domenica 30 agosto 2015

Insalatona - 30 agosto 2015

E già, questa volta abbiamo un gruppo veramente eterogeneo, dove purtroppo il libro a me meno congeniale è del più noto dei quattro, il Nobel Gabo. Ho invece trovato, nelle loro diversità, godibili, leggibili e condivisibili, il pamphlet “fuori di testa” con i salmoni nello Yemen, il pot-pourri anglo-yiddish di Potok nonché il bellissimo e truffauttesco triangolo di Roché. Questi ultimi tutti da leggere (o rileggere).
Paul Torday “Pesca al salmone nello Yemen” LIT euro 9,90
[A: 04/01/2014– I: 03/02/2015 – T: 12/02/2015] - &&& e ¾  
[tit. or.: Salmon Fishing in the Yemen; ling. or.: inglese; pagine: 253; anno 2007]
Anche questo è uno di quei libri che non sarebbero entrati nella mia copiosa biblioteca senza la spinta di opportuni e mirati suggerimenti. E bene ho fatto, che, anche se non è un libro stravolgente, mostra una indubbia capacità dell’autore di cogliere aspetti assurdi della vita, trattarli con efficacia e costruirvi intorno un libro rimarchevole. Peccato che poco dopo la pubblicazione di questa opera prima (scritta dall’autore già sessantenne) il nostro Torday muoia di un male incurabile. Anzi, è proprio questa malattia che lo aveva spinto, lui industriale di discreto successo nel campo petrolifero, a riprendere in mano la sua passione giovanile e dedicarsi alla scrittura. Ma non parliamo degli altri suoi lavori, rimaniamo a questo, ed alla sua natura eclettica ed umoristica. Che inizia già dal titolo che ci cattura: pesca al salmone nello Yemen? Infatti, se doveste immaginare di pescare salmoni – un pesce tipico di corsi d’acqua freddi e impetuosi, generalmente molto nordici – in un polveroso uadi tra gli infuocati canyon delle montagne dello Yemen penserete tutti ad un errore. Una cosa fuori da ogni logica, senza alcun senso, priva di qualsivoglia razionalità, scientifica, biologica. Un’assurdità, insomma. In effetti è la stessa opinione che matura il professor Fred Jones, idrobiologo dell’ENPI – l’ente inglese per la tutela e lo sviluppo del patrimonio ittico nei fiumi. Lo pensa fin da subito, ne andrebbe peraltro del proprio onore scientifico imbarcarsi in una assurdità del genere e non lo ritiene proprio il caso, dato che pure la vita privata non gira certo nel migliore dei modi – Mary, la moglie, è una donna in carriera alla quale prospettano un prestigioso trasferimento all’estero che lei decide di accettare subito, palesando così la fragilità del rapporto matrimoniale con Fred, probabilmente fin dall’inizio mancante di autentico amore e semmai soprattutto conveniente e “funzionale” ad entrambi. Una crisi matrimoniale in piena regola, insomma, durante la quale il professor Jones, gioco forza costretto dai suoi capi a prendere in mano il folle progetto di introduzione del salmone nello Yemen, conosce il fautore dell’impresa, lo sceicco Muhammad ibn Zaidi, ricchissimo yemenita con la passione per la cultura britannica e, ancor più, per la pesca sportiva nei fiumi di Sua Maestà: una persona affascinante, visionaria e spiritualmente assai profonda. Ma, soprattutto, Jones conosce la giovane e bella Harriet, dipendente della società incaricata dallo sceicco di realizzare materialmente il progetto, della quale, stante la sua situazione matrimoniale e nonostante lei sia già impegnata con Robert, un ufficiale dei Royal Marines di stanza in Iraq, ben presto si innamora. Noi seguiremo tutta l’intricata vicenda attraverso quello che è uno dei punti forza del romanzo: la sua particolare struttura narrativa. Il progetto che dà il nome al libro viene infatti raccontato al lettore prima attraverso le pagine del diario personale di Fred, poi dalle lettere di Harriet, poi dalle mail tra Fred e Mary, dallo scambio di mail tra l'ENPI di cui sopra e il Ministero dell'Ambiente e dell'Agricoltura, dalle note del Ministero degli Esteri, da stralci di giornale, dalle lettere secretate di Robert dall’Iraq, dai resoconti stenografici delle Commissioni Parlamentari. Seguiamo il progetto, passo dopo passo, dalla sua ideazione fino alla sua concreta, ma non priva di ostacoli, realizzazione. Un invito, in altre parole, a cercare di dare sempre il meglio di noi stessi, anche quando tutto sembra andare per il verso sbagliato. È comunque ed alla fine un tentativo non solo di dare un senso umoristico al tutto, ma anche di critica sociale (castiga ridendo mores, che, ricordo ai più smemorati, non è una tradizione del latino antico, ma una frase del latinista francese del XVII° secolo, Jean de Santeul). Dalle manie di successo della moglie Mary, agli strani comportamenti di fondamentalisti mediorientali, dalle follie della politica estera britannica ai comportamenti giornalieri di chi quella politica dovrebbe attuarla per il bene della patria. Terminando, realisticamente, con una citazione di Tertulliano che riassume sia il senso del progetto “Salmone” sia quella della vita dei protagonisti: Certum est quia impossibile est (è certo perché è impossibile). Solo nel finale, il nostro Torday si incarta un po’, ma non ci saremmo mai aspettati un lieto fine da tutta la storia. E così sarà, ma non ve ne dico i contorni, ma vi esorto a leggere il libro per scoprirne meglio tutte le sfumature. Vale la pena.
Chaim Potok “Il mio nome è Asher Lev” Garzanti euro 13
[A: 04/01/2014– I: 20/02/2015 – T: 22/02/2015] - &&&& 
[tit. or.: My name id Asher Lev; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 1972]
Altro bello e piacevole libri letto in questo febbraio in cui si è tornati a prendere in mano non dico dei classici, ma sicuramente dei libri sapienti, sempre sotto la guida delle scrittura delle mie libropeute di “Curarsi con I libri”. Ed altro libro che, praticamente, si svolge come una potente biografia, anzi auto, visto che viene narrato in prima persona appunto da Asher Lev. Un ebreo, come dice chiaramente il nome. Non solo. Un ebreo chassidico, seguace dei dettami del riverito (e forse santo) rabbino polacco del 1700 Israel ben Eliezer. Ed anche di più, perché scritto da Herman Harold Potok, che assunse lo pseudonimo di Chaim (che significa “vita” in ebraico) e che, oltre ad essere uomo di lettere, fu anche un rabbino statunitense (fu, che purtroppo morì di tumore nel 2002 all’età di 73 anni). Forse più noto per il suo primo libro (“Danny l’eletto”) che io non ho letto, Potok imbastisce qui una trama forse scarna di avvenimenti, ma piena di interrogativi intellettuali, quelli che bene o male hanno fatto da corona a tutta la sua vita. Al centro il contrasto, forte ed insanabile, tra vocazione (o dono superiore) intellettuale e religione. Anche lo scrivere non è tra gli elementi di forza del pensiero chassidico (anche se devo confessare di aver letto di cosa tratti questa corrente ebraica ma di non averla capita fino in fondo), e Potok risolse il suo dramma interiore relegando la scrittura al tempo altro cui non dedicava la sua vita pubblica di rabbino. Qui, con il suo alter-ego Asher Lev, tenta di portare fino in fondo questa contraddizione, provando a vedere cosa succede facendo la scelta opposta. Asher è dotato, fin da piccolo, di una spiccata capacità di disegnare, e per buona parte del libro cerca di descrivere le sue sensazioni visive, il suo modo di cercarne la trasposizione in un mondo bidimensionale (la carta, la tela, i colori; come rendere il freddo del ghiaccio siberiano ad esempio, cercando di far arrivare all’osservatore l’angoscia di chi viene relegato in Siberia come ergastolano per motivi religiosi?). Ma il grande cruccio, il grande dilemma, è che Asher vive all’interno di una comunità chassidica di ebrei fuoriusciti russi, ora residenti a Brooklyn. Dove suo padre è uno dei più stretti collaboratori del capo della comunità. E per la comunità, il padre lavora, viaggia in America, si trasferisce per anni in Europa. Per cercare di diffondere e difendere il credo chassidico. E tutta la sua vita è improntata n questa direzione, così come quella di suo padre e del padre di suo padre. E la pittura non è contemplata come espressione consentita. Non che non si possano dipingere Abramo e calendari sacri. Non è concepita la pittura come espressione dei sentimenti, tanto quanto non sembra possibile o ipotizzabile esprimere comunque sentimenti. Certo, sembra almeno, rispetto ad altri elementi ebraici noti, il seguace chassidico è meno “triste”. Anche la vita è un dono di Dio, e va vissuta con gioia, anche cantando (e spesso si canta durante le festività). Ma la più alta forma di vita è quella dedicata a proteggere gli altri ebrei, a leggere la Torah, ed a santificare le feste, in particolare il Sabato. Asher è stritolato tra il suo dono e l’amore verso il padre. In tutto ciò non bilanciato dalla madre, che vuole bene ad entrambi, ma che non riesce a trovare il modo di farli comunicare. Sarà il capo della comunità a proporre una soluzione, affidando l’educazione a Jacob un membro della stessa un po’ ai bordi, ma che è un grande artista, che ha dipinto con Picasso al Bateau Lavoire (ed io ricordo ancora la bellissima piazzetta Émile-Goudeau a Montmartre). Jacob insegna realmente ad Asher come utilizzare la sua arte, e lo mette in contatto con i mercanti d’arte. Bello è tutto l’apprendistato del giovane, i suoi tentativi. Ed il successo della sua prima mostra, dove la sua comunità non va perché espone dei nudi (vedi sotto il bel commento). Quindi Asher va anche a lungo in Europa, soprattutto a Firenze e Parigi, dove si immerge nei doni dei quadri e delle sculture che vi sono in quantità (stupenda la descrizione della scoperta della Pietà di Michelangelo). Qui fa l’ultimo passo e balzo in avanti. Passo che si preannunciava sin dall’inizio, quando, oltre alla Torah, Asher andava guardando i quadri dei musei newyorkesi, soprattutto quelli della Crocefissione di Gesù. Qui bisogna fare un inciso di carattere storico atto ad una migliore comprensione del racconto: da un lato, ci si narra che il nonno di Asher venne ucciso da un cristiano in tempo di Pasqua, dall’altro non si narra, ma si da per scontato da parte di Potok visto la sua storia personale, come la setta chassidica nacque in un momento di grande fermento religioso nell’ebraismo dovuto alla vicenda settecentesca dei falsi messia Sabbat Zevi e Jacob Frank, e soprattutto della conversione dei frankisti al cristianesimo. Motivo questo che rende l’ebreo chassidico particolarmente sensibile al motivo di Gesù e della croce. Comunque Asher a Parigi dipinge il suo capolavoro, intitolato “Crocefissione a Brooklyn”, dove, inserite in serti crocefiggenti, ritrae tutto il dolore di sua madre, di suo padre ed anche suo per tutti i contrasti personali e religiosi avuti nella loro vita. Il quadro avrà un enorme successo nella mostra di Asher Lev, ma segnerà la rottura definitiva con il padre, ed il suo esilio in Francia da parte della comunità. Che rispetta il dono, ma solo lontano da sé. In fondo, ripensando al libro è quasi più denso di cose rispetto a come mi era scorso sotto gli occhi. Ma tutto, e Potok lo rende magistralmente, all’interno di quel conflitto, in cui Asher sente di avere il dono, ma non se la sente, non vuole, (e non lo farà) allontanarsi dalla religione e dalle pratiche chassidiche. Un bel libro di idee, ben scritto, che pone domande. E quando un libro fa riflettere raggiunge un altro dei suoi nobili scopi. Bello, infine, lo scorrere della Storia in sottofondo, che il nostro pittore nasce nel 1943, e percorre, da ebreo, tutti gli avvenimenti di 25 anni di storia (la rinascita post-bellica, la morte di Stalin, l’ascesa di Kennedy, fino all’alluvione di Firenze). Insomma, un libro da leggere e da discutere.
“È un uomo testardo. Essere testardi è allo stesso tempo una debolezza e una forza.” (235)
“- Asher, sono tuo padre, sono un uomo sufficientemente intelligente. Dimmi qual è la differenza tra una donna nuda ed un nudo. – Una donna nuda è una donna senza vestiti. Un nudo è una visione personale dell’artista di un corpo senza vestiti.” (258)
Henri-Pierre Roché “Jules e Jim” Adelphi euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[A: 01/02/2014– I: 07/03/2015 – T: 09/03/2015] - &&& e ½
[tit. or.: Jules et Jim; ling. or.: francese; pagine: 245; anno 1953]
C’è qualcuno che non ne ha mai sentito parlare? O qualcuno che, almeno, non ha visto o sentito parlare del bellissimo film che ne ha tratto Truffaut? Poiché sono certo che almeno una delle due domande abbia risposte positive, comincio subito con dire che, al fondo, non è che mi sia piaciuto tanto. Una scrittura interessante, forse un po’ troppo distaccata (si dice quasi come uno che scrivesse per sé e non volesse essere letto). Una storia che, dopo un inizio scoppiettante, si trascina per 2/3 del libro aspettandone l’ovvia conclusione. Però, nonostante tutto, è un libro che regge i suoi anni, e questo (scusate se è poco) mi sembra un grande pregio, soggettivamente. Abbiamo quindi tre linee da seguire, per capire e gustare tutto ciò: la vita, il film, il libro. Nella vita c’è appunto l’autore, critico d’arte ed amico di artisti da Picasso a Duchamp, dalla vita si direbbe “bohémien” spesa per molto tempo (dai 20 ai 40 anni) a Montparnasse, che nel 1910, trentenne, fa l’incontro clou della sua vita con il tedesco Franz Hessel, scrittore. Con lui condivide letture, amicizie, e soprattutto donne, che i due si scambiano spesso e volentieri. Nel ’13 Franz sposa Helen, da cui avrà due figli (Ulirch e Stéphane, di cui ricordiamo il secondo per essere stato eroe della resistenza, politico sempre impegnato ed autore di quel libro, tramato e di successo, che scrisse a novanta anni “Ribellatevi!”). Dopo la Guerra, Roché raggiunge a Monaco i coniugi Hessel instaurando quel rapporto a tre che sarà la base del libro. Intanto Pierre si sposa con Germaine nel ’23, continua la sua vita libertina con Helen e Franz, vive con la sua amante Denise da cui nel ’31 avrà un figlio. Nel ’33 rompe con Helen, e si allontana dai tedeschi, pur continuando ad aver cura dei due figli di lei. Nel ’41 in un campo di internamento muore Franz. Nel ’59, durante la scrittura della scenografia per Truffaut muore anche Roché. E solo nel 1982, a 96 anni, muore Helen. A seguito della scomparsa di tutti i protagonisti, Stéphane rivelerà la vera storia di “Jules e Jim”. Intanto nel ’61 Truffaut aveva girato il film che si incentra sul triangolo Jules (fatto diventare austriaco), Jim e Catherine (interpretata da una stupenda Jeanne Moreau). A parte gli aspetti peculiari del film stesso (capostipite di quella “Nouvelle Vague” che si andava formando in Francia), ci sono momenti epici (la presenza di 13 quadri di Picasso, ad esempio). Ma pur tacendo tutta la parte “non triangolare” della vicenda, ci si appassiona al prendersi e lasciarsi, al vivere la vita fino in fondo. Nel film, Catherine ha una figlia, ma il dramma della coppia impossibile ricalca abbastanza il libro. Di cui ora parliamo, che, appunto, ha altro, rispetto alle due espressioni precedenti. Ha una prima parte in cui assistiamo alla vita parigina di Jim e Jules, delle loro discussioni al caffè, delle loro amanti, e degli scambi amorosi, quasi a vivere una omosessualità latente attraverso il corpo della donna. Poi irrompe sulla scena Kathe (questo il nome nel libro, diverso dal film e dalla realtà). Di cui lo schivo Jules, sempre perso nei suoi libri ed alla ricerca di un rapporto “perfetto”, si innamora perdutamente. Ed avverte Jim “Non questa, Jim!”, intendendo che Kathe è solo sua. Tanto che la sposa, fa con lei due figlie, e tornano a vivere in Germania. Lì, dopo la Guerra, li raggiunge Jim. Kathe, irrequieta e vitale, non si può accontentare del troppo rilassato Jules. Ha avuto amanti, è andata e venuta dalla casa familiare. Ora, con Jim, ha il suo colpo di fulmine. Instaurando così un rapporto multiplo, in cui lei e Jim vivono “more uxorio”, e Jim e Jules continuano le loro peripezie mentali ed intellettuali. Ma anche Jim è un irrequieto. Pur amando totalmente Kathe, non rinunzia alle sue amanti parigine. Amanti solo nel corpo, che la testa ed il cuore sono di Kathe. Jules ormai si ritira sempre più sullo sfondo, così come le due figlie che non saranno mai un ostacolo alla vita libera di Kathe. Lei e Jim viaggiano, girano l’Europa, costruiscono una casa sul Baltico dove non andranno mai ad abitare. E mentre nella vita tutto si brucia nel giro di pochi anni, qui le storie si dilatano, i personaggi diventano simboli che inglobano altre vite ed altri scenari. La storia di base e le sue domande, però, sono sempre lì: quanto si ama, chi si ama, come si ama, cos’è l’amore, cos’è il rapporto tra le persone, dove finisce l’amore e rimane l’amicizia. E quando Jim confessa di voler sposare la sua nuova amante Michéle, comprendendo Kathe che ormai è tutto inaggiustabile, si arriva al dramma finale. Kathe lancia a folle velocità l’automobile nella quale con Jim sta costeggiando la Senna, e senza frenare si getta nel fiume, dove morranno insieme. Jules, dalla riva, assiste impotente al disastro. Roché sembra alla fine trasfigurare la rottura (quella del ’33) in una morte irreale ma concreta (non a caso in quegli anni lo scrittore intratteneva una fitta corrispondenza con Freud). Le molte domande del libro, nella vita e nel film sono risolte in modi diversi, come avete capito. Che nella vita, le strade andranno avanti, anche oscillando da rapporti singoli e multipli. Nel film Truffaut sembra invece volerci dire che l’unica via di salvezza è la coppia. Certo ci può essere liberalità, sensualità, ed altro, ma ad un certo punto si arriva davanti ad una barriera che si può passare da soli o al massimo in due. Il libro adombra tutto ciò, ma la parte migliore non è quella che poi Truffaut ben tratta nel film, ma tutto quel susseguirsi di prendersi e lasciarsi, i bagni nudi sulle rive dell’oceano, i balli a Parigi, le notti in soffitta a Montparnasse, la gita a Venezia, il sorriso greco ad Atene, l’isoletta sul Baltico, i treni fumosi che vanno in giro per l’Europa. Ma il libro non è riuscito pienamente, ha bisogno delle altre due gambe (la vita e il film) per essere gustato. Ancora un triangolo, ovviamente!
“Non perdonerò mai a una donna di amarmi così come sono.” (39)
“Il tempo passava. La felicità si racconta male. Si logora anche: e non ce ne accorgiamo.” (194)
“Se si ama qualcuno, lo si ama così com’è. Non si desidera influenzarlo, perché, se ci si riuscisse, non sarebbe più lui. Meglio rinunciare all’essere che si ama che cercare di modificarlo.” [notate la differenza tra il pensiero di Jules all’inizio della storia ed alla fine] (196)
Gabriel Garcia Márquez “La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata” Mondadori euro 8,50
[A: 05/08/2014 – I: 11/03/2015 – T: 13/03/2015] - & e ½    
[tit. or.: La increibile y triste historia de la candida Eréndira y de su abuela desalmada; ling. or.: spagnolo; pagine: 119; anno 1972]
Sono sicuro che se avessi letto prima questi racconti, non avrei affrontato i “Cento anni” con lo stesso piglio, e letti con lo stesso piacere. Perché questi sono racconti, e già si sa che mi pongo verso questa forma espressiva sempre in forma problematica. Sono poi intrisi di quel realismo magico, come viene chiamato, di cui sono pieni gli scrittori ispano-americani. Ed anche qui io mi trovo in difficoltà. Non trovo qui, se non elementi postumi di quelle costruzioni cui mi aveva assuefatto la famiglia Buendía. Né tanto meno quelle dosi di vita descritta e partecipata, come poi mi avrebbe entusiasmato la tarda lettura di “Cronaca di un naufragio”. Infine, purtroppo, il libretto Mondadori non è corredato da note ed esegesi, come altri libri dello scrittore colombiano, per cui ci si trova davanti al testo, anzi ai testi, con la sola indicazione dell’anno di scrittura. Che almeno mi ha dato una chiave di lettura. Qui infatti, abbiamo 7 racconti, di cui i primi 6, brevi, sono precedenti a “Cento anni”, mentre solo l’ultimo, quello del titolo (e non a caso) è posteriore (scritto nel 1972, mentre ricordo che il suo capolavoro è del 1967). Dicevo non a caso, perché la triste istoria è quello che solo si salva dal naufragio annunciato degli altri. Dove abbiamo un vecchio (forse un angelo anziano) che cade con le sue grandi ali in un villaggio di mare. Un mare che profuma di rose e porta disgrazie. Un morto annegato bellissimo e grandissimo. Una nave fantasma che il ragazzo incredulo porterà definitivamente a naufragare. Un venditore di fumo e la sua storia di raggiri narrata dal suo allievo, e poi carnefice. Nonché (e forse l’unico che un po’ si stacca dai precedenti), la fine anch’essa annunciata di un senatore sulla via della morte per tumore ed il suo ultimo sprazzo d’amore. Rispetto a questi, che non vanno mai oltre le dieci pagine, piene sì di descrizioni, ma che, a me, non prendono, la candida Eréndira ha un piglio più complesso e più partecipato. Si sente che Aureliano è passato sotto i ponti, e che la penna di Gabo è più scorrevole ed incisiva. C’è lei, giovane, bella e “cenerentolata” dalla nonna tiranna. Anzi, come dice il titolo, crudele (o “senza cuore”). Nonna un tempo bellissima, sposata al contrabbandiere Amadìs, ricca di casa e di altre scorie della vecchia stagione avventurosa. Con Eréndira che la serve in tutto e per tutto. Peccato che la piccola si dimentichi candele accese, che un colpo di vento notturno potano a bruciare tutti i beni della nonna. Che decide di farseli ripagare sfruttando il corpo della giovane. Insomma, vendendolo a pochi pesos qua e là per il paese. Assistiamo al girovagare, al degrado, alla lotta con le istituzioni (soprattutto la chiesa) che vogliono portar via la giovane per sfruttamento minorile. Ed altre imprese minori, che hanno però la fantasia di coinvolgere elementi delle mini-storie precedenti. Abbiamo così un olandese che forse ha perso le ali da giovane. Abbiamo un senatore che scrive una lettera di raccomandazioni per la nonna. Abbiamo il venditore di fumo che si sbraccia nella piazza accanto al tendone dove la nonna vende il corpo di Eréndira. Non manca poi il giovane Ulisse che si innamora della nostra bella ragazza. E tenterà di salvarla dalla nonna, cercando in molti modi di ucciderla (con bombe e con veleni) senza riuscirci. Tanto che Eréndira si spazientisce non poco. E quando finalmente Ulisse riuscirà nel suo intento, ma solo con il pugnale, Eréndira, finalmente liberata, fuggirà anche da lui. E se ne andrà verso il mare. Mare che ritorna, bene o male, in tutti e 7 i racconti, quasi fosse una calamita che attira la penna di Gabo, lui che nacque là sulla Sierra colombiana, che vedeva il mare laggiù, a pochi, ma irraggiungibili chilometri. Ed in questo racconto troviamo anche un legame ideale con “Cento anni”, dove, se ricordate, ad un certo punto Aureliano Buendía entra sotto la tenda di una mulatta adolescente costretta a prostituirsi per ripagare alla nonna i danni di un incendio. Non ho però trovato altri stimoli, altre voglie di far girare le poche sinapsi rimaste. Preferisco Gabo, lo ribadisco e lo sottoscrivo, quando si avventura in storie più complesse. Vedremo cosa ci riserverà il mio futuro di lettore.
Finito ormai è anche questo Agosto. E finiti i viaggi, dove invece si sperava di partire ancora. Ma gli oscuri alchimismi di Avventure hanno cancellato il prossimo augurabile viaggio. Per cui non si parte, e si cerca di consolidare l’andamento casalingo (ahi, quanto si dovrà sudare, e non solo per il caldo). Allora, prodromi di un settembre felice, saluto tutti.

domenica 23 agosto 2015

Banana ed altro - 23 agosto 2015

Tornato dall’ottimo, ed impagabile, giro nel Baltico, eccoci che si ritorna ad alcune certezze e a molti amori. Banana è da sempre una costante, e qui, pur nella sua brevità, rimane all’altezza delle mie aspettative. Che invece sorpassa, seppur di poco, la Taylor di Angel, e invece di molto e con merito lo strano libro di Jennifer Egan (leggetelo).
Banana Yoshimoto “Andromeda Heights. Il Regno volume 1” Feltrinelli euro 11
[A: 12/02/2015– I: 23/02/2015 – T: 14/02/2015] - &&& 
[tit. or.: Ōkoku. Sono 1. Andromeda Heights; ling. or.: giapponese; pagine: 100; anno 2002]
Banana Yoshimoto “Il dolore, le ombre, la magia. Il Regno volume 2” Feltrinelli s.p. (regalo di Ale)  
[A: 25/12/2014– I: 15/02/2015 – T: 16/02/2015] - &&& 
[tit. or.: Ōkoku. Sono 2. Itami, ushinawareta mono no kage, soshite mahō; ling. or.: giapponese; pagine: 100; anno 2004]
Non posso che tramare insieme questi due libri dell’esimia Banana, sia perché sono legati tra loro, sia perché sono entrati nella mia libreria anche loro in modo congiunto. Ale, sapendo la mia passione per le delicate atmosfere della ormai cinquantenne giapponese mi ha regalato il secondo volume della quadrilogia “il Regno”. E come potevo io, prima di intraprendere la lettura del secondo, non comperare e leggere il primo? Idea ovviamente vincente, che gran parte delle atmosfere del dolore e della magia avrebbero avuto poco senso senza conoscere gli antefatti descritti in Andromeda. Complessivamente, mi sembra che l’idea della scrittrice sia quella di imbastire una saga sul corretto rapporto tra uomini, e tra uomini e natura, in armonia e senza prevaricazioni. Ci introduce quindi nella saga della giovane Shizukuishi (che non si capisce perché la quarta di copertina si ostini a chiamare Yoshie), e nei drammi della sua inurbazione, dopo una giovinezza vissuta (felicemente anche se duramente) in montagna. Per agnizioni e rimandi scopriamo quindi la storia della sua vita. Prima di tutto l’assenza di genitori: non si sa se siano esistiti, e che funzione hanno avuto (oltre alla procreazione). È presente invece la nonna, di cui, tuttavia, non abbiamo molte notizie dirette, se non che ha un feeling speciale con le piante e con la preparazione di tè curativi. Le due vivono fuori di rotte trafficate (in campagna, ai piedi di un qualche monte), ma vengono visitate, spesso e con successo, da tutte le persone che hanno bisogno di cure. La nonna li guarda, li ascolta, e poi prepara una mescolanza sapiente delle sue erbe. Mai direttamente, ma nel corso di questi due primi volumi, vediamo come la gente si ristori dalla nonna, o ne prenda i medicamenti dell’anima. E quanto affaristi senza scrupoli tentino di appropriarsi del suo commercio, di coinvolgerlo in contesti industriali. Ma le piante non resisterebbero a colture intensive, o a mono culture. La vita in campagna è faticosa, senza distrazioni, alzarsi presto, andare alla ricerca delle erbe, la loro coltura, ricevere la gente, andare a letto stanchi ma appagati. Niente televisione (e vedremo che ha un senso). Niente richieste ai “malati”: daranno quello che possono, commisurato alla riuscita delle tisane. La “sinistrosa – ambientalista” Banana introduce così il concetto di armonia con il creato. Non abbiamo bisogno di accumulare denaro, ma solo di essere ricompensati il giusto per quello che facciamo, e per avere il sostentamento per continuare a farlo. Non ci sono negozi, lì in campagna, sono così vicini e clienti che portano alle due “maghe delle erbe” quanto serve loro per vivere. Tuttavia l’opera dell’uomo interviene a modificare il quadro della natura. Cambi di colture e disboscamenti fanno depauperare la montagna. La nonna cerca di mantenere i suoi cactus per continuare colture e cure. Non ci riesce. Deve così considerare un cambio di vita. E radicale: decide di andare a vivere con un coetaneo cui corrispondeva via mail. In tutt’altri luoghi, trasferendosi con lui a Malta, dove coltiva i suoi cactus mentre lui insegna inglese a giapponesi in transito. Shizu decide allora di trasferirsi in città (Tokyo?) dove affitta un appartamento, ci si installa con i suoi cactus, e cerca di capire come vivere in città. Con i rapporti mutati, con la differenza di essere immediatamente a contatto con le persone (e di continuo). Ci vorrà tempo e spazi aperti per affrontare questa nuova vita. Diventa amica dei gestori di una “izakaya” (un ristorante informale) dove trascorre la maggior parte del tempo. E che la indirizzano verso il sensitivo Kaede. Un ipovedente che, al contatto di persone e oggetti “vede” passati e presenti, rilasciando magie alle persone che vanno a consultarlo (descrive situazioni, ritrova oggetti, suggerisce comportamenti). La nostra entra subito in sintonia con Kaede, e ne diventa la fedele assistente. La sua natura è sempre quella di essere complementare a qualcuno che ha un dono. Mai in prima persona, ma aiutando a compiere le diverse attività. L’unica particolarità di Shizu è la capacità di “sentire l’odore” delle persone. Per questo sente il buon odore di Kaede, anche se non è l’odore dell’amore, ma dell’ammirazione e dell’amicizia. E sente l’odore di Shin’ichirō, l’uomo che cura i cactus al giardino botanico, un odore pulito, forse vicino a quello dell’amore. E con lui comincia una “storia clandestina” come dice lei, che lui è sposato (infelicemente), e loro si incontrano in cui “lonely hostel” che abbiamo visto in Giappone (ricordi Ale?). E l’odore cattivo dei nuovi vicini di casa, che porteranno tanti guasti nella sua vita. Infatti, dopo ubriacature e liti, si massacrano a vicenda, riducendo in cenere il loro appartamento e quello di Shizu. Fortuna che molti suoi cactus li aveva trasferiti da Kaede. Ma altri non si salvano. Piccole riflessioni, allora, sulla vita e sulle sue complicazioni. Intanto Kaede decide di trasferirsi temporaneamente a Firenze con il suo amante – manager Kataoka (meglio vivere all’estero per due gay timidi, forse?), lasciando così il suo appartamento alla ormai senza casa Shizu. Da questi antefatti, prende il via il secondo libro, che è sempre più una riflessione della nostra eroina che una racconto di “avvenimenti”. Con una crasi della pur eccellente traduzione di Gala Maria Follaco, il dolore del titolo viene privato della “perdita di ombra e magia”, unendo i tre termini solo da virgole. Certo, il dolore è il filo rosso di tutta l’opera. Dolore per le perdite, per il modo di vivere degli uomini, per la mancanza di rapporti. Mancanza che la nostra Shizu ci mostra in modo palese e duro nel suo rapporto con la televisione. Mentre nel primo, come detto, questa non c’era, ora lei ne vince una in una lotteria. Ed una volta accesa non riesce più a staccarsene, come una droga che ne taglia i ponti con il resto dell’umanità. Una bella descrizione, che faccio mia proprio per la mia mancanza di apparecchi TV, e che con una difficoltà infinta alla fine riesce a superare. Ma solo dopo una lunga mail della nonna da Malta, ed una foto della Venere di Malta (statuina piccola e delicata del Museo Archeologico). Che Shizu convincerà a visitare anche a Kaede e Kataoka (unitamente ai bellissimi e da me sempre ricordati dipinti di Caravaggio nella cattedrale di San Giovanni a La Valletta), facendo in modo che “i suoi amori” all’estero si conoscano e ribadiscano la sua centralità per loro. Si perdono le ombre, anche. Ad esempio nel rapporto con Shin, che questi (senza dirglielo) finalmente riesce ad approdare al divorzio. E a continuare su di un piano uguale ma diverso il suo rapporto con Shizu. Forse anche la magia si attenua, anche se l’amore per i suoi cactus rimane sempre, come rimane sempre la sua capacità di creare tisane e beveraggi per le persone a lei care, e per farle entrare in sintonia. Come detto, un secondo volume in cui è tutto un susseguirsi di sue riflessioni, e dove le azioni sono ridotte al minimo. Qualche accenno alla vita maltese della nonna, i rimpianti (ma neanche tanto profondi) per non sapere nulla del suo passato familiare, un ritorno veloce di Kataoka, dove, finalmente, loro due riescono ad instaurare un rapporto non conflittuale, mostrando e rivelando vicendevolmente i lati migliori di loro stessi. Le passeggiate per le strade piene di negozi, che inducono riflessioni sulle diversità tra città e campagna, dove, forse un po’ idilliacamente, Shizu pensa alla felicità di camminare tra la gente e di avere con loro “rapporti e scambi”. Come la descrizione, breve ma intensa, del vecchio pescatore e della sua capacità di riversare verso gli altri le sue conoscenze in fatto di pesci e del modo di cucinarli. E riprendere questo rapporto nel finale, con il vecchio ormai andato, ma con nipote che riprende la tradizione, e riprende il discorso con Shizu mentre questa si preparare ad organizzarsi una cena con oden, udon, wasabi, sashimi, e chikuwabu (vedi in coda per la descrizione della cena). Certo la nonna continuerà a stare a Malta (ma forse nei volumi successivi Shizu l’andrà a trovare?). Mentre Kaede e Kataoka tornano a Tokyo e riprenderanno il modo di vivere, aiutati dalla crescente assistenza di Shizu. E forse Shizu e Shin troveranno il modo di finalizzare il loro rapporto e il rapporto che hanno con le piante. Ma soprattutto Shizu comincia a cambiare dalla chiusura del mondo in campagna alle aperture del mondo cittadino. Con la speranza di riuscire a creare nuovi modi di stare. Vedremo. Per ora continua il modo delicato di scrivere di Banana, a volte forse etereo. E pur tuttavia delicato, e capace di far uscire delle piccole frasi che suonano e risuonano. Non sono libri che stravolgono la vita, ma con umiltà portano acqua al loro mulino. A me danno materie di riflessioni. E non è poco.
“La montagna ci ha sempre donato qualcosa, eppure gli uomini non hanno sempre accolto quei doni con umiltà.” (vol. 1, 30)
“Finora mi ero sempre sentito solo e triste, ma con te so che posso continuare a vivere.” (vol. 1, 69)
“Se decido di farlo vuol dire che lo posso fare. Rinunciare significherebbe essere schiavo del tempo. Se si sta con le mani in mano quando si desidera qualcosa, si rischia di non ottenerla più…” (vol. 1, 83)
“Tutti prima o poi invecchieremo, nuove generazioni nasceranno e il tempo farà il suo corso: esserne consapevoli, in fondo, non è poi così male.” (vol. 2, 29)
“Amare significa sentire che ogni istante è irripetibile” (vol. 2, 40)
“So molto bene quanto gli esseri umani possono essere fragili, e capita a tutti, almeno una volta nella vita, di vivere momenti particolari e ritrovarsi aggrappati a qualcosa.” (vol. 2, 58)
“Ogni volta che finisce qualcosa, comincia qualcos’altro. Siamo solo noi a scegliere se vederlo o non vederlo.” (vol. 2, 87)
Queste le indicazioni per la rilassante cena di Shizu. Il chikuwabu è uno degli ingredienti per la versione tokyoita degli oden (piatto composto di una zuppa con vari ingredienti, come uova, radici, alghe, verdure; si consuma, molto caldo, prevalentemente in inverno), con un impasto simile a quello degli udon (pasta lunga di farina di frumento di formato piuttosto spesso), a cui si conferisce una forma cilindrica, prima di cuocerlo a vapore. I sashimi, invece, sono fettine di pesce crudo che si consumano con un intingolo a base di salsa di soia e wasabi (vegetale della famiglia del ravanello da cui si ricava una pasta di colore verde e dal gusto molto piccante).
Elizabeth Taylor “Angel” Beat euro 9
[A: 04/01/2014– I: 13/02/2015 – T: 19/02/2015] - &&&& 
[tit. or.: Angel; ling. or.: inglese; pagine: 300; anno 1957]
No, non è l’attrice dagli occhi bellissimi, ma una bravissima scrittrice inglese del Novecento molto amata in patria, casualmente omonima, e sfortunatamente ormai morta da quaranta anni. Non la conoscevo, e devo dire sempre grazie alla fucina delle cure con i libri se mi fa scoprire nuovi autori, nuovi libri di vecchi autori, ma anche libri che non mi piacciono di autori nuovi o vecchi. Ogni lettura porta sempre con sé qualcosa (e d’altra parte, come non potrebbe essere così, dal momento che ogni viaggio porta con sé qualcosa, e chi legge è un viaggiatore, come sostiene Ale). Ma torniamo alla Taylor. Non fu una scrittrice prolifica (si citano una decina di titoli) e fu anche molto riservata (una sua amica incaricata di scriverne la biografia rinunciò dicendo che non c’erano avvenimenti tali da poter sostenere il peso di un libro). Amata, ed anche qui lo riporto, anche per alcuni suoi libri per l’infanzia. Venendo a questo libro, è una lunga carrellata della storia della vita di Angelica Deverell, detta appunto Angel. La vediamo adolescente che non riesce ad interagire con i suoi coetanei, immaginandosi una vita altra, piena di ricchezza e signorilità, lei che vive in una sperduta campagna inglese, che non ha conosciuto il padre, e con la madre titolare di un negozio di alimentari. Angel si sente diversa, sente che ha un mondo di “lustrini, begli abiti e grandi signore aristocratiche” dentro di sé. E per sfuggire la sua triste vita, decide di scrivere, di mettere sulla carta questo suo mondo sensazionale. Qui scatta la cifra forte della su vita, la sua arroganza infinita, per cui è certa di scrivere i migliori romanzi che possano essere pubblicati. Romanzi sensazionali, ambientati in quel mondo dorato di aristocrazia e fasti di cui lei ha solo immaginazione, ma che ben si attaglia al primo decennio del secolo scorso, epoca in cui parte la vicenda. Trova anche un editore, che gli rimarrà amico per tutta la vita, che nonostante i pareri contrari della sua casa editrice, decide di pubblicarla. Proprio quel suo mondo fantastico, in un mondo che invece sta declinando, le porta quel successo cui lei era sicura di arrivare. Ma ci sarà sempre una crasi fra il suo mondo, la sua vita, ed il resto dell’umanità. La scrittura le porta fama, e soldi, e benessere. Ma i critici considereranno i suoi lavori come assurdi e illeggibili (sottofondo: come fare tanti soldi pubblicando romanzi di genere…). Ed anche la sua vita sarà sempre destinata all’isolamento ed alla delusione. Si compera una prima villetta, dove relega la madre a ruolo di governante, ruolo che porterà la genitrice ben presto verso la tomba. C’è Nora, una giovane che si infatua dei suoi libri, e che prenderà il posto della madre, rimanendo con lei per tutta la vita (quasi presa da un affetto lesbico, anche se mai rivelato). Angel in un primo tempo accetta Nora solo perché sorella di uno scapestrato pittore di cui lei si è invaghita. Non solo, ma Angel ha deciso che lo ama, e, con una serie di trovate strane, riuscirà anche a farsi amare e sposare da lui. Siamo nel momento alto, i soldi sono ancora tanti, e lei compera la grande tenuta di “Paradise House”, il sogno della sua infanzia.  Da qui comincerà la china, di cui lei, nel suo incosciente isolamento interno, per cui legge la realtà solo per quello che si accorda con il suo volere, non si accorgerà mai. Il marito la tradisce, ma lei non se ne accorge. Scoppia la guerra, e lui parte per il fronte, da cui tornerà senza una gamba, sempre più depresso, tanto da morire poco dopo annegato in un laghetto della tenuta. Ma Angel non si accorgerà di nulla, e lo porterà sempre in palma di mano, ripetendo a tutti quanto sia stata bella ed intensa la sua storia d’amore. La guerra porta anche ad un repentino calo delle vendite, e della sua ricchezza, nonostante gli sforzi di Nora di gestire al meglio il poco che entra. Tutti invecchiano, l’editore va in pensione, i suoi libri cadono nell’oblio e la vita a Paradise House si trascina piena di stenti. Senza che lei se ne abbia cura. Ed isolata nel suo mondo dorato, morirà accudita dalla sola Nora, l’unica che sempre le rimarrà vicino. Isolata sempre e comunque, perché gli altri saranno incapaci di conformarsi alla sua visione non realistica della vita. Una figura che ha del grottesco, con punte di patetico e fondi di grande tragicità. Il tutto reso dalla Taylor con una scrittura che ti tiene sempre lì sulla pagina, che non stanca, che ti porta a vedere contemporaneamente queste due facce: la sua realtà e quella di chi gli sta vicino. Ci sono anche alcuni momenti, direi intensamente personali, quando Angel pensa alla sua scrittura, e la confronta con i critici, con accenti che la Taylor avrà senz’altro sentito durante anche la sua, di scrittura. Ma il libro è bello, dolente, e letto con piacere ti da un balsamo per curare le ferite di quando si pensa troppo a sé stessi, incuranti di quanto succede nel mondo.
Jennifer Egan “Il tempo è un bastardo” Minimum Fax euro 18
[A: 04/01/2014– I: 01/03/2015 – T: 04/03/2015] - &&&&& 
[tit. or.: A Visit from the Goon Squad; ling. or.: inglese; pagine: 391; anno 2010]
Mi incuriosì per le citazioni libropeutiche, e per aver vinto il Premio Pulitzer nel 2011. Tanto che decisi di comperarlo senza aspettare edizioni economiche o sconti. Un piccolo inciso sul Pulitzer, che è eminentemente un premio giornalistico, ma che, come sottoprodotto, ha anche dei premi che variano dalla letteratura all’arte ed alla musica; e nella narrativa viene assegnato ad un'opera di un autore statunitense, che tratti in preferenza della vita americana. Chiuso l’inciso veniamo ora al libro, che una volta chiuso, vorrei tornare ad aprire, vorrei tornare ad immergermi nella vita di Benny, di Sasha, di Dolly, e di tutti i personaggi (anche di Lincoln, perché no) di cui la fertile mente di Jennifer Egan ha popolato questo spazio. Un libro magistrale, forse non semplicissimo (pieno di nomi, di rimandi, ed anche di musica, con citazioni neanche tanto scontate). Ma sicuramente un libro che non mi si scollava di dosso. Che inizia tra l’altro con una difficile traduzione del titolo. In italiano ci si rifà al tempo chiamandolo bastardo, come in spagnolo, dove lo si chiama canaglia. Mentre in francese si ceca di svelare un po’ di più chiedendosi nel titolo che cosa abbiamo fatto dei nostri sogni. In inglese, dicevo, è più complicato. Si parla di una visita di una “Goon Squad”, termine ha origine nella metà degli anni '90, dove indica gruppi di teppistelli che venivano assoldati per intimidire, e presto passato ad indicare, nel lato violento, una banda criminale, e nel lato “leggero” un accolita di teppisti. La Egan lo usa per indicare il nocciolo duro da cui si dipartono le storie, una specie di band rock degli anni ’70 in quel di San Francisco, con il suo bassista-manager Bennie (e quanto c’è in lui del grande Bill Laswell?), il suo chitarrista-fenomeno Scotty, il batterista Bosco e le groupie (Jocelyn, Rhea e Alice). Il bello, ed il difficile, della storia è che non seguiamo la band in un percorso temporale sincrono, ma ci vengono sfornati 13 capitoli, che possono quasi leggersi come tredici racconti (ognuno ha un suo sviluppo interno ed una sua coesione), ma che sono legati perché nei racconti entrano ed escono i personaggi della band, ma anche quelli a loro legati, in una specie di Girotondo alla Schnitzler, che, andando su e giù nel tempo, dai mitici anni ’70 a qualche anno del prossimo futuro (ma forse del nostro presente) cerca di sviluppare il tema che ad un certo punto dice uno dei personaggi: come siamo passati da A a B? cioè “com’è successo che da rockstar io sia diventato un ciccione che nessuno s’incula?”. Da qui capite il riferimento del titolo francese. Uno degli assi portanti, che parte dalla band di cui sopra, sarà Bennie, pieno di idee verso la nuova musica che, partendo dal rock puro degli anni ’70 passa per le propaggini estreme, tra canzoni d’impegno e suoni duri (forse heavy metal, forse altro). E per le sue capacità di talent e di manager. L’incontro che farà maturare Bennie è con il divo rock Lou, emblema di tutto il meglio ed il peggio delle star. Sempre pieno di soldi e droga, con famiglie che costruisce e sfascia. E con le storie, cui cambierà la vita, con Jocelyn e, forse, con Rhea. E mentre si imbastiscono i primi tradimenti all’odore di fumo pesante (con Bennie che non si dichiara ad Alice, così che lei si mette con Scotty), per riscattare la sua incapacità di suonare e di amare, Bennie fonda una casa discografica, che avrà un enorme successo nel lanciare nuovi talenti. Qui si inserisce il secondo volano della storia, Sasha, che dopo una gioventù sbandata, trova il suo posto come segretaria di Bennie, raddrizzando le storie che a lui cominciano ad andare storte. Anche se di Sasha sappiamo di più, per una lunga seduta di analisi, in cui scopriamo la sua pulsione cleptomane, ed il breve amore per il giovane e belloccio Alex. Bennie, fatta fortuna, con la moglie Stephanie si sposta nelle zone “in” di New York, dove Stephanie verrà a poco a poco risucchiata e corrotta dallo star system, e dai nuovi ricchi repubblicani. Mentre tentava ancora di avere una sua strada come giornalista al servizio di Dolly, portandosi appresso il fratello giornalista e fuori di testa, che viene condannato a 5 anni per tentato stupro al Central Park di un’attricetta che sta intervistando. La vita di Bennie va a rotoli quando si rifiuta di cedere al mercato (mitica la scena in cui al consiglio d’amministrazione che vuole portare la casa discografica verso facili successi porta a colazione della merda, dicendo “Volete vendere merda? Allora mangiate merda!”), e viene licenziato. Stephanie lo lascia, rifacendosi una vita con gli alimenti, perché nel frattempo lascia anche Dolly, la cui agenzia di promoter va a rotoli per un party sbagliato. Sasha sparisce e la troviamo anni dopo, sposata con Drew, un chirurgo dai buoni sentimenti, vivere ai margini di un deserto con la brillante figlia Alison, maniaca di Power Point (e molto bello è il capitolo fatto tutto a slide) ed il secondo figlio quasi autistico Lincoln, che cerca nei dischi le pause di silenzio (e ne fa una disamina acuta e coinvolgente analizzando David Bowie ed i Led Zeppelin, i Police e Jimi Hendrix). Dolly cerca di risalire la china facendo la promoter per un generale sudamericano in odore di massacri civili, coinvolgendo in un servizio fotografico l’attricetta dello stupro al Central Park. Ma anche questo andrà a rotoli, e lei si ritirerà in campagna a fare torte artigianali. Bennie tocca il fondo, poi trova nuovo sprint in un nuovo matrimonio, e nell’idea (vincente) di lanciare un concerto live del vecchio Scotty, rimasto sempre nell’ombra, ma sempre fedele a sé stesso. Anche se ormai imbolsito (come da citazione di cui sopra). E per il lancio usa come elemento di spinta Lulu, la figlia di Dolly che riesce a convincere Scotty a salire sul palco, e Alex (l’amore di Sasha sempre di cui sopra), anche lui sposato e con figlio piccolo. Ad un certo punto c’è anche una riunione di (quasi) tutti a casa di Lou, per assisterne gli ultimi istanti di vita. Con gli echi di chi ricordava la stessa casa, trenta anni prima, piena di tutti altri fermenti ed altri suoni. Io ho ricostruito la storia lineare perché mi piaceva fare così, ma come detto, la scrittrice riesce a farne una storia che va su e giù nel tempo, durante la quale siamo noi a dover ricostruire i pezzi saltati o accennati. Perché invece lei, nella sua circolarità, inizia con la mini-storia di Sasha e Alex, e finisce con Benny e Alex che vanno alla vecchia casa di Sasha, senza sapere della di lei nuova vita. Succede anche molto altro che tralascio per brevità e curiosità. Ribadendo il piacere della lettura, gli stimoli cultural-musicali che propone. E ritornando alla domanda su come abbiamo fatto, anche noi, a passare da quell’A che eravamo al nostro B attuale. Domandandoci anche com’è che, dentro, spesso, non ci sentiamo diversi, anche se tutto intorno a noi ci dice il contrario. Una bella lettura assolutamente da consigliare (e non preoccupatevi di ricostruire le storie come fa il vostro amico maniaco ma godetevele e rimanete sempre su quella domanda). Buona lettura.
Sebbene siamo quasi alla fine del mese, non posso comunque esimermi dal solito allegato della seconda settima. E per combinazione dei casi si parlerà di mangiare, e con uno scrittore caro ai luoghi nordici appena visitati. Leggetene, vi consiglio.
Siamo tutti ormai sulla via dei ritorni. Da Europe, da Americhe, da Afriche. E ritorna anche chi no si è mosso. Per i miei amici agostani, un augurio di buon compleanno (sia a quelli che hanno già festeggiato, si a chi festeggerà tra breve). Per altri, forse, ci saranno anche nuove partenze.
Aspettatevi delle sorprese, amici miei.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

AGOSTO 2015
Beh, credo sia un bell’argomento da affrontare ad Agosto, anche se rovesciato. In genere, si tende a mangiare di più, ad ingrassare, in questo mese feriale. Ma qui si parla invece di non mangiare per tutta una serie di ragione che analizzeremo con calma.

Fame

Knut Hamsun        Fame
In quei giorni in cui vi aggirate, affamati, per una strana città che nessuno abbandona prima che abbia  asciato il segno su di lui; quando vi domandate, per la forza dell’abitudine, che cosa potete aspettarvi di quel giorno; quando vi accorgete di non avere una sola corona in tasca, allora è il momento di ricorrere a Fame di Knut Hamsun. Questo romanzo vi darà tanta energia che riuscirete a vedere tutto nei minimi dettagli e con grande chiarezza, e non avrete alcun dubbio sul fatto che l’appetito del corpo deve essere soddisfatto, ma che la nobiltà dell’animo è oltremodo più importante Se solo poteste sedervi e scrivere un trattato di filosofia, un articolo in tre parti da vendere al giornale per, diciamo, dieci corone; se solo vi sedeste a scriverlo su una panchina, al sole, allora avreste i soldi per un pasto decente. Oppure, in alternativa, potreste impegnare giacca e gilet, per una corona e cinquanta Øre. Ricordatevi però di non lasciare la matita in tasca, come fa l’anonimo eroe del romanzo di Hamsun, perché allora non riuscireste mai a scrivere il saggio, che non solo vi farebbe guadagnare dei soldi, ma aiuterebbe i giovani della città a vivere in modo migliore. Ovviamente, però, la giacca l’avete solo impegnata, perché ormai vi stava un po’ stretta; la riprenderete di sicuro entro pochi giorni, quando il vostro articolo sarà pubblicato. Allora potrete dare finalmente qualche corona a un uomo per strada con un fagotto in mano che non mangia da parecchi giorni e che vi ha fatto piangere. Certo, nemmeno voi avete mangiato, e il vostro stomaco non riuscirà più a trattenere il cibo perché è rimasto vuoto per troppo tempo. Ma non dimenticate che avete lasciato una banconota da dieci corone che pensavate non fosse vostra alla venditrice di torte, gliel'avete messa in mano e lei non capiva perché: ora forse potreste andare alla sua bancarella e chiedere qualche torta che, diciamo, avete pagato in anticipo. La polizia potrebbe arrestarvi perché siete in giro la mattina presto e non avete un posto - e, in quel caso, cosa potreste volere più di una cella, asciutta e pulita? Ovviamente la polizia crede alla storia che siete un uomo di buon carattere e saldi principi, che è rimasto semplicemente chiuso fuori e in casa ha un sacco di soldi. Potete far tesoro di questa esperienza e raccontarla nel prossimo pezzo che venderete al giornale e che potrebbe fruttarvi addirittura quindici corone; naturalmente, c’è pure un tocco di commedia, basta solo riuscire a finire l’ultimo atto. Se riuscirete a pubblicarla, non dovrete più preoccuparvi dei soldi. Prima, però, conoscerete la gioiosa follia della fame cronica e non soffrirete più nemmeno a stomaco vuoto.

Bugiardino

Ne scrissi più o meno un anno fa, e ne uscii in modo controverso. Vediamone ora, anche alla luce di quanto sopra esposto.
Knut Hamsun “Fame” Adelphi euro 10
 [pubblicato il 6 luglio 2014]
Il recupero di un classico: come scrittore e come scritto. Un libro che per molto tempo è stato nelle mie liste mentali di acquisto, ma che non trovava spazio per più urgenti e presenti letture. Sotto la spenta del mai troppo lodato Curarsi di Otto e Ale, ho deciso di prenderlo, e di leggerlo. È un libro datato, ovvio, visto che è stato scritto quasi 125 anni fa. Ha pur tuttavia una forza espressiva, descrittiva e narrativa non indifferente. Intanto pensiamo allo strano autore, che lo buttò giù di getto a 30 anni. Knut era uomo dai mille mestieri e dai diecimila vagabondaggi. A vent'anni aveva già varcato l’oceano per una lunga permanenza in America. In questo libro riversa molta del suo vissuto giovanile, esaltato dalla scrittura ma intrinsecamente povero, sempre alla ricerca del modo di sbarcare il lunario. Altro dato interessante è la scrittura stessa: prima di Joyce e molto prima di Proust, una sorgente quasi di “flusso di coscienza” che riempie le pagine delle idee, delle azioni soggettive, dei pensieri di questo giovane norvegese, girovagante per le strade e per le case di Christiania (questo il nome di Oslo fino al 1924) in cerca di qualcosa da mangiare e nell'intento di scrivere qualsiasi cosa che possa essere vendibile e sollevarlo dall'indigenza. Il romanzo è tutto lì, concentrato in un ristretto spazio temporale, e scandito da quattro lunghi capitoli, all'interno dei quali il nostro percorre un’altalena, spesso analoga come andamento, ma diversa (ed angosciosa) in ogni passo. Ogni capitolo comincia con questa grande fame, tanto che il libro è grondante di fame dalla prima alla penultima riga (poi vi dirò perché non ultima). E lui gira, pensa, si industria nella scrittura, impegna abiti, cerca conoscenti cui magari ha prestato denaro a sua volta (e non li trova mai), si rivolta contro il Dio che come a Giobbe gli da tante prove da sopportare. Ed ogni volta la discesa verso l’indigenza pura è sempre più forte e sempre con meno speranza di risalita. Tanto che si industria a succhiare pezzi di legno prima, ed anche sassolini poi per placare la fame. Ed intanto, come detto, scrive. E nei primi due capitoli, inaspettatamente, alla fine riesce a vendere un articolo, un brano, qualcosa ad un giornale, che gli viene pagato. E con le cinque corone riesce ad andare avanti un altro po’. Il suo è comunque un girovagare folle, allucinato, fa cose strampalate. Segue una signorina inventandosi storie e storielle. Ed ovviamente quella, pagine dopo, si ricorderà e sembra che si possa innamorare del folle giovane. C’è una timida scena di quasi sesso, che si ferma molto al di qua (si adombra forse la visione di un seno). Ma il giovane, cui la carenza di zuccheri da cibo fa sproloquiare, non può che allontanarsi dalla giovane. Oltre al cibo, costante è anche la ricerca di un riparo per la notte. Quando ha qualche spicciolo riesce ad affittare, anche se per poco, stanze o ripari vari. Al verde, cerca di farsi ospitare. Una notte la passa anche in prigione (con la scusa che ha perso le chiavi di casa). Insomma, inventa di tutto. Ma sempre al di qua della legge. Non ruba mai, anzi quando si trova inaspettatamente dei soldi, li scialacqua subito. Vuoi per concedersi una suntuosa bistecca (ma non avendo mangiato per giorni, il cibo improvviso non potrà che farlo vomitare). Vuoi per dare elemosine, come se fosse un signore. Vuoi per pagare più del dovuto la sua affittacamere, che lo aveva trattato sgarbatamente. E lui, altero, le dà tutti i soldi ricevuti in regalo dalla signorina di cui prima, per poi andarsene via, senza un soldo, senza una casa, senza un cibo sotto i denti. Quando ha due panini, ne regala uno ad un ragazzo che piange. Ma la girandola dei capitoli si fa sempre più difficile, sempre più difficile trovare anche una corona. Che la sua vena di scrittura, l’unica a sorreggerlo, sembra si inaridisca. Per poi terminare, come nella sua vita di cui scrissi sopra, per imbarcarsi su di una nave, senza un soldo in tasca e senza una meta in testa (questa l’ultima e diversa riga). Due sono infine i motivi per cui alla fine non riesco a dargli che 4 libricini su 6. Il primo è legato al testo, che alla fine forse diventa appunto ripetitivo con questa ciclicità di alti e bassi. E con l’incapacità del giovane di spezzare il cerchio che lo avvolge. Il secondo è invece di contesto, che poi (ma dovrò approfondirlo) nella sua lunga vita, anche se nel ’20 riceve il Nobel per la letteratura, lo strambo Hamsun si lega al partito nazista, tanto da subire un processo nel ’48 per queste sue simpatie. La materia è controversa, e non c’è spazio (né conoscenza mia) per andare oltre. Ma nella mia testa è un punto nero che non si cancella. Tuttavia devo riconoscere che quando descrive la sua fame, mi fa venire una stretta allo stomaco. D’angoscia.
“Così ero fatto, all'occorrenza pagavo fino all'ultimo centesimo.” (181)

Conclusioni


Questa volta un “nome – omen” di sicura presa. La Fame descritta da Hamsun è quasi tangibile. E la sua descrizione talmente vivida che non potremmo più fare a meno di cercare di evitarla. Per noi probabilmente sarà facile. Ma quanti soffrono e muoiono di fame nel mondo? E non vado oltre.

domenica 2 agosto 2015

In giro - 02 agosto 2015

E si, in giro per il mondo, tra autori diversi, con rese altrettanto diverse. Anche se i primi tre autori si tirano sempre sopra la media, anche di molto per il premio Nobel Modiano. Interessante la prova di McCarthy confrontandola con l’ottima film dei fratelli Cohen. E di certo interessante (anche se un po’ lungo) il viaggio descrizione di Seth in un’India che ci si torna di sicuro. Solo Ford mi ha deluso, anche per quegli accenni all’uso curativo del libro per le situazioni divorzistiche che mi ha convinto veramente poco (e comunque ne ho già scritto).
Patrick Modiano “Un pedigree” Einaudi s.p. (regalo di Nico per il Natalino 2014)
[A: 25/12/2014– I: 29/12/2014 – T: 30/12/2014] - &&&& 
[tit. or.: Un pedigree; ling. or.: francese; pagine: 81; anno 2005]
In effetti Nico mi aveva omaggiato di un bel libro di Paul Auster sfortunatamente già letto. Allora abbiamo concordemente ripiegato su questo libro dell’ultimo Premio Nobel. Era da quando ha avuto il premio che cercavo qualcosa da leggere dello scrittore francese. Credo che questo, nella sua brevità ed essenzialità, costituisca un buon punto di partenza. Soprattutto perché tocca due dei temi fondamentali della scrittura di Modiano: il rapporto con il padre ed il periodo della seconda guerra mondiale. Scrittore della memoria, come recita il conferimento del Nobel, e come risulta dal suo maggior successo editoriale (“Dora Bruder” che prima o poi affronterò), qui usa anche la memoria per piccoli omaggi, quasi mai completamente decrittati. Il primo è nel titolo, che si rifà alla ponderosa autobiografia di Simenon (con una piccola frecciata, che, secondo i più il grande giallista belga molti episodi li abbia “interpretati” a suo uso e consumo, mentre Modiano cerca, sempre, di essere fedele alla realtà). Il secondo, un po’ nascosto nelle pieghe di altri discorsi, è l’incontro con Raymond Queneau, avvenuto attraverso la madre (ma questo non è citato). Il grande mio mito lo aiuterà a trovare un posto da Gallimard, dove comincerà, ma dopo la fine di questo libro, a scrivere per diventare quello scrittore che è tutt’ora. Ma torniamo al pedigree. Con una prosa asciutta, quasi come per compilare una dichiarazione giurata del tipo che si usava una volta per ottenere il passaporto, Modiano parla della propria storia, dalla nascita, il 30 luglio 1945, fino al luglio del 1967, al compimento del 22° anno, momento in cui, finalmente, l’autore confessa di aver cominciato a respirare. Ma riempire quasi poco più che venti anni non è solo questione di parlare di sé, che non sarebbe un pedigree, ma solo un memoir. È un parlare di antecedenti e collaterali. È, in primo luogo, illuminare le figure genitoriali. Facile il discorso materno, con questa madre attrice, di origine belga, che inizia a far parti in teatro, poi anche particine in cinema, per poi tentare, su consigli amicali, l’avventura nella grande città. Negli anni ’40 si trasferisce a Parigi, ha alcune conoscenze (ed ogni volta Patrick ci illustra nomi, ricordi, forse anche possibilità che non sono diventate). A Parigi, ad un certo punto, si invaghisce di questo strano personaggio, Albert Modiano. Convivenza, e nascita di due figli. Il maggiore Patrick ed il minore Rudy che verso i dieci anni (senza che noi si riesca a capire come) muore. Ma intano Albert e Luisa (questo il nome della madre) vivono vite scapestrate. Comprano un appartamento a Quai de Conti, talmente grande che poi sarà diviso in due. La madre lavora, recita, è spesso altrove. I figli, soprattutto Patrick, sono sbalestrati qua e là. In scuole, presso collegi. Quando Patrick sarà solo, sempre più spesso interno in qualche istituzione, crescerà, lettore vorace, curioso di molto, ma poco propenso allo studio. Prenderà un diploma ad Annecy (un saluto all’amica Elena che colà ha trasferito le sue attività). Tutto il resto, ed è molto, ruota intorno alla figura paterna. Misteriosa, che non si sa mai di cosa sia vissuta. Fa traffici, molto spesso loschi. Come direbbe Moretti, conosce gente, e la fa conoscere. Si inventa esportazioni, importazioni, trasferimenti. Tanto che, benché ebreo, vive a Parigi sotto falso nome senza portare la stella gialla. Ed un volta arrestato, viene rilasciato non si sa bene sotto quale strana pressione dall’alto. Sempre in giro, sempre senza un parola verso il figlio, che incontra solo nella hall di grandi alberghi o in grandi stazioni, mentre si avvicina ad altri incontri. E poi si accasa con altra donna. Lasciando Luisa e Patrick sempre più in povertà. I due vivono in ristrettezze inimmaginabili, sempre mendicando da Albert qualcosa. Ma il padre pretende in cambio obbedienza assoluta ai suoi dettami, e, soprattutto, che Patrick sia sempre più spesso lontano da Parigi. Questa guerra neanche troppo sottile, scoppierà alla maggiore età di Patrick, quando decide di non rispettare le regole del padre. Ed Albert taglia viveri e ponti. Ci sono delle lettere feroci nelle ultime pagine che fanno rabbrividire per la loro crudezza. Ma sappiamo che tutto ciò può accadere. Ed accade. Fino al fatidico ’67. Fino ad allora, il nostro scrittore si sente trasportato dagli eventi, partecipandovi in apnea. Solo in quel momento, tolto il giogo paterno, appunto, comincerà a respirare. Da lì sarà la sua vita. Ma non oggetto di questo libro. Da lì non vedrà mai più il padre, né saprà quando questi morirà né dove sia sepolto. Appunto, questa sarà un’altra vita. Il pedigree ci serve per capire le radici di Patrick Modiano. I suoi scritti, quando appunto incontra Queneau e va da Gallimard, ci serve per capire chi sia lo scrittore che ha vinto il Nobel nel 2014. Pur nella sua brevità, ho gradito questo scritto, il modo di porsi. Anche se avrei gradito qualche dettaglio personale in più, che qui non c’è. Chi ha amato Patrick? Con chi si rapportava? Ma forse questo sarà in altre pagine che attendono di essere lette. Intanto leggete queste.
Cormac McCarthy “Non è un paese per vecchi” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 02/12/2013– I: 28/12/2014 – T: 01/01/2015] - &&&& 
[tit. or.: No Country for Old Man; ling. or.: inglese; pagine: 251; anno 2005]
Ho atteso con ansia che questo libro, comprato più di un anno fa, cadesse nella sacca delle letture immediate. Tutti (molti?) ne avevano parlato entusiasticamente. Molti lo avevano poi osannato a valle del film dei fratelli Cohen (che a me era piaciuto solo parzialmente). Ed ero anche curioso di vedere appunto l’originale di quel film senza speranza sull’America più cruenta. Devo dire che, nella asciutta prosa del romanziere texano, la violenza (americana in genere e della storia in particolare) risalta ancora più fortemente. Inoltre, lo scrittore, utilizzando il soggettivo dello sceriffo che cerca di capire e riunire i bandoli della matassa, dà un risvolto secondo me ancora più amaro alla vicenda. Che i buoni, per quanto ce la mettano tutta, difficilmente riusciranno a prevalere sui cattivi, quando questi sono realmente cattivi. Ed alla fine, lo sceriffo Bell, citando la poesia di W.B. Yeats da cui l’autore tra il titolo, non potrà che andarsene in pensione, commentando che i tempi (odierni, passati) sono sempre violenti, ed il passato non è detto sia migliore del presente, ha solo la dignità di essere stato vissuto (ed ora anche che qualcuno ne parli). Quindi sicuramente, il libro si colloca una spanna sopra al film, dove si rappresenta solo la violenza pura, che i registi poco interesse avevano nel domandarsi da dove viene e dove ci porta. Per il resto, chi ricorda il film, leggendo il libro ne ripercorre la trama, passo dopo passo, magari con qualche consapevolezza in più. Narcotrafficanti si sfidano al confine tra Nuovo Mexico e Texas, lasciando sul terreno molti morti, ed una valigia piena di dollari, che Moss, un cow-boy ignaro e credutosi più furbo, trafuga per “cambiare vita”. Solo lo sceriffo Bell si accorge che c’è qualcosa che non va: e che isola, ad un certo punto, nella presenza della mina vagante, dello psicopatico Chigurh (un Javier Bardem sullo schermo di magistrale effetto). Forse coinvolto nella sparatoria, di sicuro coinvolto nella ricerca della valigia di milioni di dollari. Valigia che è ambita dai narcos messicani, e da trafficanti americani. Nonché in possesso del malcapitato Moss. Che capisce subito dover fuggire lontano per cercare di salvare i soldi. E di far allontanare da lui la moglie, facile elemento di ricatto. Gli americani mettono in campo anche un killer prezzolato. Noi seguiamo la scia delle morti e dei duelli con l’occhio dello sceriffo Bell. Che vede Chigurh sempre in vantaggio su tutti. E con la sua pistola ad aria compressa che serve ad uccidere i vitelli nel mattatoio, Chigurh farà una vera e propria strage. Quando Moss sta per essere preso dai messicani, interviene e fa fuori i messicani. Ha un colloquio con Moss cui promette una strage se non riavrà i soldi. Farà fuori il killer inviato dai trafficanti. E benché ferito, ritrova Moss in un motel, e lo uccide insieme ad una ignara autostoppista che non altra colpa aveva di trovarsi lì. Chigurh recupera quindi la valigia, ma, con la sua mente contorta (male puro, direbbe Cormac, o angelo sterminatore, se seguiamo il filone bunueliano del film) non può fermarsi. Ha promesso strage e strage sarà. Per cui va e uccide anche la moglie di Moss. Come nel film, anche il libro si eclissa su di un incidente di macchina, cui Chigurh esce ferito gravemente ma vivo. Da lì, nel libro ci sono solo le ultime riflessioni dello sceriffo Bell. Quelle che danno spessore al libro, e che portano Bell alle dimissioni. Tutta la vicenda l’avevamo seguita quasi sempre con l’occhio dello sceriffo. E con il suo sguardo arriviamo sulle scene dei crimini, sulle scene costellate di morti. Qualcuno domanda ad un certo punto a Bell perché si accanisca tanto. E qui, sembra che il nostro scrittore non possa che fare un riferimento (velato ma se ne può cogliere il senso) a quel capolavoro di libro giallo che fu “La promessa” di Dürrenmatt. Dove il poliziotto segue all’infinto la possibilità di trovare l’autore di efferati delitti. Qui Bell si avvia su quella strada. Ma lui si che si sente vecchio, lui si che sente il peso del passato, del vissuto. E sceglie di mettersi da parte. Il male, Chigurh, andrà avanti. Qualcun altro, forse, si impegnerà a fermarlo. Infine, un’ultima considerazione: se non avete visto il film, leggete questo libro che con parole crude da corpo alla cattiva anima americana; se invece lo avete visto, leggetelo per recuperare le considerazioni di cui, di tanto in tanto, ci fa partecipi lo sceriffo Bell.
“Gli diedi ragione sul fatto che la vecchiaia era una brutta cosa e allora lui disse che un vantaggio però ce l’aveva e io chiesi quale. E lui disse non dura molto.” (228)
Vikram Seth “Il ragazzo giusto” TEA euro 16 (in realtà, scontato a 10,56 euro)
[A: 31/12/2014– I: 10/01/2015 – T: 31/01/2015] - &&& e ¾  
[tit. or.: A suitable boy; ling. or.: inglese; pagine: 1618; anno 1993]
In vista della partenza per il lungo tour indiano di gennaio ero preso dall’atroce dubbio se e come portare materiale da leggere, visto che, a parte le guide, non riesco ad usare iPad ed affini per leggere libri (ho ancora bisogno della carta…). Molti libri piccoli o il contrario? Ho deciso il contrario ed ho scelto questo veramente grosso libro, che credo sia il libro con il più alto numero di pagine che io abbia letto. E che ho portato da Delhi a Kolkata impiegando ben 20 giorni per assimilarlo. Devo senza dubbio dire, che soprattutto l’ultima parte del viaggio mi ha riconciliato con il libro, perché è lì, tra Orissa e Calcutta (uso i nomi del libro e non gli attuali) che si svolge una gran parte dell’azione. Che è vero si colloca nel 1950 (circa) ma che ha risvolti ancora attuali (mentre in alcuni aspetti sembra di una modernità che l’India attuale non pare avere). Siamo verso il confine tra India e East Bengala (ora Bangladesh) con gli ovvi attriti tra indù e mussulmani, dopo la grande separazione del 1948. Siamo nel Bengala, che è sempre stato abbastanza all’avanguardia nelle riforme del paese (governato a lungo dal partito comunista), ed in un’epoca in cui si cerca di limitare lo strapotere dei latifondisti. Ma siamo ancora nell’epoca dei matrimoni combinati (e qualcuno mi dice che non è che sia cambiato molto anche in questi ultimi 50 anni). E stranamente, una serie di usi e costumi sembrano invece essere più liberali allora che ora. Quasi che delle ragazze possano andare in giro da sole, o che, non dico abbiano rapporti fuori dal matrimonio, ma quasi quasi… È certamente un  libro pieno di cose, di avvenimenti, di storie. E tuttavia non mi ha soddisfatto in pieno. Ci sono lunghe pause “politiche” con discorsi sul latifondo, e con alcuni interventi addirittura di Nehru. Ci sono momenti in cui sembra aprirsi lo spazio per nuove idee e nuove prospettive. Ma sempre più ci sono momenti in cui tutto si chiude, per ritornare “nel solco della tradizione”, dove si accettano le regole solo per trasgredirle. E chi invece accetta le regole per sovvertirle sarà sempre destinato ad un ruolo secondario. O a perdere. Tutta la storiellona di 1500 pagine ruota, come indica il titolo, nella ricerca di un ragazzo appropriato (questo il più corretto significato di “suitable” secondo me) da far sposare all’eroina del romanzo, Lata Mehra. Iniziando dal matrimonio combinato della sorella Savita con il dolce Pran, per terminare, appunto, mesi ed anni dopo, con quello di Lata. Al primo matrimonio Rupa Mehra (vedova, 45 anni) è molto contenta di aver trovato  un giovane di casta Karthi (la seconda dopo i bramini) per sua figlia Savita. Inoltre Pran è di buona famiglia (il padre è il ministro delle finanze dello stato inventato del Purva Pradesh). Per questo Rupa inizia a tramare per trovare un buon partito anche per la figlia Lata, 19 anni. Anche il consuocero Mahesh Kapoor decide di ricordare nella stessa occasione a suo figlio Maan che è lui il prossimo che si devi sistemare. Entrambi i giovani, però, sono contrari e contrariati, tanto che immaginavo una loro convergenza, cosa che invece non accade. Sistemati quindi i due figli (l’altro maschio, Arun, ha sposato la chic Meenakshi, una signorina di buona famiglia di Calcutta, anche se è una Bengali, cioè di una casta diversa), Rupa può dedicarsi ai suoi progetti. Intanto assistiamo alle schermaglie discorsive tra Lata e la sua amica Malati, sia sui rapporti interpersonali, sia domandandosi come si possa amare qualcuno visto solo una volta prima delle nozze, ed in compagnia dei genitori. In questo frangente, Lata incontra in libreria un giovane che, anche se non immediatamente, sarà fondamentale nel corso del romanzo. La narrazione si sposta ore a Calcutta, per conoscere meglio l’antipatico Arun, la sua avversione e prepotenza per lo sfaticato e timido fratello, Varun. Si ritorna a Brahmpur per seguire la festività religiosa di Holi, durante la quale nella casa di Mahesh Kapoor, viene organizzato un concerto e viene invitata a cantare la bellissima Saeeda Bai, una cortigiana musulmana di 35 anni con una voce fantastica. Maan perde la testa per Saeeda, fa di tutto per attirarne l’attenzione, e ben presto entra nelle grazie (e non solo) della bella cortigiana, facendole visita regolarmente, non come cliente, ma come corteggiatore. La notizia della tresca di Maan con Saeeda certo non fa piacere al padre, uomo politico la cui credibilità rischia di essere messa in dubbio dalla condotta del figlio, e tanto meno a Pran, che è un lettore di inglese all'università di Brahmpur e spera di ottenere un posto da assistente. Tuttavia Maan è innamorato di Saeeda al punto di decidere di imparare a scrivere in Urdu, la lingua dei musulmani-indiani, per poterle scrivere lettere di amore. Il padre di Maan esasperato dal figlio, lo caccia di casa e Maan ne approfitta per andare con Rashid, il suo insegnate di Urdu fornito da Saeeda Bai, nella zona rurale dello stato. Nel frattempo Lata incontra nuovamente, per caso il giovane della libreria finendo per accettare un suo invito ad una romantica passeggiata sul fiume, dove scopre una cosa tremenda: il giovane si chiama Kabir Durrani ed è, quindi, musulmano e di certo un matrimonio misto nell'India del 1951, poco dopo la sanguinosa partizione del Pakistan è fuori discussione. Rupa Mehra grazie ai pettegolezzi riesce a scoprire che la figlia si è incontrata con un giovane a sua insaputa e quando viene a sapere che è Musulmano impazzisce di dolore e trascina Lata a Calcutta, lontano da Brahmpur e dal quel bel giovane. A Calcutta Lata frequenta spesso la famiglia di sua cognata Meenakshi, i Cattereji, e diventa amica di Amit, il figlio maggiore, poeta e scrittore, ma sua madre nel frattempo trama per avere un ragazzo adatto a Lata (i Cattereji come detto non sono Karthi, ma Bengali e il matrimonio di Arun fu una gran vergogna per lei). Ben presto va a trovare la sua amica Kalpana che le fa il nome di Haresh Khanna, un giovane Karthi, che ha studiato in Inghilterra e si occupa di produzione di scarpe, che andava a scuola con lei. Rupa decide di prendere contatti con Haresh e ben presto convoca Lata a conoscere questo candidato alla sua mano. Lata si trova ben presto con tre ammiratori: Kabir, Amit e Haresh e deve decidere quale sposare. Questo il nocciolo su cui si dipana e si annoda il resto delle più di mille pagine. Con parti politiche, importanti anche se abbastanza lente. Con la dolente parte religiosa, indotta dalla recente separazione nel continente sub-indiano tra stato indù (India) e stato mussulmano (Pakistan). Ci sono inoltre miriadi di altri personaggi, che ogni tanto entrano, agiscono, poi per un po’ spariscono, fino a riapparire in altra veste. Come ad esempio Haresh, ci erano stati presentati ben prima dell'incontro con gli altri protagonisti, a metà del libro, divagando lungamente sulle sue abitudini, i suoi amici eccetera, creando non poca confusione al lettore, del tipo "e chi è questo, adesso?". Oppure, seguendo le vicende di Maan incontriamo Saeeda Bai, seguendo Saeeda Bai seguiamo il suo suonatore Isaq che se ne va in giro per la città, litiga con un musicista e ci mostra i suoi problemi personali. Quale funzione ha Isaq al fine della storia? Nessuna, è solo un ornamento, interagisce a stento con altri protagonisti, eppure ha vari paragrafi dedicati a lui. Insomma, partendo dalla ricerca del ragazzo appropriato il romanzo racconta la vita politica, le scappatelle dei fratelli, i tradimenti delle mogli, le feste religiose che scandiscono il passare degli anni, le apprensioni di una madre e la voglia di libertà di una figlia, gli incontri poetici e letterari, la nascita di una nipotina da viziare, le lettere scritte con amore, la passione furibonda, gli esami all’università e gli incontri mondani. Alla fine Lata, tra il ragazzo dalle scarpe bicolori, il romantico poeta o il compagno di università musulmano farà la sua scelta, chiudendo il romanzo. Ma lasciandoci un po’ di delusione, che, come in una fiction che ci appassiona si vorrebbe continuare a seguire le vicende di tutti. Grazie comunque per lo sforzo che avete fatto nel seguire una trama che non può che adeguarsi alla lunghezza del romanzo. E che consiglierei di leggere nelle lunghe serate prima di addormentarsi, magari guardando ogni tano gli alberi genealogici ad inizio libro, che con tutti quei nomi si rischiano confusioni a non finire.
Richard Ford “Sportswriter” Feltrinelli euro 9
[A: 16/02/2014– I: 06/05/2015 – T: 14/05/2015] - &&--
[tit. or.: The Sportswriter; ling. or.: inglese; pagine: 379; anno 1986]
Giusto una settimana fa ne parlavo nel supplemento sulle “Cure”, dove questo libro veniva citato come esempio – modello da non seguire, rispetto al grande problema del “divorzio”. Già in quella sede espressi i miei dubbi su come veniva affrontato l’argomento. Ed anche ora, dopo la lettura del libro dell’oramai settantenne Ford (ma quando scrisse il libro ne aveva solo 42), rimango dell’idea che sul divorzio si debba e si possa dire altro. Ma questo non è solo un libro sul divorzio, è un libro sulla grande “fatica” di essere americani. Il protagonista riesce ad incarnare tutti i modi negativi in cui si può presentare “lo spirito americano”. Nei rapporti con gli altri, con le donne, con i figli, con la morte, con la vita. Insomma con tutto. E da questo punto è un libro esemplare (anche se datato, ma i trent’anni si sentono poco). Ma, esauriti gli spunti, il racconto si prolissa per pagine e pagine. E devo dire che ho impiegato quasi due settimane a leggerlo, cosa che qualcosa vorrà pure dire. Frank Bascombe, l’io-narrante delle quasi 400 pagine, è appunto un tipico americano, che vorrebbe sotterrarsi in provincia, vorrebbe non pensare, vorrebbe avere una vita tutta tv – barbecue – lavoro (anche non molto complicato) – qualche avventura con donne compiacenti (e piacenti). E sembra che, con qualche aggiustata, ci stia riuscendo. Da giovane scrisse una serie di racconti con un piccolo successo di critica. Poi cerca il “grande passo” verso la scrittura professionista. Ma molti hanno un solo libro dentro, e Frank forse neanche quello. Allora, ricerca della minima resistenza: matrimonio con la bella signorina X (non è che non ricordo il nome, ma è indicata così per tutto il libro), ripregarsi a scrivere per una rivista di sport (da cui il titolo), e qualche figlio. Qui il nostro normo americano comincia a grippare il suo motore: il figlio maggiore si ammala della sindrome di Reye (malattia infantile dall’esito quasi sempre letale), lui sembra fermarsi a guardare, anche se ha una famiglia ed altri figli, e continua a tradire la moglie. Ma lo fa sempre con quella noncuranza di chi forse non è che sia proprio lì. Ma X alla fine lo manda a ramengo. Pur rimanendo discretamente amici. Pur continuandosi a vedere nell’anniversario della morte di Ralph. Frank cerca di avere un rapporto anche con i figli rimasti, ma sembra sempre essere un passo al di qua della normalità. Tanto che frequenta una “lettrice di futuro” (altra follia americana). E tenta di avere anche altre storie. Lo seguiamo in un viaggio fallimentare a Detroit con un’infermiera anche lei divorziata. Lui nei rapporti non ci mette la testa, ed anche questo è destinato al fallimento. Nella sua prolissa auto-esposizione lo seguiamo da un lato nel ripercorrere momenti della sua vita (incontri, viaggi, i racconti che potevano dargli la fama ma che poi non hanno seguito, il tentativo di insegnare, anche questo senza partecipazione e con il solito finale negativo). E dall’altro ricostruirne alcuni attuali, come il tentativo di intervista ad un campione sportivo ridotto su di una sedia a rotelle. Poteva essere un momento di riflessione (su di sé, sullo sport, sulla vita). Diventa l’esempio dell’ennesimo andamento fallimentare della sua vita. Certo scriverà qualcosa, ma tutto lunga lo linea di minimo sforzo, di minima rottura. Lui ritorna sempre a X, a Ralph. Insomma a tutto quello che poteva essere e non è stato. Ma non si domanda mai, non arriva mai ad interrogarsi su cosa lui potesse fare di diverso, su come lui potesse e dovesse cambiare la propria vita. C’è anche un inciso con lo strano rapporto con un altro divorziato, latentemente gay. Ma ne prenderà coscienza Frank che lo può aiutare? Nulla e sempre più nulla. Arriviamo alla fine di queste quasi 400 pagine con Frank che sta lì a rintontirsi con false idee sul suo futuro. Riuscirà a trovare un affetto? Vivrà ancora in quella cittadina? Continuerà a scrivere di sport, anche se si è stufato? Noi ci siamo un po’ stufati di Frank, delle sue paturnie e dell’irrisolutezza che Ford instilla in tutto il romanzo. Una fotografia della realtà americana, quando ci allontaniamo da Obama e dai palazzi del potere e vediamo la vita reale? Forse, ma ne abbiamo visti esempi migliori e più coinvolgenti. E certo, come manuale per un divorzio ben guidato, abbiamo letto senz’altro di meglio.
“Avevo idea di scrivere un romanzo da quando avevo letto i diari di viaggio di Joshua Slocum.” (42) [Nota mia: Slocum è il primo viaggiatore in solitario, il primo a circumnavigare il globo dal 1895 al 1898]
“Ormai avevo scritto tutto quello che potevo scrivere … Se gli scrittori che se ne rendono conto fossero di più, ci sarebbe risparmiata una quantità di brutti libri e molte più persone vivrebbero una vita più felice e meno improduttiva.” (43)
“Qual è la vera misura dell’amicizia? … Ammonta esattamente alla quantità di tempo prezioso che si sciupa per ascoltare le sventure e i casini altrui.” (104)
“Ho letto da qualche parte che se un Toro dice che ti ama bisogna credergli.” (134)
Inizio del mese, ed allora ecco che vi bombardo con le massicce letture del mese di maggio. Mese molto denso, e con quattro letture eccellenti. Svetta su tutti l’ottimo libro postumo di Tiziano Terzani, incalzato da vicina da due intense scritture di Siri Hustvedt e di Elena Ferrante, nonché dall’interessante saggio di Luciano Canfora sul 1914. E solo tre libri un po’ sotto media: il Ford di cui parlo sopra, l’ennesima prova ripetitiva della svedese Marklund e l’ultimo libro di racconti di Scerbanenco, più che altro perché poco vi ho trovato del Noir di cui veniva contrabbandato.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Diane Wei Liang
La casa dello spirito dorato
Repubblica Mondo Noir
7,90
3
2
Agatha Christie
Poirot a Styles Court
Mondadori
s.p.
3
3
Agatha Christie
Il mistero del Treno Azzurro
Corriere della Sera
6,90
3
4
Siri Hustvedt
Quello che ho amato
Einaudi
12,50
4
5
Gianni Farinetti
Un delitto fatto in casa
Marsilio
12,50
3
6
Agata Christie
I Sette Quadranti
Corriere della Sera
6,90
3
7
Pierluigi Porazzi
Nemmeno il tempo di sognare
Corriere della Sera
6,90
3
8
Richard Ford
Sportswriter
Feltrinelli
9
2
9
Liza Marklund
Linea di confine
Marsilio
12,5
2
10
Tiziano Terzani
Le parole ritrovate
Editrice La Scuola
s.p.
5
11
Terzi Soggettivi
Né capo né coda
Unilibro
15
3
12
Fabio Genovesi
Versilia Rock City
Mondadori
10
3
13
Georges Simenon
I Maigret – 1
Adelphi
s.p.
3
14
Luciano Canfora
1914
Sellerio
12
4
15
Giorgio Scerbanenco
Il centodelitti
Corriere della Sera
6,90
2
16
Elena Ferrante
I giorni dell’abbandono
E/O
9,50
4
17
Bruno Morchio
Maccaia
Sole 24 ore Noir
6,90
3
18
Arnaldur Indridason
Cielo nero
TEA
9
3

Come potete immaginare, anche il vostro tramatore preferito si prenderà qualche giorno di vacanza, per andare verso lidi più freschi di quest’Italia bollente. Sperando non vi sentiate troppo soli, vi saluto