labroche e della di lui figlia Françoise.

Come detto, il filo giallo non è che sia veramente molto forte, anzi si capiva già dalle prime battute. Meglio l’ambientazione generale, e le puntate a Parigi e Marrakech. Qualche moto ironico sulle vicende sentimentali di Viola tra Julien, Richard e Stefano. Infine, impagabili le citazioni cinematografiche, in particolare la lista dei film da Prozac (vedi sotto). Leggerò presto anche la seconda puntata delle avventure di Viola, con i rimpianti per chi ci ha così presto lasciato.

“È proprio il fatto che qualcuno scelga di copiare ciò che hanno già detto altri che certifica il valore del concetto.” (82)

“Finché qualcuno ti ricorda non si muore veramente.” (161)

“La storia non si fa con i forse bensì con i ma e i però.” (189)

“[da ‘Appartamento al Plaza’, dice Walter Matthau] la cosa che mi irrita di più è che tu fai anche gli sbagli nel modo sbagliato.” (225)

“Come diceva quella saggia donna della mia mamma, chi più spende meno spende.” (234) [da sottolineare che lo diceva anche mamma mia!]

Prozac top ten (i dieci film “Prozac” secondo l’autore in ordine crescente di importanza):

10. Frankstein Junior

09. Susanna

08. Operazione sottoveste

07. Colazione da Tiffany

06. Sciarada

05. Harry ti presento Sally

04. Sabrina

03. A qualcuno piace caldo

02. Scandalo a Filadelfia

01. Caccia al ladro

Andrea Ballarini “Viola nel Bordeaux” Repubblica Noirissimo 23 euro 7,90

[A: 13/11/2017 – I: 02/05/2020 – T: 04/05/2020] - &&&  

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 475; anno 2017]

Come detto nel precedente finale, avevo in programma, e così ho fatto, di leggere il secondo libro delle avventure di Viola abbastanza presto. Il libro l’ho trovato leggermente inferiore al precedente, ma sempre gradevole. Anche se continua ad essere tartassato da errori di stampa che un più attento editore avrebbe evitato. Non ne entro nel merito, sarebbe un esercizio abbastanza noioso, ma sottolineo soltanto che a pagina 15 lo stesso capoverso è ripetuto due volte.

Altre note di contorno riguardano l’inizio e la fine del libro. Che all’inizio Ballarini sembra rispondere alla mia critica sulle note cinematografiche, sostenendo che l’editore le aveva volute alla fine del testo per non romperne il ritmo. Ora, se tu mi metti una nota, ad esempio, quando citi la bellissima serie “Friends”, non è rompere il ritmo sapere cosa mi vuoi comunicare. Anzi, il ritmo è maggiormente disturbato dal fatto che sospendo la lettura della pagina e devo andare a cercare il riferimento nelle ultime pagine. Scuse bocciate e rimango sulle mie idee di come devono essere utilizzate le note.

Per la fine c’è un moto di tristezza, che dopo la parola fine l’autore aggiunge “Viola Anhalt ritornerà”. Purtroppo, un anno e mezzo dopo la pubblicazione del libro Ballarini ci lascia, orfani di Viola, del BeaCaffè e di tante altre piccole cose di non pessimo gusto, con tanta pace a Gozzano. Ma veniamo pure al libro.

È passato del tempo dal precedente, e Viola ora si accompagna quasi stabilmente con Stefano, anche se uno dei fili collaterali del romanzo è l’intromissione di un nuovo maschio alfa che fa girare la testa a Viola, e che porterà ad uno scontro, garbato, tra Stefano e Rascasse (questo il soprannome del nuovo pretendente) per conquistare la bella. Finale scontato della lotta, ma non per questo meno intrigante, per cui neanche ne parlo e ve la lascio gustare. Ci sono sempre le due spalle di fondo: la tata – badante Maria e le sue incursioni cinefile e l’amica – ninfomane Erica. Viola, intanto, ha purtroppo abbandonato il Settecento e Casanova, per dedicarsi a scritture di gialli non meglio identificati. Ed a vita di società con il quasi fidanzato. Vita che la porta ad una grande presentazione di vini francesi, nelle campagne bordolesi. Laddove nascono le migliori zone del Bordeaux, i Châteaux, come lo Château Lafite, lo Château Latour o lo Château Mouton Rothschild. Qui, Andrea introduce il vino che farà da perno alla vicenda lo “Château Chabrol”, rigorosamente inventato ma con un nome che un cinefilo non può certo dimenticare. Dal castello si sviluppa appunto la trama eno-giallo-storica. Ci sono un discreto numero di personaggi coinvolti: il conte Chabrol e il signor Morin, due enologhi vicini ma di diverso approccio, con Morin rimasto ai metodi tradizionali; Vivienne, prima segretaria di Morin ed ora di Chabrol; Fanny, una donna notaio di molte ed alte conoscenze e frequentazioni; il maneggione Rascasse, in affari con Morin, ma lontano parente di Chabrol.

Tutto nasce dal ritrovamento di una partita di vino considerato impareggiabile: lo Chabrol del 1938. Da poco vendemmiato, ma fatto sparire nel 1940 all’arrivo dei tedeschi, che razziavano vini e quadri da portare in Germania. Qualcuno denuncia gli Chabrol che nascondevano ebrei. Qualcuno vende il castello con una grossa prebenda. Il conte attuale viene però ucciso subito, prima che il ritrovamento sia palesato al mondo. Rascasse, per far colpo su Viola, in un tête-à-tête le offre una bottiglia della partita che si rivela aceto. Allora? Rascasse l’aveva rubata per Morin, ovvio. Ma qualcuno aveva degli scheletri negli armadi, qualcuno che si era fatto passare per eroe della Resistenza, mentre aveva fatto il collaborazionista. Le vicende si complicano, portando i nostri Viola e Stefano tra l’Alsazia, la Gironda, la Costa Azzurra e Venezia. Vengono messi in mezzo anche estremisti di destra, nazi-rockettari, librai fantasiosi, prigioni per alcuni e suite per altri. Alla fine, com’è ovvio, il buon Ballarini riesce a far quadrare tutti i cerchi, con una spiegazione per ogni avvenimento delle quasi cinquecento pagine.

Un bello sforzo di coerenza.

Dove anche con un ulteriore piccolo sforzo, si poteva assurgere a più alti lidi. Facendo anche qualche correzione al volo, come ricordandosi che chi si appendeva alle tende nei film d’antan era Francesca Bertini e non Eleonora Duse. Tuttavia, il passeggiare per la Francia ma soprattutto per Venezia e le sue calli mi ha riportato ad una cinquantina d’anni fa, quando andavo per la laguna con la mia bella che non trattai molto bene all’epoca. Di certo non sarebbe forse durata molto di più, ma rimane nei miei pensieri, or che siamo nell’autunno, insieme a tante altre. Bah, forse sarà la tristezza di non aver conosciuto di persona Ballarini, che penso mi avrebbe fatto piacere, forse saranno questi momenti di isolamento. Ma come dice un regalo ricevuto qualche anno fa: “Chi legge è un viaggiatore”. Ed io leggo.

“Lo scusi … non conosce la pressione bassa al mattino: scende dal letto ed è già a pieno regime.” (97)

“[citazione di Brel] Bien sûr tu pris quelques amants …” [citazione che Ballarini sospende ma che avrei continuato sino al punto che per me la rende immortale ‘Il nous fallut bien du talent / Pour être vieux sans être adultes’] (204) [traduzione ‘Ovviamente hai avuto degli amanti … Ma c'è voluto del talento / Per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti’ dalla superba interpretazione di Franco Battiato]

Come al solito, la quarta domenica evitiamo stress inutili, con allegati ed altro, e vi lasciamo ad una lettura che spero sia agile. Auguriamoci anche che la settimana sia agile, che chi sa, sa anche che ci adopereremo per aiutare chi ne ha più bisogno. Poi ci sarà tempo per riposare.

domenica 19 luglio 2020

Senza anglosassoni - 19 luglio 2020


Emilio Ortiz “Attraverso i miei piccoli occhi” Salani s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 07/01/2018 – I: 07/03/2020 – T: 09/03/2020] - &+
[tit. or.: A través de mis pequeños ojos; ling. or.: spagnolo; pagine: 267; anno 2014]
Una lettura poco soddisfacente ma dovuta per una serie di atti d’amore. Per Trilli che ci ha lasciato tre anni fa con molti rimpianti. Per Argo che ci tiene compagnia, anche se ne fa una più del diavolo. Per Alessandra, Benedetta e Francesco che non riescono a stare lontani dai cani.
Quindi, con molta calma, mi avvio alla lettura, scoprendo primo che Ortiz è spagnolo, mentre pensavo dal nome che potesse essere italiano. Non è certo una critica, ma una costatazione, anche perché non mi dispiace la lettura in lingua castigliana. Secondo, che Ortiz, oltre ad essere laureato e giornalista, è anche ipovedente, e guidato da un cane di nome Spok. Terzo, che questo libro è un atto d’amore di Emilio a Spok. Adottando un punto di vista della scrittura veramente arduo: descrivere il rapporto cane-guida con ipovedente dal punto di vista del cane. E qui cominciano i guai.
Perché se la scrittura è fresca e scorrevole, il modo di impostarla è di difficile digestione. Come tutte le volte che vedo qualcuno mascherarsi da altro, trovo che l’espressione delle motivazioni e dei sentimenti siano sempre un po’ forzati verso quanto si vuole che sia e non quanto è. Così come quando un uomo scrive impersonando una donna (o viceversa). Anche qui, probabilmente, se il narratore fosse stato umano ci sarebbe stato forse un minor impatto emotivo nel lettore, ma una miglior resa della “vita com’è”. Per quanto appunto voglia bene ai cani, il modo in cui Cross (questo il nome del Golden Retriever che fa da protagonista) vede la realtà è “troppo umano”. Il suo modo di descrivere modi e sensazioni della vita, a due ed a quattro zampe, non può che risentire dell’umanità dello scrivente. Di certo, un conoscitore di cani migliore di me potrebbe dirmi che sì, i cani annusano, che sì, marcano il territorio, pensano spesso a mangiare (ed a rubare cibo se non gli viene dato), che sì, usano il corpo animale che hanno per rapportarsi ad altri animali. Ma detto tutto ciò, i paragoni tra canidi e bipedi che imbastisce Cross mi lasciano alquanto freddo.
La storia è in ogni caso lineare, con qualche momento pensieroso e qualche momento ilare. Uno spagnolo cieco di nome Mario va negli Stati Uniti per addestrarsi con un cane-guida. Nella scuola canina c’è l’incontro tra Mario e Cross, e vediamo il nascere di un rapporto forte, e poi di un sincero amore. Vediamo Cross crescere nell’addestramento, gioire nello stare insieme agli altri cani-guida, apprezzare gli scherzi degli umani, ed interrogarsi sulla vita di Mario e sui suoi contatti con familiari ed amici, via mezzi elettronici. So, e non è certo qui che lo scopro, l’esistenza di modalità di interfaccia e di utilizzo di sistemi elettronici per ciechi ed ipovedenti, dal desueto braille (che però deve fare sempre da base) ai sistemi vocali ed altre modernità tecnologiche.
Dopo l’affiatamento tra Mario e Cross, c’è il ritorno in patria, a Madrid. Dove Mario riprende la sua vita, studia, si laurea, e cerca di sfondare sul mondo del lavoro con una sua idea interessante (anche se analoga a quella cui lavorai io più di venti anni fa, e che ancora non è stata pienamente realizzata; ma questa è un’altra storia). Vediamo il rapporto di Mario con l’amico Nico, vediamo il deteriorarsi del rapporto di Mario con Sandra (che né a me né a Cross era mai piaciuta). Vediamo come Mario deve chiudere la porta in faccia a Cross quando, come dice il testo, si dedica al “fiki-fiki” con una donzella. Vediamo infine la nascita dell’amore tra Mario e Maria, lo svilupparsi della società pensata da Mario, la nascita del loro figlio Toni (e di come i cani sappiano badare ai cuccioli, di qualsiasi razza essi siano). Ma tutta la seconda parte, anche se viene detta ancora “in punta di Cross”, è vista sempre più con il cervello di Mario e suoi sodali. Anche perché ci si avvicina al decimo (o dodicesimo) compleanno del cane, che essendo di razza e comunque molto stressato dalla tipologia di lavoro, non può che terminare di fare la guida, e probabilmente spegnersi.
La prima parte, durante l’apprendimento, è comunque interessante, per le modalità anche di rapportarsi cane-uomo. La seconda parte, in cui vediamo Mario lasciare Sandra, bere come una spugna, incontrare Maria, eccetera, eccetera, risulta abbastanza melensa. Forse una scrittura alla Danielle Steel l’avrebbe riscattata. Purtroppo, non una scrittura all’Emilio Ortiz. Forse non sono ancora troppo cinofilo, per commuovermi alla lettera d’addio di Emilio a Cross. Ma io ho letto il libro come un romanzo, non come un trattato di vita canina. Credo che, intorno alla letteratura, ci siano modi migliori di rappresentare queste tipologie di rapporti (mi pare di aver letto qualcosa su degli scritti di Virginia Woolf, ma non sono sicuro).
In ogni caso, alla fine ribadisco che scrivere dalla parte del cane è forse un atto d’amore, ma non mi ha fatto amare il libro più di tanto. E la storia in sé, se togliamo la presenza di Cross, non riesce certo a coinvolgere molto.
Guy de Maupassant “Racconti e Novelle” Crescere Edizioni s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A: 07/05/2019 – I: 13/03/2020 – T: 17/03/2020] - && --    
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 477; anno 2016]
Una serie di punti negativi, per una raccolta di racconti che ha molti alti e bassi, è dovuta dal confezionamento del libro da parte della casa editrice. “Crescere edizioni” è una casa editrice di Varese, specializzata in libri per l’infanzia e riedizioni di classici. Che però riedita senza curarne granché la forma. Qui, i varesotti hanno preso una edizione svizzera, e l’hanno riprodotta senza un minimo di criterio. I 22 titoli sono quindi presentati non solo senza l’indicazione del titolo originale e della data di pubblicazione (cosa che riporto in coda a questa trama), ma anche, come credo abbia fatto il testo svizzero, senza un ordine cronologico di riferimento. Mentre ben sappiamo che scritti di date diverse, hanno modi e forme stilistiche generalmente diversi. Così che, una riproduzione più filologica avrebbe consentito anche di apprezzare l’evolversi della scrittura dell’autore.
I testi qui riportati vanno dal 1880 al 1890, e non è un caso che negli ultimi si senta anche l’influenza della scrittura di Edgar Allan Poe, ben noto in Francia per le traduzioni fatte una quindicina di anni prima da Charles Baudelaire. Il grande narratore francese non si smentisce nella sua capacità descrittiva: come comincia a scrivere ci sentiamo subito proiettati nella sua dimensione narrativa, vediamo le città, le campagne, i personaggi. Purtroppo, molto è anche datato, anche se, archetipamente, alcuni suoi attori sono immortali. Il timido, la sciantosa, il sindaco, l’impiegato, le coppie in lite e quelle in armonia, dopo quasi 150 anni sono sempre attuali. Alcune modalità di vita meno, ma è ben comprensibile.
Uno sguardo speciale (sarà l’aria del suo tempo) Guy lo dedica alle case di tolleranza ed alle donne di “facili costumi”, magari in allegria come il primo racconto (“Casa Tellier”) o al contrario voglia di riscatto per poi dover soggiacere ai facili costumi perché non c’è via di scampo (“Yvette”).
Anche alcune fette significative sono dedicate ai rapporti interpersonali. Paura di confessare il figlio della colpa (“Storia di una ragazza di campagna”), rimpianto per non aver ceduto alle avance di un simpatico giovanotto (“Scampagnata”), ignominia di aver fatto delle avance non richieste che poi si rivelano favorevoli ad altri (“Quel porco di Morin”), felicità di barattare viaggi in Italia con le bellezze di Genova (“Le sorelle Rondoli”). Situazioni familiari intrigate ed intriganti: attesa della morte della vecchia per un’eredità (“In famiglia”) o un’eredità legata alla nascita dell’erede, che se non viene tanto vale farlo con il primo venuto (“L’eredità”) o lo sfiorire della bellezza dopo sette figli, che la moglie confessa fraudolentemente di aver tradito il marito così che questi si astiene da metterla di nuovo incinta (“L’inutile bellezza”).
Financo due racconti simmetrici: in uno la perdita di una collana di poco valore porta alla rovina una famiglia (“La collana”), nell’altro la moglie fedifraga lascia al marito i gioielli delle sue avventure che lui crede bigiotterie invece sono di valori (“I gioielli”). I due preti al centro di vicende opposte: il rigido che non accetta la crescita della nipote (“Plenilunio”) ed il permissivo, che si ritrova parroco con un figlio della colpa, ma talmente fuori di testa che troverà un modo estremo per vendicarsi (“L’oliveto”).
Alcuni li ho trovati francamente inutili, senza particolari patemi o apporti di conoscenza (“Sant’Antonio”, “Idillio”, “Toine”). Ci sono i due che risentono delle atmosfere di Poe, ma mentre il primo ha un andamento quasi da thriller che ci può stare (“La piccola Roque”), il secondo tenta di descrivere un’atmosfera nel solco delle angosce della Casa di Usher senza minimamente riuscirci (“L’Horlà”).
Lascio per ultimi i migliori, per me.
Il lanciarsi con tutta la forza dello scritto contro il perbenismo e l’ostracismo dell’omosessualità femminile (“La ragazza di Paul”). E i tre scritti contro le guerre ed i prussiani, anche se con diverse tonalità. In “Mademoiselle Fifì” vediamo la rozzezza degli invasori che solo la puttana Rachel affronta, dimostrando da sola molto più coraggio che la maggioranza dei cittadini che hanno sempre e solo continuato a pensare ai propri più materiali e miserabili interessi. Ne “I due amici”, i due del titolo, nonostante la guerra, chiedono un salvacondotto per andare a pescare oltre le linee nemiche, ma catturati, decidono di affrontare la morte piuttosto che tradire. Infine, c’è “Pallina” o “Palla di Sego” come spesso viene ricordato. Dove la signorina del titolo, in viaggio con altri sfollati attraverso le linee prussiane, prima viene adulata, nonostante sia appunto “una ragazza facile”, perché ha da mangiare mentre gli altri no. Poi, quando i prussiani fermano il convoglio e l’ufficiale esige una notte di sesso per lasciarli partire, quando Pallina cede, per il bene degli altri, questi la relegano nel silenzio e nell’isolamento. In questo, che senz’altro è il migliore di tutti, de Maupassant riesce a colpire tanti bersagli: il perbenismo, l’umanità delle classi senza speranza, l’arroganza del potere, la collusione che poi collega prussiani invasori e francesi di buon denaro.
Ho letto il tomo con difficoltà, salvando come avete capito solo alcuni punti che sono imperdibili. Certo, un grande scrittore, ma io non sempre osanno tutto quello che i grandi scrittori scrivono. Se mi piace bene, se no ne parlo in modo poco positivo. Come per i racconti che ho taciuto perché assolutamente inutile. Come questo “Boule de Suif” che invece vale tutto il libro.
“All’incrocio di Courbevoie furono presi d’ammirazione … a destra laggiù c’era Argenteuil.” (87) [che salto nel passato, fu a Courbevoie che vissi la mia stagione liceale a Parigi…]
“Era diventato vecchion, senza essersi accorto che la vita era trascorsa.” (100)
“A volte il silenzio è bello. Ci si sente più vicini quando si sta zitti che quando si parla.” (242)
“Basta un momento di riflessione per convincerci che la terra non è fatta per esseri come noi.” (447)

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Titolo italiano
Titolo originale
Data
1
Casa Tellier
La maison Tellier
01/05/1881
2
Pallina
Boule de suif
01/04/1880
3
Storia di una ragazza di campagna
Histoire d'une fille de ferme
26/03/1880
4
Scampagnata
Une partie de campagne
02/04/1881
5
In famiglia
En famille
15/02/1881
6
La Signorina Fifì
Mademoiselle Fifi
23/03/1882
7
La ragazza di Paul
La femme de Paul
01/05/1881
8
L’eredità
L'héritage
15/03/1884
9
Plenilunio
Clair de lune
19/10/1882
10
Yvette
Yvette
29/08/1884
11
Quel porco di Morin
Ce cochon de Morin
21/11/1882
12
Due amici
Deux amis
05/02/1883
13
I gioielli
Les Bijoux
27/03/1883
14
Sant’Antonio
Saint-Antoine
02/04/1883
15
Idillio
Idylle
12/02/1884
16
La collana
La parure
17/02/1884
17
Le sorelle Rondoli
Les soeurs Rondoli
29/05/1884
18
Toine
Toine
06/01/1885
19
La piccola Roque
La petite Roque
18/12/1885
20
L’Horlà
Horlà
26/10/1886
21
L’inutile bellezza
L'inutile beauté
02/04/1890
22
L’oliveto
Le champ d'oliviers
14/02/1890



Elias Canetti “Autodafé” Adelphi euro 15 
[A: 09/09/2017 – I: 12/04/2020 – T: 15/04/2020] - &&
[tit. or.: Die Blendung; ling. or.: tedesco; pagine: 548; anno 1935]
Primo e unico romanzo pubblicato dal premio Nobel bulgaro naturalizzato inglese che scrive in tedesco. Non un libro facile, per la scrittura, per l’epoca dello scritto e per l’autore stesso. Un intellettuale a tutto tondo, sodale di tanti circoli importanti, che legherà la sua vita e la sua opera alla ricerca di un nesso e di una spiegazione dello stesso che condenserà nel suo libro summa “Massa e potere”. Ma qui parliamo del romanzo ed a lui torniamo.
Uno scritto che vede la sua gestazione tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, quando l’autore, venticinquenne, vive a Vienna, ed entra in contatto con il fecondo mondo degli intellettuali tedeschi, da Schnitzler a Kraus, passando anche per Freud (che però non amava tanto). Che non sia un libro facile lo mostra anche il fatto che dal suo completamento, nel 1931, alla sua pubblicazione passano ben 4 anni. Altro punto nodale per la comprensione del testo stesso è la gestazione del titolo. Che in tedesco suona “Il bagliore” o “L’accecamento” (non ho una conoscenza tale del tedesco da entrare in una traduzione più fine, ma mi attengo a quanto ne ricavo da Wikipedia). Mentre, quando comincia ad essere tradotto all’estero, lo stesso Canetti chiede venga utilizzato il titolo con cui lo conosciamo. Titolo derivato dai processi dell’inquisizione, dove l’accusato, se riconosciuto colpevole, veniva condannato in generale al rogo, consentendogli una dichiarazione finale, che in spagnolo si chiamava “acto de fé”, cioè “atto di fede”, e che passando per il portoghese da “acto” ad “auto”, arriva all’attuale dizione di “autodafé”.
È sempre Canetti che ci permette anche, nella sua nota finale, di capire meglio il romanzo stesso. In realtà Canetti aveva l’idea ambiziosa di scrivere otto romanzi sul tema di una rappresentazione grottesca ed ironica del mondo, e del momento di crisi che stava attraversando. Otto romanzi che poi condensa in questo, facendo confluire più voci nel flusso narrativo. Non entro nel merito se questo abbia appesantito il romanzo stesso. Certo, visto così come viene terminato, se ne risaltano i rimandi alle grandi opere dei russi ottocenteschi (che non a caso ho sempre avuto difficoltà a leggere), da Nikolaj Gogol' a Fëdor Dostoevskij.
Per parte mia, devo dire che ho apprezzato e seguito con piacere la prima parte, o meglio, le prime cento pagine, in cui vediamo delinearsi la personalità e la vita del sinologo ed intellettuale Peter Kien (il cognome in tedesco vuol dire “legno resinoso”, ed anche questo ha un senso). Ed in modo analogo e in un certo senso reciproco, la parte finale, nel rapporto tra Peter ed il fratello Georg, dove esce fuori da un lato l’embrione del pensiero che segnerà tutta la vita di Canetti, quel rapporto tra massa e potere di cui porto una citazione in fondo. Dall’altro i discorsi eruditi e trasversali nelle varie materie, che saranno anch’essi l’ossatura del suo pensiero, come l’antropologia, la sociologia, la mitologia, l’etologia, la storia delle religioni. Quest’ultima accennata in una serie di dotte citazioni tra Confucio, Buddha, testi talmudici e religiosi.
Di converso, tutte le 400 pagine intermedie mi sono state di difficile lettura, tanto che ne ho letto anche con insofferenza, cosa a me non molto usuale.
La storia, in sé, è in realtà un apologo abbastanza poco mascherato. Seguiamo l’ascesa e la caduta del protagonista, Peter, letterato, autore di saggi che magari non pubblica che nessuno li capirebbe, tanto sono elevati. Ci sarebbero tanti piccoli avvenimenti che in un saggio aulico andrebbero analizzati, ma qui si va di grandi linee. Il secondo libro che si intreccia con Peter è la storia di Thérese, che inizia da governante ed amante dei libri (almeno formalmente), per poi trovare il modo di farsi sposare, ed iniziare una carriera da “femme fatale”. Prima, mossa dopo mossa, relega il povero Peter in una delle quattro stanze originarie. Poi lo mette alle strette per cercare di estorcergli un testamento a suo favore, e quindi lo caccia di casa. Dopo un periodo di assestamento, pensa bene di circuire il portiere dello stabile, di utilizzarlo per vendere la biblioteca enorme di Peter a poco a poco al Monte di Pietà. Ma lì trova, o ritrova, Peter, che riprende il suo posto nel palazzo, ma non nella casa. Sostituendosi al portiere che lo sostituisce nel letto matrimoniale. Fino a che il fratello Georg viene da Parigi, lo libera, e caccia Thérese e il portiere. Il fratello era venuto da Parigi a seguito di un telegramma inviato dal nano Fischerle (da Fischer à pesce e suffisso vezzeggiativo -le, quindi pesciolino), co-protagonista di tutta la parte centrale libro. Dove Peter, cacciato di casa, va in giro con i suoi libri sulla testa (immagine grottesca del sapere), dormendo in alberghi sordidi, frequentando bar malfamati, dove appunto incontra il nano. Grande appassionato di scacchi, che vuole sfidare l’allora campione del mondo José Raul Capablanca (cosa che quindi colloca la vicenda tra il 1921 ed il 1927, periodo del regno del cubano), ma che è soprattutto autore di raggiri, e legato ad una grassa prostituta. Per uno strano senso di solidarietà intellettuale, il nano decide di prendersi cura di Peter. Un po’ lo aiuta, un po’ lo raggira, per avere i soldi con cui andare in Americas, che otterrà come soldi ma che poco gli serviranno. A parte il ruolo da quasi chaperon che consente a Fischerle di far rincontrare Thérese e Peter, sono duecento pagine inutili.
Come detto sopra, tuttavia, il nano ha il pregio di far intervenire Georg, che libera Peter, che caccia Thérese e il portiere (quindi ecco che dopo la storia di Peter, la storia di Thérese, con il nano, la governante e il fratello abbiamo almeno cinque delle otto storie di Elias). La fine sarà come da copione già spiegata nel titolo. Peter, intellettuale e poco legato alla realtà, dalla realtà uscirà sconvolto, senza punti di orientamenti, tanto che si immaginerà cose che non esistono, e finirà come Sansone, dove i libri saranno i suoi filistei (che per chi ha percorso quei luoghi sa bene essere l’antico nome degli attuali philistin, cioè palestinesi).
Un appunto di “storia e preveggenza”: nel 1972 divenne campione mondiale di scacchi Bobby … Fischer, come il nano di Canetti. Per tornare al libro, forse ha ragione la lunga citazione autoreferenziale: i romanzi scritti come questo di Canetti andrebbero proibiti. In tutte e quasi le seicento pagine, rimangono solo gli appunti sull’amore per i libri, sulle citazioni incrociate, nonché tutta una parte misogina sulle attività femminili nei secoli, di cui non è chiaro l’intento ironico. Io, al fine, preferisco il Canetti autobiografico, e tutt’al più descrittivo come nel bellissimo “Le voci di Marrakech”. Confesso che ho dei dubbi se e quando leggerò il volume sulla nascita della massa, sulla sua psicologia, sull’influenza per l’ottenimento ed il mantenimento del potere.
Magari in questo potrebbe aiutarmi il mio amico Pietro.
“Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città.” (15)
“Il piacere che … offrono [i romanzi] lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci si abitua ad immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s’identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e per lungo tempo si perdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un attore con la penna in mano insinua nella compatta personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti per legge.” (48)
“Di una sola scoperta … menava vanto … l’azione della massa nella storia e nella vita dell’individuo, il suo influsso su certi mutamenti dello spirito.” (470)
Roberto Bolaño “I detective selvaggi” Adelphi s.p. (regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e la signora Laura)
[A: 07/05/2019 – I: 16/04/2020 – T: 20/04/2020] - &&&& +  
[tit. or.: Los detectives salvajes; ling. or.: spagnolo; pagine: 688; anno 1998]
Un libro che impegna nella lettura pieno com’è di rimandi e di informazioni altre. Ma una delle prove migliori, per me, tra quelle del mio coevo Bolaño (che in effetti è nato dieci giorni prima di me) che ormai da troppo tempo ci ha lasciato. Il romanzo è veramente complesso, tanto che meriterebbe un libro a sé per poterne parlare, e decrittare tutte le sfaccettature. Di certo è il tentativo di uno scrittore con una testa meravigliosa di lanciare un peana, o meglio come direbbe uno dei suoi personaggi, Juan Garcia Madero, una trenodia ad una generazione centroamericana che uscirà con le ossa rotte dal calderone della storia.
Non solo è complesso nella storia, ma lo è anche nella struttura, tripartita e polifonica. Il nodo centrale è l’incontro di vari giovani latino-americani, scrittori, poeti o comunque vicini alla letteratura (anche giornalisti, grafici di riviste, ed altro) che convergono verso la creazione di un movimento letterario dal nome attraente “realismo viscerale”. Movimento che qualcuno di loro fa risalire ad un analogo, simile movimento degli anni ’20, che avrebbe avuto esponente di spicco una poetessa, Cesarea Tinajero, poi scomparsa senza lasciare traccia nel distretto di Sonora (una regione semi-desertica di confine tra Messico e Arizona).
Già da questo vediamo il mascheramento ed il tentativo dell’autore di descrivere un’epopea basata sui rimandi.
Infatti, si vede in trasparenza il movimento che intorno al 1974 fondarono lo stesso Bolaño ed il suo carissimo amico Mario Santiago con il nome “infrarrealismo”. L’idea dei due è di dare vita, in Messico ed in lingua spagnola, ad una “cosa” (e mi scuso ma non c’è un nome singolo per quello che volevano fare) che percorresse strade analoghe, letterarie e di vita, alla Generazione Beat americana degli anni ’50. Anche il movimento messicano aveva un antenato anteguerra mondiale, con lo stesso nome, legato però non ad uno scrittore ma al pittore cileno Roberto Matta, che lo avrebbe coniato quando fu espulso dal movimento surrealista da parte di André Breton. Anche il “realvisceralismo” di Cesarea aveva avuto a suo tempo un ombrello da cui fu espulso. Ero lo “stridentismo”, fondato nel 1921 in Messico dal poeta Manuel Maples Arce, anche qui un movimento interdisciplinare, legato al sociale, con radici nel futurismo, nel dadaismo, nel surrealismo, così denominato per il gran rumore che suscitò alla sua comparsa (stridente à rumore sgradevolmente acuto secondo il dizionario). Già da questa genesi vediamo la complessità dell’idea di base.
Ma anche la struttura, come detto polifonica, è magistrale.
Il libro è composto da tre parti.
La prima e la terza sono il diario scritto dal giovane Juan Garcia Madero, diciassettenne innamorato di poesia, che ci racconta gli avvenimenti da lui vissuti dal novembre 1975 al febbraio 1976. L’incontro con i fondatori del “realvisceralismo”, Arturo Belano e Ulises Lima. La sua entrata nel movimento. L’incontro con tutti i personaggi che gravitano intorno, in special modo le donne (di cui si innamora ed altro). La fuga con Arturo, Ulises e l’ex-prostituta Lupe sia per sfuggire al di lei magnaccia, sia per cercare tracce di Cesarea nello stato di Sonora. Di certo non vi dico cosa succede prima, durante e dopo questa ricerca, e se viene trovata Cesarea, ed altro.
La parte centrale, corposa e molto articolata, è invece basata su decine e decine di voci diverse, che raccontano cosa succede della vita di Arturo e Ulises dal 1976 al 1996. Questo coro, cui i due letterati centrali del romanzo non partecipano mai, ci farà seguire le loro gesta.
Arturo, il cileno, e le sue donne. I suoi amici omosessuali. La sua fuga in Europa, dove farà mille mestieri, dal commesso, al guardiano di campeggio. I suoi matrimoni, e forse uno o due figli. La voglia di non star mai fermo, come se avesse paura di qualcosa. La sua seconda ed ultima fuga in Africa, dove, come Rimbaud, pare (o riesce?) voler perdersi senza ritorno.
Ulises che invece rimane ancora in Messico all’inizio, ed è quasi ignorato. Ma che poi va anche lui in Europa, si incontra con Arturo, poi decide di andare a trovare una sua fiamma in Israele, dove trova che questa è sposata con un altro. Il ritorno in Messico. L’incontro con l’ormai anziano Octavio Paz, l’emblema contro cui i realvisceralisti avevano scagliato le prime pietre.
Ma queste sono solo piccole piume della ricchezza della scrittura. Perché ogni voce, ogni persona che interviene, fa nascere spesso un microracconto interno al romanzo. Un racconto che a volte si esaurisce, a volte si riprende più tardi. E da tutte queste voci, che di sicuro non riesco a riportare qui, alla fine esce fuori il monumento dolente di una generazione. Di un insieme di intellettuali che avrebbero voluto portare novità, che avevo iniziato a portarne, ma che, come di tutte le cose, alla fine rimane solo qualche elemento, qualche rovina, anche se delle rovine bellissime.
Qualcuno, meglio attrezzato di me, parla di una “educazione sentimentale” alla Flaubert legata a persone e a movimenti. Non so, non mi pronuncio. Quello che è certo, è che dietro ogni personaggio c’è sempre una persona. Non a caso i due di cui cerchiamo di capire le gesta e la vita, Arturo e Ulises, sono gli alter ego di Bolaño e di Mario Santiago. Come molti altri personaggi, per cui penso che dedicherò del tempo a ritrovarne voci e sentimenti nello spazio e nella memoria. Nel libro Arturo-Roberto sparisce e Ulises-Mario rimane a vagare in una Città del Messico che, ad ogni passo, mi torna alla memoria.
Nella realtà, in quel 1998 in cui finì la scrittura, Roberto stava ormai da tempo a Barcellona, cercando di curarsi per un male che ce lo porterà via cinque anni dopo. Mario stava sì in Messico, ma venne travolto in un incidente stradale e non riuscì mai a leggere di questi detective selvaggi. Di questi cercatori che le voci del bravissimo cileno utilizza per cercare di trovare, e di presentarci, l’anima di una generazione. Investigatori dell’anima e scopritori di sentimenti.
Un libro che a volte è troppo “messicano” per me profondamente occidentale. Ma che mi ha stimolato, mi ha preso, e mi ha fatto voglia di andare oltre. Di viaggiare, col corpo e con la mente. Di visitare il deserto di Sonora, e di trovare i segni del passaggio di Juan Garcia Madero, uno dei pochi al mondo che sapeva cosa fosse l’epanadiplosi.
“Tutti i libri del mondo stanno aspettando che io li legga.” (20)
“Peccato che il tempo passi, vero? peccato che si muoia e si invecchi e che le cose belle si allontanino da noi al galoppo.” (204)
“Le storie che si raccontano negli aeroporti si dimenticano in fretta, a meno che non siano storie d’amore.” (560)
Come sapete ormai, siamo alla terza domenica di luglio, per cui ci pregiamo di allegare un piccolo panegirico contro i ricci.
Per il resto siamo ancora qui, a leggere, scrivere, e pensare. Forse voi giovani lettori di ogni età, non ve ne accorgete, ma il tempo sta passando. Ed ogni volta c’è un piccolo dolore in più che ci ricorda sia l’esistenza che l’assenza. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

LUGLIO 2020
Torniamo anche questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione, che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.

BLISTER D’AUTOSTIMA 2

Avvertenza: le cure qui segnalate sono rivolte soprattutto a pazienti affetti da bassa autostima. Chi soffre di autostima alta difficilmente crede di essere malato e ancora più difficilmente penserà di doversi curare. In ogni caso, i rimedi qui consigliati farebbero tanto bene anche a loro.
Utile per abbassare la presunzione in chi ne ha in eccesso e incrementare l’autostima in chi ne è poco provvisto, “L’eleganza del riccio” si rivela efficace anche per stroncare senza pietà i primi subdoli sintomi di pregiudizio nei confronti dei diversi (per indole, per ceto sociale o anche per scelta). Viceversa, è indicato per innalzare le difese immunitarie in chi è cronicamente schiacciato dal senso d’inferiorità, aiutandolo ad alzare la testa, a rivendicare la dignità e a rivelare al mondo le proprie doti nascoste. L’automortificazione è una malattia grave quanto il pregiudizio e adattarsi ai pregiudizi è ancora peggio. Ma ora passiamo alla cura.
La protagonista di questo raffinato romanzo francese è Renée, portinaia di un elegante palazzo parigino al numero sette di rue de Grenelle (che già conoscete se vi siete sottoposti a una cura ricostituente a base ai “Estasi culinarie”). È bassa, brutta, grassottella, con i calli ai piedi e l’alito di un mammut. Non ha studiato ed è sempre stata povera e insignificante. Non sono io a essere indelicata nel descriverla, perché è lei stessa, io narrante, a presentarsi in questo modo al lettore. Confessa anche di non fare alcuno sforzo per integrarsi con i suoi simili, che è educata ma mai gentile, che nessuno le vuole bene e che tutti la tollerano in quanto aderisce perfettamente allo stereotipo della portinaia e, così facendo, consente il corretto funzionamento di ‘quella grande illusione universale secondo cui la vita ha un senso facile da decifrare’. Altri requisiti della categoria presuppongono che le portiere siano teledipendenti e che la loro guardiola debba puzzare di brodo. Così Renée fa credere a tutti di astenersi dal cucinare intingoli maleodoranti solo perché la puzza non sarebbe degna del palazzo, abitato da insigni rappresentanti della ricca borghesia. Allo stesso modo, mentre si diletta con altre e ben più intellettuali occupazioni, tiene sempre accesa la televisione solo per rassicurare i condomini che la loro portinaia possiede anche lo status di teledipendente. Renée non ha studiato ma ha una cultura eclettica da autodidatta proletaria, una cultura sincera perché frutto dell’interesse che nasce dal piacere. Affamata di letteratura e arte, ha abbandonato gli studi per lavorare, rassegnata all’idea che forse era meglio così. In questo modo, infettata da quel senso d’inferiorità che, se non preso in tempo, rischia di condizionare il corretto svolgimento di una vita appagante, ha preferito non battersi in un mondo di ricchi, lei figlia di nessuno, senza bellezza, ambizione e savoir-faire, desiderando solo di essere lasciata in pace, nell’indifferenza, appagando in solitudine la sua fame di filosofia, arte, musica e cultura giapponese. Il riccio ha messo gli aculei per non essere disturbato mentre cova di nascosto la sua eleganza. Intimoriti dagli aculei, gli altri si guardano bene dall’avvicinarsi troppo. Ma Renée non è l’unico ‘personaggio in incognito’ del romanzo, non è la sola a mentire sulla sua vera identità. Nel palazzo abita anche Paloma, dodicenne che si finge lo stereotipo dell’adolescente mediocre mentre ha un cervello che marcia a ritmo di riflessioni brillanti. Il padre è un ministro di strette vedute che fa dell’aggressività la sua politica di vita, mentre la madre, che ha letto l’opera omnia di Balzac e cita Flaubert a tutte le cene, è la dimostrazione quotidiana di come l’istruzione, o meglio lo sfoggio d’istruzione, sia una vera e propria truffa. Paloma non soffre di bassa autostima, anzi è consapevole di possedere un’intelligenza eccezionale (è lei stessa, seconda voce narrante del romanzo, a dirlo apertamente) ma non le va di farsi notare, vuole essere lasciata in pace e quindi simula un’intelligenza media imitando la mediocrità dei coetanei. Diversa da tutti e solitaria, cosciente e lucida della realtà delle cose, e quindi leopardianamente sofferente (ma con una buona dose d’ironia e leggerezza francese), per lei la vita è una farsa e, convinta di non riuscire a resistere fino alla fine, ha deciso di suicidarsi il giorno del suo compleanno. Ma proprio perché la vita è una farsa a volte riserva colpi di scena inattesi: grazie all’arrivo del ricco e sensibile giapponese Ozu, orientale nei modi e nell’animo, le due protagoniste incroceranno le loro vite, uscendo allo scoperto, scoprendosi spiriti affini e rendendosi conto che la vita è ‘molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza [...]’.
Con grazia, filosofia e ironia, “L’eleganza del riccio” consente di correggere quei difetti di miopia che rendono difficile vedere al di là delle apparenze e, favorendo il rilassamento emotivo, aiuta a ritrovare la calma e il tempo necessari per conoscere una persona prima di catalogarla frettolosamente (catalogare le persone è anche più superficiale che giudicarle). Non tutte le guardiole puzzano di brodo, non tutti gli intellettuali brillano d’intelligenza. Una persona non è una categoria, una portinaia può anche rivelarsi sorprendentemente colta e un politico estremamente ottuso (cosa che non si fatica a credere). Un possibile effetto collaterale della cura potrebbe essere il sospetto che l’eventuale puzza di brodo proveniente dalla guardiola del vostro palazzo nasconda ben altri profumini e che la vostra portiera probabilmente cucini meglio di Alain Ducasse.
Se voi siete il riccio e come Renée e Paloma tendete a nascondere la vostra personalità dietro una maschera, la lettura del romanzo è uno stimolante per abbandonare la tana e rivelare la vostra eleganza. È vero che il mondo è pieno di mediocrità ma anche di bellezza. Privarsi della bellezza per proteggersi dalla mediocrità può essere una strategia di sopravvivenza che, però, aiuta a sopravvivere e non a vivere. Accorgersi di tutto questo il prima possibile giova alla salute in quanto la vita è una farsa che a volte riserva colpi di scena imprevisti ma spesso anche brutte sorprese. In proposito, fate attenzione al finale perché vi conficca un aculeo nel cuore.
Per una terapia cinematografica sostitutiva, si può ricorrere al film diretto da Mona Achache: “Il riccio”.
Una curiosità: il raffinato e distinto signor Ozu è l’unico a intuire l’inganno della protagonista e l’unico a prendersi il giusto tempo per scoprirne la vera natura. Come riesce a far uscire il riccio dalla sua tana? Ma con il suo cibo preferito, ovviamente: i libri. Quale in particolare? Anna Karenina.

Commenti

Non mi ha convinto mai fino in fondo la scrittura della pur simpatica Muriel, tanto che dopo i due libri che distano ormai una decina di anni, niente è più comparso all’orizzonte delle mie ricerche.
Muriel Barbery “L’eleganza del riccio” E/O euro 18
[pubblicato il 17 dicembre 2008]
Fenomeno del 2006 in Francia, opera seconda della Barbery (ed ora è uscita anche l’opera prima). Mi incuriosiva il successo, ma devo dire che, seppur non mi ha deluso, qualche interrogativo me lo lascia. Dalla sua guardiola di Rue de Grenelle 7, assiste allo scorrere della lussuosa vacuità della vita la portinaia Renée, che appare in tutto e per tutto conforme all'idea stessa della portinaia: grassa, sciatta, scorbutica e teledipendente. Niente di strano, dunque. Tranne il fatto che, all'insaputa di tutti, Renée è una coltissima autodidatta che adora l'arte, la filosofia, la musica, la cultura giapponese. Cita Marx, Proust, Kant... dal punto di vista intellettuale è in grado di farsi beffe dei suoi ricchi e boriosi padroni. Ma tutti nel palazzo ignorano le sue raffinate conoscenze, che lei si cura di tenere rigorosamente nascoste. Poi c'è Paloma, la figlia di un ministro ottuso; dodicenne geniale, brillante e fin troppo lucida che, stanca di vivere, ha deciso di farla finita (il 16 giugno, giorno del suo tredicesimo compleanno). Fino ad allora continuerà a fingere di essere una ragazzina mediocre e imbevuta di sottocultura adolescenziale come tutte le altre, segretamente osservando con sguardo critico e severo l'ambiente che la circonda. E si va avanti così per pagine e pagine, citando, rinviando, ma in sostanza rimandando ad una cattiva metafora (uscire dal proprio gregge provoca disastri). Forse è un po’ snob, del tipo, vedete quanto sono brava nel dire cose forti con leggerezza. Comunque, qualche corda me la tocca (come non voler bene a chi ama Blade Runner?) ma così, con un sorriso a fior di labbra, senza la grassa risata del discoprimento. La fine poi è tutta da discutere. Ah, per finire, la ragazzina mi sembra poi difficilmente sostenibile nella realtà. Leggere per rimanere aggiornati. E poi discuterne.
Muriel Barbery “Estasi culinarie” E/O euro 8
[pubblicato il 19 settembre 2010]
Per quanto il riccio mi era piaciuto fino ad un certo punto, questo mi ha lasciato al quanto indifferente. Cominciamo dal titolo orrendamente tradotto: “Une gourmandise” l’avrei reso con “Una ghiottoneria” che è quella che va cercando il grande esperto di cucina sul suo letto di morte. Perché le estasi culinarie ci sono, vero, ma sono il filo su cui scorre il racconto. Una serie di siparietti in cui il sempre grande critico ci fa immergere in sapori, trovando le auliche parole per raccontarli. Ma non si capisce (o non capisco io) quanto ci sia di ironico (perché l’uso di quelle metafore potrebbe indurre) e quanto di falsamente vero. I grandi critici culinari si riempiono letteralmente la bocca di queste parole, di assonanze, di rimandi, per cercare di “suscitar nel cuor la meraviglia”, quando il cibo lo suscita di per sé, senza bisogno di grandi voli (e leggete quando parlo del buon Sapo in altre trame per un confronto). Per esemplificare ne riporto il brano sul crudo giapponese: “Il vero sashimi è croccante, eppure si scioglie sulla lingua. Invita ad una masticazione lenta e flessuosa che non ha lo scopo di far cambiare natura all’alimento, ma soltanto quello di assaporarne l’aera morbidezza. Già la morbidezza: né morbidezza né mollezza, perché il sashimi, polvere di velluto simile ala seta, porta con sé un po’ di entrambe e, nella straordinaria alchimia della sua essenza vaporosa, mantiene una densità lattiginosa che le nuvole non hanno.” Ecco, dopo alcune pagine di questa scrittura mi viene voglia di farne un falò, utilizzando il gambero rosso come combustibile. Ma certo, direte voi, questa è una delle nervature della storia, perché l’altra, la più importante (secondo i critici esimi) è quella del contraltare tra il delirio culinario del morente, e le persone che lo hanno accompagnato in vita. La moglie, i figli, l’amante, la cuoca, i detrattori, gli estimatori, financo la portinaia Renée (che ben altro spessore avrà nel Riccio). Perché l’idea è quella di tessere una trama in cui alla fine si possa in controluce vedere la complessità della persona umana. Non c’era bisogno di tante pagine (anche se non sono molte) per dimostrare che ognuno di noi è diverso nella percezione che ogni altro ne ha. E soprattutto nella propria auto-percezione. Facciamo fatica a conoscere noi stessi? Non sappiamo chi siamo? Come direbbe la mia maestra Maria Luisa, facciamo a questo punto un bagno di realtà, e piuttosto che sbudellarla anche in punta di penna, viviamola. Insomma, l’ho trovato inutilmente pesante, senza un grosso filo conduttore, una prima scrittura acerba, che sboccerà nel successivo riccio, ma che qui mi ha francamente annoiato. Un solo punto mi ha rimandato uno sguardo non estraneo (si vede che ho letto la Müller, eh?, ma si vede anche che la Muriel è nata in Marocco), ed è quando descrive paesaggi di Rabat, che mi hanno riportato al bell’albergo che frequentai con vista sul Mausoleo di Hassan. Tutto il resto è califaniamente noia.
“Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti amano.” (40)
“Mi ricordo la magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa dalla quale contemplavamo Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che scorre sotto i bastioni; le stradine variopinte della Medina; le cascate di gelsomino sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia dal lusso dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il sole, che è diversa da tutte le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo spazio in modo differente … e il pane marocchino, preludio folgorante alle unioni carnali.” (75)
“Tutti pensano che i bambini non sanno niente. Viene da chiedersi se i grandi siano mai stati bambini” (79)

Finalino

Siamo sempre lì, con le piccole pillole di autostima. Continuo ad essere scettico, ma il libro del riccio, pur con obtorto collo, le leggerei, mentre tralascerei la cucina.