domenica 23 febbraio 2020

Stranieri (quasi) seriali - 23 febbraio 2020


J.K. Rowling (Robert Galbraith) “La via del male” Repubblica Noirissimo 1 euro 7,90
[A: 13/06/2017 – I: 02/10/2019 – T: 07/10/2019] - && e ½   
[tit. or.: Career of Evil; ling. or.: inglese; pagine: 663; anno 2015]
Terzo episodio delle storie di Cormoran Strike e della sua assistente Robin. Ha uno spunto interessante, di cui parlerò tra poco, ma il libro in generale risulta pesante, poco scorrevole, tanto che ho impiegato quasi una settimana a digerirlo. Lo spunto, dicevo, nasce dalla storia passata di Strike, dove la scrittrice ci ricorda che la madre era una “groupie” e si era tatuata nelle parti intime un verso di una canzone dei Blue Öyster Cult (“Mistress of the Salmon Salt”). Da qui l’idea di mettere come incipit dei 62 capitoli un verso di una canzone del gruppo. Diversificando i capitoli narrativi, dove viene citata anche la canzone, e quelli soggettivi del cattivo, dove è riportato solo un verso. Il grande sforzo è coronato alla fine, sia con i “credits” verso tutte le canzoni, sia con la traduzione dei versi riportati. Per i meno musicofili, ricordo che i Blue Öyster Cult (B.Ö.C.) sono stati un gruppo di rock trasversale, che ebbe il suo fulgore negli anni ’70, dovuto in gran parte al cantante Eric Bloom, e ad una fortunata collaborazione con Patti Smith, che all’epoca stava insieme ad Allen Lanier, il tastierista del gruppo. La collaborazione sfociò in uno dei grandi successi del gruppo, “Career of Evil”, che giustamente viene qui posto come titolo del libro. Tutto il romanzo ruota intorno a questa idea, alla “via del male” del testo, ai rimandi alla vita precedente di Strike ed ai cattivi che ha incontrato lungo la via. Son questi, i tre cattivi su cui si punta l’indice di Cormoran quando comincia la storia. Storia che inizia con l’invio a Robin e Strike della gamba di una donna. Ricordo, per chi non avesse seguito i primi due libri, che Strike ha una parte della gamba amputata in seguito ad una bomba scoppiata in zona di guerra, e che porta una protesi. Ho citato Robin, che seguiamo per tutto un percorso trasversale. Certo, è presente, aiuta in alcune parti le indagini, ha idee interessanti, che consentono a Strike di fare passi avanti per soluzioni parziali del mistero. Ma per tutto il lungo libro è solo presa dal suo problema con Matt, il fidanzato assolutamente da cancellare. Fidanzato che la tradiva da giovane, che non sopporta il suo lavoro poco retribuito, che osteggia la sua amicizia con Strike, che lei farebbe bene a non sposare. Infatti, a lungo il matrimonio rimane in sospeso, e la Rowling ci fa balenare la possibilità che tra lei e Strike possa nascere qualcosa. Tuttavia, forse darebbe una svolta troppo intimista alla narrazione. E poi la Rowling ci ha abituato nella saga di Harry Potter che è capacissima di mettere i bastoni tra le ruote di soluzioni semplici. Per cui ci becchiamo le paturnie di Robin, le indecisioni di Cormoran (che l’unica cosa buona che farà sarà lasciare la pallosissima Eilin. Tutta la storia privata dei due, però non coinvolge né da spunti interessanti. Serve solo ad allungare il brodo delle pagine (ricordo più di 600!). Il plot “giallo” è quello di uno squartatore di cadaveri, che ce l’ha a morte con Cormoran, e che invia pezzi di donna al nostro ed a Robin. Vorrebbe anche far fuori Robin, cercando di incastrare Strike, cosa che, per le vicende personali di Robin stessa, riesce sempre più difficile. Ma questi sono elementi laterali la cui soluzione lascio agli incauti lettori (Robin ne esce viva? Robin si sposa?). noi ci concentriamo sui tre cattivi che sono nella lista dei possibili squartatori. Sono Whittaker, Laing e Brockbank. Il primo è stato l’unico marito legittimo di Leda, la madre di Cormoran. Un fallito, che vive alle spalle di artisti più o meno famosi, che spillava soldi a Leda, che trattava male il nostro da piccolo. Ora vive con una squinzia che maltratta e fa prostituire e si dedica a piccolo spaccio. Ovviamente, Whittaker poteva sapere dei B.Ö.C. dall’intimità con Leda. Il secondo era stato incrociato da Strike nell’esercito. Prima in un incontro di pugilato vinto da Strike. Poi quando Cormoran stesso trovò la moglie di Laing seviziata e legata nel letto. Laing viene condannato, ma esce per buona condotta, e per la sua capacità di incantare la gente con le parole. Il terzo, sempre nel periodo militare, venne sospettato di violenza su bambine (sessuale e macabra, a quanto pare). Mai condannato, ma con la testa in disordine per botte ed epilessie, di cui accusava Strike. Insomma, tutti i cattivi hanno buone ragioni di avercela con il nostro. Tutti, in un modo o nell’altro, anche per la personalità pubblica di Leda Strike, potevano sapere dei B.Ö.C.. Parte così la caccia dei nostri, prima aiutati, poi, per una serie di motivi che vi lascio leggere, ostacolati dalla polizia. Ci sono però sempre i buoni, anche se sotto mentite spoglie. Alla fine, Cormoran troverà il filo che lo porterà al vero assassino, anche se farà in modo di incastrare anche gli altri due. Tralasciando la lungaggine del tutto, e, purtroppo, l’accelerazione finale, risolta in troppo poche pagine, rimarco soltanto una cosa: le descrizioni del passaggio per Edimburgo e la Scozia durante le indagini. Luoghi ben conosciuti dalla Rowling che lì abita, e che mi hanno riportato ad un bellissimo viaggio fatto con Alessandra. Ho già l’ultimo libro della saga, ma non so quando lo leggerò.
David Lagercrantz “Quello che non uccide” Repubblica Noirissimo 3 euro 7,90
[A: 27/06/2017 – I: 08/10/2019 – T: 10/10/2019] - && +  
[tit. or.: Det som inte dödar ass; ling. or.: svedese; pagine: 587; anno 2015]
Ero decisamente restio ad acquistare la continuazione del Millennium di Larsson, sia per le polemiche suscitate al tempo sia perché Larsson era Larsson e Lagercrantz non so chi sia. Ma la collana di Repubblica meritava attenzione. Poi capita che sul volo da Seattle verso casa ce ne sia la trasposizione cinematografica, che devo dire, nel suo genere, non è neanche fatta male. Allora leggiamone, magari senza farci venire troppi pensieri nascosti, cercando di abituarsi a chiamarlo Millenium 4, anche se non ci si riesce molto bene. Visto che ho parlato anche del film, dico subito che è una decente trasposizione, con il solo difetto di far passare più velato il ruolo dei Servizi Segreti americani, essendo un film pagato con soldi statunitensi. Venendo al testo, diciamo che le figure di Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist escono abbastanza coerenti con quelle dipinte dal compianto Larsson. In realtà, sono già talmente ben delineate che è difficile farle pendere verso altro. Il giornalista è svagato, inappagato, con il suo buon rifugio nell’amante Erika, e solo se pungolato, si mette alla caccia di un buon reportage, che alla fine riuscirà a scrivere. Lisbeth è forse un po’ più dark in alcuni tratti, e sembra più debole nel finale. Tuttavia, ha il solito piglio combattivo verso gli uomini che maltrattano le donne. Ed anche verso quelli che trattano male i bambini. L’impianto generale vira verso uno dei problemi cruciali del mondo attuale, il controllo delle informazioni e lo spionaggio attraverso i sistemi informatici di ogni tipo. Il giornale “Millennium” è in crisi di vendita e sta per essere fagocitato da un grande gruppo editoriale di tipo berlusconiano. Ma a Blomkvist arriva una dritta, di prendere contatto con un tecnico informatico svedese tornato in patria dopo un breve periodo presso una grande industria americana (legata al Pentagono, ovvio). Frans Balder, il tecnico, è venuto anche per prendersi cura del figlio autistico, ma prima di riuscire a parlare con Mikael viene ucciso, presente il figlio. Mikael cercava Frans anche perché aveva saputo che Lisbeth lo aveva aiutato nel criptare i dati delle sue scoperte, scoperte che avrebbero consentito di penetrare in tutti i sistemi informatici mondiali, operando uno spionaggio d’alto livello. Così si scatena una lotta, sul lato giallo per capire che ci sia dietro la morte di Frans. Sul lato “action” per salvare il piccolo dalle rappresaglie dei cattivi, pentitisi di averlo lasciato in vita. Che il piccolo autistico ha due elementi fuori dell’ordinario: capacità matematiche, con l’abilità di scomporre grandi numeri nei loro fattori primi di base, e capacità artistiche, che disegna con una proprietà e precisione assoluta. Fortunatamente, Lisbeth riesce a rapire il piccolo prima che venga ucciso. E Mikael, che capisce il suo intervento, si mette anche alla sua ricerca che erano anni che la nostra eroina era scomparsa, in questo aiutato dall’ex tutore di Lisbeth, Holger Palmgren (altro cammeo ben riuscito). A questo punto intervengono anche i Servizi Segreti americani, che hanno avuto da parte di Lisbeth una intrusione nei loro superprotetti sistemi. Quindi, nel suolo svedese abbia la lotta tra diverse forze contrastanti, almeno in apparenza. Gli americani che vogliono i programmi di hackeraggio, i cattivi che vogliono uccidere il piccolo testimone, i buoni che cercano di salvare il salvabile. Il lato abbastanza poco nuovo in questo panorama è che ben presto scopriamo che i cattivi sono guidati da una donna, che si rivela essere Camilla, la sorella gemella di Lisbeth, quella che è rimasta con il padre, e si è votata al male, in modo specularmente antagonista alla nostra eroina. Questa parte sembra essere un po’ appiccicata, che ci risiamo alle solite, con il risalire tutto alle turbe infantili, alle cattiverie del padre, ed alle storie già viste in finale di trilogia. La storia in sé non potrà che finire bene, almeno per il piccolo, ed anche per il giornalista che uscirà con un mega scoop dove verranno fatte rivelazioni sorprendenti, che ricollegheranno molti dei puntini del grande rompicapo iniziale. Rimane il dubbio che Camilla riesca a fuggire, e sia pronta ad altre lotte titaniche tra il bene ed il male. Rispetto ai temi classici di Larsson, c’è sempre la denuncia del lato cattivo del mondo, prima, nei testi originali, partendo soprattutto dal risorge dei fascismi in tutta Europa. Qui con la denuncia del ruolo corrotto dei Servizi Segreti di tutti i paesi (ed in un momento in cui escono fuori le magagne russo-americane con Putin-Trump in prima fila, e le piccole rogne italiche di Salvini e compagnia, ciò non ci fa meravigliare più di tanto). Sul lato scrittura, il libro stenta a decollare nella prima parte, quasi Lagercrantz avesse un timore di affrontare un compito forse più grande di lui. D’altra parte, prima di questo il suo grande successo era la biografica del calciatore Zlatan Ibrahimovic! Poi si rilassa, prende un buon ritmo ed una buona scrittura, forse con l’unica pecca di scivolare troppo spesso in tecnicismi matematico-informatici, che a me hanno divertito, ma non so se siano graditi al grande pubblico. Vedremo e capiremo in futuro se alla fine il buon David ha imparato la lezione di Stieg, visto che sono usciti almeno altri due capitoli della serie. Per finire, ad uso dei cultori delle titolazioni, ricordo che il titolo viene dalla prima parte di una citazione di Nietzsche, che recita :”Quello che non uccide, fortifica”. Mi ricorda uno dei più interessanti libri del mio amato Isaac Asimov, “Neanche gli dei”. Anche quello citazione del grande pensatore, che però continuava: “Neanche gli dei, contro la stupidità, possono nulla!”.
Guillaume Musso “La ragazza di Brooklyn” Repubblica Noirissimo 5 euro 7,90
[A: 25/07/2017 – I: 15/11/2019 – T: 17/11/2019] &&&& 
[titolo: La fille de Brooklyn; lingua: francese; pagine: 405; anno: 2018]
Premetto che è una trama un po’ sgarrupata, figlia di un mio errore madornale, come può, ma non deve capitare. Dopo aver scritto una trama del libro, di ci non ricordo nulla (della scrittura ovvio, non del libro), ho utilizzato lo schema per una nuova trama, ricoprendo il povero Musso. Ecco allora che, a distanza di tre mesi, scoprendo l’errore, cerco un rimedio. Purtroppo, anche usando le mie pregresse virtù esadecimale di analisi del disco rigido, non ho recuperato nulla. Quindi, scriviamo tutto da capo. È il primo libro di Musso che leggo, e devo dire, pur nella non linearità della riuscita, mi è piaciuto, più di diversi coevi scritti di altri autori, ben più celebrati. Vedremo, leggendo altro dell’autore francese, se l’impressione rimane. Tra l’altro, cito subito le frasi che riporto in finale come due esempi di “lampi di memoria” che portano luci bellissime, e personali, allo scritto. I ricordi di piccoli passaggi in giro per l’Europa me li hanno fatti rivivere, lasciandomi ancora una volta in bocca il sapore impagabile dei pasticcini di Belém. Il primo, invece, mi rimanda alle note ed alle bibliografie che ho seguito a lungo negli anni Novanta, sulle orme di quel bravissimo viaggiatore e scrittore svizzero che era Nicolas Bouvier (il primo che pubblicò in un suo sito elenchi ragionati e da condividere sulla letteratura di viaggio). Tornando al romanzo in sé, il libro comincia abbastanza sereno per le prime tre pagine, per poi iniziare un ritmo incalzante, pieno di copi di scena che non si fermerà sino alla fine. Lo scrittore nonché ragazzo-padre Raphael sta facendo un soggiorno prematrimoniale in Costa Azzurra con la fidanzata Anna. I due si conoscono da poco, e Raphael non sa nulla del passato della bella pediatra. Insiste nel chiedere chi sia Anna, e lei, esasperata, gli mostra una foto con cadaveri bruciati, dicendo “Sono stata io”. Raphael scappa via sconvolto, poi, come tutte le persone un po’ insicure, ci ripensa, torna indietro, ma Anna non c’è più. Raphael chiede allora aiuto al suo amico ed ex-poliziotto Marc Caradec. I due scoprono nell’appartamento di Anna, quattrocento mila euro in contanti e due carte d’identità false. Baratro! Chi è Anna? O meglio chi era? Di certo bisognerà scavare nel passato, cosa che i nostri due fanno. Trovano tracce di Anna, ma ogni volta la ragazza sfugge. Marc trova tracce delle impronte della signorina in una banca dati dell’Interpol. Ma sono di una certa Claire, che risulta essere stata rapita una quindicina di anni prima da un mostro pedofilo, insieme ad altre ragazze. E con loro, ed il mostro, risulta morta nel rogo del luogo dove il mostro teneva le rapite. Forse l’unica traccia è allora risalire alla madre di Anna-Claire, che però stava in America. Passo dopo passo, Raphael fa continue agnizioni sul passato della sua bella. Peccato che ogni volta, mentre sta per compiere il passo decisivo, il testimone che potrebbe parlare, la giornalista che forse potrebbe sapere, o chiunque sia in giro con informazioni, muore o scompare. Alla fine, tuttavia, come ben si capisce dall’inizio, i tasselli misteriosi vengono ricollocati al posto giusto. E tutti i personaggi riassumono la loro connotazione. Sempre un po’ grigia, che non c’è mai una netta divisione in bianco e nero. Ed anche chi pensavamo esente da macchie, in realtà ha qualche punto oscuro da nascondere. Forse il solo Raphael risulta “tutto da una parte”, ed è ovvio che sarà uno degli ultimi a comprendere tutti gli intrecci, anche impensati, che il bravo scrittore ha disseminato lungo le 400 pagine del romanzo. Anche perché (e questo è uno dei limiti per me del testo) Musso si sforza di cambiare registro spesso, passando dalla prima alla terza persona, cambiando punti di vista, alternando pensieri e tempi dell’azione. Un buon thriller, che forse cerca di sparare troppe cartucce nella cascata dei finali a ripetizione, ma che è anche un romanzo sul modo di ricostruirsi la vita di una persona che, ad un certo punto ha visto tutto il suo mondo crollare, senza poterlo sostituire con qualcosa d’altro. Con quella domanda di fondo, che aleggia all’inizio e ci portiamo per tutto lo scritto. È possibile e corretto sapere “tutto” di un’altra persona? Chi stabilisce quale sia il limite? Io, immanente, preferisco sapere chi sei ora, e su questo baso i nostri rapporti. Ma… Comunque, rimane un libro che ha un suo interessante sviluppo. E tutto sommato, piacevole.
“Ci siamo incrociati qualche anno fa. La intervistai al festival Étonnants Voyageurs nel 2011.” (135)
“Ricordo i frontoni gotici delle case in riva ai canali di Amsterdam. Ricordo … la pioggia in Scozia. Ricordo l’azzurro degli azulejos dell’Alfama, l’odore di polpo grigliato nelle strade di Lisbona, la freschezza estiva di Sintra e i pasteis de nata di Belém…” (404)
Camilla Läckberg “Il segreto degli angeli” Repubblica Noirissimo 7 euro 7,90
[A: 25/07/2017 – I: 18/11/2019 – T: 22/11/2019] &&& --- 
[tit. or.: Änglamakerskan; ling. or.: svedese; pagine: 542; anno 2011]
Siamo così arrivati all’ottavo episodio della saga di Fjällbacka, la cittadina svedese sulla costa di fronte alla Norvegia, situata 150 km. a nord di Göteborg. Località turistica specialmente estiva, nota per essere il rifugio svedese di Ingrid Bergman. Sorta alla ribalta della cronaca letteraria con la scrittrice, qui nata, Camilla Läckberg che qui appunto ambienta i suoi gialli, imperniati inizialmente sulla sola Erica Falck, scrittrice e curiosa. Per poi allargarsi al prima fidanzato, poi sposo, poi padre dei suoi tre figli (Maja e i due gemelli Noel e Anton) l’ispettore di polizia Patrik Hedström. Dall’iniziale piglio molto giallo nero, la serie si è allargata alla comunità che grava intorno alla stazione di polizia, prendendo da un lato un piglio corale, senza tuttavia perdere di vista il lato investigativo, il mistero. Che sembra Fjällbacka sia sempre pronta a fornire elementi misteriosi, morti, scomparse ed altri fatti “Inspiegabili”. Intanto, forse qualcuno non conosce il mondo di Camilla. Riassumendo, oltre alla famiglia Falck, c’è Anna la sorella di Erica. Viene da una storia tormentata con il primo marito Leon, manesco e tendente al femminicidio, che ha lasciato insieme ai suoi due figli, per andare a convivere con il gentile Dan (che ha già una figlia). Sembrava una situazione tranquilla, ma nell’ultimo romanzo Anna perde il bambino che ha in pancia in un incidente di macchina. Così qui la vediamo tormentata e tormentante, che non ha ancora ripreso un suo modo di essere, soprattutto con Dan. Ci sono poi i “poliziotti”: Martin, la cui moglie vediamo ora alle prese con il cancro, e lui con i tormenti di una possibile fine; Gösta, l’anziano del gruppo, vedovo, molto legato alla moglie morta, ed ai ricordi del passato (che qui ritorneranno); Annika, la giovane e spigliata che sa trovare notizie ovunque; Paula, ora in maternità accudita dalla sua compagna Johanna, e dalla madre, che si è anche messa con il maldestro capo della polizia Mallberg (che sarebbe meglio stesse solo in ufficio che altrimenti…). Il quadro è completato da Kjell, giornalista di una testata locale, pieno di idee e di iniziative (ed anche capace di interessanti interviste). Come spesso accade, in particolare nell’ultima produzione di Camilla da me letta, il racconto si muove su due piani temporali: quello presente, dove vediamo agire i personaggi, ed una storia che parte dal passato e che si ricongiungerà con qualcosa nel presente. La storia passata comincia addirittura nel 1908, con l’arresto, la condanna e l’impiccagione di Helga, accusata di essere “fabbricatrice di angeli” (e torneremo su questa definizione) perché uccide i neonati a lei affidati. Lasciando così nelle peste la figlia Dagmar, che, anche se bella, si dovrà arrangiare, ovviamente usando il suo corpo. Anche con il bel tedesco Hermann con il quale si congiunge nel 1919 a quasi vent’anni, partorendo Laura. Peccato che Hermann sia proprio Göring, che non gli passa neanche per l’anticamera del cervello di sposare la bella Dagmar, e che tornerà in patria facendo la carriera che sappiamo. Dagmar comincia a sbarellare, dedicandosi anche al bere, e lasciando che Laura pian piano se la cavi da sola. Soprattutto quando viene ricoverata in un istituto psichiatrico, dove uscirò a fine guerra e… (beh questo non ve lo dico). Laura si sposa, ed a trent’anni partorisce Inez, che dirigerà come un soldatino, fino a farle sposare l’inflessibile Rune, vedovo con già tre figli. Inez genera Ebba, e Rune gestisce un convitto in un’isola di fronte a Fjällbacka. Quando nel 1974 la famiglia sparisce lasciando la sola Ebba di 1 anno. Che fine hanno fatto? Morti? Fuggiti? L’allora giovane Gösta indaga, si prende cura di Ebba, e cerca di sapere i fatti dai cinque giovani presenti sull’isola: il biondo Leon, quello che prende decisioni, il perfido Sebastian, pronto a mentire su tutto, il rampollo Piotr, smidollato erede di una ricca famiglia, il rude John, figlio di un fervente nazista svedese, e l’ebreo Jozef. Ma nulla esce ed il mistero rimane. Che si ricongiunge con il presente quando Ebba, per riprendersi dalle ferite della sua anima dovuta alla morte del figlio Vincent, torna sull’isola con il marito Martens. Ed a Fjällbacka convergono anche i cinque ex-giovani, ormai tutti oltre la cinquantina. La tenacia di Erica nello scavare nel passato, le intuizioni di Gösta da sempre rimasto legato, seppur da lontano, ad Ebba, e la prontezza di Patrik permetteranno a tutti i fili di venir riannodati. Sia quelli presenti, dove credo che nella prossima puntata ci sarà un chiarimento tra Anna e Dan. Sia quelli del passato prossimo, dove scopriremo i collegamenti di Ebba con tutta la vicenda ripercorrendo anche le sue vicende ultime, i suoi genitori adottivi, il marito, e la morte di Vincent. Sia, com’è giusto, vedremo chiarito il mistero della scomparsa di Rune, di Inez e dei tre figli di lui. Visto che poi a lungo si è parlato di Göring, che nel coro dei personaggi c’è un ebreo, che pare anche l’architetto della grande Germania Albert Speer sia passato di lì, avremo anche qualche accenno al nazismo passato e presente (e casualmente la scrittura è coeva alla strage di Utøya). Per venire allo stile ed all’impatto personale, ripeto, come detto per altri libri, che questo continuo imperversare di flash-back ed altri salti temporali non sempre mi sembra utile per trame che potrebbero essere più agili. Lo stile di Camilla inoltre, risente di un avvio un po’ diesel, come se stentasse nel decidere dove porre la su e la nostra attenzione. Fortunatamente, nella seconda metà, comincia a correre, forse anche troppo. Non sono convinto nel meccanismo legato alla sparizione, che mi sembra troppo semplice per non essere quanto meno ipotizzato anche nel 1974, pur con i mezzi non da C.S.I. di allora. Nel finale, infine, le giuste dosi di colpi di scienza, consentono una risalita a buoni livelli del romanzo. Torno infine sul ruolo motore della vicenda, la figura di Helga, ricalcata sull’esistente personaggio di Hilda Nilsson, serial killer di bebè. Hilda era appunto chiamata: la creatrice di angeli, o, in inglese, “the angel maker”, o in svedese “änglamakerskan”. Ed allora da dove esce quel “segreto degli angeli” dell’edizione italiana? Ultimamente si era un po’ perso questo vizio di alterare i titoli. Peccato ricominciare.
Ome ormai si sa, il quarto appuntamento mensile è di riposo dalle fatiche di scrittura, quindi con poche note. Ma solo il ricordo, di Lorenzo che c’ha lasciato per tornare a veleggiare verso altri mari. Prima o poi cancellerò febbraio dal calendario (anche se qualcosa di positivo c’è). 

domenica 16 febbraio 2020

Italiani vecchi e nuovi - 16 febbraio 2020


Gianrico Carofiglio “L’estate fredda” Repubblica Noirissimo 4 euro 7,90
[A: 04/07/2017 – I: 17/10/2019 – T: 19/10/2019] && e ½  
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 361; anno: 2016]
Torniamo dopo un paio di anni alla lettura dei libri di Carofiglio, ripetendo (scusate ma è anche passato del tempo) quanto ne scrissi. Se si mette sulle orme di Guerrieri, l’avvocato che ha dato il là alla sua penna, ne esce qualcosa di interessante. Se scrive romanzi “a sé”, ha alti e bassi, come molti scrittori, ma anche spunti e coinvolgimenti. Ora che torna al suo nuovo personaggio, continuiamo a rimanere perplessi. Non che il maresciallo Fenoglio non abbia un suo sviluppo degno di interesse, almeno dal punto di vista umano. La moglie Serena si è allontanata per un periodo di riflessione, lui rimane con il suo lavoro (dove è ben capace), con le sue passeggiate, le sue letture, la visita alla Pinacoteca di Bari (bellissimo momento), la musica classica (purtroppo cantata…). Purtroppo, Carofiglio decide di fare un’operazione complessa, lodevole nelle intenzioni, scarsa nei risultati. Immerge cioè le vicende e le inchieste di Fenoglio nel clima pesante e torbido del 1992. Poiché noi già sappiamo cosa successe quell’anno, ci aspettiamo rimandi e citazioni che puntualmente avvengono. Seppur grati perché, noi e Carofiglio e forse pochi altri, non dimentichiamo Falcone e Borsellino, il libro è altro e non raggiunge quello che forse spera. Di certo, Carofiglio ben conosce Bari ed il suo mondo fuori della legalità, ed ha facile gioco nel raccontarcelo. E nel farci sentire come quel 1992 sia stato un grande fremito nelle istituzioni, un grande fremito nell’ambito mafioso. Un grande, grandissimo dolore. Ecco allora che innesta una vicenda di mafia (o di camorra o di altra sigla o tipologia malavitosa) che potrebbe essere tipica. Per ragione che all’inizio non conosciamo, inizia in quel di Bari una lotta tra fazioni camorriste. Ci sono sparizioni eccellenti, ci sono sparatorie. Su tutto si innesta il rapimento del figlio di Grimaldi, un boss della Sacra Corona (o Società Nostra come viene chiamata in loco). Richiesta di riscatto, pagamento, ma il bimbo viene trovato morto. A questo punto, Lopez, il rivale di Grimaldi per il controllo del territorio, si consegna alla polizia. Il magistrato e Fenoglio si addentrano allora ad un lungo interrogatorio che ci delucida oltre ogni dire su cosa è avvenuto e sta avvenendo in quel di Bari. Purtroppo, sono 140 pagine che non ci portano a nulla. Certo, vediamo come si muove la malavita, i riti, le tappe, le rapine, gli omicidi. Ma non sono funzionali alla trama (noi vorremmo sapere chi ha ucciso il bimbo). Servono a riportarci nel clima del ’92, ma non dovrebbe essere questo il senso del libro. Tanto che dopo 140 pagine arriviamo all’uccisione di Borsellino ed alla convinzione che Lopez, nel rapimento e morte, non c’entri per nulla. Inoltre, non ci facciamo neanche le domande della quarta di copertina, che poco ci cale il motivo del pentimento di Lopez. Che nulla ha a che fare con la soluzione del mistero o con le morti in Sicilia. Sappiamo solo che dopo più di 200 pagine siamo ancora al punto di partenza. Qui, finalmente, Carofiglio capisce che bisogna cambiare ritmo, che bisogna far pensare ed agire il nostro maresciallo. Nel passeggiare, nel riflettere ad alta voce con l’appuntato Pellecchia, ed in piccole attività minori, Fenoglio intuisce che la soluzione potrebbe essere altrove. Magari là dove sembrava accennare Lopez parlando della moda dei sequestri lampo. Idea avvalorata dalla scoperta che il bimbo soffriva di cuore, per cui potrebbe essere stato ucciso dallo spavento, una morte al di là di sicuro delle intenzioni dei rapitori. Approfondendo questo filone, come non vi dico di certo, Fenoglio e Pellecchia arrivano ad una ipotesi più realistica. Trovano possibili riscontri, trovano un possibile punto debole. Sul quale fanno leva per scardinare il tutto. Arrivando a risolvere il mistero della morte in una scena finale che si svolge quasi in contemporanea con la morte di Borsellino. Fenoglio risolve il caso, e forse anche altri problemi collaterali di cui anche qui poco ci interessa o coinvolge. Rimarco soltanto che nella perquisizione finale, torna sulla scena l’ispettore Montemurro, alter ego di Fenoglio nella precedente inchiesta. Però, e mi ripeto, si poteva tagliare quasi una metà del libro, e non ne avremmo sentito la mancanza. Peccato, che forse il libro stesso avrebbe tratto giovamento dalla maggior velocità. Qualche punto in più, per il ricordo di tutti i magistrati uccisi.
“Non bisogna dare le emozioni e i sentimenti per scontati. Vanno condivisi, vanno detti e resi tangibili. Non bisogna dare l’amore per scontato.” (25)
“Quando sei omonimo di un personaggio famoso … c’è sempre uno della famiglia che dice che siete parenti.” (181) [e non si parla di autovetture…]
Gaetano Savatteri “La fabbrica delle stelle” Repubblica Noirissimo 14 euro 7,90
[A: 11/09/2017 – I: 28/10/2019 – T: 29/10/2019] &&& --  
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 265; anno: 2016]
Non ho letto nulla delle prove letterarie di Gaetano Savatteri, ma ho imparato a conoscerne la scrittura in alcuni (due) racconti letti nelle antologie di Sellerio. Con al centro il personaggio del giornalista-investigatore Saverio Lamanna. Letture scorrevoli, con punte ironiche a me confacenti. Per cui, non nego il piacere sottile di leggere il primo romanzo con al centro il buon Saverio. Che si rivela gradevole come i racconti, anche se la misura “libro” ancora non è ben gestita. A volte si cade nell’ironia un po’ fine a sé stessa, tanto per sollevare l’animo ed il sorriso, altre sembra arenarsi la capacità inventiva, per cui si cade in momenti (per fortuna non lunghi) di inutili arzigogolature. Ma nel complesso un libro piacevole, che score via come un prosecco leggero per un antipasto di pesce. Come nei racconti, fortunatamente, c’è tutto il corredo del “lamanninsmo”: oltre a Saverio, su cui si ritorna, c’è Suleima, la bella forse fidanzabile, e c’è Peppe, il suo alter-ego ruspante, che dona tocchi di vivacità al testo, e che spesso riesce a riportare Saverio sulla terra. Seppur inserito nella collana “Noirissimo”, è più un racconto lungo d’atmosfera, dato che il giallo in sé si liquida in poche battute, un po’ scontate forse. Così come il gialletto di contorno, la scomparsa del figlio di un amico di Peppe, che poi, essendo maggiorenne, se n’è solo andato via da una famiglia un po’ troppo teledipendente. Ma torniamo al giallo centrale. Saverio, licenziato da una sicumera ministeriale perché non riesce a stare zitto, e tornato nella villaggevole Makari dell’infanzia, dove trova appunto il Peppe, mentore e marinaio, e Suleima, laureata bolzanina in trasferta, cameriera e presto accolta con reciproca soddisfazione nel letto di Saverio. Alla ricerca di soldi, Saverio accetta di fare da guardia del corpo alla bella e ricca Gea, produttrice di film impresentabili, con la sua corte di gente “fuori”: l’ex-fidanzato manesco Alo Pereira, la segretaria tuttofare Arianna, il press-agent gay Enzo. Quindi con Peppe, la nostra coppia si trasferisce al Lido, ma non riesce ad impedire né prima un paio di ceffoni di Alo a Gea, con Alo che poi si allontana con la sua nuova fiamma, la lungagnona Irene, né tanto meno la morte di Gea. Tutti gli indizi sono contro Alo, ma i nostri, forti di piccoli ragionamenti e di una foto scattata nella deserta Poveglia (isoletta di fronte al Lido verso Malamocco, per i non veneziani), ricostruiscono facilmente il vero andamento della serata, assicurando alla giustizia chi di dovere. Premesso che con facili ragionamenti, una volta presentati gli attori sulla scena, se c’era un morto, già si sapeva chi fosse stato a manovrare il posacenere fatale, ovvio che non è questo che interessa noi, Saverio o Gaetano. A tutti interessa l’atmosfera. Italiana, con le giuste considerazioni sullo sfascio cui stiamo arrivando (ed a tre anni dalla scrittura, caro Gaetano, stiamo di certo peggiorando). Ma anche qualche bella tirata sul finto bel mondo della quinta arte, magistralmente presa in giro dal nostro Peppe, acclamato “fashion star” quando si presenta in smoking e hawaianas sul red carpet. O la storia del film di Gea, intitolato “Nutellah (con l’acca) Dark Party”, che quando Saverio cerca di raccontarci la trama ne capiamo meno di quanto viene scritto sulla carta. Con attori improbabili, come appunto l’Alo di Gea (che, con facili battute, quando vuole scagionarsi, Saverio l’apostrofa con lo scontato “Sostiene Pereira…”) o Amandina, americana scosciatissima. E registi birmani incarcerati in patria. Con giornalisti vaganti in cerca di scoop, ex o quasi di Saverio, come la buona Marina che si perde per lo sgangherato Peppe (anche se poco ricambiata) e la sua amica Fiorenza, che vorrebbe adescare Saverio, ma quando compare all’improvviso Suleima non c’è più storia né tette che tengano. Savatteri è gradevole per me in quel suo divagare e connettere frasi con altre reminiscenze, che mi ricordano le gare di canzoni d’antan con la mia amica Grazia in un viaggio di una dozzina o più di anni fa. Dicevo delle battute alla Savatteri. Che ovviamente mi ha copiato. Come ad esempio quando, dopo un lungo girovagare, incontra di nuovo Marina nel ristorante “Corte Sconta” (e salutatemi Hugo Pratt), questa lo guarda e gli dice “Ancora tu?”, e Saverio non può che rispondere: “Ma non dovevamo vederci più?”. O la tiritera su quanto sono sfortunati i veneziani (o i romani) a nascere in un posto così bello ed averne gli occhi pieni, mentre se uno nasce a Gela o a Palma di Montechiaro, arriva a Palermo e si riempie gli occhi e la mente, dicendo ma che bella città (anche escludendo mondezze e degradi vari). Al fine, una menzione per la frase che riporto, e che di colpo mi ha riportato a 42 anni fa, quando proprio in quel di Triscina si stava con Mario, Corradino, Giuzzo, Robertino, Luciano, Cesare, e tanti altri che non menziono ma che ricordo ad uno ad uno. Loro sanno il perché. Ed io li abbraccio, ora e sempre.
“Un mese e mezzo fa, dopo una litigata al largo di Triscina…” (49)
Enrico Franceschini “L’uomo della città vecchia” Repubblica Noirissimo 6 euro 7,90
[A: 25/07/2017 – I: 13/11/2019 – T: 14/11/2019] &&& -  
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 2013]
Avevo letto di Enrico Franceschini l’interessante libro di ricordi su Bologna ed i suoi caldi anni, ed aspettavo di leggerne questo nuovo filone, che so ha prodotto anche altri libri, con il suo lato nero-giallo-indagatore. Franceschini, da ottimo giornalista, anche qui spiega le sue armi migliori, sfornando un libro che sembra una successione di articoli da “La Repubblica”. Non a caso uno dei punti centrali è proprio un giornalista, Paolo, che ricalca molto lo stesso Enrico. Corrispondente estero, a più agio negli alberghi che in una casa, a più agio con la toccata e fuga che con rapporti stabili. Ma questo che è un bel modo di scrivere, risulta alla fine anche un limite nella stesura di un romanzo, che ha bisogno di raccordi, di passi diversi, di entrare in punta di piedi, e guardare e farci vivere insieme le situazioni. Il secondo punto piacevole del libro è la città di Gerusalemme. Si vede e si capisce che, come per me, anche per Enrico la città mille volte santa è una città speciale. A prescindere ed oltre il fatto (o i fatti) di religione. Seguendo le vicende della città vecchia, rivedo l’albergo di Al-Walid vicino alla porta di Giaffa, mi sento passeggiare per i quattro quartieri, salire sul monte degli Ulivi, aspettare il portiere del Santo Sepolcro, passare i controlli per avvicinarsi al Muro Occidentale. Inoltre, la vicenda si svolge nel marzo del 2000, ed io visitai Israele e Gerusalemme per l’ennesima ma non ultima volta proprio un mese dopo. A sandwich tra la visita di Giovanni Paolo II del marzo e le provocazioni di Ariel Sharon del settembre. Ovvio che una città ed un periodo così complesso, non possono che evocare complotti, servizi segreti, lotte intestine tra fazioni ed all’interno delle stesse consorterie religiose. Tra l’altro, ero di fronte alla Torre di David il 25 aprile, 85° anniversario della strage armena, con annesso corteo della minoranza perseguitata. Ed essendo sabato, con altrettanto conseguente assalto dei “haredim” oltranzisti. Tronando alle lotte varie, ed alla conoscenza non banale di Franceschini della politica mediorientale, anche qui con piglio giornalistico, Enrico e Paolo ci parlano dei vari Servizi che lì si muovono, a volte in lotta, a volte scambiandosi favori. Sul campo israeliano abbiamo lo Shin Bet, la polizia militare, ed il Mossad. E sul campo la bella Maya, gamba lunga, bel fisico, abile nelle infiltrazioni ed imbattibile nel tiro con la pistola. Nel campo Vaticano, una misteriosa Entità, dove frati ed altri prelati, spesso di piccolo cabotaggio, lavorano, nell’ombra e non solo, per mantenere posizioni e privilegi, politici e religiosi, dei vessilli bianco-gialli, con padre Pietro che esemplifica lo spregiudicato agente ed il tormentato prete. Anche per la storia personale, che Pietro Marulli ha alle spalle una decina di anni di carcere (forse meno) per associazione sovversiva, in quel di Bologna dei tempi brigatisti, dove frequentava l’estrema sinistra (anche oltre estrema) insieme al futuro giornalista Paolo (e quella ferita tra i due ancora non è rimarginata). Sullo sfondo, personaggi, ma non protagonisti, anche i servizi palestinesi. C’è ancora l’OLP di Arafat e c’è l’Hamas dello sceicco Yussin, prima che entrambi nel 2004 muoiono. Yasser per una malattia mai chiarita, Ahmed colpito dai missili israeliani. L’idea di Franceschini è quella del ritrovamento da parte degli “haredim” ebrei oltranzisti di un corpo imbalsamato nelle fondamenta di una casa della Città Vecchia. L’idea degli “haredim” che sia il corpo dell’uomo chiamato Gesù (per la posizione, l’anzianità e le ferite sul costato), con l’idea di sbugiardare la resurrezione del Cristo durante la visita papale. Maya e Pietro, con una inedita alleanza israelo-vaticana, vengono incaricati di sventare la minaccia. Pietro elabora un astuto piano per penetrare nella casa degli “haredim” ma ha bisogno di un aiuto che chiede al suo comunque amico Paolo. Nel frattempo, anche gli oltranzisti arabi si muovono, cercando di trovare il modo, tramite una cellula di Al-Qaeda, di colpire il Papa quando andrà a pregare al Muro Occidentale. Qui sarà Hamas che darà una mano all’OLP per sventare questa minaccia. I brevi capitoli ci presentano, come dicevo in stile giornalistico, vari personaggi coinvolti. Il giornalista, la spia, il prete, ma anche la prostituta, l’ebreo ossessionato dal sesso, l’arabo disincantato, il custode delle chiavi del Santo Sepolcro. Storia di alto e basso profilo si mescolano, portando spesso il discorso anche su tematiche non banali. Chi sia stato Gesù, il ruolo della Chiesa e delle chiese, il Sepolcro, il Golgota, le definizioni del bene e del male. Tuto ben scritto, con la pulce finale che ci possa essere verità nella finzione. Avrebbe potuto giungere altri traguardi di interesse, ma questi piccoli freni ne rallentano la corsa. Con quell’esortazione che riporto in fondo, dovuto al cardinale Martini, che ritengo sia stato personalmente una delle personalità più interessanti dei tempi vissuti (anche) da mio padre.
“Credo nel Bene e nella possibilità di farlo entrare nei cuori della gente, anche nei più duri.” (153)
Marco Malvaldi “Negli occhi di chi guarda” Sellerio euro 14
[A: 01/11/2017 – I: 30/10/2019 – T: 31/10/2019] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 274; anno: 2017]
Devo dire che esco da questa veloce lettura di uno degli ultimi libri di Malvaldi leggermente deluso. Già so, intanto, che quando non siamo dalle parti del BarLume bisogna aspettarsi una prova in minore. Tuttavia, i tentativi di mescolare personaggi storici (più o meno) con delle belle storie, unite all’indubbia verve del nostro toscano, sono sempre stati abbastanza gradevoli. Qui, al contrario, non abbiamo personaggi, ma solo tipi. Ci rimane l’ambientazione, che, in effetti, in quel di Castagneto Carducci ha un suo perché. Così come l’hanno i cenni all’Isola d’Elba ed a Marina di Campiglia. Ma la storia non decolla, tanto che a lungo mi domandavo se collocarla tra i romanzi o tra le tipologie giallo-poliziesche. Alla fine, hanno prevalso i morti, ed è andata a finire nella seconda scatola. Eppur con dei rimpianti, che in effetti, la storia delle morti è fragilina, e decodificabile, non solo negli occhi di guarda cosa succede, ma anche di chi legge il libricino di Sellerio (parlo in diminutivo che non si raggiungono neanche le 300 pagine, cosa che ultimamente non succede spesso). La location, come direbbero i cineasti, di cui dicevo, si cristallizza in una tenuta, il Poggio alle Ghiande, proprietà dei gemelli Cavalcanti. Alfredo broker ed in rosso perenne, Zeno collezionista d’arte con una solida base economica. Una tenuta che nei mesi estivi ospita una serie variopinta di personaggi: Giancarla chimica in pensione e distillatrice di tutto, Riccardo Maria meccanico di formula 1 e gran mangiatore, Anna Maria campionessa di burraco, divorziata e sempre con un penchant verso un Cavalcanti, i coniugi Enrico e Cristina, lui direttore d’orchestra, lei violinista, entrambi pensionati ed ospitanti figli adottivi e nipoti. Inoltre, ci sono i famigli: il polacco Piotr, che risolve tutto a varechina e religione, e Raimondo, ex- internato in manicomio, nume tutelare di tutta la tenuta. Incidentalmente, poi, ci sono Margherita, filologa belloccia, che cerca di catalogare e datare la collezione di Zeno, l’architetto Marco, strampalato e tourettiano, e l’ingegnere Giorgio, entrambi su incarico di una holding cinese che vuole acquistare il Poggio. Noi seguiamo la vicenda, però, con l’occhio puntato su Piergiorgio, genetista nonché spasimante senza finora successo di Margherita, studioso dei gemelli omozigoti, come i Cavalcanti. L’estro di Malvaldi si esplica qui maggiormente, nei personaggi, nelle loro manie, nelle loro interazioni. Il filo della storia è invece esili: i cinesi vogliono comprare il Poggio, Alfredo vuole vendere, Zeno no. Fanno una strana scommessa (chi tra i due ha i telomeri più lunghi, calcolati dal genetista PJ, abbreviazione di Piergiorgio). Vince Alfredo, ma Raimondo da fuori di matto minacciandolo parlando di una tomba. La notte Raimondo muore carbonizzato. Nel corso delle indagini si scopre una tomba etrusca, ma ormai depredata. Chi era il tombarolo, insieme a Raimondo? Nel via vai di indagini ed accuse, l’esimio Marco accusa Zeno di essere gay e di aver visto Raimondo nudo. Il giorno dopo anche Marco muore, precipitando da un dirupo. È ovvio da tutte le premesse che il colpevole deve essere uno dei gemelli, ma quale? Intanto si dipana la storia parallela della ricerca di un disegno di Ligabue (il pittore, non il cantante) che aveva passato del tempo in manicomio con Raimondo e che Raimondo possedeva. Scoperto il Ligabue, si scopre anche il colpevole e tutti a casa. Quello che possiamo dire è che PJ conquista la bella Margherita, e passeranno le vacanze all’Elba. Po si vedrà. Come detto, le cose migliori sono gli schizzi dei personaggi, le loro manie, le loro capacità. Il genetista PJ che a vista determina la sindrome di Tourette nell’architetto e il pemfigoide bolloso di Lever in Raimondo. Le finte mini-biografie di Marco che si inventa storielle assurde nelle sue mail al fratello, come quella del mago dell’olfatto Jean-François Clavecin Sana-Cordes Saviozzì o l’urbanista islamico Ibn Hassan Phandespagn ben Zhuppat al-Khermes. Non mancano citazioni trasversali, come l’ovvia assonanza del cognome Cavalcanti (pur ben diffuso in Toscana) con il sodale di Dante; o il gentile omaggio del chimico Malvaldi (e qui si notano le sue capacità in materia) con il grande matematico De Finetti (donandone il cognome ironicamente ad un ingegnere). E forse ce ne sono altre, ma più private o forse meno interessanti per me. Ripeto, come al solito, i miei concetti base. Poi citazioni dotte, come l’interessante “L’età dell’inconscio” di Eric Kandel sul rapporto tra arte e neuroscienze, o l’aneddoto di Anthony Hopkins ed il libro “La ragazza di Petrovka” (non ve lo narro, lo trovate sul web). Malvaldi ha una indubbia capacità di inserire intarsi ironici in quasi tutti i contesti in cui scrive. Nella sua serie maestra, e soprattutto nelle prime puntate, erano funzionali e spiazzanti. Poi vanno un po’ scemando, fino ad essere quasi fini a sé stesse in questo scritto, che non posso che definire minore.
“Se uno non ha un cazzo da fare dalla mattina alla sera, leggere tanto è naturale.” (83)
Anche questo mese, alla terza trama, si parla di libri felici, ma questa volta citando un libro che ci riporta alle nostre angosce attuali.
Ho faticato molto questa settimana, che il PC sta facendo bizze, e mi ha fatto perdere file per me importanti e che spero di recuperare prossimamente. Per cui non dico altro

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
FEBBRAIO 2020
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella disamina di libri con rilascio immediato di benessere.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO 4

LIBRI CITATI:

FAHRENHEIT 451 di RAY BRADBURY (1953)

MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE? di PHILIP DICK (1968)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.
FAHRENHEIT 451 di RAY BRADBURY  
Se il tema dei libri bruciati vi infiamma d’indignazione, dovete assolutamente leggere Fahrenheit 451, il classico di fantascienza, pericolosamente realistico, scritto da Ray Bradbury nel 1953. L’autore immagina un futuro distopico in cui leggere è un reato perseguito da squadre di vigili del fuoco che, invece di estinguere incendi, bruciano i libri e le case dove si “nascondono”. Chi legge è considerato un individuo asociale e socialmente pericoloso mentre la norma è vegetare davanti alla televisione, incollati a enormi schermi guardando soap opera infinite o scadenti programmi che prevedono una pseudo partecipazione interattiva. Non c’è tregua neanche la notte perché si dorme con gusci nelle orecchie che trasmettono non stop sceneggiati e notiziari. Questa forma di abbrutimento che distrae dalla propria vita annienta ogni stimolo intellettivo e scambia l’assenza di emozioni per un finto benessere. E una diretta conseguenza dello strapotere della tecnologia e delle logiche del mercato che hanno provocato il declino dei libri trasformando la minoranza di lettori in una pericolosa minaccia alla serenità della massa. Sia mai che un libro possa offrire un punto di vista differente, insinuare un dubbio o una domanda (le domande condannano all’infelicità), stimolare una sensazione forte, un grido, una lacrima, una risata. I libri sono temuti perché «rivelano i pori sulla faccia della vita e la gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive».
Come la protagonista di “Storia di una ladra di libri”, anche Guy Montag, dopo aver letto per caso e furtivamente qualche riga di un libro, inizia a rubarli (salvarli) invece di bruciarli come il suo ruolo di vigile del fuoco imporrebbe. Qualche ragionevole dubbio s’insinua tra le sue false certezze, messe in crisi anche dall’incontro con Clarisse, una ragazza che ha ancora la sensibilità di ammirare le stelle e annusare l’erba, che non guarda la televisione ma chiacchiera e sembra felice. E lei a fargli capire che assenza di emozioni, anche negative, non è felicità, ed è sempre grazie a lei che decide di invertire la rotta. Da un vecchio professore di lettere, invece, apprende l’importanza dei libri, di tutti i libri, anche quelli di fantasia, strumenti che danno sostanza alla nostra vita aiutandoci a prenderla in mano. E così farà Montag.
“Fahrenheit 451” è uno di quei libri di fantascienza in cui la fantasia diventa una sorta di scienza esatta in grado di prevedere con anticipo ciò che noi umani possiamo solo immaginare, tanto per citare “Blade Runner”, ovvero la trasposizione cinematografica di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip Dick, un altro classico del genere fantascientifico da leggere (e da vedere nella versione cult firmata da Ridley Scott). Nato come medicina preventiva, il romanzo di Bradbury è ancora utile per rimediare ai danni causati dalla teledipendenza ovvero se niente «riesce a strapparvi dall’artiglio che v’imprigiona quando mettete piede nel salotto TV», ma rivela la sua efficacia anche se avete i sentimenti intorpiditi, se la cervicale da smartphone o tablet vi impedisce di guardare le stelle, se la vostra capacità di porvi domande sembra atrofizzata, se vi affannate a riempire freneticamente le giornate di impegni o se avete l’impressione di indossare una maschera di felicità. La lettura del romanzo facilita la metabolizzazione del concetto che le fragilità non necessariamente condannano all’infelicità e che una sincera tristezza o un’onesta ammissione di debolezza possono essere più benefiche di una falsa sicurezza e di una frenetica felicità.
L’improvvisa presa di coscienza che la nostra società è quella immaginata da Ray Bradbury, passiva, schiava di bisogni indotti dai media, incapace di riflettere in solitudine e sempre meno creativa e libera, può provocare attacchi di panico e apnee notturne, non necessariamente nocive per la salute perché «a noi occorre non essere lasciati in pace! Abbiamo bisogno di essere veramente tormentati una volta ogni tanto!». Il rimedio è uno solo; leggere, leggere, leggere.
È obbligatoria l’assunzione di “Fahrenheit 451” ai primi sintomi di disturbi da lettura, ovvero se leggete sempre meno, se la vostra capacità di concentrazione dura neanche il tempo di una pagina e se la tendenza a lasciare a metà un libro si sta cronicizzando.
Con il suo finale in cui la salvezza dell’umanità è nelle mani di un manipolo di uomini che tiene a mente testi letterari andati perduti, il romanzo risulta anche un vaccino contro quella terribile malattia che è la perdita della memoria. Come ha scritto Umberto Eco in una lettera a suo nipote «la memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria». Bradbury aveva già prescritto questa cura negli anni Cinquanta.
Può essere utile affiancare la lettura con la visione del film realizzato da François Truffaut nel 1966.

Commenti

Si parla a lungo di un libro caposaldo delle mie letture, che rilessi dieci anni fa grazie ad un gradito regalo. Viene citato anche Dick, altro autore cult della mia giovinezza, ma di questo libro ho solo visto lo stupendo film di Ridley Scott. Ma qui si parla e si cita Bradbury.
Ray Bradbury “Fahrenheit 451” Mondadori s.p. (regalo di Alessandra)
[pubblicato il 18 aprile 2010]
Un classico, ma ci sono alcuni punti in cui è dice cose che anche dette oggi fanno paura. Risente i suoi quasi sessanta anni, ma sono contento di averlo in un certo senso riletto ora, carico d’anni e di esperienze. La storia è ormai un eponimo e sembra quasi banale riportarla, ma ha delle pieghe interessanti. In un imprecisato futuro, l’informazione giornalistica viene bandita (e uno), le case diventano dei grandi televisori (e due), dove chi è benestante si permette di avere un salotto con quattro pareti tutto schermo, diventando parte integrante degli spettacoli televisivi (interagendo anche con essi). I libri, che potrebbero far riflettere la gente su quanto di guasto sta avvenendo vengono prima considerati pericolosi (e tre), poi a loro volta proibiti, ed infine viene istituito un corpo speciale dedito al loro incenerimento (ed a quello delle persone che li leggono). È da paura quanto tutto ciò suoni attuale! Il fuochista Guy Montag, non si sa come e perché, inizia a riflettere su questo stato di cose, trova il coraggio di ribellarsi, e prospetta un futuro dove… si tornerà alla lettura. Guy dovendo scegliere tra bruciare libri e bruciare il suo capo, sceglie di dar fuoco a quest’ultimo e poi fugge per unirsi ai ribelli. Il tutto con una guerra che sembra esserci ma che (avendo tolto l’accesso all’informazione) nessuna sa di sicuro. Se invece di guerra con armi, ci mettiamo la crisi economica sembra di leggere la cronaca dei gironi nostri. Dobbiamo trovare il coraggio delle piccole azioni, della ribellione allo strapotere televisivo che annienta le voci fuori dal coro. Bisognerebbe prendere tutta la parte centrale del libro che spiega il passaggio dai libri al monopolio televisivo e farne un monumento. Alla fine, si arriva veramente stremati. E lì che andremo a finire? DICIAMO DI NO!!!
“Guy voi avete davanti un vigliacco. Io vedevo la piega che stavano sempre più prendendo le cose, ma molto tempo fa; ma non ho detto nulla; sono uno degli innocenti che avrebbero potuto parlare chiaro e tondo quando nessuno era disposto a da rette al ‘colpevole’ ma non ho aperto bocca, diventando così colpevole a mia volta.” (96)
“I libri sono odiati e temuti … perché rivelano .. la vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, … inespressive. Viviamo un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori invece di nutrirsi di buona pioggia” (98)

Finalino

Soluzioni rapide, commenti veloci (o quasi). Ma meglio delle mie parole qui, son le citazioni mie e di Giulia Fiore.

domenica 9 febbraio 2020

Recuperi (quasi) seriali - 09 febbraio 2020


Jo Nesbø “Scarafaggi” Einaudi euro 13,50 (in realtà scontato a 11,48 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 23/09/2019 – T: 26/09/2019] - &&& e ½
[tit. or.: Kakerlakkene; ling. or.: norvegese; pagine: 432; anno 1998]
Così, con questo recupero, ho completato tutta la filiera originale delle storie di Harry Hole scritte dall’ottimo Jo Nesbø. Devo subito dire, che questa, essendo la seconda storia scritta dall’autore, mi è sembrata molto più vivace ed interessante delle prove successive, che si sono a mano a mano ingolfate in introspezioni e digressioni sulle vicende personali, lasciando meno spazio al noir, all’intreccio, ed anche ad alcuni risvolti politici ed economici che, nelle prime uscite, avevano fatto del norvegese un autore di culto. Come tutti, in Europa, ho cominciato a leggere Nesbø dal terzo libro di Hole. Letture interessanti e coinvolgenti, almeno per le prime tre. Poi inizia la decadenza di cui parlo altrove, sperando che ultime prove si migliorino. Tre anni fa, non ricordo più in quale parte del mondo, trovai il primo Nesbø, quello del pipistrello. Mi deliziai con le avventure australiane del nostro. Ora, nella fortunata riedizione integrale della Einaudi, ho ritrovato questo secondo libro. Con una bella ambientazione ed una bella storia. Certo, Hole è sempre messo in mezzo per il suo lato tendente all’alcool, così che, utilizzando per imprese disperate, qualcuno pensa di poterne cavalcare le debolezze. Ma qui, non ancora. Che, colpito dai problemi familiari della sorella down, e deciso a sospendere la sua alcoolica dipendenza, è coinvolto in una storia thailandese. Questo, tra l’altro, fa crescere abbastanza il tono ed il piacere del testo. Che Nesbø parla di una Bangkok reale, quella che vidi anch’io le prime volte che vi andai, per diletto e per lavoro. Interessante intreccio di caldo asfissiante, umidità insopportabile, buon cibo e gente, stranamente, molto sorridente. Il nostro Hole viene inviato laggiù per l’assassinio dell’ambasciatore norvegese. Stranamente, ma non per il posto, morto con una coltellata in un bordello. O meglio in un albergo equivoco. Tra l’altro, nell’ex-ergo, Nesbø parla di misteriose morti di ambasciatori a Bangkok negli anni Sessanta, cosa che le mie ricerche via rete tenderebbero ad escludere. La capacità di Nesbø  comunque è di ricreare il sound degli expatr in luogo altro dalla terra natia. L’ambasciata, con i suoi punti oscuri, ed i piccoli (di statura) thailandesi che vi lavorano orgogliosi. Il mondo della finanza, spericolato e lussuoso. Il mondo dell’imprenditoria, con le sue piccole e grandi corruzione. Finanche il mondo del turismo sessuale. Che tutti sanno la Thailandia essere uno dei mercati principali, sì per la pedofilia che per l’uso di prostitute bambine. Ma non solo per gli expatr, ma anche lo stesso “sound” di Bangkok: da Patapong a Soi Cowboy 2 e 4, dal karaoke ai go go bar, dal traffico caotico al vecchio aeroporto (ora c’è quello nuovo, ed è molto diverso). Mi è mancato solo il bus sul fiume, e magari la casa di Osborne. L’intreccio, si capisce ben presto che è più complesso di quanto venga descritto all’inizio, ed anche molto più norvegese che locale. Certo, l’ambasciatore non è uno stinco di santo, ed è stato catapultato lontano da Oslo che dava fastidio al partito cristiano al potere. ma forse più per le scommesse che per tendenze omosessuali. Altri capisaldi del racconto saranno Loken, strano attaché dell’ambasciata, dalle sparizioni misteriose e dagli altrettanto strani agganci con i poteri in patria. Jens il finanziere d’arrembaggio, pronto a gettarsi su tutte le transazioni facoltose del luogo, nonché ad intrecciare sin dai primi giorni un rapporto stretto (molto stretto) con la moglie dell’ambasciatore, alcolizzata anche lei e stanca delle tendenze eterodosse del marito. Finendo con Klipra, l’imprenditore nonché grande corruttore, impegnato nella costruzione delle grandi arterie per snellire il traffico locale, e per questo impelagato in difficili momenti economici. Hole, con l’aiuto di Liz, simpatica capo della polizia locale (una donna, e per di più american-thai), si muove prima con difficoltà, poi sempre più con la sicurezza (che deriva anche dall’astensione al bere, cosa che qui da un tocco meno depravante del nostro detective). Capisce, ma noi lo sapevamo, vero?, che è stato inviato laggiù come capro espiatorio. Capisce che dietro c’è anche la necessità di una ratifica di un trattato antiabusi tra Thailandia e Norvegia. Capisce anche che la morte dell’ambasciatore, in realtà, è tutt’altro. Ritornano le capacità investigativa di Hole, il suo accorgersi di piccoli dettagli non coincidenti, di discrepanze tra tempi ed azioni. Con un bel finale, che mette tutto in ordine, dal punto di vista di chi ha fatto cosa e come, in una lunga discussione tra Harry e Liz. Peccato che poi, tra lo svelamento delle azioni, e l’arresto di chi materialmente ha svolto i fatti, a Nesbø venga in mano una parte di “action thriller” che non riesce a gestire allo stesso modo del resto del romanzo. Ma va bene anche così, con qualche punto finale in sospeso, ora che ho ricostruito la prima parte della vita di Hole, a cui rimando sempre quando pensa alle ultime poco coinvolgenti vicende del nostro detective.
Paula Hawkins “La ragazza del treno” Piemme euro 19,50
[A: 09/05/2017 – I: 29/09/2019 – T: 30/09/2019] - &&& ---
[tit. or.: The Girl on the Train; ling. or.: inglese; pagine: 306; anno 2015]
Un libro che avevo comperato a prezzo pieno pensando di leggerne subito sull’onda del successo mediatico del libro stesso e del film correlato. Poi è passato nel dimenticatoio, sono venute altre priorità, e solo ora, due anni e mezzo dopo, ne leggo. Rimanendo sinceramente deluso. Non che non sia abbastanza avvincente (quando prende l’abbrivio, dopo una settantina di pagine, si rimane legati lì aspettando di vedere come va avanti). Ma la trama alla fine è più scontata di quel che sembra, e l’artificio di scrivere il romanzo a tre voci, usando le tre donne a modo loro, protagoniste del libro non sempre riesce a produrre gli effetti sperati. Certo, il pregresso lavoro della nostra scrittrice Zimbabwe-britannica come scrittrice di romanzi rosa, le consente di dare voce a Rachel, Megan e Anne come giustamente una donna che scrive riesce a dare. Tuttavia (e questa è sempre una mia posizione personale), l’uso di artifici per cercare di complicare anche il modo di leggere il testo mi lascia sempre perplesso e scontento (e non come la Carmen, confuso e felice). Comunque, la scrittura della Hawkins ci fa costruire a poco a poco le personalità delle tre donne, ed in parallela il thriller prende corpo. C’è Megan, la vittima, di cui vediamo la fragilità casalinga, il rapporto con il marito Scott, la perdita del lavoro, l’insoddisfazione, le sedute con lo psicologo Kemal. C’è Anne, l’amante e poi moglie di Tom, la nascita del bambino, la vita nella casa di Tom che non sentirà mai sua, la paura verso Rachel. E c’è, prima di tutto, Rachel, il motore della vicenda, una donna segnata dal rapporto con Tom, di cui è ancora innamorata, dalla difficoltà e poi impossibilità di avere figli, dal divorzio con Tom, e dal suo attaccamento all’alcol. Che la porterà anche ad essere licenziata. Ma lei continua, ogni giorno, a prendere il treno per Londra, girando fino a sera senza meta nella città che le diventa sempre più ostile. Noi la seguiamo in questi up and down verso la metropoli, nei suoi pensieri, nella sua curiosità verso quelle case che vede passare vicino al finestrino. La casa di Megan e Scott. La casa di Anne e Tom. Il motore scatenante della vicenda sarà la scomparsa prima, e la morte di Megan. Rachel la vedeva passando, sembrava una coppia felice. Perché Megan muore? Chi era in realtà? Era realmente una donna felice? O una donna piena di problemi irrisolti, che cercava in qualche modo di trovare uno sbocco alla sua vita, che, senza lavoro e senza fili, sembrava rotolare verso un nulla desolante? Rachel, pur nel suo alcolismo e nelle sue turbe verso Tom, comincia ad interrogarsi. Comincia a vedere indizi strani intorno a quelle due case. Chi era la persona che baciò Megan sulla soglia? Perché Megan litiga con Scott? Cosa ha fatto durante il mese di baby-sitting al figlio di Anne e Tom? Il filo del discorso si complica perché Rachel continua ad avvicinarsi alla casa di Tom, attirata dal suo vecchio amore, invidiosa del figlio della coppia. Instaurando un clima di tensione e paura in Anne. L’abilità della scrittrice è nel far risaltare decentemente le personalità di Rachel e Megan, anche se su Anne ho delle riserve. Rachel sprofonda nei suoi demoni, soprattutto l’alcol, e noi la vediamo come personaggio potenzialmente negativo. Una che fa scelte sbagliate, azioni sbagliate e mette in difficoltà e pericolo sé stessa e le indagini. Però ha quel fondo di umanità che la riscatta, e benché in maniera improbabile, a volte diventa simpatica. Certo, io continuo a non sopportare gli alcolemici alla Hole, ma nella sua confusione Rachel cerca di raddrizzare i quadri (citazione colta di un film orrendo, intitolato in italiano “Il gran lupo chiama”). Pian pianino, in modo che non svelerò, alla fine i sospetti sulla morte di Megan si riducono ai tre uomini presenti nella trama: il marito Scott, lo psicologo Kemal e il vicino (nonché ex-marito di Rachel) Tom. La fine della storia è leggermente convulsa ed un po’ tirata via velocemente. Ma alla fine scopriremo chi ha fatto cosa e come, con un prefinale che non mi aspettavo. Mi dicono che il film che ne è stato tratto è in alcune parti meglio riuscito del libro stesso, cosa che non stento a credere. Anche se non ho visto il film. Ma il libro poteva essere meglio assemblato, senza aver quei piccoli tocchi che ricordano alcune scene della “Finestra sul cortile” di Hitchcock. Una lettura un po’ ritardata, ma tuttavia rilassante e consigliabile.
James Patterson “Ricorda Maggie Rose” Sonzogno s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 18/09/2017 – I: 01/11/2019 – T: 03/11/2019] - &&&---  
[tit. or.: Along Came a Spider; ling. or.: inglese; pagine: 344; anno 1993]
Era molto tempo che mi incuriosiva il successo da “very long seller” del personaggio di Alex Cross creato da uno dei grandi fabbricatori di “serial fiction”, l’americano James Patterson. Approfittando della dismissione della libreria genitoriale, suddividendo i libri tra me e mia nipote, ho scoperto di avere questa copia della prima edizione della serie (che ho visto in rete essere arrivata al ventiquattresimo libro). Preso, ma non mangiato subito, che se si aspettano 25 anni si possono anche aspettare 27… Allora, cominciamo con il titolo, al solito (e già da allora) preda di editor malvagi. Il titolo originale viene da una filastrocca infantile inglese imperniata sulla piccola signorina Muffet che, nella parte finale, recita: “Along came a spider / Who sat down beside her / And frightened Miss Muffet away.” Cioè: “Arrivò un ragno / Chi si sedette accanto a lei / E spaventò Miss Muffet.” Quindi c’è un ragno che spaventa i bambini, ed è un ragno che tesse la sua tela malvagia. Ragno che nelle prime pagine (e ce lo dice lo stesso autore) rapisce due bambini, Michael Goldberg e Maggie Rose. Per una serie di motivi, che poco ci interessa sviscerare, Michael muore, mentre Maggie scompare. Quindi, è vero, la polizia, i genitori, continuano a cercare, e non si scordano di Maggie. Ma quel titolo non mi convince. Venendo allora al testo, vediamo entrare in azione per l’appunto il protagonista di più di venti libri di Patterson, l’agente investigativo dottor Alex Cross. Un trentenne di colore, laureato in psicologia, ma disgustato dalla classe medica, decide di diventare poliziotto, mestiere dove tuttavia la sua specializzazione gli servirà d’aiuto. In questo punto d’attacco delle sue storie, vediamo come sia già vedovo, essendo la moglie Maria morta un paio d’anni prima in una rapina, e vive in una casa nel quartiere negro con la madre, Nana Mama, ed i suoi due figli, Damon e Janelle. Nella polizia ha per partner il gigantesco John Sampson, e quando entrano in scena la devono occupare mica male. Entrambi neri, entrambi sopra il metro e novanta, e ben forniti di muscoli. John e Alex sono amici dall’infanzia, giocavano insieme nel quartiere, ed ora, trentenni, continuano a lavorare nella comunità nera. John è di supporto, sembra (almeno in questa prima inchiesta) servire solo come punto di riflessione per Alex. Non so se progredendo acquisterà più spazio, ma penso sia possibile. Per tornare ad Alex, questa prima uscita mi sembra ancora in divenire, ha una sua presenza, una contrapposizione latente ma presente con le istituzioni, un difficile rapporto con l’altro sesso, con cui si apre, ma con ancora il pensiero della moglie morta. E con la difficoltà, qui molto ovvia, che rappresenta un rapporto interraziale. Infatti, ha una sua storia con Jezzie, l’agente dei Servizi incaricata della sorveglianza del piccolo Goldberg. Ma è una storia, per molti versi, non solo complicata, ma alla fine impossibile, anche se non vi dirò perché. La storia, per venire al testo, è lineare: Gary, infatuato dei grani rapimenti, maniaco di protagonismo, organizza il rapimento dei due bambini. Non è un mistero, Patterson ce lo presenta sin dalle prime pagine. Il mistero, il thriller è la personalità di Gary, e lo sviluppo del rapimento. Che Michael muore, e non è un mistero, e che Maggie sparisce. Scopriremo quindi che c’è anche qualche altro inghippo dietro, una richiesta di riscatto ed altre avventure di contorno. Non interessa a voi lettori di queste righe come si sviluppi il thriller, che in effetti, benché abbastanza ben congeniato, è poi disvelato senza troppi patemi. Quello che interessa della trama e del libro è il braccio di ferro tra Alex e Gary. Perché Gary si costruisce tutto un castello di parole ed azioni, che ci porteranno ad un bivio di interpretazione. È uno psicopatico che ha costruito una vita ed un personaggio in modo perfetto, o è un MP cioè una Personalità Multipla (almeno duplice), che si scinde nel “normale” commesso viaggiatore con famiglia e nel “rapitore” ed assassino, passando dall’una all’altra personalità senza che le due facce ne abbiano coscienza. Questo è il dilemma che affronta lo psicologo Alex, cercando tutti i mezzi, anche l’ipnosi, per dirimere la questione. Devo dire che né Alex né Patterson sembrano vogliano portare questa trama alle sue conseguenze finali, sciogliendola in qualche modo. Ipotizzo perché l’autore è intenzionato a tirarla di nuovo fuori ad un certo punto. Comunque, nonostante i notevoli anni passati dalla scrittura, si legge ancora con scorrevolezza. Pur facendo ammenda di passaggi datati, ne ho apprezzato l’impianto generale, per cui penso che prima o poi ne leggerò altro. Vorrei finire con due notazioni. La prima riguarda la passione di Alex  per la musica, per cui per rilassarsi si pone al piano, ed io ho apprezzato l’idea di un pot-pourri di musica R&B, hip hop ed altro, con Keith Sweat (non Swat come erroneamente riporta l’edizione italiana), i Bell Biv Devoe e Public Enemy. L’altro è l’accenno che si fa ad un posto per me magico: Uyuni in Bolivia ed i suoi salares. Certo, per arrivarci nel ’92 magari bisognava arrivare a Rio Mulato, mentre ora c’è anche un aeroporto nella bellissima (e freddissima) cittadina. Certo, io quando ci andai per la prima volta, me la feci in pullman da La Paz: un viaggio epico, per un paesaggio che non scorderò mai (e così farà il mio mitico “Grupo de Oro”, e loro lo sanno).
John Grisham “Theodore Boone – La ragazza scomparsa” Mondadori euro 13 (in realtà scontato a 8,60 euro)
[A: 10/01/2018 – I: 27/11/2019 – T: 29/11/2019] - &&  
[tit. or.: Theodore Boone: The Abduction; ling. or.: inglese; pagine: 216; anno 2011]
Ero rimasto discretamente colpito dal primo libro delle avventure di Theodore 'Theo' Boone che ho pensato di leggere la seconda avventura. Devo dire che sono rimasto anche qui colpito, ma dalla discesa verso un lato molto “giovanile” e poco consono ad una scrittura generalmente più complessa e coinvolgente dell’avvocato americano. Intanto, cominciamo dalle solite dolenti note che, nell’edizione italiana, trasformano “il sequestro” in “la ragazza scomparsa”. Ora, seppur filologicamente corretto, anche rispetto al corpo del romanzo, rimango sempre dispiaciuto quando si prende un autore e se ne stravolge almeno l’incipit verso il lettore. Certo, il giovane italico (diciamo under 13 per individuare un target), può rimanere sconcertato da un sequestro e meno da una scomparsa. Ma l’effetto che ne risulta è certamente diverso. Il binario del libro ricalca l’impianto che ci ha presentato il primo libro. La famiglia Boone, con quell’andamento che avevo sottolineato un po’ alla “famiglia del Mulino Bianco”, con la madre Marcella divorzista ed il padre Woods immobiliarista, e le loro routine settimanali; lunedì ristorante italiano, martedì volontariato alla mensa dei poveri, mercoledì cibo cinese davanti alla TV, giovedì pollo alla turca con hummus, il venerdì pesce nel ristorante libanese, il sabato a turno ognuno sceglie il menu (ed in genere per Theo, pizza), e la domenica cucina casalinga. Io mi sarei stufato già alla seconda settimana (ovvio, che a pranzo Theo sta a scuola ed i genitori dove capita). La routine di questa “middle-class family” è sconvolta, di quando in quando, dalle sortite legali di Theo. Qui, da un evento che rischia di essere deflagrante: la scomparsa di April Finnemore, che, alla fine del primo libro, era diventata amica e confidente del nostro. Fuga? Rapimento? Grisham cerca di appassionarci alla vicenda, inserendo un cugino dei Finnemore, ergastolano evaso, che era diventato amico di penna di April. Sappiamo inoltre che la famiglia Finnemore è alquanto disassata: la madre May (e se ti chiami Maggio, come ti viene in mente di chiamare tua figlia Aprile?) è un po’ alternativa, si mantiene vendendo yogurt ed altri cibi non standard, ma essendo un po’ hippie, si assenta immotivatamente da casa; il padre Tom è un maturo figlio dei fiori, che ogni tanto parte per settimana con una sua rock band improvvisata per suonare in giro nei locali universitari e sentirsi ancora “Young and out”. Così che April quando rimane sola, parla a lunga con Theo e si barrica in casa. Questa volta però ciò non basta. Grisham tenta altre carte al suo flebile arco: il cugino Jack, ben presto ritrovato dalla polizia, dove assistiamo a interrogatori molto basic, per farne capire i meccanismi ai giovani; il ritrovamento di un corpo, che potrebbe essere April, ma forse no; i compagni di classe di April che organizzano ricerche nella piccola cittadina di Strattenburg. Tanto per mostrare la fiducia molto “protestante” nell’operare il bene e nel cercare soluzioni positive. Fortunatamente interviene il vero outsider della serie, lo zio Ike, che sappiamo essere stato avvocato, poi radiato ancora non si sa per quale motivo. Ike convince Theo che April può essere stata presa dal padre, ed ecco che entra in scena l’amico di Theo, il mago informatico Chase Whipple. Unendo gli sforzi trovano il modo di rintracciare Tom, inscenano una complessa trama per allontanarsi da Strattenburg (che dovrebbe trovarsi in Pennsylvania) e percorrere 600 chilometri per raggiungere Raleigh, nella Carolina del Nord, trovare April, che non sapeva di essere considerata “scomparsa” e riportarla a casa. Gli unici momenti di suspense sono di nuovo nelle aule legali. Una, di cui non vi dirò nulla, coinvolge tutta la famiglia Finnemore, che deve trovare il modo di togliersi dai guai per i problemi che insorgono nel lasciare sola una ragazzina di 13 anni. Ovvio che avrà una parte in questa sezione la madre di Theo. Il secondo è di nuovo nel “Tribunale degli animali”, che abbiamo conosciuto nel primo libro, quando Theo difende e fa assolvere “Giudice”, quello che diventerà il suo cane. Qui siamo invece in una querelle che coinvolge un pappagallo creolo che importuna un maneggio, ed in particolare la titolare sovrappeso, usando parole poco “politically correct”. Qui, Theo può assumere il suo ruolo di futuro avvocato, difendendo il pappagallo e trovando una soluzione insieme al giudice degli animali. Però è un po’ poco per far reggere il libro sui suoi piedi. Si sperava in una scrittura più ammiccante, ed in qualcosa di maggior interesse. Sembra invece un libro scritto perché si è firmato un contratto, e che serve solo ad introdurre il terzo volume della serie, con l’anticipazione che a breve riprenderà il processo contro Duffy il cattivo, di cui abbiamo visto una sospensione nel primo volume. Ma non è né sarà a breve nelle mie corde e nei miei scritti.
Come i miei affezionati lettori sanno, ed i neofiti impareranno, la seconda trama del mese prevede un allegato dedicato ai libri che servono da medicine o da cure. In questo caso, né l’uno né l’altro, ma libri per dare una scossa.
Ho già detto dei pensieri cari che mi accompagnano in questo inizio di febbraio, non disgiunti a piacevoli pensieri per tutti i miei amici “acquari”. E da qualche barlume dedicato a prossimi (o quasi) viaggi. Ne riparleremo.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2020
Ogni tanto le nostre esimie libraie, più che di malattie ci parlano dio età. Ma che sia anche questa una malattia?
Settant’anni, avere
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER DARVI UNA SCOSSA
Questi romanzi sono una garanzia, come cubetti di ghiaccio che scivolano lungo la schiena; alcuni di essi accumuleranno energia durante la lettura; per altri, certe pagine vi sorprenderanno come un pugno allo stomaco. Non vi diremo quali, però.
Heinrich Böll                 “Biliardo alle nove e mezzo”
Anthony Burgess          “Arancia meccanica”
Nikolaj Gogol’               “Le anime morte”
William Golding             “Il signore delle mosche”
Thomas Keneally           “La lista di Schindler”
Jerzy Kosinski               “L’uccello dipinto”
Curzio Malaparte           “La pelle”
Alberto Moravia            “Il conformista”
Paco Ignacio Taibo II     “Giorni di battaglia”
Hunter S. Thompson      “Paura e disgusto a Las Vegas”

Bugiardino

Ebbene, prima del 2000 lessi, e quindi non ne ho tracce tramate, sia Gogol’ che Golding, con poco ritorno di piacere (al solito, ripeto che non riesco ancora ad entrare nell’animo russo). Ancora prima, e con accanto il bellissimo film di Kubrick, apprezzai l’arancia meccanica. Mentre di Kosinski, Moravia e Taibo II ho letto altro, e quindi qui li salto, una menzione a parte merita Malaparte. Scusandomi dell’involontario gioco di parola, ma “La pelle” è uno di quei (pochi) libri che non sono riuscito a portare oltre il primo capitolo (nella fattispecie, oltre a Malaparte c’è per ora solo la “Lolita” di Nabokov). Passiamo allora agli altri tre, con una menzione speciale a Böll che ho sempre gradito, dalle “Opinioni” in poi. Gli ultimi due sono accompagnati anche da film ben riusciti, ma nelle mie letture hanno esiti alterni.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 7,12 euro)
[tramato l’11 marzo 2018]
Sono senz’altro d’accordo con il famoso manuale delle cure librarie che questo è un romanzo che può dare una scossa. Intanto, premetto che di Böll ho letto, non tanto, ma letto. Sempre di un livello alto, fino a quello che per me è uno dei capolavori del romanzo moderno, cioè “Opinioni di un clown”. Comunque, dopo molte peregrinazioni di letture, mi sono deciso ad affrontare anche questo “Biliardo”, e con successo. Un libro forse amaro, ma reale e presente. un libro che restituisce tutta l’angoscia di un tedesco che ha vissuto il nazismo, la guerra, la ricostruzione. Ma non ha ancora affrontato il dramma del muro. Il libro è infatti del 1959, mentre il muro di Berlino fu costruito due anni più tardi. L’unico motivo, molto personale se vogliamo, per cui non veleggia verso i 5 o 6 librini è quella fatica di seguire percorsi datati di descrizioni e sensazioni. Certamente funzionali, certamente imprescindibili dall’andamento del testo, ma che non hanno (più) quella freschezza, quell’andamento trascinante che potrebbero avere se scritti ora, con altri ritmi. Ma Böll ne scrive sessant’anni fa, quindi va bene così. Scrive anche per destrutturare la grande tradizione delle saghe familiari, uno dei pilastri della letteratura germanica. Pensiamo ad esempio, e come unico esempio per non appesantire il tutto, a “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Anche qui abbiamo una decadenza di una famiglia tedesca (o l’idea di una decadenza, che qualcuno deciderà se si tramuterà in caduta), descritta prendendo a modello ideale l’Ulysses di Joyce: una giornata (6 settembre 1958) e flussi di coscienza. Si, perché anche se ci sono descrizioni, passaggi ed altri piccoli accorgimento di raccordo, tutta la narrazione avviene attraverso lunghi monologhi, spesso interiori, dei personaggi in ballo. Lungo l’arco della giornata in esame. Passando dall’uno all’altro, senza dirlo esplicitamente, ma, ovvio, facendolo trasparire dalla trama del narrato. La famiglia in questione è quella di Heinrich Fähmel. Il giorno è quello dell’ottantesimo compleanno del capostipite. Che non è una “grande di famiglia storica”, non è un “aristocratico con millenni alle spalle”. Heinrich è un architetto, che decide di puntare tutto sulla propria capacità ingegneristica, presentando un progetto per la costruzione dell’Abbazia di Sant’Antonio. Senza grandi capitali, ma con un grande senso delle proprie capacità, si trasferisce nella città teatro del romanzo, che, anche se non esplicitamente, può essere fatta risalire alla città di Colonia, patria dell’autore. Decide anche scientemente di sposarsi con qualche benestante signorina del posto. Scelta che cadrà su Johanna Kilb, la figlia del più importante notaio della città. Heinrich avrà la commessa, e da quel momento cominceranno le fortune economiche della famiglia. Non quelle della vita quotidiana, che i due avranno una serie di figli, alcuni morti in tenera età, fino a che rimarranno due: Otto e Robert. Di due caratteri opposti, tanto che Robert a 18 anni partecipa ad un ben misero attentato, in seguito al quale fugge per alcuni anni in Olanda. Otto invece diverrà nazista convinto, sino a morire in guerra. Robert invece appunto era sul fronte opposto, insieme all’amico Schrella (chiamato sempre e solo con il cognome). Ma Robert è anche un debole, ed accetta di pacificarsi con le istituzioni, accetta la grazia, ritorna, si laurea in ingegneria, sposa Edith la sorella di Schrella. Ed andrà in guerra, dove grazie alle sue nozioni di statica e dinamica verrà impiegato nella distruzione di postazioni nemiche con la dinamite. Durante l’ultima fase della guerra, poco prima della resa, Robert (e qui è il fulcro della riflessione dell’autore) decide di far saltare (riuscendoci) l’Abbazia del padre. Senza motivo? O forse con tutta una serie di motivi anche reconditi. Robert ed Edith, intanto, nelle due brevi licenze del soldato, avevano generato Joseph e Ruth, che si salvano insieme a quasi tutta la famiglia, meno la povera Edith. Robert rileva quindi lo studio del padre, dedicandolo a fornire calcoli per le costruzioni anche se non partecipa alle stesse. Di Ruth sappiamo poco, mentre assume rilievo Joseph. Sia perché scopre che è stato il padre a far saltare l’abbazia, sia per il suo rapporto con Marianne, una sopravvissuta alla guerra, scampata per poco alla follia dei genitori. Il padre, gerarca nazista, alla fine della guerra, si suicida, chiedendo alla moglie di uccidere i figli. Cosa che farà con il maschio, ma sarà fermata prima di uccidere Marianne. Ultima menziona è per Johanna, da anni rinchiusasi volontariamente in un istituto per alienati, pur non essendo pazza. Ma per sfuggire al mondo che ha ucciso quasi tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, figli. Istituto da dove esce per il compleanno del marito, progettando e probabilmente mettendo in pratica un estremo gesto esemplare, che serve da coronamento alla giornata di una “normale” famiglia tedesca. Ma il bersaglio principale di Böll, all’interno della descrizione della storia della famiglia Fähmel, è il conflitto tra i seguaci della “Bestia”, devoti al totalitarismo e all’aggressione in ogni sua forma, ed i seguaci degli “Agnelli”, i liberi pensatori, quelli che non vogliono opprimere nessuno. Elementi che, in varia forma, sono presenti sia nei Fähmel che nei personaggi di contorno. Non scopro certo nessun segreto dicendo che faccio il tifo per gli “Agnelli”. Contrapposizione che ha anche del biblico (molti i riferimenti che ne fa l’autore), così come testamentale è la divisione in 13 capitoli, quasi una via Crucis che si ferma all’ultima stazione. Infine, piccolo divertimento personale, il capitolo dedicato allo Schlagball, gioco a squadre molto in voga nella Germania degli anni Trenta, con caratteristiche simili, anche se solo simili, al baseball. Magari un giorno se avrò tempo, voglia e spazio ci tornerò sopra. Per ora, in tempi di fanatismi, leggere di questo biliardo, intorno al quale ha costruito la sua routine di vita il buon Robert è una lettura da consigliare. A tutti. Per riflettere.
“Nel suo viso leggevo gli anni che non riuscivo a scorgere nel mio.” (100)
Thomas Keneally “La lista di Schindler” Sperling euro 10,50
[tramato il 19 luglio 2015]
Se non avete visto il film di Spielberg, leggetelo. Se lo avete visto, leggetelo. Non ha lo stesso impatto emotivo, ma è ben scritto. E serve sempre, per non dimenticare. Intanto, appunto per non dimenticare, tracciamone alcuni contorni (cioè parliamo un po’ del contesto, dato che sul testo seppur noto torneremo poi). Il libro nasce dalla casuale conoscenza dell’autore con un ebreo polacco sopravvissuto allo sterminio, Leopold Pfefferberg. Questi, ex-insegnante a Cracovia ai tempi dell’invasione nazista, fu uno dei “salvati” da Schindler e passò la vita a raccogliere testimonianze su quel periodo. L’incontro tra i due scatenò la scintilla in Keneally, di scrivere un libro basato su quella avvincente storia. Nasce così, nel 1982, un libro che si intitola “Schindler’s Ark”, e che con questo titolo vince uno dei più prestigiosi premi letterari britannici, il Booker Prize (premio aggiudicato ogni anno al miglior romanzo originale scritto in inglese). Il premio apre le porte a pubblicazioni in tutto il mondo, tra cui l’America, dove però viene ribattezzato “Schindler’s List”. Capita così tra le mani di Spielberg che ne intuisce subito le potenzialità, e, dopo una lunga gestazione (aiutato dallo stesso Keneally) viene da lui trasferito sullo schermo. Esce nel 1993 e vince 7 premi Oscar (film, regista, sceneggiatura non originale, colonna sonora, scenografia, fotografia e montaggio). Ma lasciamo da parte il film, e le semplificazioni che forzatamente si devono fare per ridurre un libro ed una storia, ad un evento visivo (anche se su qualcosa torneremo), e torniamo subito all’autore, che era ed è un prolifico scrittore, australiano di nascita, in patria già precedentemente noto per i suoi scritti, ma che con questo raggiunge un apice di successo e notorietà che, in effetti, metterà in ombra tutto il resto della sua produzione. Lo stile che adotta è molto giornalistico, con riprese ed anticipazioni, laddove tuttavia la materia narrata è talmente di suo, forte e di grande impatto, che sembrerebbe facile farne comunque un buon libro. Io credo di no, e credo che il merito di Keneally sia stato proprio quello di rendere una materia complessa, ed avvenimenti non chiari, con uno stile ed una capacità di non perdere fili di una intricata matassa per tutto il lungo svolgersi dei 6 anni intensamente narrati. Il fulcro della narrazione si spande dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 alla fine della Seconda Guerra Mondiale nel maggio del 1945. Se si dovesse solo citarne lo scarso filo che lega le quasi quattrocento pagine, dovremmo parlare dell’epopea di Oskar, delle sue fabbriche, della sua empatia verso gli ebrei di Cracovia, e tutto quello che ne conseguì. L’attrito latente (ma potente) con i tedeschi occupanti, l’amore iniziale verso il nazismo trionfante negli anni ’30 all’odio sempre più aperto verso le crudeltà di regime. Non siamo qui per ripercorrere tutti i momenti forti del libro, sottolineando solo la capacità di Keneally di descriverli quasi asetticamente, ma proprio perché descritti quasi senza partecipazioni non possiamo che capirne (e sentirlo su di noi) l’orrore. Seguiamo Schindler che cerca di neutralizzare il depravato Amon Goeth (il “re” del campo di concentramento dei “suoi ebrei”, e che finirà impiccato a fine guerra per i suoi crimini). Schindler che si sporca le mani, che minaccia, che corrompe, che viene arrestato più volte, ma che riesce ad uscirne, più o meno bene. Fino all’ultima avventura: la guerra si avvia verso la sua conclusione (scontata) e, a fronte dell’avanzata russa, molti campi vengono chiusi e gli ebrei spostati o direttamente uccisi sul posto. Schindler tenta la sua ultima carta: spostare la (finta) fabbrica in Moravia, con più di mille ebrei catalogati come “specialisti”, ma assolutamente incapaci di avvitare bulloni. Così si salvano Stern, Pemper dalla memoria di ferro, e Pfefferberg (quello che darà avvio al processo di “beatificazione” di Schindler). Una volta finita la guerra, Oskar non riuscirà ad avere più alcun successo. Si trasferisce in Argentina, e la sua fabbrica fallisce. Torna in Germania, lasciando la moglie in Sudamerica, e colleziona un fallimento dopo l’altro. Fino a morire a 68 anni nel 1974 e venir sepolto sul monte Sion a Gerusalemme, ricordato come uno dei “Giusti dell’umanità”. Il libro, più che il film, insiste sulla contraddittorietà della figura di Schindler, del suo oscillare tra gaudente incosciente e cosciente salvatore della patria. Sicuramente,  gli Stern, i Pemper e gli altri a lui vicini lo indirizzarono verso una strada che da solo non avrebbe forse percorso. Di suo, ci mise la giovinezza guascona, il desiderio di rivalsa sulle sconfitte del padre, ed altro (ardore sessuale che lo portava ad avere una moglie e due amanti contemporaneamente sparse sul territorio, voglia di godere, mangiando e bevendo al limite della cirrosi epatica). Keneally ha molte immagini forti nel suo scritto (tra cui quella della bimba con il vestito rosso che sarà un marchio della pellicola di Spielberg). Quello che purtroppo non risalta è il susseguirsi di persone dietro gli avvenimenti. Tanti sono i nomi, tante le vicende che a volte ci si perde un po’, non riuscendo a seguire bene chi sia che fa cosa, e come, e chi ad un certo punto muore e chi si salva. Comunque, un libro come detto sopra per non dimenticare, e, seppur letto con difficoltà, di impatto superiore alla media. Ah, Oskar Schindler era un Toro.
Hunter S. Thompson “Paura e disgusto a Las Vegas” Bompiani euro 9,90
[tramato il 5 novembre 2017]
Come si fa ad incominciare una scrittura di un libro illeggibile, intramabile e pur tuttavia imperdibile? Un libro maldestramente consigliato dalle mie libropeute per darsi una scossa. Forse si può cominciare dal suo autore, uno strano tipo di giornalista, o di scrittore, o di qualcosa altro, che irrompe sulla scena della cultura alternativa americana degli anni ’70, quando, poco più che trentenne, si camuffa da motociclista, entra a far parte di una banda di motociclisti, e poi ne scrive un reportage che diviene presto famoso, “Hell’s Angel”. Thompson, è poi davvero strambo (ed è tale e quale a come lo portò sullo schermo il suo amico Johnny Deep nel film tratto da questo libro): uno spilungone con il collo lungo e la testa a pera, la pelata nascosta da una parrucca biondastra, pantaloni corti e Converse ai piedi, occhiali da sole fumé e la sigaretta Dunhill con il bocchino perennemente infilato all'angolo della bocca. L'aspetto era reso ancora più strambo dal fatto che camminava con le gambe rigide e allargate a semicerchio a causa di un infortunio rimediato in una partita di football americano. Con questo aspetto dinoccolato, Thompson entra nella redazione del maggior periodico alternativo dell’epoca, “Rolling Stones”, e sulle sue pagine inizia, fonda e porta avanti quello che verrà battezzato il “giornalismo gonzo”. Un modo di raccontare i fatti entrando in prima persona negli avvenimenti, magari parlando di pere mentre si cercano coriandoli. Così, poi, nasce questo libro che ne diventa l’eponimo quando verrà pubblicato a puntate su “Rolling Stones”. Thompson vuole indagare sull’uccisione di un giornalista-attivista “chicano” (cioè americano di origini messicane) Rubén Salazar. Colpito a morte da un gas lacrimogeno sparato dalla polizia di Los Angeles addosso a dei manifestanti contro la guerra nel Vietnam. Un possibile conoscitore dei fatti era l’avvocato Oscar Zeta Acosta, che, per parlare senza essere presi di mira proprio dai poliziotti, decidono di trasferirsi per un po’ di tempo a Las Vegas, prendendo spunto da una gara di motociclisti off-road che si deve svolgere proprio nella cittadina del Nevada. Tra la gara (che non andò mai a vedere), i discorsi con Oscar, e le idee che a ruota libera venivano anche dal forte uso di droghe ed altre alterazioni psicotiche, viene fuori il primo nocciolo duro di questo viaggio alla ricerca del “sogno americano”. Per aggiungere materiale, un mese dopo, i due tornano a Las Vegas per seguire i lavori della “Conferenza dell'Associazione Distrettuale Nazionale sui Narcotici e Droghe Pericolose”. Ovviamente la conferenza è vera, ovviamente per Thompson è solo uno spunto per parlare di altro, per cercare, come dice quasi all’inizio: “Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di LSD super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un’intera galassia di pillole multicolori, eccitanti calmanti, esilaranti… e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro… [con tutto ciò], lascia che ti spieghi … Noi stiamo cercando il Sogno Americano, e ci hanno detto che rimane da queste parti… Lo stiamo cercando qui perché qui ci hanno mandato da San Francisco, a cercarlo. Ecco perché ci hanno dato quella Cadillac; pensano che, se lo troviamo, potremmo rinchiudercelo dentro…”. Per 26 stralunati capitoli, illustrati dai disegni da incubo di Ralph Steadman, Thompson e Oscar, che nel libro diventano il giornalista Raoul Duke e l’avvocato dr. Gonzo, entrano (tanto) ed escono (poco) da allucinazioni varie, vedono animali fantastici nel deserto, spaventano autostoppisti, vivono a scrocco, distruggono stanze d’albergo, hanno rapporti sessuali estremi, cercano di fottere senza essere fottuti, vorrebbero anche morire, ma forse non seriamente (solo Thompson lo farà seriamente, a 67 anni, sparandosi con il suo fucile). Ma quello che deve rimanerci non è questa prima impressione. È il tramonto del sogno americano che c’è dietro. E di tutta la cultura alternativa dell’epoca, che riusciamo a riviver, in piccola parte, attraverso una formidabile appendice al libro. La “Piccola Enciclopedia Psichedelica”, curata da Sandro Veronesi, con tutta una serie di descrizioni di piccoli e grandi tempi degli anni ’70, legate a quei mondi alternativi, da tutte le varie derivazione dell’LSD e della mescalina, per passare da tutte le personalità dell’epoca, da Spiro Agnew a Robert Zimmermann (che ovviamente conoscete, senza che io o Alessandro ve lo dobbiamo rispiegare ancora). Un susseguirsi di lemmi scritti da Baricco, Albinati, Erri De Luca, Fernanda Pivano, Gino Castaldo, Gianni Minà, Marco Tullio Giordana ed altri esimi conoscitori di quel mondo. E tra questi conoscitori, e le parole di Thompson, alla fine del capitolo 8, c’è una descrizione delle sensazioni della fine “dell’onda” che invito a rileggere (per questo ve la riporto in calce) a tutti i miei sodali di allora e di ora. Per finire ricordo, sempre per gli attenti a tutte le arti, che il personaggio del “giornalista gonzo” Duke è quello che ha ispirato il personaggio di Duke nel fumetto di Gary Trudeau “Doonsbury” (che invito a rileggere per l’attualità che ora ha ancora). Infine, sottolineo che la “paura e disgusto” del titolo derivano da una frase di Nietzsche contenuta nel suo libro “L’Anticristo”. Anche quello da (ri-)leggere.
Capitolo 8 – “I geni del mondo si tengono per mano…” Art Linkletter
“… Strani ricordi in quella nervosa nottata a Las Vegas. Cinque anni dopo? Sei? Sembra passata una vita, o almeno un’epoca - quel tipo di culmine che non tornerà mai più. San Francisco e la metà degli anni Sessanta erano un bel tempo e un bel posto da vivere. Forse ha significato qualcosa. O forse no, alla lunga... ma nessuna spiegazione, nessun insieme di parole o musiche o ricordi può toccare la consapevolezza d’essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo. Qualunque cosa significasse...
La Storia è difficile da conoscere, per via di tutte le stronzate che ci aggiungono, ma anche senza essere sicuri di cosa dice la Storia pare del tutto ragionevole pensare che ogni tanto l’energia di un’intera generazione si concentri in un lungo bellissimo lampo, per ragioni che sul momento nessuno capisce - e che mai spiegheranno, retrospettivamente, ciò che è veramente accaduto.
Il mio ricordo principale di quel tempo sembra aggrappato a una o a cinque o forse a quaranta notti - o mattine molto presto - quando mezzo sconvolto lasciavo il Fillmore e, invece di andare a casa, prendevo la grandiosa Lightning 650 e sfrecciavo sopra al Bay Bridge a centosessanta all’ora con indosso dei calzoncini L.L. Bean e un giubbotto Butte da pastore... irrompevo di là del tunnel di Treasure Island sullo spettacolo di luci di Oakland, Berkeley e Richmond, non molto sicuro su quale uscita imboccare una volta arrivato di là (sempre spegnendo il motore al casello del pedaggio, troppo fatto per trovare la folle mentre rovistavo in cerca di spiccioli)... ma assolutamente certo che per qualunque strada fossi andato sarei arrivato in un posto dove la gente era ispirata e selvaggia, esattamente come me: nessun dubbio su questo...
C’era follia in ogni direzione, a ogni ora. Se non attraverso la Baia, allora su al Golden Gate o giù sulla 101 per Los Altos o La Honda… Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo…
E quella, credo, era la nostra ragion d’essere - quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso violento o militare: non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta - tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa....
Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea - quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro.”

Conclusioni

Non ho capito perché queste scosse dovrebbe avvenire solo (o in particolare) ai settantenni. Immagino qualche refuso di impaginazione. Quel che è vero, è che la scossa la danno. E non è un caso che molto giri intorno ai fascismi di ogni epoca e luogo. Un memento da approfondire.