domenica 28 agosto 2016

Montandrea - 28 agosto 2016

Come si intuisce dal titolo, una trama dedicata ad Andrea Camilleri e Salvo Montalbano. Come intuiscono i miei amici enigmatici, abbiamo due storie di Salvo e due di Vigata. Visto poi che siamo in pieno pareggio, abbiamo due sopra media e due sotto media. Insomma, è un po’ che il pluripresente siculo oscilla tra prove degne e prove sotto-media. Tra l’altro, le prime sono quelle più lontane nel tempo. Speriamo che sia una tendenza invertibile.
Andrea Camilleri “La concessione del telefono” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato a 5 euro)
[A: 06/02/2014– I: 14/03/2015 – T: 16/03/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 1998]
Siamo nella stagione feconda di Camilleri, quella che vedeva le prime uscite di Montalbano da un lato e le altre storie di Vigata dall’altro, con quel “Birraio di Preston” che per me raggiunge una delle vette del primo Camilleri. Un autore che in questo periodo valutai per una serie di fattori che esprimeva in alto grado: l’uso della lingua (L), l’intreccio delle storie (I), il “social engagment” che risultava dalle trame (S) e l’ironia di fondo (I). Il suo LISI cominciò ad essere molto alto. Qui seppur abbiamo un discreto L ed S, siamo solo sulla sufficienza nell’intreccio e decisamente carente per l’ironia (anche se viene costantemente tentata). Il tentativo nuovo che fa in questo libro è l’utilizzo di forme “indirette” per raccontarci la storia. Un uso sapiente e ben alternato di capitoli intitolati “cose scritte”, dove si intrecciano lettere, proclami ufficiali di questori e tenenti dei carabinieri, nonché pagine di giornali, e di capitoli intitolati “cose dette”, dove Camilleri riporta dialoghi tra i vari componenti della vicenda. La difficoltà nel ricostruire la trama è che, da un lato, benché i personaggi cardini siano pochi, la vicenda coinvolge una serie di coprotagonisti di cui non è facile tenere a mente i nomi. Dall’altro, per le cose scritte, bisogna sempre rifarsi alle date in cui si scambino le missive, anche se vengono riprodotte in ordine temporale, ma risultano di diverso impatto se passano due giorni o due mesi tra l’una e l’altra. Ciò detto, la vicenda è tutto un gioco degli equivoci, come piace a Camilleri sulle orme del suo amato Pirandello. Filippo “Pippo” Genuardi, commerciante poco fortunato ma molto “dotato” (capisci a me) benché preso dalla moglie Taniné, si invaghisce, ricambiato, della seconda e giovane moglie del suocero (Lillina). Per poter aumentare le occasioni di incontro, lui che è sempre pronto alle novità tecnologiche (siamo nel 1891) cerca di installare una linea telefonica tra la sua fabbrica di legnami e la casa del suocero. Cerca quindi di trovare, nei meandri della burocrazia, la strada per avere una “concessione telefonica”. Qui comincia a scontrarsi con un questore napoletano fuori di testa (parla con i numeri della “smorfia”) che, equivocando il tutto comincia a tenere sotto mira Pippo, coinvolgendo i carabinieri (che non ci fanno una gran figura, come è ovvio) e spargendo voci sul presunto “socialismo” del richiedente. Una costruzione di ipotesi che il prefetto di polizia ha buon gioco a smontare, pezzo dopo pezzo. peccato che la storia si intrecci con uno sgarbo fatto da un presunto amico di Pippo, tal Sasà, al boss mafioso locale, don Lollò. Pippo, cercando appigli per risolvere la questione “telefona”, cerca di ingraziarsi il boss, fornendo a più riprese l’indirizzo del latitante Sasà. Purtroppo, per Pippo, Sasà lo sta prendendo in giro, fornendo indirizzi falsi, cosa che dopo un po’ fa girare i cabasisi al “nervuso” don Lollò. Che pensa bene di inguaiare Pippo, sia mettendo bastoni tra le ruote alla famosa concessione (ad esempio, blandendo i vicini per impedire l’impianto dei pali di comunicazione), sia facendolo apparire “rosso”, così come vuole il questore. È tutto in gioco di specchi, per cui una cosa si può sempre interpretare in diverse maniere, e l’ottusità del potere (S) ha sempre buon gioco per mettersi in ridicolo ma far sì che Pippo sia sempre più inguaiato. Finché don Lollò, scoperto l’ultimo nascondiglio di Sasà, da l’ultimatum a Pippo: che gli spari lui alle gambe, così andrà tutto in pari. Cosa che Pippo fa, ed a questo punto sembra che tutto vada per il meglio: i vicini cedono, la concessione è avviata, i nemici istituzionali messi in condizione di non nuocere. Tuttavia, il telefono servendo a scopi non decisamente onesti, il nostro ha un bel colpo d’ingegno per far saltare il banco su tutti i tavoli. Sasà, azzoppato e disonorato da don Lollò, si vendica denunciando Pippo al suocero, che, dopo aver verificato la veridicità dell’illazione, decide il passo estremo. Uccide a revolverate Pippo e poi si spara. Essendo i carabinieri i primi ad aver notizia del delitto, decidono di risalire in sella, facendo scoppiare una bomba sul luogo del delitto, convincendo tutti che il povero Pippo era un facinoroso. In questo modo, tutti i peggiori elementi dello stato in formazione vengono premiati, e gli onesti mandati in esilio in Sardegna. Tutta la storia è anche condita da altri elementi sociali, cominciando all’epoca del governo Di Rudinì e terminando con il primo governo Giolitti, e con le prime idee concrete di lotta alla mafia, poi presto abbandonate (un unico appunto storico, tra le lettere ne compare una, in data aprile 1892 a firma di Giuseppe Sensales come direttore generale di Pubblica Sicurezza, carica che però il Sensales ricoprì a partire dall’ottobre del 1893). Ma di ironia, come potete constatare da queste mie righe, ce n’è ben poca. Anche se, rispetto a prove più tarde e più involute di Camilleri, resta in ogni caso un bel leggere.
“Passata la sissantina, un duluri ogni mattina.” [anche no!] (156)
Andrea Camilleri “Inseguendo un’ombra” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 16/03/2014– I: 06/07/2015 – T: 07/07/2015] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 243; anno 2014]
Eccoci qua ad un nuovo libro del grande siciliano, di cui chioso lo scritto nell’anno del suo novantesimo compleanno. Purtroppo non siamo nella ormai ventennale saga del commissario di cui spero leggere presto altre prove (date le ultime poco convincenti). E neanche nel grande circo dal nostro imbandito intorno alla verissima eppur inventata Vigata. È un libro strano, in parte oserei dire complesso, dove Camilleri fa una duplice azione narrativa: racconta una storia (e come spesso dice lui è e sarà sempre un contastorie piuttosto che uno scrittore) e ad intervalli entra ed esce dalla narrazione per spiegarne passi, chiosarne punti oscuri, esplicitare scelte narrative. Questo sforzo di far diventare il libro un oggetto a molte dimensioni è forse quello che più mi è piaciuto e più mi ha coinvolto, proprio per prenderne spunto in future dimensioni narrative. Meno, e da qui la non eccelsa classifica che raggiunge lo scritto, la parte narrata in sé, che il personaggio, interessante, intrigante e sfuggente, rimane sostanzialmente ancorato all’ultimo aggettivo. E la sua storia non mi ha fatto partecipare alle sue vicende. Per razionalizzare il commento, l’idea a Camilleri nasce già nei lontani anni ’80, quando, leggendo una nota di Sciascia ad un catalogo dedicato ad un pittore siculo, il grande di Racalmuto cita la strana figura di un ebreo, convertito, sapiente, che attraversa la Sicilia ed il Papato nella metà del 1400, per poi svanire misteriosamente. Come tutte le idee fertili, questa sedimenta nella mente del nostro, che cerca riscontri, trova poche documentazioni affidabili, anzi all’inizio solo due note biografiche assai scarne. Ma il tempo è un galantuomo che porta buoni consigli con l’andare del tempo, ed alla fine, con quell’estro narrativo che comunque gli riconosco, e con la scrittura bella che sempre possiede, Camilleri congiunge elementi sparsi, a volte poco documentati, e, a forza di inseguire un’ombra, riesce a farne un ritratto, come dice lui stesso, non storico ma senz’altro verosimile. Abbiamo quindi in realtà la storia di tre personaggi che alla fine si riveleranno come un unico soggetto che di volta in volta si muta per risorgere dalle proprie cenerei come l’araba fenice. La storia inizia a Caltabellotta, città ad una sessantina di chilometri da Agrigento, crocevia di gente, famosa perché nel 1302 vi furono firmati i patti tra angioini ed aragonesi che posero termine ai Vespri Siciliani. E cara (personalmente) in quanto il suo nome derivò dalla costruzione di un castello da parte araba, il Castello delle Querce, in arabo Qal'at Al-Ballut. Qui nasce, intorno al 1445, un ebreo Samuel Ben Nissim Abul Farag, figlio del rabbi Nissim. Il padre, dotto ed esperto di medicine, era un elemento di spicco, da tutti ricercato per le sue capacità mediche. Ed il figlio Samuel veniva avviato alla sapienza ed alla conoscenza della religione (cosa che gli servirà per tutta la vita). Ha un solo evidente difetto, il nostro Samuel: gli piace godersi la vita, gli piace accumulare piccole risorse a scapito di innocenti ruberie. Inoltre, e questa sarà sempre una sua costante, è dichiaratamente e voluttuosamente omosessuale. Intorno ai suoi venti anni, si scatena onde di repressione verso gli ebrei e gli stranieri in genere (ricordiamo che a fine secolo ci sarà la grande cacciata degli arabi dalla Spagna, in quel 1492 che noi si ricorda per altri motivi). Samuel in pericolo per una serie di fatti che vi lascio leggere, si rifugia in convento. E qui, principalmente per aver salva la vita, si converte. Scegliendo come padrino, ed assumendone il nome figliale, Guglielmo Raimondo Moncada. Con questo nome nasce la sua seconda vita. Di dotto studioso delle scritture (visto che sa leggerne in diverse lingue), ma anche di persecutore dei propri antenati ebrei. Studia a Napoli, cresce nelle gerarchie, forse prende anche i voti (elemento a volte controverso). Di certo si trasferisce a Roma, entra nella cerchia papale, tanto che tenne (ed è documentato) la predica del giorno della Passione in Vaticano nel 1481, con un sermone che rivisitava l’allora molto diffuso e ponderoso libro del domenicano spagnolo Raimundo Martì “Pugio Fidei”, una specie di Summa contro i Giudei. Anche qui, preso tra intrighi e crapule varie, cade in disgrazia e deve fuggire verso la fredda Germania. Ma ne ritroviamo traccia, pochi anni dopo, quando si presenta con lo pseudonimo di Flavio Mitridate, diventando il maestro e mentore di Pico della Mirandola. Quest’ultima parte della sua vita, è tracciata un po’ nebulosamente da Camilleri, perché forse troppo nota o forse molto legata a controversie che ora e qui sono di difficile seguitura. Fatto sta che, nonostante le capacità umanistiche, il suo porsi ora “contra ecclesia” non gli rende la vita facile. E non tirandosi mai indietro alla crapula che guida ogni suo gesto, è facile capire la sua ulteriore disgrazia. Legata forsanche ad un fatto di sangue. Sicché nel 1489 viene arrestato ed imprigionato. Qui terminano le tracce del nostro tripartito personaggio, anche se Camilleri adombra una sua possibile fuga ed esistenza in vita almeno fino al 1492, dove viene citato in uno scritto testamentario della madre. Ma anche noi ci siamo un po’ stancati si Samuel – Guglielmo – Flavio. Camilleri ha fatto di tutto per farcelo piacere, e noi gli si riconosce la buona volontà e la bella resa. Meglio gli intarsi personali, quando il grande Andrea viene avanti sul proscenio e ci parla direttamente. Il resto è un buon libro. Non abbiamo raggiunto l’ombra che si inseguiva, ma abbiamo passato alcuni giorni contenti. Per finire e collegarmi al precedente, qui abbiamo una buona prima I ed un discreto S, ma siamo carenti alquanto in L ed S (nel mio tetragramma LISI di analisi camilleriana).
Andrea Camilleri “La piramide di fango” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 05/06/2014– I: 01/12/2015 – T: 02/12/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 261; anno 2014]
Finalmente torniamo ad un Montalbano puro e duro. Forse non intenso come i primi, ma di sicuro in risalita dopo le ultime prove, quelle un po’ forzate nell’uscita e nell’impianto, che cercavano di colmare buchi narrativi nel percorso “storico” del nostro commissario di Vigata. Dico anche subito e preliminarmente che il LISI qui sta ad un buon livello, avendo un buon risalto tutte le componenti usuali delle storie del nostro. Forse solo la parte ironica, lasciata quasi esclusivamente alle disavventure del povero Catarella lascia a desiderare. E la parte sociale, pur presente, è in un certo senso troppo “sottolineata” per essere un elemento di novità. Con una facile metafora, in un’Italia ed una Sicilia tormentata dalla pioggia, altrettanto facile è paragonare l’andamento della vita sociale italiana a quel fango montante che tutto ricopre e tutto lorda. Ma facciamo un piccolo passo indietro, guardando intanto ai comprimari del buon Salvo. Mi sono perso (forse nella memoria) la fine della storia di Mimì con la bella Beba. Ora, il numero due rimane sempre lì, un po’ sospeso tra entrare in azione e rimanerne fuori, senza poi combinare gran che. Mentre sempre di più, come alter ego, avanza Fazio, con i suoi tremendi “pizzini” su cui scrive di tutto (ma un iPad, no?). sempre pronto agli ordini di Salvo, spesso anticipandolo, comunque dandogli quel supporto informativo che al nostro serve per poter ragionare. Detto di Catarella, sempre uguale a sé stesso, abbiamo invece un ritorno di fiamma della lontana Livia. Stavano quasi ad un punto di non ritorno, fintanto che la morte di François ha precipitato la genovese nella nera tristezza, lasciando Salvo senza il suo costante punto di riferimento (che macari ce ne catafottiamo quanno nun c’è, ma serve). Ora invece, con la comparsa della cagnetta Selene, sembra che Livia possa uscire dal nero che la avvolge, e Salvo non mancherà, finita l’inchiesta, di precipitarsi di nuovo a Genova. Inchiesta che nasce dal ritrovamento del cadavere del ragioniere Nicotra, riverso in mutande nel fango di un cantiere in periferia di Vigata. Nicotra sposato da una bella tedesca, Inga, in odore di essere attratta dai bei maschietti siculi (sarà poi vero?), e bellamente scomparsa dalla villa di residenza. Villa in cui il nostro trova tracce di un terzo personaggio, di cui misteriosamente non si sa nulla. Tra una pioggia e l’altra, tra una camminata nel fango ed una passata in trattoria da Enzo, tra una viduta di Televigata ed una di Retelibera, Salvo si fa persuaso che ci sia sotto più di quanto sembra. Con l’aiuto dei pizzini di Fazio, riesce a ricostruire alcune storie degli appalti in provincia, stranamente vinti fino a poco prima da società legate alle due famiglie mafiose locali, i Cuffaro e i Sinagra (che spesso abbiamo visto in altre storie vigatesi). Solo che in quest’ultima, dove si aggirava il Nicotra, c’è lo zampino di un altro capo banda, Rosales. La scoperta di un misterioso antro sotto il garage della villa, con tanto di cassaforte e residui di soldi, illuminano la scena (sia per noi che per Salvo). Come si illumina Augello, che sentendo descrivere il misterioso ospite, ne riconosce le fattezze proprio in Rosales. Ecco allora, il grande giro di mafia e di appalti. Le tre famiglie si stavano spartendo i soldi della regione, nello stesso tempo riciclando denaro sporco pagando in contanti gli operai delle ditte. Peccato che i Cuffaro vogliano avere più peso, cercano di mettere fuori causa Rosales, riuscendo solo ad uccidere Nicotra e, probabilmente, anche Inga. E sono sempre loro che cercano di mettere fuori pista Salvo, inventando una storia di corna per giustificare le morti. Il nostro non può cadere in una trappola così meschinamente costruita. Ed aiutato da tutti coloro che vorrebbero veder scomparire il fango dall’Italia, dalla Sicilia e da Vigata, mette in fila la giusta soluzione del problema. Che vi lascio tranquillamente leggere, godibilmente scritta come non capitava da diversi romanzi di Montalbano. Va bene anche quel tocco di moralismo (o di moralità?) sugli appalti italici, va bene la lingua, ormai rodata e che continuiamo a leggere cercandone il suono piuttosto che il significato. Speriamo che anche nei prossimi romanzi si riesca a tenere alta la LISI del nostro autore. E che continui a scrivere, per molto e molto tempo ancora.
Andrea Camilleri “Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 06/02/2014– I: 14/03/2015 – T: 16/03/2015] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 314; anno 2014]
Sapete, e lo ribadisco tutte le volte, che non sono un amante dei racconti, trovando nel romanzo un respiro maggiore che consente alla trama di svilupparsi meglio e di avvolgere il lettore nelle sue spire. La dimensione racconto lascia un po’ il senso di un amore frettoloso, spesso senza che si sia riuscito a capire chi ama cosa. Fuor di metafora, poi, mi sembra che anche Camilleri abbia le sue difficoltà in questo metodo. Anche perché, con una precisione degna di un Perec, fa di ogni storia un racconto di 35-36 pagine divise in quattro capitoli di 8-9 ciascuno. Come se fossero brogliacci per possibili avventure del nostro commissario, che, per mancanza di tempo o di voglia, il nostro autore ha messo in un cassetto. E forse, sotto spinte di marketing, o magari, Dio non voglia, sotto urgenze sanitarie, si trova costretto a rendere editabili un po’ così come sono raccolte nei suoi quaderni. Altra ipotesi è che siano stati (o sono?) brogliacci di sceneggiature per episodi televisivi per la serie televisiva “Il giovane Montalbano”. Ipotesi non peregrina, che la seconda serie (a quanto risulta da Wikipedia, visto che non la televisione per confermarlo) è basata su sei degli otto racconti. E spero che in televisione abbiano una resa migliore di quella che mostrano sulla carta, magari mostrando una loro coerenza interna, intra-racconto, che qui manca. Infatti l’indagine risulta sempre affrettata, la conclusione a volte più capita che descritta (ma ci scordiamo sempre i sacri precetti di S.S. Van Dine…), i caratteri abbozzati più che approfonditi. L’amore con Livia è ancora allo zenit, e non si vedono nuvole all’orizzonte. Catarella fa qualche buffoneria, ma rimane nell’ombra. Fazio non ha sviluppato ancora la tecnica dei pizzini. Solo Augello si capisce che è già lo sciupafemmine che diventerà nella maturità montalbaniana. Adelina è sempre pronta ai suoi manicaretti, ed ha già sviluppato il suo disamore per Livia. La cosa buffa, è l’oste cui si rivolge il nostro Salvo, che qui si chiama Calogero, mentre poi diventerà il più corposo Enzo. I racconti sarebbero poi quasi senza tempo, se non ci fossero piccoli accenni laterali che ne collocano nel tempo le vicende. Uno risibile, l’uso delle lire invece che dell’euro. Uno più concreto, è l’accenno alla morte di Sindona, che attraversa il quarto racconto (“Il biglietto rubato”) collocandolo appunto nel 1986. Facendo rapidi calcoli, se Salvo all’epoca è un trentino, ora dovrebbe essere un sessantino, piuttosto che un cinquantino come sostiene il nostro esimio scrittore. Ma torniamo alla materia scritta. Piena, trasversalmente si diceva, dei topos di Camilleri: i ladri, che spesso non sono cattivi ma solo sfortunati (cfr. “Il ladro onesto”), la lotta alla prostituzione ed allo sfruttamento delle donne (cfr. “Come voleva la prassi”, “Un’albicocca”, “Doppia indagine” o “Il biglietto rubato”), nonché la sempre presente lotta alla mafia (sia quando entra direttamente nell’anima del racconto, come ne “La transazione”, sia quando viene usata come scusa per altro, come in “Morte in mare aperto” o “La stanza numero 2”). Se fossi in voi, inoltre, eviterei di leggere i risvolti di copertina di Salvatore Silvano Nigro, che trovo ogni volta panegiricamente elogiativi, spesso a vuoto. Non vorrei tornare nel corpo degli scritti, lasciandovi la (seppur non eccelsa) felicità di percorrere la sempre piacevole scrittura dello scrittore agrigentino. Tornando con il parallelo televisivo, prescindendo dalle proprie simpatie personali tra Riondino e Zingaretti o tra Katharina Böhm e Sarah Felberbaum, leggendone il progresso, direi che mi sembra ci sia una grande divaricazione tra lo scritto ed il parlato. Livia, sulla carta, è vicina a Salvo, va su e giù tra Vigata e Boccadasse, ma non si sogna di portare Salvo all’altare. Come pare succeda in Tv. E dove si passa dal turbamento della morte i Sindona perché, così come per “il banchiere di Dio”, anche nella Sicilia montalbaniana, nulla si riuscirà a cambiare realmente. Camilleri sa, e noi con lui, che le collusioni tra politica ed il resto (che ognuno interpreti come vuole) sono forti e non tranciabili. In televisione, invece, si vorrebbe dare un messaggio più forte, ma che risulta annacquato dalla ripetitività. Salvo decide di non sposare Livia, e di rimanere a Vigata a lottare “sul territorio”, in seguito all’attentato di Capaci ed alla morte del giudice Falcone. Con due sottoprodotti: Salvo diventa di 6 anni più giovane (sulla carta ha 30 anni nell’86, ed in onda ne ha 30 nel ’92) e Livia potrebbe essere lei a spostarsi dalla Liguria verso la Sicilia. Non capisco e non si capisce perché. Insomma, rimane sempre piacevole la mia lettura di tutti gli scritti di Camilleri (non credo sia un caso che ho ben 57 libri del nostro siciliano). E proprio per questo, mi permetto di criticarne ogni pur minima caduta o deviazione dalla retta via “salvifica”. Comunque, e per finire, intanto inviamogli auguri, che tra un mese il nostro ne farà 91 di anni (e sempre uno meno di mia madre).
Per rimediare al lungo silenzio di trame curative, ecco a voi anche il super-allegato “per appassionarsi alla lettura” (e ditemi se vi ho fatto appassionare).
Per il resto mestizia e prospettive. Un abbraccio a chi ha avuto dolorosi risvolti dalla terra che trema. Una prospettiva di un nuovo viaggio nella mia amata India, e nelle vette del suo Nord (tanto che per altre settimane lascerò il silenzio a tenervi compagnia).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

AGOSTO 2016
Poiché le mie care libropeute sono avare di commenti, ritengo doveroso accomunare questi due brevi trafiletti in un appassionato grido di “Buona lettura a tutti”.

LETTURA, APPASSIONARSI ALLA

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER FAR APPASSIONARE IL VOSTRO PARTNER (MASCHIO) ALLA NARRATIVA

Per chissà quale motivo, gli uomini non leggono tanta narrativa come le donne. Se vi è toccato un uomo che non legge un romanzo dai tempi della scuola, dategli uno di questi. (Ditegli che si tratta di saggistica sotto mentite spoglie).
William Boyd                     “Ogni cuore umano”
Giacomo Casanova             “Storia della mia vita”
Alexandre Dumas               “I tre moschettieri”
Joseph K. von Eichendorff    “Vita di un perdigiorno”
Arthur Golden                    “Memorie di una geisha”
Joseph Heller                     “Comma 22”
Soren Kierkegaard              “Diario di un seduttore”
Anais Nin                          “Il delta di Venere”
Arthure Schnitzler              “Il ritorno di Casanova”
Jules Verne                       “Michele Strogoff”

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER FAR APPASSIONARE IL VOSTRO PARTNER (FEMMINA) ALLA NARRATIVA

Per ragioni altrettanto misteriose, alcune donne non leggono romanzi. Se il vostro partner non ha il gene della narrativa, seducetelo con una storia raccontata davvero bene. Avvincenti, coinvolgenti, divertenti, questi li hanno scritti alcuni tra i migliori narratori dei nostri tempi.
Ingeborg Bachmann  “Malina”
Antonia S. Byatt       “Possessione”
Jennifer Egan           “Il tempo è un bastardo”
E. M. Foster             “Camera con vista”
David Grossman       “A un cerbiatto somiglia il mio amore”
Khaled Hosseini        “Mille splendidi soli”
John Irving              “Hotel New Hampshire”
Guy de Maupassant   “Bel-Ami”
Elizabeth Strout        “Olive Kitteridge”
Walter Tevis             “La regina degli scacchi”

Bugiardino

Dei venti libri citati per appassionarsi alla lettura (a me, chiedere di appassionarsi? Un ossimoro), ben 18 sono presenti nella mia libreria. E di questi 12 ne ho già letto. Alcuni forse non li leggerò mai (probabilmente Maupassant è già passato sotto i ponti delle mie voglie, e Verne ha altro che mi attira). Vi parlerò però soltanto di 8 di questi dodici, che molti dei primi libri dedicati ai “maschi” li ho letti anni, anni, e poi anni fa. Subito dopo la morte di mia prozia, divorai uno dei suoi regali: i dieci volumi di una delle prime edizioni delle memorie di Casanova. Ricordo anche il regalo del mio primo suocero e del racconto di von Eichendorff. Nonché la lettura, tra i libri di mio padre, e subito dopo aver visto il film, del romanzo di Heller. Non tocco nemmeno il discorso dei moschettieri. Ne lessi tutta la saga a 12 anni, da “I tre moschettieri” a “Il visconte di Bragelonne”. Per poi rileggerne il primo di tanto in tanto. Veniamo allora ai “magnifici otto”, che riporto in ordine temporale di lettura.
Antonia S. Byatt “Possessione” Mondadori euro 9,80
[trama pubblicata il 26 giugno 2007]
Mega polpettone asfissiante, con alcune idee brillanti, coinvolgenti. È la storia di due giovani studiosi di letteratura dell'Inghilterra contemporanea che, ripercorrendo i passi di un uomo e una donna vissuti un secolo prima, ricostruiscono una vicenda d'amore che ben presto diventa la loro. Il principale protagonista della vicenda è Roland Michell, un giovane studioso londinese mite e riservato, il quale trova accidentalmente in un libro appartenuto a un poeta vittoriano due minute di una lettera indirizzata a una donna. Roland si improvvisa detective e scopre così l'identità della destinataria di quella missiva. Coinvolge nelle ricerche la collega Maud Bailey e, insieme, ripercorrendo i passi della donna e dell'uomo vissuti un secolo prima, visitando i luoghi dei loro incontri e studiando le opere, ricostruiscono la perduta storia d'amore. Questa la sintesi buona. Quella cattiva per il mio gusto è l’infarcimento di “poesia vittoriana” certamente ben ricostruita dall’autrice, ma, come dice ad un certo punto un bibliotecario londinese, “Che palle queste poesie”. Giudizio altalenante (ma non tutti i polpettoni sono immangiabili), dove trovo positiva la riuscita di alcune frasi:
“Spesso è così nella vita: diventiamo coerenti e metodici troppo tardi, su basi insufficienti e forse nella direzione sbagliata”
“Quando guardo davvero in me stesso, alla mia vita, per quel che è, ciò che voglio davvero è non avere nulla. Un letto vuoto e pulito”
“Ma lui aveva capito immediatamente che lei era per lui, che lei aveva qualcosa in comune con lui, lei com’era veramente o sapeva essere o avrebbe potuto essere”
“Quando ti vedo, mi sembra che solo tu sia viva e tutto il resto scompare”.
Soren Kierkegaard “Diario del seduttore” BUR euro 4,99
[trama pubblicata il 16 febbraio 2008]
Qui la scrittura si fa difficile, non per il testo, quanto per il contesto. E qui l’opera viene pubblicata sotto uno dei tanti pseudonimi. Il Diario è estrapolato dal più ampio e articolato “Enten/Eller” e non sono sicuro della correttezza di questa estrapolazione. Certo, un po’ di straniamento mi hanno fatto quelle lettere del seduttore firmate Giovanni. Il percorso sembra semplice, il seduttore seduce e vince, la fanciulla è presa nella rete e soffre. Ma… "Il diario del seduttore", pubblicato da Kierkegaard nel 1843, mette infatti in scena l'astuto ed elegante gioco estetico del seduttore che conquista la sua preda incantandola con le armi dello spirito. Si tratta di una figura demoniaca, che arriva a possedere la donna, rapita dalla musica ammaliante della sua arte, per poi abbandonarla in una logorante disperazione. Tre sono i possibili modi fondamentali di vivere e di concepire la vita, secondo Kierkegaard: quello estetico, simboleggiato da don Giovanni, che il filosofo presenta come protagonista del Diario di un seduttore, quello etico, simboleggiato dal «marito fedele», e quello religioso, simboleggiato da Abramo, il personaggio biblico. Questi tre «modelli» sono in irriducibile alternativa tra di loro; si escludono vicendevolmente; sicché il terzo non costituisce un superamento dei due precedenti. Il passaggio, possibile ma non necessario, dall'uno all'altro implica, per Kierkegaard, sempre una radicale rottura, un salto, un capovolgimento di mentalità. Nello stadio estetico l'uomo conforma la sua esistenza secondo il principio di godersi la vita; il che comporta un vivere permanentemente nel presente, nell'attimo. Ma, secondo Kierkegaard, vivendo momento per momento l'uomo non trova mai in sé una sua propria identità, sicché s'insinua il sentimento dell'inadeguatezza del suo modo di vivere; ossia, s'insinua la noia che apre la porta alla disperazione; meglio, alla consapevolezza della sua disperazione (infatti il suo legarsi all'attimo, il suo incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione); e questa consapevolezza costituisce la condizione primaria per l'insorgenza del bisogno di «cambiar vita», di una vita diversa, anzi di segno opposto, e dell'effettivo salto nello stadio etico.
Khaled Hosseini “Mille splendidi soli” Piemme s.p. (regalo di Mina)
[trama pubblicata il 14 dicembre 2008]
Meglio del primo, di cui parlai (e male) più di un anno fa. Anche se rimane la sensazione: questo è l’Afghanistan visto da dove? Da un’America lontana? O… Storia di donne raccontata da un uomo (e questo spesso lascia limiti irrisolti), parla di Miriam e di Laila. La prima, figlia bastarda di un ricco uomo di Herat, sarà la prima sposa di un afghano di Kabul che per avere figli poi sposerà Laila, nata insieme alla rivoluzione dei talebani del 1978. E quello che poteva diventare un conflitto diventa un rapporto vero, che le renderà sorelle e che alla fine cambierà il corso delle loro vite e di quelle dei loro discendenti. Esce con forza l’amore per la famiglia che porta a fare gesti inauditi. Ma esce anche tutto l’orrore di anni e anni di repressione ed oscurantismo. Ripeto, si legge, commuove (tanti i tasti di facile sommovimento interiore), ma non entra nel problema. Descrizione esterna, esteriore, di chi, ben o male a 15 anni se ne va in California. Dove certo si laurea, diventa medico ed altre americane amenità. Ma che solo da poco più di dieci anni decide di ripensare alla sua terra d’origine. Ne sono rimasto perplesso.
Arthur Golden “Memorie di una Geisha” TEA euro 10 (in realtà, scontato euro 8)
[trama pubblicata il 17 gennaio 2010]
Artificioso, come un bel fil americano degli anni ’30. Cioè, non c’entra molto né con il Giappone né con le Geishe. Partendo da questi dati, un libro discretamente ben scritto, con una trama, appunto, da film anni ’30: bimba strappata alla famiglia, avviata a fare la geisha, entra in conflitto con la Geisha ben voluta dalla casa di Geishe dove vive, viene aiutata da un’altra Geisha, vince la battaglia, diventa una geisha ricercata e moderatamente ben voluta, forse trova l’amore, e finisce la sua vita a gestire una casa del tè a New York. La storia è ovviamente ben scritta, sicuramente si è anche basata su informazioni (di prima o seconda mano) sul mondo delle Geishe che un po’ ne adombrano il modo di vivere, soprattutto nel periodo precedente l’ultima guerra, là dove il Giappone era ancora avvolto nei suoi misteri imperiali. Ma si buttano là alcune ombre che lasciano il dubbio: realtà o effettacci? La Geisha è un’artista raffinata o una prostituta di alto profilo? La verginità veniva veramente venduta al miglior offerente? E via di questo passo. Certo, la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Golden con una Geisha che lo ha accusato di aver falsato le sue memorie, non ha certo favorito a rendere il libro una sorta di “vita vissuta” piuttosto che un parto della fantasia. Io propendo per la seconda versione, e mi domando come sarebbe un libro di Geishe scritto da giapponesi (uomini o donne). Ed è una domanda difficile perché quello è un mondo con una tipologia di testa che non riesco ad incontrare (ne incontro solo la pancia, nel senso che torno sempre con piacere a gustare sushi e sashimi). Mi ricordo le decine (al massimo) di film giapponesi “puri” che ho visto e che (Kurosawa a parte) non è che mi abbiamo poi coinvolto gran che.
“A volte credo che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo” (562)
“Si era staccato da me … con la stessa naturalezza con cui le foglie cadono dagli alberi. … Anche ora che lui non c’è più, l’ho ancora con me, nella ricchezza dei miei ricordi” (563)
David Grossman “A un cerbiatto somiglia il mio amore” Mondadori s.p. (regalo di Alessandra)
[trama pubblicata il 7 febbraio 2010]
Quanto tempo ho impiegato a leggere questa megagalattica palla! Veramente poi ha anche dei bei momenti, ma è faticoso: faticosa la scrittura, faticosa la trama, faticoso il sovra testo. La trama in sé è anche linearmente raccontabile: si inizia in Israele, durante la guerra dei Sei Giorni (cfr. Mahfuz). Avram, Orah e Ilan, sedicenni, sono ricoverati (per qualche ignota malattia) nel reparto di isolamento di un ospedale di Gerusalemme. I tre ragazzi si uniscono in un'amicizia che si trasformerà, molto tempo dopo, nell'amore e nel matrimonio tra Orah e Ilan. Dopo trentasei anni, Orah è una donna separata, madre di due figli, Adam e Ofer. Quest'ultimo, militare di leva, accetta di partecipare a un'incursione in Cisgiordania. Preda di un oscuro presentimento, Orah decide di abbandonare tutto e partire, per non essere presente quando gli ufficiali dell'esercito verranno a darle la notizia della morte del figlio. Ad accompagnare la donna c'è Avram, ricomparso nella sua vita dopo più di un ventennio. Il loro viaggio diventa occasione di riflessione e di rimpianto, ma anche di gioia e tenera rievocazione. Fino a che arriverà il momento di tornare a fare i conti con il presente che, tutt'intorno, preme inesorabile. Questa la trama visibile, perché poi le quasi mille pagine si ingarbugliano di mille rivoli e contorcimenti, a volte funzionali a volte inutilmente astrusi, per cui leggevo e rileggevo le pagine per capire che volesse dire. Questa la fatica della scrittura, che già ricordavo in “Vedi alla voce amore” letto tanti e tanti anni fa, ma tanti che quasi mi ero fortunatamente scordato di come mi facesse fatica. Quindi non sorprende se un dono del Natale 08 sia stato terminato solo un anno dopo… Una scrittura, ad esempio, che non prevede parlato, e quando si parla si riporta come flusso di pensiero, senza segni di scrittura, lasciando a mezzo se è vero dialogo o ricordo dello stesso. Ed alla fine, non ultima, la fatica del sovra testo, visto che il libro esce poco tempo dopo la morte in una scaramuccia usuale in quel di Israele di uno dei figli di Grossman. Ovvio, nessuno negherà mai il dolore di un genitore alla perdita di un figlio. Ed ogni genitore cercherà di elaborarla nei modi a lui usuali, nel silenzio, nel pianto, nell’esternazione, nella scrittura. Comprensibile. Ma qui si aspetta ad ogni rigo, ad ogni pagina che questo orrore salti fuori. E non avviene. Mai. Alla fine tutto sembra essere un lungo pianto ebraico di fronte al Muro di Gerusalemme, con quegli ondeggiamenti rituali che intontiscono che li fa e chi li guarda, fungendo un po’ da mantra un po’ da training autogeno. Ma tutto ciò rimane nella mente sicuramente mia e forse di Grossman. Quello che resta sulla pagina è un inutile tormento di centinaia e centinaia di pagine, dove non riesco ad amare gli attori del dramma, ed aspetto ad ogni piè sospinto che qualcuno me ne spieghi le movenze. Ma non arriva. Io chiudo il libro. Ripenso ai miei viaggi in Israele e rimango con la stessa attonita sensazione: non si riuscirà mai ad uscirne in modo decente. 
“Sei proprio un coglione, giochi con i sentimenti degli altri, ecco quello che fai” (65)
“Sognatore, malato d’amore, di sesso. Si prendeva una cotta per qualunque ragazza gli passasse nelle vicinanze, non importava chi fosse, bastava che fosse femmina e lui come minimo avrebbe fatto di lei Brigitte Bardot.” (68)
“Davvero, chi immaginava che facesse così bene scrivere?” (372)
“Ricordati soltanto che a volte una cattiva notizia non è che una buona notizia che è stata fraintesa, e ricordati anche che quella che era una cattiva notizia, può tramutarsi in buona col tempo, forse la migliore” (401)
“Non capisco come si può scegliere il nome a un figlio, prendere una decisione tanto cruciale…” (408)
“Non c’è limite alla fantasia dei guai” (539)
“Forse è questo che rimpiango: non aver provato amore per una donna. Non averne incontrata una che fosse un’ancora per me, alla quale poter dare tutto me stesso” (570)
“Non mi hai mai detto… che mi ami. Una ragazza ha bisogno di sentirselo dire... Ma tu sei avaro, al massimo dici ‘amo il tuo corpo’, ‘ mi piace stare con te’, ‘mi piace il tuo sedere’” (584-5)
“Lei gli chiedeva tanto poco, e nemmeno quello riusciva a darle” (586)
Edward M. Forster “Camera con vista” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 12 febbraio 2012]
Che bel meccanismo! Un piccolo orologio a cucù che inizia a suonare ma stona. E l’orologiaio avvita pian pianino tutte le viti giuste, ed alla fine il cuculo riprende a suonare. Molto, ma molto intonato! (Inciso: orologio a cucù perché dall’inglese cuckoo che significa cuculo). Forster non è ancora trentenne, ed è al suo terzo romanzo. Qui, però, spinto da tutta una serie di moti interiori, riesce a costruire quel meccanismo perfetto che dicevo prima. Come un’azione teatrale in due scene: la prima a Firenze e la seconda nella campagna inglese. Con personaggi che assurgono ad archetipi del loro stato: signorine inglesi in giro per il mondo (e signorine di vario genere, giovani e anziane), bei giovani con parenti al seguito a prendersi il sole dell’Italia (e le sue bellezze), canonici di varia natura, maturi giovanotti medioevali, mamme preoccupate più delle dalie che dei pensieri filiali, ed altre amenità. Il personaggio centrale è femminile, Miss Lucy, che attraverso varie tappe ed agnizioni riesce finalmente a capire quale sia la sua propria volontà. Che le donne, nel 1908, erano ancora prese e stritolate dai meccanismi delle convenzioni. Così come lo era preso e stritolato il nostro Edward, che cerca di rompere una forte lancia in questo romanzo per dire che non si deve nascondere il proprio essere. Questo verrà, dovrà venire fuori. Certo non è facile per il nostro scrittore gay, ma non lo è neanche per la nostra Lucy. A Firenze avviene il fatale incontro con il buon George. Ma lei è ancora piena delle convenzioni mondane della pseudo - aristocrazia inglese. E lui non fa nulla per negare il suo anticonformismo. Pensate che è convinto che le donne possano e debbano pensare con la loro testa! Che assurdità. Ma in Piazza della Signoria, Lucy è turbata da una scena violenta. E George la soccorre. E nella gita a Fiesole, trovatisi soli, George la bacia. Lucy non capisce nulla e fugge. Prima a Roma. Poi a casa, dove si svolge il secondo atto della storia. Poi nelle braccia del fatuo Cecil, che accetta di sposare. Qui Forster dà il meglio di sé. Riesce a dipingerci Cecil Vyse come archetipo di tutti gli spocchiosi aristocratici londinesi. Che pensano i campagnoli siano gente da educare. Che deve insegnare a Lucy a pensare con la sua testa (sua di Cecil ovviamente). Che odia sudare, e si rifiuta di fare il quarto nel doppio di tennis. Dicevo degli archetipi. Ed allora riprendiamoli. Come i due sacerdoti: il bonario Beebe, sempre in mezzo agli avvenimenti cruciali, che pensa il celibato sia meglio del matrimonio, e l’arcigno Eager, che cerca di mettere in cattiva luce George ed il padre in quanto … troppo liberali. Ci sono le signorine Alan, sorelle zitelle attempate, che però, timorose e lagnose, alla fine visiteranno l’Italia, poi la Grecia, e forse faranno il giro del mondo. Qui Forster ci dà dei tocchi di verismo su come affrontino i viaggi gli inglesi dell’epoca che sono di un’ironia deliziosa. E c’è la madre di Lucy, preoccupata dell’apparenza e sorda alla sostanza. Una donna per cui, se si viene invitati ad un tè bisogna ricambiare l’invito entro dieci giorni, altrimenti è scortese. E se piove a Londra, meglio infilarsi in un negozio di vestiti che in un museo. Su tutta questa gente di contorno, poi, brilla la stella della cugina Charlotte. Antipatica, sempre fuori misura. Ma l’unica che ha capito fin dall’inizio che poteva nascere del tenero tra George e Lucy. E sembra fare di tutto per soffocarlo. Ma poi ci accorgiamo che è vero il contrario, e saranno le sue assurde manovre che, forse involontariamente, porteranno alla vera conclusione. Quella che tutti ci aspettiamo. Quella per cui facciamo il tifo, cercando di spingere, noi lettori, la bella Lucy a ragionare ed a guardarsi dentro. Lo farà fino in fondo? Riuscirà a mollare il medioevale Cecil per il moderno George? Anche chi non ha letto il libro, penso lo sappia già se ha visto il bellissimo film di James Ivory con Helena Bonham Carter nella parte di Lucy e Julian Sands in quella di George. Lo ricordo ancora, il film, ed è stata una bella sensazione leggere vent’anni dopo il libro e trovarne una sostanziale sovrapposizione. Sia Ivory che Forster ci vogliono portare a guardare dentro di noi, ed a smettere di costruire barriere. Solo quando le abbatteremo riusciremo a percepire la vita che ci circonda ed a vivere la nostra vita. Ben scritto Edward! Purtroppo non ben stampato, come dimostrano le due seguenti perle, “Lucy e sua madre fecero rompere in silenzio” e “Chiese George immobilizzandola coi gemiti”. Dove invece dovevamo leggere compere e gomiti. Ah, dove sono finiti i correttori di bozze!
“Voi siete giovani, miei cari, e i giovani, nonostante tutta la loro intelligenza, nonostante tutti i libri che leggono, non possono avere idea di cosa voglia dire invecchiare.” (149)
“È facile raccontare la vita, difficile viverla.” (151)
Jennifer Egan “Il tempo è un bastardo” Minimum Fax euro 18
[trama pubblicata il 23 agosto 2015]
Mi incuriosì per le citazioni libropeutiche, e per aver vinto il Premio Pulitzer nel 2011. Tanto che decisi di comperarlo senza aspettare edizioni economiche o sconti. Un piccolo inciso sul Pulitzer, che è eminentemente un premio giornalistico, ma che, come sottoprodotto, ha anche dei premi che variano dalla letteratura all’arte ed alla musica; e nella narrativa viene assegnato ad un'opera di un autore statunitense, che tratti in preferenza della vita americana. Chiuso l’inciso veniamo ora al libro, che una volta chiuso, vorrei tornare ad aprire, vorrei tornare ad immergermi nella vita di Benny, di Sasha, di Dolly, e di tutti i personaggi (anche di Lincoln, perché no) di cui la fertile mente di Jennifer Egan ha popolato questo spazio. Un libro magistrale, forse non semplicissimo (pieno di nomi, di rimandi, ed anche di musica, con citazioni neanche tanto scontate). Ma sicuramente un libro che non mi si scollava di dosso. Che inizia tra l’altro con una difficile traduzione del titolo. In italiano ci si rifà al tempo chiamandolo bastardo, come in spagnolo, dove lo si chiama canaglia. Mentre in francese si cerca di svelare un po’ di più chiedendosi nel titolo che cosa abbiamo fatto dei nostri sogni. In inglese, dicevo, è più complicato. Si parla di una visita di una “Goon Squad”, termine che ha origine nella metà degli anni '90, dove indica gruppi di teppistelli che venivano assoldati per intimidire, e presto passato ad indicare, nel lato violento, una banda criminale, e nel lato “leggero” un’accolita di teppisti. La Egan lo usa per indicare il nocciolo duro da cui si dipartono le storie, una specie di band rock degli anni ’70 in quel di San Francisco, con il suo bassista-manager Bennie (e quanto c’è in lui del grande Bill Laswell?), il suo chitarrista-fenomeno Scotty, il batterista Bosco e le groupie (Jocelyn, Rhea e Alice). Il bello, ed il difficile, della storia è che non seguiamo la band in un percorso temporale sincrono, ma ci vengono sfornati 13 capitoli, che possono quasi leggersi come tredici racconti (ognuno ha un suo sviluppo interno ed una sua coesione), ma che sono legati perché nei racconti entrano ed escono i personaggi della band, ma anche quelli a loro legati, in una specie di Girotondo alla Schnitzler, che, andando su e giù nel tempo, dai mitici anni ’70 a qualche anno del prossimo futuro (ma forse del nostro presente) cerca di sviluppare il tema che ad un certo punto dice uno dei personaggi: come siamo passati da A a B? Cioè “com’è successo che da rockstar io sia diventato un ciccione che nessuno s’incula?”. Da qui capite il riferimento del titolo francese. Uno degli assi portanti, che parte dalla band di cui sopra, sarà Bennie, pieno di idee verso la nuova musica che, partendo dal rock puro degli anni ’70 passa per le propaggini estreme, tra canzoni d’impegno e suoni duri (forse heavy metal, forse altro). E per le sue capacità di talent e di manager. L’incontro che farà maturare Bennie è con il divo rock Lou, emblema di tutto il meglio ed il peggio delle star. Sempre pieno di soldi e droga, con famiglie che costruisce e sfascia. E con le storie, cui cambierà la vita, con Jocelyn e, forse, con Rhea. E mentre si imbastiscono i primi tradimenti all’odore di fumo pesante (con Bennie che non si dichiara ad Alice, così che lei si mette con Scotty), per riscattare la sua incapacità di suonare e di amare, Bennie fonda una casa discografica, che avrà un enorme successo nel lanciare nuovi talenti. Qui si inserisce il secondo volano della storia, Sasha, che dopo una gioventù sbandata, trova il suo posto come segretaria di Bennie, raddrizzando le storie che a lui cominciano ad andare storte. Anche se di Sasha sappiamo di più, per una lunga seduta di analisi, in cui scopriamo la sua pulsione cleptomane, ed il breve amore per il giovane e belloccio Alex. Bennie, fatta fortuna, con la moglie Stephanie si sposta nelle zone “in” di New York, dove Stephanie verrà a poco a poco risucchiata e corrotta dallo star system, e dai nuovi ricchi repubblicani. Mentre tentava ancora di avere una sua strada come giornalista al servizio di Dolly, portandosi appresso il fratello giornalista e fuori di testa, che viene condannato a 5 anni per tentato stupro al Central Park di un’attricetta che sta intervistando. La vita di Bennie va a rotoli quando si rifiuta di cedere al mercato (mitica la scena in cui al consiglio d’amministrazione che vuole portare la casa discografica verso facili successi porta a colazione della merda, dicendo “Volete vendere merda? Allora mangiate merda!”), e viene licenziato. Stephanie lo lascia, rifacendosi una vita con gli alimenti, perché nel frattempo lascia anche Dolly, la cui agenzia di promoter va a rotoli per un party sbagliato. Sasha sparisce e la troviamo anni dopo, sposata con Drew, un chirurgo dai buoni sentimenti, vivere ai margini di un deserto con la brillante figlia Alison, maniaca di Power Point (e molto bello è il capitolo fatto tutto a slide) ed il secondo figlio quasi autistico Lincoln, che cerca nei dischi le pause di silenzio (e ne fa una disamina acuta e coinvolgente analizzando David Bowie ed i Led Zeppelin, i Police e Jimi Hendrix). Dolly cerca di risalire la china facendo la promoter per un generale sudamericano in odore di massacri civili, coinvolgendo in un servizio fotografico l’attricetta dello stupro al Central Park. Ma anche questo andrà a rotoli, e lei si ritirerà in campagna a fare torte artigianali. Bennie tocca il fondo, poi trova nuovo sprint in un nuovo matrimonio, e nell’idea (vincente) di lanciare un concerto live del vecchio Scotty, rimasto sempre nell’ombra, ma sempre fedele a sé stesso. Anche se ormai imbolsito (come da citazione di cui sopra). E per il lancio usa come elemento di spinta Lulu, la figlia di Dolly che riesce a convincere Scotty a salire sul palco, e Alex (l’amore di Sasha sempre di cui sopra), anche lui sposato e con figlio piccolo. Ad un certo punto c’è anche una riunione di (quasi) tutti a casa di Lou, per assisterne gli ultimi istanti di vita. Con gli echi di chi ricordava la stessa casa, trenta anni prima, piena di tutti altri fermenti ed altri suoni. Io ho ricostruito la storia lineare perché mi piaceva fare così, ma come detto, la scrittrice riesce a farne una storia che va su e giù nel tempo, durante la quale siamo noi a dover ricostruire i pezzi saltati o accennati. Perché invece lei, nella sua circolarità, inizia con la mini-storia di Sasha e Alex, e finisce con Benny e Alex che vanno alla vecchia casa di Sasha, senza sapere della di lei nuova vita. Succede anche molto altro che tralascio per brevità e curiosità. Ribadendo il piacere della lettura, gli stimoli cultural-musicali che propone. E ritornando alla domanda su come abbiamo fatto, anche noi, a passare da quell’A che eravamo al nostro B attuale. Domandandoci anche com’è che, dentro, spesso, non ci sentiamo diversi, anche se tutto intorno a noi ci dice il contrario. Una bella lettura assolutamente da consigliare (e non preoccupatevi di ricostruire le storie come fa il vostro amico maniaco ma godetevele e rimanete sempre su quella domanda). Buona lettura.
John Irving “Hotel New Hampshire” Bompiani euro 10
[trama del14 marzo 2016]
Secondo le dottoresse dei libri, questo romanzo potrebbe aiutare ad avvicinare il vostro partner (femmina) alla lettura. Ora, fatto salvo che è un buon libro, pieno di invenzioni, lo ritengo tuttavia un libro difficile, per entrare a pieno nello spirito di una lettrice neofita. Irving è sempre stato, nelle prove che ho letto (e soprattutto ne “Il mondo secondo Garp”), uno scrittore pieno di immagini, ma di immagini non sempre facilmente decifrabili. In Garp, ricordo le parossistiche scene proto-femministe, la sessualità come lussuria, la morte del secondo figlio di Garp. Ma qui parliamo dell’Hotel e non di Garp, un libro scritto tre anni dopo il precedente. Anche qui, forse in maniera più palese, c’è il percorso di crescita. Nella fattispecie la crescita, corale e personale, della famiglia Berry, dall’incontro tra Win e la futura moglie, sino ai quarant’anni dei figli maggiori. Cioè dal ’39 al ’80, circa (così come Garp si estendeva dal ’42 al ’75). L’impronta a tutta la famiglia viene data dal padre, Win, un estremo sognatore, che si butta a capofitto nelle imprese più folli e disperate, uscendone spesso malconcio, ma sempre pronto a ripartire. Per pagarsi l’Università si mette a fare il cameriere in un albergo a Dairy nel New Hampshire, dove incontra la futura moglie, anche lei lavorante nell’albergo e Freud, un saltimbanco austriaco che gira l’America con un sidecar ed un’orsa. Decide allora di comprare l’orsa, di sposare la donna, e di iniziare a girare anche lui l’America per fare soldi. Non ne farà molti, ma ogni volta che torna a casa mette incinta la moglie, che partorisce in tre anni Frank, Franny e John (lo scrittore che narra la storia). A questo punto, approfittando della vendita di una ex-scuola femminile, decide di indebitarsi, la compra e la trasforma in albergo, l’hotel New Hampshire. Mentre fervono i preparativi per l’albergo, muore l’orsa, sostituita dal cane Sorrow. Poi a distanza di qualche anno nascono due nuovi figli: Lilly, che sarà affetta da nanismo, ed Egg, mago dei travestimenti ed un po’ duro d’orecchio. L’adolescenza dei tre fratelli Berry prosegue tra alterne vicende: Frank si scopre omosessuale, e ne vivrà coscientemente la strada, anche se non sempre felicemente, Franny è la più matura di tutti, ed anche la più avvenente, John, per distogliersi dal suo morboso amore verso Franny si dedicherà con successo al sollevamento pesi. La prima svolta avviene verso la metà degli anni ’50, quando il capitano della squadra di football e due suoi amici violentano Franny, che impiegherà molti anni a riprendersi (quello della violenza sulle donne è un altro dei temi cardine di Irving). Muore Sorrow di vecchiaia, e Frank, per consolare la sorella, lo impaglia. Ma lo nasconde nell’armadio del nonno, che, aprendolo inavvertitamente, e vedendo il cane che suppone morto, viene preso da un infarto e muore lui stesso. Pochi anni dopo, Win riceve una lettera da Freud, tornato a Vienna, che lo invita nella sua città per mettere in piedi un altro albergo. Ovviamente il sognatore non si tira indietro, vende tutto e tutti, e comincia la nuova avventura. Come spesso nei libri di Irving, qui il destino ci mette una zampa: Win ed i quattro fratelli maggiori partono ed arrivano a Vienna, la Mamma ed Egg partono che un secondo aereo che si inabissa nell’Oceano. Questo è appunto un altro tema forte dello scrittore: la perdita, la sua elaborazione e la successiva ricostruzione. Il periodo viennese viene vissuto dalla famiglia Berry come altro momento di crescita, anche se inserito in un contesto demenziale. L’albergo ospita al secondo piano quattro simpatiche prostitute ed all’ultimo un gruppo di fatiscenti “radicali”, che oggi chiameremo terroristi e che impiegheranno i sette anni viennesi dei Berry per costruire una bomba ed effettuare un attentato all’Opera di Vienna. In questi anni austriaci, si radicalizzano i sentimenti dei nostri: l’omosessualità discreta di Frank, la difficoltà di tornare alla normalità di Franny (che troverà solo tra le braccia dell’accogliente Suzie, che si aggira per l’albergo vestita da … orso), le impossibilità sessuali di John, che, seppur aveva passato la soglia della verginità in America, non riesce a darne sfogo, continuando ad essere ossessionato dalla sorella, la crescita (morale non fisica) di Lilly, che, elaborando i suoi lutti, scrive un libro, che nel futuro, campione di incassi e trasformato anche in film (come succede a tutti i migliori romanzi di Irving) darà la tranquillità economica alla famiglia. Dopo i sette anni di crescita, tra alti e bassi, i radicali costringono i Berry ad una scelta. Diventeranno eroi salvando l’Opera, ma Freud morirà nello scoppio e Win diverrà cieco. Però avranno i soldi per tornare in America dove si operano le ultime vicissitudini dei nostri paladini. Lilly, pur cercando di scrivere, non riesce a crescere, e si butta dalla finestra dell’albergo. Prima però i fratelli Berry riescono a vendicarsi dello stupratore di Franny, e la stessa decide di salvare sé stessa ed il fratello attraverso una cura di sesso che dura un tempo lunghissimo, lasciandoli ad un futuro che finalmente libera entrambi dalla perversa attrazione. Il mesto, ma tutto sommato allegro, finale, vede i Berry comperare un nuovo albergo, anche se faranno solo finta, tanto Win è cieco. Ma se lo possono permettere con i soldi di Lilly. Suzie trasferitasi in America anche lei si dichiara ed è accettata da John, che vivrà con lei il resto della sua vita. Franny sposa un ex-atleta di colore di cui era da sempre innamorata (dai tempi del liceo direi). E via narrando. Ci vorrebbero altrettante pagine per narrare tutti i risvolti immaginati da Irving per la trama, i trabocchetti, i rimandi, i giochi di parole. Ed altrettanto ci sarebbe da dire sui temi quasi autobiografici del testo: John diventa un campione di sollevamento pesi e Irving (anche lui John) era una campione di lotta libera all’Università; sia Irving che i Berry (ma anche i Garp) per un certo periodo della loro vita si trasferiscono a Vienna. Ma tutte queste ed altre astuzie letterarie e di storie le lascio a voi amati lettori, perché, nonostante appunto l’intricata gestione delle storie, è un bel libro da scorrere, anche lentamente se vogliamo. Io vi riporto solo un piccolo brano che John dedica al fratello quando questi compie quaranta anni. Una poesia del poeta americano Donald Justice, a me poco noto, ma mi si dice autore di belle righe da meditare. Come queste: Men at forty / Learn to close softly / The doors to rooms they will not be / Coming back to.  [Gli uomini a quarant’anni / imparano a chiudere piano / le porte di stanze nelle quali / non torneranno più]. Credo che al fine non sia il migliore tra i libri di Irving (che tutti indicano ne “Le regole della Casa del Sidro”, che non ho letto), ma un libro che va in ogni caso letto, e ben ponderato.
“Leggere ad alta voce per qualcuno è uno dei piaceri di questo mondo.” (415)

Conclusioni


Devo dire che, personalmente, mi basta molto meno per appassionarmi alla lettura. E trovo anche da analizzare il fatto che, almeno secondo le due signore, io legga molti più libri “da femmine” che “da maschi”. Lasciamo perdere, che mi sembrano generalizzazioni sciocche. Voglio solo dire che, dai ad un ragazzo di dodici anni Dumas o Verne e sarà conquistato. O dai ad una ragazza di pari età una Jane Austin. Per tutto il resto, per far appassionare anche i lettori adulti, personalmente propongo il bel libro della Egan. Uno libro che vale la pena di capire.

lunedì 22 agosto 2016

Wilbur e l'Egitto - 21 agosto 2016

Riprendiamo le nostre solite trame salutando nuovi amici che si aggiungono alla lista dei miei (potenziali) lettori. Tornato, riposato, dal bel giro croato (un po’ di rime non guastano), dando appuntamenti esplicativi ai nuovi arrivi, per colmare i riposi estivi, ci dedichiamo questa volta alla saga egiziana di Wilbur Smith. Come dico anche sotto, per anni ho temporeggiato cercando di capire se questo scrittore di lunghe serie avventurose potesse entrare nelle mie letture, quanto meno estive. È entrato, ma non mi ha fatto una grande impressione, soprattutto nel quarto volume della serie. Si leggeranno altre serie ed altre avventure, per ora queste sono sufficienti per un giudizio quanto meno dubitativo.
Wilbur Smith “Il Dio del fiume” Longanesi s.p. (biblioteca di Tolemaide)
[A: 01/08/2014– I: 26/12/2015 – T: 31/12/2015] - &&&     ---
[tit. or.: River God; ling. or.: inglese; pagine: 600; anno 1993]
Dopo tanti anni in cui ho rifuggito il sudafricano Smith e le sue avventure africane, ho deciso di dargli una chance, sia perché un po’ stanco della ripetitività delle avventure di Cussler, sia per vedere come veniva trattato il mondo dell’antico Egitto, frequentato in gioventù dopo aver a lungo amato le storie di Ramsete di Jacq (iniziate a leggere durante gli studi parigini, e continuate allora seguendone le uscite in originale). Quindi, largo al “long seller writer”, nato anche lui agli inizi degli anni ’30, come Cussler. Ma nato in quella che allora era Rhodesia del Nord ed ora Zambia. Leggerò, credo, in futuro qualcosa dei suoi cicli maggiori, mentre comincio a spulciare questo, considerato minore. Il ciclo egizio, cui ha cominciato a mettere mano solo al volgere del suo sessantesimo compleanno. L’impressione generale è che ci sia una sostenuta documentazione a corredo: bene le descrizioni degli ambienti, dei costumi, delle scene di massa. Forse un po’ troppo da film hollywoodiano i personaggi principali. Soprattutto il motore principale di tutta la storia, l’eunuco Taita. Un genio in tutti i campi (economia, guerra, navigazione, pittura, architettura, e chi più ne ha…), tanto che preferisce rimanere schiavo (e quindi protetto) piuttosto che essere liberato e dover sottostare alle assurde leggi egizie, di quello che, anno più anno meno, individuiamo con un periodo intorno al 1600 a.C. Taita è schiavo del nobile Intef, un degenerato signore che fa di tutto per mantenere il potere (ma no, dai, anche in Egitto…). Ed è precettore della bella Lostris, cui fa da paraninfo per l’altrettanto bello e buono Taunus. Che però è figlio di un personaggio caduto in disgrazia con Intef (e che forse lo stesso Intef ha fatto uccidere). Per cui non ci sarà mai accordo alle nozze. Anzi Intef fa in modo che Lostris venga vista ed apprezzata e quindi chiesta in moglie dall’anziano faraone Mamose VIII. Faraone che deve fronteggiare due emergenze: banditi verso l’Alto Nilo, ed uno scisma con a capo il “Pretendente Rosso” nel basso Egitto. Ricordo che l’azione si svolge principalmente a Tebe (cioè l’odierna Luxor). Ci sono un sacco di intermezzi in questa prima parte, come la rappresentazione sacra della vita del dio Horus e della triade tebana, in cui apprezziamo anche il Taita letterato. Servono a dare un contorno alla vicenda, ed un rilievo alla veridicità dei fatti. Quello che risulta alla fine è che Lostris sposa Mamose, Taunus, che tenta una ribellione, viene incaricato della missione suicida di sconfiggere i banditi del sud dell’Egitto, Taita si sposta nella coorte del faraone, al seguito di Lostris, avendo in mano gli strumenti per danneggiare, se servisse, il suo ex-capo Intef. Altri avvenimenti si susseguono, Taita entra nel regno dei morti, novello Dante, e percorre i “Labirinti”, sorta di anticipazioni del futuro, in base ai quali convince Lostris e Taunus a non disperarsi. Ovviamente, Taunus sconfigge i banditi, smascherando il capo che non è altri che Intef (che però riesce a fuggire verso il Nord). Lostris mentre pubblicamente si concede al faraone, ha invero un figlio maschio con Taunus. Sarà facile per le arti di Taita convincere Mamose che Memnone sia suo figlio. Intanto la minaccia dal Nord si avvicina, e Taita convince tutti a fuggire verso il Sud. Assistiamo quindi all’attraversamento delle diverse cataratte del Nilo (che passai in aereo recandomi ad Abu Simbel, fantastiche!). La minaccia dal Nord viene da un nuovo popolo, gli Hyksos, che si favoleggi usino il cavallo ed il carro da guerra. Saranno loro a sconfiggere il Pretendente Rosso, facendo in modo di insediare Salitis (e qui ci si collega alla “storia” reale dei faraoni della XV dinastia). Nella ricerca della tomba felice, in un posto imprecisato, in seguito a ferite muore Mamose, indicando il finto figlio come successore e Lostris come reggente. In realtà sarà Taunus a governare dietro le quinte, ed a far nascere altre figlie a Lostris, sostenendo che siano nate dallo spirito di Mamose (una scusa veramente puerile). Passano gli anni, e muore anche Taunus, ma nel frattempo Taita ha terminato la grande tomba reale, dove verrà sepolto… E nel frattempo, Memnone diventa Tutmosis I, s’innamora e sposa una bella eritrea. E tutti tornano vittoriosi e trionfanti a Tebe. Grande pastiche storico-letterario, forse un po’ lento in alcuni punti, ma, come detto, ben documentato ed anche con qualche aggancio alle cronologie reali che non guasta. Vedremo come Smith deciderà di proseguire la sua saga. Mi domando, infatti, se seguirà il concetto seriale, caro ai giallisti moderni, o quello episodico, più consono forse ad una saga multi-temporale.
Wilbur Smith “Il settimo papiro” TEA euro 6,90
[A: 01/08/2014– I: 06/01/2016 – T: 19/01/2016] - && e ¾
[tit. or.: The Seventh Scroll; ling. or.: inglese; pagine: 554; anno 1995]
Sono rimasto un po’ deluso da questa seconda prova del “ciclo egizio” di Smith. Non per la scrittura, che rimane sullo standard delle letture facili e ben scritte, oltre che discretamente documentate. Quello che manca è il sapore dell’Antico Egitto, invece presente nel primo libro. Libro che ha un potente raccordo con questo, ma che poteva essere scritto dalla fucina “Cussler” per l’impianto generale. Un mistero che viene dal passato (e descritto ne “Il Dio del Fiume”), ed un’azione tutta al presente. C’è infatti la bella dottoressa Royan, anglo-egiziana, che insegue i misteri descritti nei suoi papiri dallo schiavo Taita. In particolare, come già sappiamo, la costruzione ed il nascondiglio della tomba del faraone Mamose. Peccato che i papiri siano appetiti da qualche sconsiderato che li ruba, ed uccide il marito della bella. Royan chiede allora aiuto all’unica persona cui si fidava il marito, sir Nicholas Quenton-Harper, quarantenne, aristocratico, un po’ truffaldino, da poco anche lui vedovo. I due partono allora per le misteriose terre bagnate dal magico Nilo che si stendono tra l’Egitto e l’Etiopia. Qui si intrecciano vicende legate al presente turbolento di quei posti (siamo negli anni ’90, ci sono le lotte intestine tra etiopi ed eritrei, ed altre vicende di guerriglia) alle vicende legate alla decifrazione dei papiri, alla ricerca della famosa tomba, che Taita aveva nascosto sia per evitare saccheggi, che per far dispetto agli Hyksos invasori. Sulla scena quindi, oltre ai nostri due eroi, che finiranno per innamorarsi, anche se il loro rapporto non sarà proprio facile né all’inizio né durante lo svolgimento (e forse neanche dopo la fine del libro), si affacciano altri personaggi. Il guerrigliero ribelle Mek Nimmur, vecchio amico di sir Nicholas, sua guardia militare, e ben presto anche lui preso dalle spire amorose della nobildonna etiope Woizero Tessay. L'avido collezionista Gotthold von Schiller che cerca nei reperti antichi un anelito di immortalità. Via quindi con i colpi di scena. Nicholas e Royan penetrano clandestinamente nella zona dove dovrebbe trovarsi la tomba. Capiscono che potrebbe essere stata scavata sotto le acque del Nilo, costruiscono una diga provvisoria, scoprono tracce, e cominciano ad affrontare pericoli mortali. Precedentemente, avevano già scoperto delle tracce in uno sperduto monastero copto, dove da secoli era presente il culto di una tomba di pietra. Che si rivela essere, benché spogliata, quella di Mamose. Ma allora dove sta la tomba descritta nei papiri, che di ben altra levatura pare sia costruita e riempita di tesori? I nostri si aggirano intorno al Nilo un po’ alla Howard Carter con la tomba di Tutankhamon. Aiutati dai copti e dagli etiopi buoni, devono combattere i cattivi, locali o stranieri. C’è anche un simpatico aviatore che scorrazza a pelo di deserto per i cieli africani. Insomma, Smith non ci fa mancare nulla. Purtroppo sir Nicholas non è Dirk Pitt, ed il resto della storia scivola via, con colpi di scena forse ben congeniati nella mente dell’autore, ma di scarso effetto sulla carta. Dovremmo capire chi sia il cattivo. Dovremmo capire se sir Nicholas fa il doppio gioco. E se lo fa anche Royan. I punti maggiormente intriganti sono le successive rivelazioni delle idee di Taita su come nascondere l’ultima dimora delle persone a lui care. Una caccia al tesoro costellata da una serie di false piste degne di un giallo di altra levatura, che Royan fortunatamente decifra, spesso all’ultimo istante. Poi tutto finisce. La tomba rivela i suoi misteri, alcuni reperti vengono salvati ed avranno la loro giusta collocazione. Non vi dirò molto altro. Il futuro di Nicholas e Royan, se c’è, o quello di Mek e Tessay. Alla fine, le pagine risultano davvero troppe per un libro inferiore alle attese. Spero che Smith, proseguendo nella saga egiziana, decida di ritornare agli ambienti di un tempo. A quella XIV o XV dinastia. Al futuro del giovane faraone Tutmosis I e la sua bella sposa etiope (e prima o poi ci si riuscirà ad andare, spero). Rimane quindi in sospeso il mio giudizio sulla scrittura di questo “maestro dell’avventura”. Per ora vince Cussler, alla grande.
Wilbur Smith “Figli del Nilo” TEA euro 6,90
[A: 01/08/2014– I: 04/03/2016 – T: 08/03/2016] - &&&
[tit. or.: Warlock; ling. or.: inglese; pagine: 654; anno 2001]
Del ciclo egizio di Smith, questo è senz’altro il meglio riuscito, di poco sopra il primo, e di abbastanza sul secondo. Anche se, come ho già rilevato, mi sarei aspettato qualcosina in più. Come avrei pretesto qualcosa in più dai maghi dei titoli della Longanesi e della Tea, per evitare di trasformare questo libro intitolato “Lo Stregone” in un banale “Figli del Nilo”. Va bene il fiume, ma lo stregone ha un duplice impatto sulla storia: perché c’è quello buono, Taita, che tira le fila cercando di riportare l’Egitto in situazioni di pace e stabilità che da tempo mancano, e quello cattivo, Ishtar, alleato dei Faraoni usurpatori e forte del dio Mardock alle sue spalle. Pur essendoci pagine sulla lotta tra i due maghi, non è quello il motivo centrale, rimanendo “stregone” il solo appellativo di Taita. Fortunatamente, comunque, dopo la fuga nel mondo moderno per scoprire i misteri delle tombe scavate da Taita in Etiopia, torniamo nell’Egitto della XV dinastia, Egitto diviso nei due tronconi Alto e Basso, Egitto in gran parte occupato dagli Hyksos invasori. Per oltre 600 pagine assistiamo alla presa del poter dei cattivi, ed alla lunga e costante rivincita, con finale vittorioso, dei buoni. Naja, falso amico di Tamose padre di Nefer, ha sangue hyksos nelle vene, si accorda con il cugino Trok, un hyksos “puro”, uccide fraudolentemente il Faraone, e, vista la tenera età di Nefer, si fa nominare reggente. Per crearsi una coperta di salvataggio, sposa le due sorelle di Nefer, Heseret, arrivista come lui che lo asseconderà per tutto il libro, e Merykara, piccola e buona, che cercherà di riunirsi al fratello lontano. Sul versante Alto Egitto, Trok stermina la dinastia degli Apepe, lasciando in vita la sola Mintaka, di cui è follemente preso. Ma non riuscirà a farla sua. Taita, infatti, prima riesce a far fuggire Nefer dalle grinfie di Naja fingendo sia morto. Poi scappa nel deserto, dove scatenando un violento “khamsin” (il vento dei cinquanta giorni) fa perdere le tracce sue e di Nefer, e con lui si rifugia nel deserto a ricostruire, lentamente ma con costanza, una parvenza di opposizione a Naja e Trok. Riesce anche, con le sue arti trasformiste, a liberare Mintaka ed a portarla nel deserto, dove dovrebbe unirsi a Nefer. Costui non è ancora maggiorenne, ed allora, secondo la legge egizia, o aspetta o ingaggia una lotta quasi mortale, che si chiama “la Via Rossa”. Se sopravvive, potrà decidere il suo futuro. Assistiamo quindi per pagine e pagine a questa lotta. Immaginate già come finisce. A questo punto, prima affronta e stermina gli hyksos dell’Alto Egitto, uccidendo Trok. Poi, con più fatica e con una perdita pesante (non vi dico quale) affronta ed uccide anche Naja ed i traditori del Basso Egitto. Nefer, alla fine, aiutato da Taita, senza il quale, probabilmente, non ce l’avrebbe fatta, riunisce per la prima volta le due corone egiziane. Credo che, anche se con qualche sballo temporale, siamo verso l’inizio del Nuovo Regno, quello che in pochi anni (per la storia, ovviamente, che sulla carta saranno circa duecento) porterà al regno di Tutankhamon, nome che ovviamente voi tutti conoscete. Solo alcuni appunti finali. Taita, eroe in prima persona del primo libro, e forte comprimario in questo terzo (anche se poi nel secondo, si parla solo di lui e non dei faraoni da lui serviti) rischia di avere qualcosa come ottanta anni alla fine del libro. E salta, corre, e lotta come un grillo. Certo, sarà un mago, come si ostinano a sostenere le quarte di copertina, ma caro Smith, vogliamo rendere anche un po’ di verosimiglianza storica alle vicende? Vero che siamo in Egitto, e che l’Egitto, come tutti i luoghi africani, ha una forte componente magico-simbolico. Però preferisco quando, pur utilizzando le strutture dell’epoca, i romanzi si attengono ad una struttura più solida e meno favolistica (ripeto, vediamo i magistrali libri di Christian Jacq su Ramsete). I conoscitori di Smith, infine, mi dicono che qui lo scrittore rhodesiano (che ora ha mutato il nome in Zambia, ma che Smith sembra ritrovare solo come ex-colonia, uno dei motivi che mi lasciavano un po’ freddo nei suoi confronti) ritorna alle sue classiche scene di sesso. Ne abbiamo ben quattro, descritte abilmente, e che portano nelle quattro direzioni opposte. Ci sono Naja e Heseret, i due cattivi, sesso ardente, ma poi vanno in bolla di sapone. Ci sono Trok e Mintaka, con tentativo di stupro non riuscito. Ci sono Meren e Merykara, che non consumano, benché d’amore vero, e avrete letto le conseguenze. Ci sono infine Nefer e Mintaka, i due buoni, con una scena di grande passione e di grande avvenire (almeno per questo romanzo). Tuttavia, complessivamente parlando, ribadisco che mi è sembrato, ad ora, il migliore dei romanzi egizi del nostro. Ma la sua presa su un lettore come me, è, ripeto, inferiore e di molto ai libri della “Cussler factory”.
Wilbur Smith “Alle fonti del Nilo” TEA euro 6,90
[A: 01/08/2014– I: 10/03/2016 – T: 14/03/2016] - &
[tit. or.: The Quest; ling. or.: inglese; pagine: 631; anno 2007]
Forse era meglio che faceva passare qualche altro anno. O forse doveva scriverlo subito dopo il precedente. Non so, ma quello che abbiamo è uno dei libri più deludenti che abbia letto. Direi inutile, per non sconfinare nel dannoso. Che se qualcuno avesse letto per primo questo tra tutti i libri di Smith, credo che non sarebbe mai diventato un campione di vendite. Nonostante, infatti, tutti i tentativi di farne un libro di avventura “alla Smith”, sembra la brutta copia di un libro di fantasy (dove autori di fantasy seri sarebbero inorriditi alla lettura). Non ci sono molti avvenimenti razionali, tutto è pervaso da una magia inspiegata e inspiegabile, con l’unico intento di chiudere il cerchio iniziato quattro libri prima. Per farlo, tuttavia, l’autore, dovendo superare ostacoli insormontabili si butta nella fantasia sfrenata. Intanto Taita, ad un certo punto, viene detto aver raggiunto la veneranda età di 157 anni (anche se secondo i miei calcoli ne dovrebbe avere 50 di meno), e già questo è un bel traguardo. Inoltre da più di 100 anni è innamorato della regina Lostris, che ovviamente non solo è morta, ma sono morti anche i suoi figli e nipoti. Inoltre Taita è un eunuco, quindi con delle ovvie impossibilità fisiche di amare chicchessia. Conseguentemente è anche difficile, così come sono le cose, per Smith far sfoggio dei suoi momenti soft-erotici, uno dei marchi di fabbrica della sua scrittura. Comunque, nel primo libro egizio c’era stata la costruzione del personaggio “Taita” e dei contorni della saga, nel secondo un salto nel presente per ammirare la ricerca della tomba del faraone, nel terzo la lotta per la riunificazione dell’Alto e del Basso Egizio. Allora cosa si inventa qui il nostro scrittore? Prende spunto dai racconti biblici, e flagella l’Egitto con sette anni di piaghe dovute alla siccità del Nilo. Ma non ne dà una spiegazione razionale (appunto la siccità dovuta che so a poche piogge ed altre catastrofi naturali). No, si inventa la presenza di un dio del male (anzi di una dea) che vuole piegare la Terra alle sue turpi volontà, costruendo una diga di massi fatati che blocca il flusso del fiume. Per combatterla non abbiamo altro che il nostro mago. Che comincia la storia andando in India, in qualche posto che sembra nepalese dalla descrizione, per meditare e trovare chirurghi del tempo, un po’ sciamanici, che gli aprono il “terzo occhio”, quello che consente di vedere dentro le persone ed al di là dello spettro visibile. E già qui siamo nella fantasia pura. Tornato in Egitto, a Tebe, dal suo caro Nefer Seti (che ormai si avvia verso i 50 anni, età decrepita per il tempo), viene incaricato di risolvere il problema piaghe. Capisce, Taita, che deve affrontare la dea – maga cattivona, nomata Eos, che prende un nome che sarà in voga millenni dopo. Infatti Eos sarà una figura mitologica greca, dea dell’Aurora. Quella che prelude il giorno, e quindi che instrada le possibilità della vita. Eos, per una serie di maledizioni di Afrodite, sarà condannata ad amare solo esseri mortali, e tra gli altri, genererà Memnone ucciso da Achille a Troia. Memnone come il faraone fanciullo Tamose. Non è che Smith ha fatto casino? Comunque Eos qui è la dea della Menzogna, come dice il saggio Demetrio che l’ha amata, è fuggito, e da lei sarà perseguitato ed ucciso (non però prima che abbia dato indicazioni al nostro Taita). Taita allora, aiutato da una serie di personaggi che non sto ad elencare, si avvia alla ricerca di Eos, che sta alle sorgenti del Nilo. Da cui il titolo italiano, anche se il titolo inglese era più calzante (“La ricerca”). E chi ti va a trovare durante il viaggio? Una fanciulla, di una dozzina di anni, bella e con gli occhi verdi, come la descrizione di Lostris nella prima pagina del primo libro. Altra invenzione fantasiosa di Smith: Fenn è la reincarnazione della regina, e Taita comincia già ad innamorarsi. Com’è, come non è, Taita ed i suoi arrivano nel regno della menzogna, dove ci sono altri chirurghi fantastici, che fanno operazioni di bio-ingegneria, innestando cellule per far ricrescere arti morti. Faranno così con l’occhio di Meren, ma questo è semplice. L’idea fantastica di Smith è che fanno ricrescere il pene a Taita. E sarà in una lotta eroica e titanica tra Eos e Taita, che si svolge in un talamo, dove il nostro, con la forza della (sua) verità sconfigge la menzogna di Eos (banale la trama, eh, menzogna contro verità si poteva trovare di meglio). Non contento, Smith fa cadere Taita in un lago azzurro, che non è altro che la fonte della giovinezza, per cui alla fine il nostro mago di troverà giovane e col pisello. Capite bene che potrà coronare il sogno d’amore e scopate con Fenn, che riporterà il Nilo a scorrere alla grande, con prosperità per tutto l’Egitto. Certo che alla fine, Fenn gli fa capire che, visto che lui è longevo, di nuovo giovane, potenzialmente immortale, lei avrà problemi quando, necessariamente, invecchierà. Ed il libro si chiude in gloria, con i due che partiranno alla ricerca della sorgente dell’eterna giovinezza. Rivoltante. Un libro che potete leggere, se proprio volete, d’estate al mare, sotto l’ombrellone, con una bibita ghiacciata in mano, e saltando ogni tanto qualche pagina. Tanto sono tutte inutili. Non leggerò altro di egiziano del “signor” Smith. Proverò, ma non subito, a capire se l’altra serie, quella dei Courtney e dei Ballantine ha qualche freccia al suo arco. Ma non tradirò per molto il mio amato Cussler.
“L’impazienza è un vizio dei giovani … e il sonno è il conforto di un vecchio.” (261)
Benché sia al secondo invio agostano, non ho ancora ripreso tutte le fila delle mie trame, per cui ve la dono così com’è, ritemprato dal riposo, e sempre pronto a nuove battaglie.

lunedì 1 agosto 2016

L'utlima Agatha - 01 agosto 2016

Con questa ultima fatica abbandoniamo la signora dei gialli, dopo un anno passato a leggerne quasi tutto. Nonostante tutto, una scrittura degna, ed un saluto al caro Poirot (meno a Miss Marple, che, come sapete, mi è sempre piaciuta di meno).
Agatha Christie “Assassinio allo specchio” Corriere della Sera 11 euro 6,90
[A: 13/11/2014– I: 25/01/2016 – T: 27/01/2016] - && 
[tit. or.: The Mirror Crack’d from side to side; ling. or.: inglese; pagine: 231; anno 1962]
La nostra intrepida vecchietta scrittrice ha ormai superato la boa dei settanta anni, e la sua scrittura ed inventiva ne risente. Soprattutto, credo, nei libri, come questo, dedicati a Miss Marple, che non sono mai riuscito a farmi piacere fino in fondo. Ne risulta come vedremo in vari punti, un libro dolente, quasi in minore, direi. Come risulta anche che la nostra Agatha senta approssimarsi la fine della sua vita, e voglia, in qualche modo, trovare la maniera di dare una degna fine ai suoi personaggi. Rimane sempre, infatti, il dilemma per gli autori di personaggi seriali talmente ben riusciti che non si sa come terminare. Ognuno ha la sua ricetta, e, come diceva il buon Lorenzo di Guzzanti, è sbagliata. Sbagliò Conan Doyle a far morire Holmes, tanto che lo dovette far “resuscitare” miracolosamente. Sbagliò Simenon a non far andare in pensione Maigret (ci provò a metà degli anni Trenta, ma dopo la guerra lo fece tornare in servizio). La nostra Signora del Giallo lo farà (ne vedremo i risultati tra qualche libro). Per ora mette le premesse ad un’onorata fine per la buona zia Jane. La troviamo, infatti, relegata in casa, un po’ acciaccata, accudita (malamente) da una petulante badante. Riesce solo ad intervenire perché la vicenda si svolge a St. Mary Mead, dove conosce tutti, e tutti le riportano notizie, e perché le indagini sono affidate al nipote del suo vecchio amico ispettore di Scotland Yard, che quando non sa che fare, decide per una bella ed istruttiva chiacchierata con la nostra vecchietta. Ed è tutta la prima parte, prima che incominci il giallo vero e proprio, che ci dà la misura della stanchezza e della fine ormai vicina sia di Miss Marple sia di Lady Christie. La vicenda, poi, è veramente in tono minore, ed io, che forse ho letto molto, ma mi faccio sempre sorprendere dalle trame intelligenti, avevo già decrittato fin dalla prima morte. Certo, Agatha cerca ben presto di imbrogliare le carte, di seminare indizi per sviare l’attento lettore. Senza però riuscire nell’intento. La vicenda nasce all’arrivo nella cittadina di una attrice, nella parabola discendente della carriera, travagliata da molti problemi psichici. Ha avuto già tre matrimoni alle spalle, e solo ora con il quarto marito (che l’amava devotamente) sembra aver trovato la pace. Non riuscendo ad avere bambini, ne aveva adottati tre, per poi mandarli via, più o meno bruscamente, quando scopre di essere incinta. Purtroppo, il figlio nasce con seri problemi fisici e psichici, ed anche questo non aiuta Marina a rimettersi in carreggiata. Il punto di partenza arriverà nella grande festa per l’inaugurazione della nuova casa della star. Tutta la popolazione è invitata, ma durante la festa, la petulante Heather muore improvvisamente, dopo aver bevuto un daiquiri (qualcuno è stato a Cuba di recente?). Heather che ricorda, prima di morire, a Marina il loro incontro una decina di anni prima, quando lei, benché febbricitante di rosolia, riuscì ad avere un autografo dalla diva. Heather che inciampa e perde il bicchiere, e Marina le porge il suo. Quello avvelenato. Da lì tutta la sarabanda di “falsi indizi”, che cercano di spostare ogni volta il bersaglio. Qualcuno vuole uccidere Marina? Si trovano lettere minatorie. Si trova un caffè corretto all’arsenico. Ovviamente, qualcuno durante la festa ha visto qualcosa. Nascono così ricatti. Ed altre morti. La segretaria del marito. Poi il maggiordomo di casa. Per non farci mancare nulla, la nostra ingarbugliatrice di trame riesce ad infilare: il marito di Heather che in realtà è stato anche il primo marito di Marina, sposato prima della carriera artistica, presto lasciato, e che si è rifatto una vita cambiando anche nome; una fotografa che riprende tutti i momenti salienti della festa, che si rivela essere uno dei tre bambini adottati da Marina; l’ex moglie del terzo marito di Marina, che a suo tempo aveva minacciato di morte la nostra. Ma noi e Miss Marple abbiamo ben in chiaro il disegno criminoso, ed anche se solo per un piccolo attivismo finale, la nostra riesce a mettere i puntini sulle “i” del romanzo. Peccato che ci siano state almeno cento pagine di troppo. Ribadendo che non vi dico altro della trama, veniamo ad i soliti punti dolenti delle traduzioni e dei titoli. Intitolare “Assassinio allo specchio” un romanzo solo perché nell’originale si citava un “mirror cracked”, cioè uno specchio rotto è opera di grande fantasia. Perché non c’è nessuno specchio nell’assassinio (come era avvenuta in una precedente opera con protagonista Poirot). Il titolo, al contrario, fa riferimento ad un poema epico di Alfred Tennyson, “The Lady of Shalott”, storia di una signora del periodo arturiano che poteva vedere la vita rovesciata solo attraverso uno specchio, altrimenti sarebbe morta. Ma quando vede sir Lancillotto, non può che voltarsi, ed ovviamente morire. Lì c’è appunto il verso citato nel titolo: “Out flew the web and floated wide / The mirror crack'd from side to side; / ‘The curse is come upon me’, cried / The Lady of Shalott.” Che, nella bella traduzione in rima di Valentino Szemere si riporta con: “Il telo vola fluttuando spiegato / Lo specchio è incrinato da lato a lato / “Sono maledetta” è il grido accorato / Della Signora di Shalott.” Poesia citata a varie riprese nel corso del romanzo, e nella sua chiusa finale. Cosa c’entri, beh leggetelo. E tuttavia non prendetevela molto con la nostra Lady Christie, se anche questa volta scantona dalle regole auree del giallo, dettate ormai cento anni or sono da S.S. Van Dine, perché alla fine non spiega tutti i misteri che vengono sollevati verso la fine del libro. Peccato. Ma sono ormai tanti i libri della nostra signora che sono stati divorati nell’ultimo anno, e che ci avevano abituato ad altre vette di coinvolgimento.
“Questi attori di teatro… usano il loro cervello in modo molto particolare. A volte mi sembra che quanto più eccellano nell’arte tanto più mancano di buon senso nella vita di tutti i giorni.” (108)
Agatha Christie “Sfida a Poirot” Corriere della Sera 4 euro 6,90
[A: 01/09/2014– I: 27/01/2016 – T: 28/01/2016] - && e ½ 
[tit. or.: The Clocks; ling. or.: inglese; pagine: 274; anno 1963]
Abbandoniamo di nuovo Miss Marple (e non ce la si fa più…) tornando al mio più congeniale Poirot. Almeno così dice il titolo italiano. E cominciamo subito con una bella tirata d’orecchi a pubblicitari del libro che non rispettano il lettore. Infatti, che bisogno c’era di cambiare il titolo originale che recita “Gli orologi”? Essendo proprio gli orologi un punto nodale del grande “imbroglio” che questa volta ha ordito la nostra Agatha. Imbroglio benevole, sia chiaro. Dove, per l’appunto, su 274 pagine Poirot compare in circa 25. Non che abbia un ruolo marginale, ma tutta la vicenda, la storia ed il racconto ruota intorno a Colin Lamb (nome di fantasia, essendo il protagonista una spia dei Servizi Segreti britannici, che noi attenti lettori sappiamo essere il figlio del Sovraintendente Battle, protagonista di ben 4 romanzi della nostra Maestra). Lamb, non riuscendo a venire a capo della vicenda, chiede ad un tratto a Poirot di aiutarlo. In due capitoli brevi, intervallati dal racconto che scorre, Colin racconta ad Hercule cosa succede, chi ha detto cosa, e come. Solo da pagina 250 a 270 circa Poirot, più per vanità che per reale bisogno, si fa vedere fuori di casa, e, nella cittadina teatro dell’azione, spiega a Colin ed all’attonito ispettore Hardcastle come si sono svolti i fatti. Tutto comincia quando Sylvia, una segretaria “a ore” viene inviata dalla sua capa per un contratto presso Wilbraham Crescent #19. Arrivata in anticipo, entra e trova in salone un morto ed una serie di orologi (almeno 6) di cui quattro avanti di un’ora. In quel mentre entra la padrona di casa, Miss Pebmarsh che si rivela essere cieca, insegnante di Braille, ed all’oscura della venuta di Sylvia. Che spaventata corre in strada dove si imbatte in Colin, che sta investigando su di un misterioso intrigo spionistico che coinvolgi i servizi segreti russi (siamo nel ’63) e un pezzo di carta con una mezzaluna (“crescent” in inglese) ed il numero 61. Tutto il romanzo si svolge poi intorno a questi appartamenti di Wilbraham ed ai loro abitanti. Intanto, il morto non si sa chi sia, non se ne viene a capo dell’identità. Pe due volte il Jury dovrà rinviare la causa non avendo elementi. Ma le deposizioni femminili in tribunale (di Sylvia, della signorina Pebamrsh, e di Katherina, il capo di Sylvia) allarmano Edna, una collega di Sylvia. Questa cerca di riportare i suoi sospetti alla polizia, ma viene uccisa prima di poterlo fare. Nel frattempo si fa avanti anche una sedicente attrice che confessa di conoscere il morto come un suo ex-marito fuggito quindici anni prima. Mendace, che la polizia se ne accorge, ma prima che riesca a farla confessare, anche lei muore. Rimangono i vicini: la signora Ramsey, che deve badare a due figli adolescenti in assenza di un marito sempre misteriosamente lontano, il signor Naughton, ex-insegnante di matematica in pensione, i coniugi Blend, una volta sempre in bolletta ed ora stranamente agiati grazie ad una eredità di un parente della signora Blend. Per complicare il tutto, Agatha ci presenta anche la tormentata storia di Sylvia (in origine Rosemary Sylvia), che pensa di essere orfana, ed in realtà fu lasciata dalla madre prematuramente incinta ad una zia che la cresciuta ed accudita. Sottolineiamo di passaggio, che uno degli orologi sulla scena del delitto, era una sveglietta con su scritto Rosemary. Blandamente la nostra scrittrice cerca di convogliare i sospetti proprio su Sylvia. Certo è che mette tanta carne al fuoco, che un po’ disorienta. Come disorienta la presenza – assenza di Poirot. Che si è fatto ripetere tutti i dialoghi da Colin e che appunto nelle ultime pagine svela tutti i misteri. Scopriamo così che l’appunto di Colin era stato letto al contrario (a questo c’ero arrivato), che il signor Ramsey è una spia fuggita a Mosca (ce lo rivela Colin), che una persona aveva una sorella, e che quindi non poteva essere chi diceva di essere, che anche la cieca nasconde dei misteri (ma non legati alla morte). Ci viene rivelato anche chi sia la madre di Sylvia. Ed infine, utilizzando due aforismi tratti da “Alice nel Paese delle Meraviglie”, come il morto venga da lontano, e che gli orologi erano un falso indizio, messo a bella posta per confondere le acque. Le citazioni sono appunto “Fa il tricheco: ecco il momento / di usar più di un argomento / ceralacca, bastimenti, / scarpe, cavoli e potenti. / Sai perché ribolle il mare? E se i porci san volare?” (che spiega il mistero degli orologi) e “Venne il vecchio d'oltremare e lo fecero ammazzare” (che spiega il morto). Inciso, le due citazioni sono tratte non da Alice ma dal secondo libro “Attraverso lo specchio” (e qualcuno lo poteva scrivere). Alla fine, vediamo che anche Poirot sta invecchiando (tanto che decide di scrivere una sua opera magna sui detective letterari, facendo una specie di “romanzo nel romanzo”, citando autori veri o finti, tra cui l’eponimo della stessa Christie, quella Ariadne Oliver che compare citata in ben nove romanzi della nostra). Peccato che la sua saga stia andando verso la fine, ma, d’altra parte, se non ci fosse una fine non avrebbe senso iniziare.
Agatha Christie “Sono un’assassina?” Corriere della Sera 4 euro 6,90
[A: 03/11/2014– I: 29/01/2016 – T: 31/01/2016] - && e ½
[tit. or.: Third Girl; ling. or.: inglese; pagine: 311; anno 1966]
Siamo ormai alla volata finale degli scritti della nostra Maestra. Agatha si avvicina agli ottanta anni, le sue storie si fanno più rare, ed i suoi scritti risentono ampiamente di una ricerca di novità e di nuovi stimoli, ormai poco sorretta dalla giovanile fantasia. Come succede in questo trentesimo romanzo che ha per protagonista l’ineffabile investigatore belga dagli inconfondibili baffetti. La sfida personale di Agatha è mettere in scena (quasi) tutto un libro senza che ci sia un morto riconoscibile come tale che possa dare il via ad una investigazione tradizionale. Anche qui, riprendendo le scene del precedente romanzo, Poirot è quasi sulla via del ritiro, non trovando di meglio che scrivere libri sui grandi investigatori “di carta” (e nella prima parte cita sia Poe sia Wilkie Collins, maestri del genere nell’Ottocento), si accompagna sovente con la scrittrice Ariadne Oliver (che abbiamo incontrato altre volte, essendo un alter-ego della stessa Christie, ed alla quale rivolge un epigramma del noto umorista francese Jean-Baptiste Alphonse Karr, “Plus ça change, plus c'est la même chose”, ma che io ricordavo per un’altra fase famosa, “La felicità è formata di sventure evitate”), e viene intrigato dalla visita di una giovane donna, dall’apparenza confusa, che prima gli domanda se lei stessa possa aver ucciso qualcuno, e poi fugge da lui. Tutto il romanzo si basa allora su questo assunto: la signorina è realmente un’assassina? E chi può aver ucciso? E chi è in realtà? Con l’aiuto di Ariadne riesce a risalire all’identità, pare sia tal Norma Restarick, figlia di primo letto di Andrew un bel tipo che abbandonò moglie e figlia quando questa aveva cinque anni, se la spassò tra il Sudafrica ed il Sudamerica, ed ora torna in patria per gestire gli affari familiari, accompagnato da una giovane moglie, Mary. Norma vive come terza ragazza (da cui il titolo, su cui torneremo) con tali Cecilia, segretaria del padre, e Frances, artista mecenate dalle ambigue frequentazioni. Norma è concupita dal nulla facente David (o meglio artista da strapazzo), forse per i soldi, forse per altro. Norma ha continui mancamenti di tempo, come dei buchi, di cui non ricorda nulla, ma dai quali emerge come se avesse fatto chissà quali danni. Sembra che abbia tentato di avvelenare la matrigna Mary con dell’arsenico, sembra che abbia sparato dei colpi di pistola verso dei giovani ubriachi, sembra che abbia delle colpe nel suicidio della sua inquilina del piano di sopra, Louise. Per tutto il romanzo, Poirot cerca di trovare Norma che sparisce, sempre coadiuvato da Ariadne. E per tutto il romanzo si accumulano elementi di sospetto, anche se non definitivi. Andrew ha un rapporto di odio e amore verso Norma, Mary sparisce spesso dalla villa in campagna per andare a Londra non si sa per quali motivi, David compare e scompare, Francis sembra anche coinvolta in traffici di quadri falsi. Insomma una sarabanda di forse, di questo e di quello, con il nostro Poirot che, appena può, si siede sulla sua sedia, nel suo studio e rimugina su quello che succede, senza cavarne un ragno dal buco. Certo, muove le sue pedine, fa indagini sul passato di tutti, scopre che David è di certo un cattivo soggetto, sempre sull’orlo della galera, ma sempre un passo al di qua. Scopre, infine, che Louise la suicida non era altro che l’amante di Andrew con la quale lui era fuggito dalla moglie quindici anni prima. Dopo trecento inutili e logorroiche pagine, finalmente arriviamo alla stretta finale: David viene trovato morto, e Norma e vicina a lui con un coltello in mano. Scoperta fatta da Frances. Poirot allora convoca tutti in una stanza, e con un colpo da maestro ci fornisce la soluzione. Dove Norma non è pazza, ma solo drogata da qualcuno che le sta vicino e che le vuole male. Il tutto scatenato dall’arrivo sulla scena di Louise che può legare l’oscuro passato al difficile presente. Ovviamente Norma non è colpevole, ed avrà il suo lieto fine. La soluzione tuttavia è un po’ complicata, e, soprattutto, scarsamente deducibile dagli elementi in nostro possesso. Certo, che l’ambigua Mary entrasse nella trama lo sospettavo da tempo. Ma tutto il castello costruito sopra la trama l’ho trovato un po’ “appiccicato”. Il declino della nostra baronetta si sente anche nelle piccole tiritere che inscena verso i giovani, i beat, le donne dalle gonne corte (siamo pur sempre a Londra, nel 1966, ci sono John Lennon e Mary Quant). Insomma, storia in minore, e molto lunga. Illuminata da qualche gioco come quelli citati, o come altri: la ricerca del nome della ragazza (citando la canzone “Speak to me, Thora” dei primi del Novecento) o la presenza nuovamente di filastrocche infantili. La prima “Rub-a-dub-dub”, risale al 1798, e viene in mente a Poirot mentre cerca di capire lo strano comportamento di Norma: “Rub-a-dub-dub, Three men in a tub, And who do you think they were? The butcher, the baker, the candlestick-maker. They all sailed out to sea, ‘Twas enough to make a man stare”. Nella traduzione di Grazia Maria Griffini è riportata nel modo seguente: Rub a dub, tre uomini in una tinozza/e chi credete che siano?/Un macellaio, un fornaio e un candelaio / tutti che navigavano oltremare …”. Filastrocca che induce Poirot a pensare al comportamento di Andrew. Che poi unisce all’altra, ben nota perché usata battendo le mani, “Pat-a-cake, Pat-a-cake, baker’s man / Bake me a cake as fast as you can / Pat it and prick it and mark it with “B” / And put it in the oven for Baby and Me”, di cui Poirot inventa una sua personale parodia per darci un aiuto sulla via della soluzione del mistero. Ultimo punto che affronto qui, è il motivo del cambio del titolo. Il titolo originale, infatti, “Third Girl”, si riferisce al fatto che Norma Restarick è la terza ragazza tra quelle che occupano un medesimo appartamento per condividere le spese, e che unita alle due filastrocche citate fornisce le chiavi del problema. Ed allora, perché modificarlo nella domanda angosciata di Norma a Poirot, che poi recita “forse ho commesso un delitto”? Anche perché nessuno dice mai “Sono un’assassina?” in tutto il libro. Ma concediamo ancora un po’ di credito ad Agatha, che i romanzi volgono alla fine.
“Le ragazze sono fatte così! Secondo loro ogni persona che abbia passato i trentacinque anni ha già un piede nella fossa.” (17)
Agatha Christie “Sipario, l’ultima avventura di Poirot” Corriere della Sera 19 euro 6,90
[A: 22/12/2014– I: 31/01/2016 – T: 02/02/2016] - &&&
[tit. or.: Curtain: Poirot’s Last Case; ling. or.: inglese; pagine: 211; anno 1975]
Siamo ormai quasi alla fine, come dice il titolo stesso di questo penultimo libro. La nostra maestra, con la quale abbiamo percorso tanta strada, è arrivata alla veneranda età di 85 anni. Anche Poirot è invecchiato, e nelle ultime fatiche lo abbiamo visto sempre più incurvato e malato. Ma per celebrarne la degna fine, la nostra amata scrittrice tira fuori dal cassetto un colpo da maestra. L’ultima avventura di Poirot l’aveva scritta nel 1940, e poi l’aveva chiusa in una cassetta di sicurezza in una banca, con l’idea di pubblicarla solo dopo la sua morte (così come si dice abbia fatto Camilleri con il suo Montalbano). Sentendo il peso degli anni ormai poco sostenibile, Agatha si fa convincere, invece a tirar fuori lo scritto e a pubblicarlo. Si sente tutto ciò. Prima di tutto, per la verve che sottende un pur malinconico romanzo, rispetto alle cupe atmosfere degli ultimi scritti (cupe dentro, oserei dire). Inoltre, ha un discreto intreccio, una sovente citazione di altri casi, una ripresa del primo caso di Poirot, ed uno stravolgimento di quello che ritengo il suo più riuscito romanzo. Anche se Poirot, ed è la stessa Christie che lo confessa nelle sue memorie, non è mai stato vicino alle sue corde, lei che invece ha sempre amato Miss Marple (come sapete, invece, il mio giudizio è opposto). Purtroppo la scrittura del 1940 lascia qualche sprazzo a incongruenze, poiché la nostra decise la pubblicazione “as is”, senza volerne rivedere e ritoccare i punti dolenti. Al fine di chiudere il cerchio, la prima mossa della scrittrice è collocare l’ultimo caso dell’ispettore belga nello stesso luogo che ne aveva visto la nascita. Il primo caso di Poirot, con il fido capitano Hastings a fargli da mentore, si era infatti svolto proprio a Styles Court. Era il 1916, Hastings aveva trenta anni, non era sposato, ed aveva conosciuto nei primi mesi di guerra l’allora ispettore Poirot. Ora, la pubblicazione avviene sessanta anni dopo, così che Hastings dovrebbe avere novanta anni, ed invece si aggira su di una rotonda sessantina. Inoltre, si è sposato a metà degli anni venti, ha avuto quattro figli, la cui ultima, Judith, è presente in questo romanzo, dove si dice abbia da poco superato i ventuno anni. Anche l’accenno alla pena di morte è anacronistico, visto che fu abolita in Inghilterra nel 1965. Comunque, Styles Court è cambiata, è diventata una locanda, ed è lì che Poirot, invalido, convoca il vedovo Hastings. Perché è lì che, secondo Poirot, ci sarà un omicidio e lui vuole impedirlo. Così come cercò di fare nel celebre “Assassinio sul Nilo” scritto negli anni Trenta. Lì nella locanda, gestita dalla male assortita coppia Littrell, convergono il medico epidemiologo Franklin, che tratta sostanze tossiche, con moglie malata immaginaria alla Molière e tanto rompiscatole, con al seguito l’infermiera Craven per la moglie e Judith Hastings come assistente nelle ricerche, il barone Boyd Carrington, in gioventù spasimante di Barbara Franklin, la signorina Cole dall’oscuro passato, l’ornitologo Norton, pieno di tic e complessi, l’arrivista Allerton. E Poirot racconta ad Hastings di una serie di delitti che, pur accreditati a dei colpevoli, secondo l’ineffabile belga hanno qualcosa di strano, nascondono qualcosa. Da lì, Poirot si eclissa nelle sue stanze da malato, e noi siamo costretti a seguire le inutili peregrinazioni mentali e fisiche del pur buono Hastings. S’intrecciano storie, Allerton sembra circuire Judith, i coniugi Littrell litigano, Carrington sembra riprendere vigore verso Barbara. Tutto precipita con la morte per mezzo delle tossine del dottore proprio di Barbara. Chi è stato? Il marito? Judith che si è innamorata dello stesso? L’infermiera? La testimonianza di Poirot fa invece pendere la bilancia verso il suicidio, confessando a Hastings di averlo fatto di proposito per mettere in difficoltà il vero colpevole. Che muore, e subito dopo anche Poirot perisce in seguito ad un ennesimo attacco di cuore. Il mistero si risolverà solo mesi dopo, quando Hastings riceverà una lettera postuma di Poirot che gli confessa di essere stato lui ad uccidere il colpevole, che altrimenti avrebbe continuato il suo percorso malefico. Per poi rifiutarsi di prendere la trinitrina all’inevitabile crisi cardiaca seguente. Magistrale colpo di teatro, che rimette in discussione tutte le tiritere pluriennali sulla giustizia imbastiteci da Agatha in tutti i suoi scritti. Ponendo la domanda sul labile confine che separa la giustizia dall’assassinio. Non è un caso che accosto (pur con minor successo) questo al celeberrimo ed insuperabile “Assassinio di Roger Ackroyd”. Nella sua maestria ed erudizione, la nostra grande maestra aveva nascosto un bell’indizio a metà racconto. Stanno tutti nel salone, e Hastings sta risolvendo il mitico cruciverba del Times. Prima l’erudizione, con Judith che scopre una citazione di Joyce (“La storia è un incubo da cui tento di svegliarmi”), poi trovandone una da Shakespeare (“Oh guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”) che fornisce la soluzione di quattro lettere: Iago. Perché qui, come in Otello, il colpevole fa morire tre persone (Claudio, Desdemona ed Otello) senza ucciderle direttamente. Magistrale. Con un’ultima chicca da segnalare, dopo l’uscita del libro, il 6 agosto 1975, il New York Times esce in prima pagina con un necrologio per la morte del grande investigatore Hercule Poirot.
Agatha Christie “Addio, Miss Marple” Corriere della Sera 20 euro 6,90
[A: 22/12/2014– I: 18/02/2016 – T: 20/02/2016] - && ½
[tit. or.: Sleeping Murder; ling. or.: inglese; pagine: 232; anno 1976]
Siamo così arrivati all’ultimo capitolo, all’ultimo libro della ben lunga saga della nostra Signora del Giallo. Dopo aver assistito all’ultimo caso ed alla morte del bravissimo ispettore belga, nel 1976 Christie decide di autorizzare la pubblicazione anche dell’ultimo caso di Miss Marple. Entrambi i libri furono scritti all’inizio degli anni ’40, in una Londra colpita dal fuoco nemico. Entrambi, poi, furono relegati in cassaforte, in attesa appunto che Agatha decidesse per la pubblicazione. O, in alternativa, morisse, essendo scritto nel suo testamento cosa si sarebbe dovuto fare in questo caso. Se per Poirot ho già scritto a lungo, qui non posso che fare un piccolo traslato, prima di addentrarmi nel testo, e nella sua, secondo me, non esaltante riuscita. Infatti, sappiamo che Agatha non amava in maniera particolare il belga dai baffetti, eppure fa calare decentemente il sipario sulle sue inchieste e sulla vita stessa di Hercule. Ciò non avviene per Miss Marple, che qui vediamo operare nel pieno delle forse, mentre in altre opere, scritte dopo di questa ma pubblicate prima, se ne sente l’invecchiamento. Tant’è che, ad esempio, nel “Lo specchio si rompe da una parte” è meno pimpante, ed in “Nemesi” il dottore le consiglia di non chinarsi. Allora, ci si chiede, che senso ha scrivere questa come ultima novella da pubblicare postuma? Per uno scherzo del destino, tra l’altro, Agatha aveva autorizzato la sua pubblicazione nel 1976, e poco prima che ne uscissero le stampe, lei stessa muore, ormai ultra ottantenne. Possiamo capire l’ardore del market italiano che ribattezza subito il libro con l’assurdo titolo “Addio Miss Marple”, ma non se ne capisce il senso. Forse “Addio Agatha” era più azzeccato e più affettuoso. A meno di non lasciare l’originale “Omicidio dormiente”. Tra l’altro, il tessuto della trama è uno dei più abusati dalla nostra Maestra, presente ad esempio in “Il ritratto di Elsa Greer”, “Giorno dei morti” e “Le due verità”. E cioè la ricerca della soluzione ad un mistero avvenuto ben prima che inizi il racconto. Qui, il mistero è di ben 18 anni precedente al momento in cui conosciamo la giovane Gwenda che torna in Inghilterra con il marito Gilles alla ricerca di una casa per il loro futuro. Casa che trova a Dillmouth, e dove comincia ad avere dei “dejà vu”: stanze con delle porte che non ci sono più, giardini con scalini scomparsi. Sino alla rivelazione durante la rappresentazione della “Duchessa di Amalfi”, dramma di John Webster. Qui si comprende il basso gradimento del testo che ove si conosca John Webster, drammaturgo inglese coevo di Shakespeare, oppure si conosca la storia di Giovanna d’Aragona, nobile napoletana del Quattrocento, i misteri del libro sono già rivelati. Gwenda aveva, in effetti, vissuto a tre anni in quella casa, con il padre e la matrigna, e dove questa era scomparsa o morta, e da lì spedita dai parenti in Nuova Zelanda. Gwenda assiste alla tragedia per combinazione con Miss Marple. E da qui, la nostra simpatica vecchietta un po’ defilata, e Gwenda e Gilles in primo piano, si ricostruisce la storia di Helen la matrigna. Helen viveva a Dillmouth con il fratellastro, il dottor Kennedy. Si era fidanzata con tale Jack, un arrivista, allontanato subito dal dottore. Poi aveva frequentato l’avvocato Walter, ma senza grande trasporto. Questi, scottato, era partito per l’India. Helen, dopo un po’ della claustrofobica vita cittadina, decide di sposarlo e parte anche lei per l’India. Tuttavia sulla nave incontra l’accattivante Peter, se ne innamora, ma questi è sposato. Per cui, arrivata a Bombay, lascia per la seconda volta Walter (che un po’ s’innervosisce), lascia l’amante Peter e ritorna in Inghilterra. Sulla nave conosce il padre di Gwenda, da poco vedovo, e lo sposa. Andando a vivere nella casa ora acquistata dalla stessa Gwenda. Lì potrebbe essere avvenuto il fattaccio. In quell’estate, a Dillmouth, oltre a Helen, il marito ed il fratello, convergono Walter, tornato a fare l’avvocato, Jack, che si occupa di viaggi turistici, e Peter, in vacanza con la moglie. Miss Marple e noi attenti lettori già sappiamo la possibile conclusione. Agatha la tira per le lunghe, in una lunga tiritera dove cerca di dimostrare la possibile colpevolezza di ognuno dei possibili assassini. Anche del padre di Gwenda, che si era autoaccusato del fatto, anche se non si trovò il cadavere, e morì fuori di testa in manicomio. Alla fine tutto torna al proprio posto, anche a costo di una nuova morte, per fortuna non dei personaggi principali. Inciso finale: questo libro, scritto in parallelo con l’ultima avventura di Poirot, presenta un’altra analogia. Nelle discussioni intorno al possibile omicida, questo, come in “Sipario”, viene chiamato “Mr.X”. Ed allora lasciamo andare Miss Marple verso il suo declino, anche se non verso una fine certa, come quella di Poirot. Lasciamo anche andare l’ottima Christie, che per una trentina di libri ci ha accompagnato nell’ultimo anno. Salutiamo ora, nel quarantesimo anniversario della morte, avvenuta nel gennaio del 1976, rendendo il doveroso omaggio ad una delle migliori produzioni complessive della storia del giallo.
Anche se non è domenica, è comunque il primo del mese, e prima di partire di nuovo, ecco le letture di maggio, ultimo mese ben nutrito, che poi i viaggi ci hanno portato a lavorare di più e leggere di meno. Dodici libri, tendenti molto all’uniformità verso il basso, eccetto il solito ottimo Maigret, sicuramente sopra media, ed il dolente ed attualissimo libro del marito di uno dei morti del Bataclan. Non eccelso, ma sentitissimo.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Astrid Lindgren
Kalle Blomkvist, il grande detective
Repubblica Noir Junior
6,90
3
2
Elda Lanza
Il matto affogato
Salani
9,90
2
3
Carlo Feltrinelli
Senior Service
Feltrinelli
s.p.
2
4
Giuseppe Culicchia
E così vorresti fare lo scrittore
Laterza
9,50
3
5
Antoine Leiris
Non avrete il mio odio
Corbaccio
s.p.
4
6
Georges Simenon
I Maigret – 5
Adelphi
s.p.
4
7
Fabio Stassi
Fumisteria
Sellerio
12
3
8
Gabriel Garcia Marquez
L’autunno del patriarca
Mondadori
9
2
9
Mario Pasqualotto
L’estate delle falene
Repubblica Noir Junior
6,90
2
10
Kathy Reichs
Le ossa non mentono
Rizzoli
15
3
11
Hermann Hesse
Narciso e Boccadoro
Mondadori
s.p.
2
12
J. K. (Robert Galbraith) Rowling
Il baco da seta
Repubblica Noir
7,90
2

Comincia un grande agosto, speriamo con qualche riposo in più. Ed io andrò europeando in giro per due settimane.