sabato 31 marzo 2012

Tra romanzi e viaggi - 12 dicembre 2010

In attesa di capire se si parte per capodanno, torniamo a qualche lettura classica. Un viaggio tra i romanzi, buona occasione forse mancata, un romanzo che mi fa viaggiare di nuovo in Africa, ed una puntata in Turchia, luogo mai troppo alieno dalle mie simpatie. E cominciamo dal sessantenne scrittore francese.
Laurence Cossé “La libreria del buon romanzo” E/O s.p. (regalo di Silvia)
[in: 07/05/2010 – out: 20/07/2010]
Ma il libro del buon romanzo è un buon romanzo? Si fa leggere, ma sono rimasto “delusino”. Perché in fondo la trama è interessante, almeno lo spunto. Ma poi si perde in troppe, troppe pagine, volendo cercare di fare un libro raffinato sulle orme di Zafon, rovesciandolo in salsa francese. Ma non ne ha ancora tutte le frecce. Cerca poi di “prendere in prestito” humour ed altro ad altrettanto grandi scrittori. Ma, tanto per dirne una, il tentativo di camuffare il nome di cose e persone alla maniera di Boris Vian risolta un po’ goffo (tipo chiamare “le Bigaro” il quotidiano “le Figaro”, e così via). Ribadendo quindi che è molto impregnato di salsa francese, e che difficilmente se ne colgono aspetti al di fuori, sia della Francia che del mondo letterario, l’idea di base è quasi carina. Anche se possiamo cominciare a discuterne ora e finire più o meno mai. Un gruppo di persone (una con i soldi, un libraio con le idee, e poco altro) decide di aprire una libreria che venda soltanto dei romanzi “buoni”. Il primo scoglio è capire come fare a definire buoni i romanzi, chi lo deve scegliere. I nostri eroi decidono di nominare un comitato di persone, ignote tra loro, che elenchi 600 libri ritenuti da loro “buoni romanzi”. E questi verranno venduti nella libreria che si va ad aprire vicino a place de l’Odeon. Ogni anno, il Comitato sceglie ulteriori 50-60 libri per aggiungere le novità. Questa è la trama di fondo. E su questa idea (al di là dello svolgersi della storia) già si potrebbe cominciare a discutere. Scelta elitaria? Chi escludere? Il best-seller è per forza brutto? Dan Brown o Anna Maria Ortese? Questo è un po’ il dibattito tra le parti buone del libro. Che risolvono la questione così: è una scelta di parte, qui troverete sempre un buon romanzo, anche se poco conosciuto; se non c’è quello che volete possiamo cercarlo, trovarlo, e così via. Diventa più un circolo di lettori, alla maniera di anobii, più che una libreria in senso stretto. E comunque su questo spunto si può cominciare e continuare a discutere per ore. Poi, invece, prima e dopo, l’autrice cerca di costruire un “vero” romanzo. Con i cattivi che cercano di soffocare l’iniziativa, prima a colpi di pubblicità negativa, poi alla fine anche a colpire in modo vero e proprio i nostri “buoni”. E così per le 400 pagine si svolge questa lotta tra la buona e la cattiva editoria. Tra le librerie artigianali e le grandi catene di distribuzione. In tutto inframmezzato da siparietti descrittivi di alcune situazioni di vita dei vari romanzieri, che, a mo’ di raccontini nel grande fiume del romanzo, hanno la loro dignità.  Ma dopo un po’ tutto questo stanca, non tiene la corda, è un po’ ripetitivo. Anche il “mistero” su chi stia scrivendo il romanzo che stiamo leggendo diventa un altro modo di allungare il brodo. Alla fine manca il sale e tutto risulta un po’ sciapo. Insomma ci si poteva aspettare di più. Ci potevano essere innamoramenti e colpi di cuore,  che in parte ci sono, ma tracciati con una levità che non lascia traccia neanche sulla sabbia più asciutta. Ci poteva essere una netta vittoria dei buoni, o una loro altrettanto netta sconfitta. Un modo di schierarsi di qua o di là. Più che un buon romanzo, alla fine direi, una buona occasione. Ribadisco però che l’idea della libreria che vende solo buoni romanzi è da discutere, magari legandola a quella (anche se ormai sfruttata) della “Formica con le ali” di parigina memoria.
“Sono in molti ad ospitare in sé qualcuno che non gli somiglia affatto, non trova? … Qualcuno molto più sgradevole o molto più simpatico” (43)
“Dio sa quanto amo le donne, quanto le ho amate e quanto alcune abbiano desiderato rimanere con me. Quel che sono in grado di offrire io non è abbastanza reale perché una donna possa immaginare di farne qualcosa…ho sempre proposto più instabilità che sicurezza. La vita in comune e tutto ciò che ne consegue è una via che non sono in grado di percorrere…da parte mia non è una scelta, è una incapacità…so troppo bene che darei una delusione a che si fida di me” (117)
“Ora so come fare la corte a qualcuno che non crede più in sé stesso, so che bisogna essere pazienti e fiduciosi nonostante tutto, e che la cosa può durare un pezzo” (401)
Qui, invece, si ritorna in Africa, e sopratutto nell’Arabia Saudita, patria del buon Ahmed.
Ahmed Abodehman “La cintura” epoché euro 14
[in: 19/01/2010 – out: 24/08/2010]
Acquistato sull’onda del ritorno maliano, attirato da quelle notizie su deserto, Arabia Saudita e altro si copertina, letto ora, sulla soglia della partenza sudafricana, altri ritmi suscita. Intanto, tuttavia, citiamo la casa editrice, “epoché”, un’altra benemerita, con ILISSO e JOUVENCE, che pubblica autori africani (e in fondo al volume c’è una bella scelta di altri autori). Diciamo invece che mi aspettavo un ritmo diverso dello scritto, anche se non disdegnevole. Certo, pesa, e molto, il fatto che l’autore dalla natia Arabia sia passato a Parigi, e sia diventato un autorevole giornalista di giornali arabi. Quindi c’è tutta un’onda di ricordi che si svolge non dico con un filo di rimpianto, ma certo con l’occhio di chi si è allontanato. Nonostante questo, l’autore cerca (e spesso riesce) di farci rivivere la possibile atmosfera magica di questo villaggio dei monti arabi, isolato e pieno di storie. Che ad un tratto il governo decide di modernizzare, inviando maestri e didatti. Una delle pagine per me più toccanti è quando il ragazzo impara a leggere e chiede al padre di leggergli il Corano, come faceva da piccolo. Ma il Corano del figlio non è leggibile dal padre, che legge solo il suo. Perché? Perché quello lo ha imparato a memoria, e conosce la scrittura come immagine mentale. Non sa in realtà leggere, ma riconosce i segni e li canta. Così come tutto il villaggio canta. Canta la madre quando va per i campi. Cantano lo stuolo delle sorelle in tutte le vicende della vita. Sorella-mia-memoria, sorella-che-mi-ama, sorella-me, sorella-madre, sorella-padre. E via elencando tutte le possibili intersezioni di queste famiglie allargate, dove l’importante non è il grado di parentela in sé, ma la comunità ed il suo senso. E poi le storie che animano ogni oggetto. I campi, il toro, le nuvole. La cintura con il coltello, che fa di te un uomo (e riecheggiano gli echi del vicino Yemen). Fino all’impatto con la città dove il buon Ahmed andrà a studiare, in quanto uno dei migliori del villaggio. La città dove tutto è difficile. Ma soprattutto dove bisogna usare questa strana entità che è il denaro, mentre lì, a casa, altri erano i modi di scambiarsi il procedere della vita. È un libro pieno di immagine che piacerà alla mia sorella-amica, pieno di spunti, ed anche di ginn. Ma soprattutto della comunità verso gli altri e verso le cose. Quel vivere in sintonia che si è sempre più andato smarrendo. Quando ferire un albero era un’offesa molto peggiore di rubare un paio di scarpe. Non ci si stupisca del paragone “povero”, ma in un mondo senza nulla, questi erano (sono) valori da ricordare. Un bel tuffo in un ambiente da cui si manca da troppi mesi e cui prima o poi si cercherà il ritorno. Anche con il rimpianto che purtroppo lì, in Arabia Saudita, non ci si possa andare. Un bel caffè al cardamomo per meditare sull’altrove e sul diverso.
“Per Hizam un uomo senza barba era un bugiardo. … Agli occhi di Hizam gli uomini glabri non erano che donne mancate. … E la pancia di un uomo per lui doveva essere piatta come quella di un lupo. Hizam stava a piedi nudi in modo da non separarsi mai dalla terra” (42)
“Al villaggio nessuno si è mai sposato secondo i propri desideri, come oggi possono fare certi ricchi. Il matrimonio è un dovere, una necessità, è per la vita. Il divorzio infatti è poco frequente, e di solito sono le donne a chiederlo” (112)
E poi, infine, si ritorna in Europa, in un altro splendido cammeo della mai tanto celebrata Sellerio, anche se qui ha perso dei punti.
Esmahan Aykol « Hotel Bosforo » Sellerio euro 13
[in: 10/05/2010 – out: 18/09/2010]
Leggero, duro quel tanto che basta, abbastanza ironico, senza essere sconvolgente. Un’ottima lettura di transizione (che dopo aver letto il libro di Goliarda di cui prima o poi parlerò, ci vuole del tempo per tornare a letture normali). Una piccola nota preliminare per quanto riguarda la traduzione: il libro è scritto in turco (titolo originale “La libreria”), ma qui ne viene presentata la traduzione dalla traduzione tedesca. Una nota di demerito alla Sellerio. Il libro in sé, comunque, è gradevole. Sia per la parte narrativa in sé che per la parte “d’ambiente”. Ci viene presentata la prima “indagine” della libraria Kati, quarantenne nata in Turchia, poi rifugiata in Germania, ed ora di ritorno da 13 anni nella natia Istanbul, dove corona il suo sogno, aprire una libreria di libri gialli. La sua normale routine di immigrata/integrata viene sconvolta dall’arrivo dell’amica Petra, compagna dei tempi berlinesi, ora attrice che si appresta a girare un film in Turchia. E subito dopo dalla morte del regista del film. Trovandosi sfiorata da queste vicende di cui tante volte legge nei libri che vende, Kati non riesce a fare a meno di intricarsi nella vicenda. E svolgendo a suo modo un’indagine fuori dalla norma, arriva all’altrettanto “a-normale” conclusione, dove i fili del giallo (anche se non con la calma che avremmo voluto) vengono riannodati e riassunti. Ma se questa è la storia, altro, e più interessante, ci riserva il libro. Primo su tutto, Istanbul, intesa come città viva, pulsante, caotica, ma in fondo molto amata sia da Kati che dall’autrice. Che riesce a restituircene caratteri ed odori: il traffico caotico, ma anche la calma delle sale de tè, i difficili rapporti umani, ma anche le amicizie vere, di quelle che se hai bisogno sai che ci sono. E così giriamo anche noi, ancora una volta, per Cihangir, per Ortaköy, per Eminönü, per i vicoli, per i locali a bere una birra, per i caffè, per un kebab vicino all’aeroporto. Vediamo i turchi con il telefonino in mano e la sigaretta in bocca. Vediamo i poliziotti volenterosi ed i criminali gentili della mafia turca. Ma soprattutto vediamo il conflitto tra culture: tedeschi che amano la Turchia e cercano di integrarsi (come turchi che amano la Germania e cercano di integrarsi), ed espatriati (tedeschi, inglesi, spagnoli) che rifiutano di cercare i bandoli del loro vivere ad Istanbul, e ne rimarranno per sempre fuori. Sotteso, c’è anche un discorso su pedofilia e giusta punizione per i crimini, non facile da affrontare, anche se l’autrice, laureata in giurisprudenza, fa trapelare alcune considerazioni. Come affrontato, ma credo verrà ripreso in altre puntate della vita di Kati che non mi aspetto sia isolata a questa sola uscita, il discorso di amore e sesso. Intanto, c’è anche Fofo omosessuale sempre dietro a nuovi amori. Ma c’è anche Kati stessa con le sue attrazioni e ritrosie verso l’altro sesso, e la sua scoperta che, anche a quaranta anni, può nascere amore profondo (ripeto sua, che noi smaliziati sappiamo bene che l’amore nasce quando vuole, a prescindere). Piacevole è quindi farsi prendere per mano da Kati, che in prima persona ci fa salire sulla sua macchina sgangherata, si imbufalisce per il traffico, e la mancanza di parcheggi, ci fa visitare la sua libreria, condendo le pagine con un tocco leggero di umorismo che non guasta. Un libro dignitoso, piacevolmente letto (soprattutto, ripeto, per quel riportarci con gusto ai sapori turchi) e graziosamente da consigliare.
“La differenza principale tra un uomo rifiutato e una donna rifiutata sta nel fatto che lui non perde tempo e mostra subito il suo vero volto. Lei, invece, reagisce in modo più cauto: magari l’uomo non voleva rifiutarla, magari c’è stato un equivoco… Di conseguenza, le donne passano alla fase della vendetta solo dopo il quarto rifiuto, mentre gli uomini cominciano a fare ritorsioni alle prime difficoltà” (185)
“Sono un esempio vivente del fatto che le persone non cambiano” (251)
Un bell’esempio di sovrapposizione libro – realtà, è poi la quarantenne Esmahan Aykol, autrice di gialli e giornalista, in bilico tra Berlino e Istanbul, il cui nome deriva dall’aggettivo turco haymatlos che significa “senza patria”.
Diamo subito a Cesare quel che è di Cesare, facendo auguri a chi doppia la boa di mezzo secolo. Avrei poi voluto essere leggero e dare inizio a danze e libagioni, ma questa settimana (che già si preannunciava complicata e non solo per me), si è ulteriormente intricata con il ricovero odierno di mia madre per un’operazione che avrà luogo martedì. Incrociamo le dita. 

venerdì 30 marzo 2012

Indignati - 08 dicembre 2010

Come da qualche festa in qua, approfitto di questa infra-settimanale per smaltire un po’ di arretrato. Ed approfitto anche del momento di malumore generale e di disagio mio, per affrontare dei libri appunti indignati. Contro il razzismo strisciante, contro le rotte dei clandestini gestite dai ricchi della terra, contro le mafie, contro la mafia, contro il distorto modo di vedere e affrontare il futuro.
Cominciamo dal siciliano di cui altro scrissi per una sua prova romanzata, e che qui si trova a parlare della degradazione sottesa all’immigrazione clandestina.
Davide Camarrone “Questo è un uomo” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato 8,50 euro)
[in: 03/04/2010 – out: 25/06/2010]
Breve, brevissimo, si legge in una sera, ma rimane addosso. Un leggero apologo (leggero per numero di pagine non per intensità) sul problema dell’immigrazione clandestina e su tutte le problematiche connesse. Anche qui si cerca di entrare dalla parte degli altri, non con la lievità anche se dolente di quel CPT con vista stadio, letto un paio di anni fa. Né con quella crudele verità dei reportage dal vero, di quelli che, se non li avete letti, bisogna leggerli: dal primo, il più antico, “Faccia da Turco” di Günther Wallraff del 1984, all’intensissimo “Bilal” di Fabrizio Gatti, passando per “I fantasmi di Portopalo” di Giovanni Maria Bellu. Qui siamo in realtà, dalla parte della finzione, si narra non si descrive, m ogni parola pur se inventata può essere, (è) forte come un pugno nello stomaco. Dove si narra dell’Odissea del nero Boucouba, giornalista laureato in Inghilterra di passaporto italiano, che, da reporter del “Corriere della Sera” decide di far il viaggio inverso, da clandestino, verso le origini delle vie del dolore. Riuscendo a vedere cose che altrimenti sarebbero “nascoste” proprio per quel suo essere di colore. Ciò che vedrà e scriverà è quello che tutti sappiamo esserci in questa degradazione del mondo. La lotta per la vita, il sopruso del debole sul più debole, il sotterraneo mondo di chi poi in queste miserie trova il proprio tornaconto, e la propria ricchezza macchiata di sangue. Tanti, troppi. Viene una rabbia sorda, di impotenza, mescolata al fatto che, con l’altra parte del cervello sto leggendo Gomorra ed altra rabbia si accumula. Cosa si può fare? Come fare perché le parole possano aiutare ad uscire da questo budello di orrore? Da questa miseria infinta, che a Camarrone ricorda (e ci ricorda) quegli orrori segnalati dal titolo del racconto. Da quel rimandare a Levi ed alla sua cruda storia della deportazione nazista. Che pena, aver trascorso anni ed anni a cercare il filo della giustizia e ritrovarsi qui, ora, in questo millennio da poco iniziato, dove ancora la giustizia è ben lontana da essere non dico raggiunta, ma intravista. Dove non si riescono più ad avere strumenti per ribaltare a spallate questo stato di cose. Un ulteriore merito del libro, passando ad un tono più “leggero”, è la descrizione della vita e della storia di Fatima, la donna-memoria, la “griotte” di etnia Woloff cui vengono lasciate le tracce degli accadimenti del mondo da chi non può trovare altro modo di comunicarli, di tramandarli. Con quella bella descrizione della genesi del termine “griot”, il cantastorie che gira lungo il fiume Niger, derivante il suo nome dal portoghese “criado”, servo, come “criate”, domestiche erano le fantesche in terra di Sicilia. Ecco, voglio finire con questo tocco di speranza, che le parole di uomini e donne memoria riescano a non farci dimenticare mai quello che sta accadendo.
Ma come dicevo con l’altra metà del cervello leggevo Saviano, che ho finito pochi giorni dopo.
Roberto Saviano “Gomorra” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[in: 21/03/2010 – out: 29/06/2010]
Parafrasando un suo passo, alla fine di questa  emozionante lettura, mi viene da dire “Io so. Ma non ho le prove”. A quasi 4 anni dalla sua uscita, ho aspettato di poterlo leggere senza l’urgenza mediatica e con la sua uscita in economica scontata. E nel frattempo, non ho neanche visto il film. Ebbene, se ne esce sconvolti. Perché sono fatti alla luce di tutti, eppure lì nero su bianco, e messi tutti insieme raggiungo una forza dirompente. Dove purtroppo non si sa cosa fare. Lo sappiamo, quello che succede in Italia. Lo vediamo tutti i giorni, nei tribunali, negli uffici pubblici (un giorno vi narrerò le vicende dell’INPS di Piazza Augusto Imperatore), nelle televisioni, nei giornali. Ma pochi hanno il coraggio della maestra di Mondragone, che non abbassa la testa, che vede gli assassini, che li denuncia. Lei, una rosa nel deserto. E come quelle rose, dopo la denuncia, rimane nel deserto, abbandonata dal fidanzato, dagli amici, dalla città. Da incorniciare, e far discutere in tutte le scuole e gli oratori, le pagine così dolenti e grondanti di pianto e rabbia, dove si narra la storia del martire Don Peppino Diana! Le storie che ci racconta Saviano, ormai in questi 4 anni sono diventate oggetto di discussione, e non hanno il sapore della novità. Sappiamo tanto anche del sarto di Arcella, dell’AK-47 di Massimo, delle morti assurde a 15 anni. Ma non è questo che mi ha colpito. Un pugno lo dà l’intrecciarsi di tanti fili, che non si riesce a sbrogliare. Lo dà la rabbia. Ed uno, definitivo, lo dà l’arroganza del potere. Come togliersi dalla testa le ultime pagine sulle discariche napoletane e sulla demagogia che poco dopo ne tira fuori il Silvio Imperator! Come togliersi dalla testa (Io so, non ho le prove) che ci sia stata anche una lotta tra mafia (che appoggia la politica) e camorra (che appoggia l’economia)? E come qualcuno abbia preso a cuore gli interessi di… E qui lascio puntini perché, non ho le prove. Ho messo tutte le stelle possibili per dare il mio parere su questo libro. Per il coraggio ed i contenuti. Meno per la scrittura, dove dal punto di vista “solamente letterario”, a volte si incarta un po’. Certo un peccato veniale, che gli perdono facilmente, cercando di salire con lui sulla sua vespa con il naso all’aria e l’occhio vigile, per vedere quello che succede a Casal di Principe, a Mondragone, a Villa Literno, fino ai posti a me comunque cari del litorale domiziano (dove ho visto con i miei occhi le ville bunker ed altre oscenità). Un libro da leggere e rileggere per trovare il modo di fare. Ottime le cinquanta pagine finali, dove vengono riportate recensioni del libro apparse in varie parti del mondo. Così apprezziamo anche la diversa ottica con cui si guarda a questa scrittura, da quella appassionata e partecipe di francesi, tedeschi e nord-europei a quella straniante dell’America, il cui cruccio maggiore è non sapere se etichettare il libro come “fiction” o “non-fiction”. Quanto è importante per gli anglo-sassoni mettere etichette. Soprattutto ad un libro che è tutto il contrario di qualcosa etichettabile. Che denuncia, usando i toni del romanzo e la scrittura di un saggio. Peccato manchino i commenti italiani, in particolare di quei giornali che sostengono il libro aver dato un’immagine distorta del nostro bel paese. Ma gli editori di quei giornali sono anche editori del libro… Mi verrebbe allora da dire, boicottiamo gli interessi perversi che intrecciano capitali leciti ed illeciti. Smettiamo di guardare la televisione. Smettiamo di comprare libri Einaudi e Mondadori. Smettiamo di fare la spesa nei super-market “chiacchierati”. Chissà fino a dove dovremmo continuare a smettere. Avremo la forza di farlo? Non lo so, poi penso alla maestra e mi dico: c’è ancora qualcuno con la coscienza civile di tirare fuori qualcosa. Di non mettere la testa sotto la sabbia. Speriamo, speriamo, speriamo.
“Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere” (323)
Zygmunt Bauman “Vita liquida” Laterza euro 8,50 (in realtà, scontato 7,23 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 19/09/2010]
Bello, e difficile, come tutti i libri di Bauman. E con la solita “colpa” (ma che deriva sempre dalla mia speranza) di non avere poi soluzioni. L’analisi è circostanziata, si fa (passo dopo passo) un viaggio su alcuni aspetti del mondo attuale (la cosiddetta modernità) ma poi… Certo, forse non è questo il suo compito, e forse avere (e dare) degli strumenti che permettano di leggere i motivi degli attuali accadimenti è già un bel passo. Partendo sempre dal concetto di fondo della sua analisi (il mondo attuale è liquido, cioè si muove e si adatta alle forme del contenuto, e non più solido come era lo stato di cose precedenti che prevedeva la visione inversa e cioè che erano le cose che si modellavano intorno all’esistente) guarda ad una serie di fatti, cerca di rivoltarli per farceli vedere a tutto tondo, e mentre lo fa, capisco (o intuisco) alcuni malesseri che vivo (che viviamo). Anche perché il motivo aggiuntivo di questo scritto rispetto ad altri è per me l’accento che viene posto sulla commercializzazione degli aspetti della vita. Ogni capitolo, come detto, guarda ad un aspetto attuale e lo approfondisce: si parte ad esempio dal concetto di individuo, quello per cui ci veniva detto che essere individui significa essere diversi gli uni dagli altri. Ma la vita liquida è una vita di consumi, e quindi l’individuo deve diventare altro, ma non massa, quanto diverso eppur uguale, di modo che cercherà nell’esteriorità di un qualche segno di distinguersi. Ma anche altri lo faranno. Ed allora bisogna essere veloci, cambiare, riciclarsi. E dare vita al grande problema dell’età moderna: dove mettere le cose che si consumano? Mi torna in mente come esempio mio di questo passaggio alla liquidità l’affermarsi dello “Swatch” rispetto all’orologio tradizionale e “per sempre”. E quindi altri passi dolorosi: il bisogno di essere celebri quindi, ma non per qualcosa di solido, ma per la notorietà stessa (che bella tautologia), passando per una forte fase di vittimismo (non sono il grande “eroe” che potrei essere perché tutte le cose congiurano contro di me). E quindi il consumatore diventa il perno della nostra società, e per rafforzarne i connotati bisogna diminuire sempre più la soglia dell’inizio del passaggio da persona a consumatore, aggredendo sempre più ferocemente e mercificando quindi anche l’infanzia. E perché tutto si possa tenere, anche l’educazione deve entrare nel circolo del profitto, perché altrimenti porterebbe ad uno sviluppo di una cultura che in quanto tale non può che contrapporsi allo stato delle cose. Allora via andiamo anche a cercare di rendere profittevoli anche gli istituti culturali, e se poi non lo fanno (e non lo possono fare) come non aspettarsi che ci siano scuole che non hanno più soldi neanche per i banchi e fanno lezione per terra. E poi un altro sottoprodotto: la paura. Prima gli individui si aggregavano in comunità e creavano “luoghi” che si fortificavano per paura degli attacchi esterni. Ora che ognuno ha paura dell’altro, si rovescia il sentire, e ci si fortifica nel cuore delle città per lasciare lì il momento violento e noi fuggire altrove, dove non ci sia la paura di essere aggrediti. In una parola, a me veniva la visione di una mancanza di “stelle fisse” che ci illustri la via da seguire. Ora sono stelle mobili, e solo chi le cambia di continuo riesce a vivere in questa realtà. Ma cosa dobbiamo augurarci che venga dopo? Qui mi sono fermato, ed ho fatto un passo indietro anche io, perché molti di questi passi, mentre li leggevo mi hanno fatto fermare a riflettere. Riflettere sulla difficoltà di stare, sul malessere che ci pervade. Da dove viene questo senso di impotenza, di fragilità? Perché pur essendo in grado di fare, di dire, di, in un certo senso, agire, ci viene un sentimento di sconfitta? Bauman, ripeto, non da risposte, non le da mai nei suoi scritti. Lui analizza i meccanismi a volte nascosti nella nostra vita quotidiana. Ma proprio mentre ne discetta mi scatta qualche lampo (pochi che ormai siamo incapaci di avere quelle folgoranti visioni che un tempo ci illuminavano tutto). Qui, ora tutto è veloce, tutto è fatto per essere consumato e dimenticato. Anche la cultura. Ecco ci siamo, ci ritorno, è il punto che più mi duole. Noi si era adusi avere un concetto di cultura in un certo senso trascendente. Qualcosa di solido, con cui raffrontare, confrontare il nostro poco essere attuale. Ma il solido c’era. E nella nostra lotta quotidiana contro l’annientamento, contro la dimenticanza, era un faro, una meta non da raggiungere, ma a cui volgere sereni le nostre imbarcazioni. Ora, quei fari scompaiono, perché la liquidità non vuole cultura stabile, ma transiente. Come dice in un passo, parlando d’altro: “si è celebri per la propria notorietà”. È agghiacciante! Non si costruiscono edifici duraturi, ma momenti, fugaci visioni. Eventi, come direbbe Maria. Passato l’evento, si volta pagina, si cerca, si fa altro. E noi che l’avevamo preso a modello, lo vediamo sparire, sostituito velocemente da altri modelli, ma non abbiamo la loro velocità. Noi si rimane indietro. Diventiamo anche noi obsoleti. Questo non può che portare angoscia, insoddisfazione, incapacità di capire. Non può che portarci a stare male, ed a dubitare di tutto quello che facciamo. Perché quello che facciamo non è funzionale al mondo in cui viviamo, ora. Lo è in quello in cui abbiamo formato la nostra cultura (sì, propria quella). Ma non accattiamo di vederla cancellata ad ogni giro di lancetta. E quindi, alla fine, non possiamo che stare male. Perché io non rinuncio alle mie stelle fisse, e verrò, inesorabilmente, emarginato. Mi sa che ne dobbiamo parlare e parlare e parlare.
“Adorno: il pensiero non è la riproduzione intellettuale di ciò che comunque esiste” (160)
“prima ancora di essere homo sapiens, creatura che pensa, l’uomo è una creatura che spera” (175)
È il giorno che si fanno alberi e presepi, è un giorno di riposo primo dello slancio verso i turbini natalizi e capodanneschi. È un giorno in cui, nonostante tutto, mi sento in pace. È un giorno a cui, con molta riconoscenza, penso ai miei amici e li stringo forte per affrontare, buone o cattive, le sorti che verranno. È un giorno in cui solo alle cose buone darò peso.

giovedì 29 marzo 2012

Inqualificabili - 05 dicembre 2010

Ma non nel senso negativo del termine. Sono libri un po’ atipici, che non hanno certo molto in comune tra loro, ma che, inoltre, non è facile accomunare con altre letture. Un libro di ricette, alcune riflessioni su passi biblici, un pamphlet di letteratura inventata. Cosa trovare di più eterogeneo. Ma si sa, io leggo di tutto, e di tutto commento.
Cominciamo allora con l’a me poco noto cuoco.
Sapo Matteucci “Q.B. la cucina quanto basta” Laterza euro 10,50 (in realtà scontato 9 euro)
[in: 16/04/2010 – out: 12/05/2010]
Un libro di ricette, ebbene sì, che ho letto come un saggio e che ogni tanto ha dei bei richiami mentali a tavole e convivi. Intanto il mistero del nome Sapo abbreviazione di Saporoso, che solo qualcuno nato in Toscana poteva trovare. Poi l’umiltà che vi ho trovato quando nell’accostarsi al cucinamento di piatti, ci si pone sempre con grande timore. Tutto può andare male, anche il piatto più rodato. Bisogna sempre e comunque essere rispettosi degli alimenti e trattarli da pari a pari. Con uno stile quindi molto colloquiale, che ho sommamente apprezzato, si va di situazione in situazione (da quelle banali di semplici piatti per i figli ed i loro amici a quelle super difficoltose del cucinare per sé, molto più “angosciante” del cucinare per altri, perché si può mentire a tutti, ma non a sé stessi), sottolineando i momenti (e sono molto coinvolgenti) di quella cucina comunitaria, dove ci si divide i compiti per un risultato finale all’unisono e di cui tutti si gode. Soprattutto per il pesce (che piacere leggere del sauté di vongole!). Pieno inoltre di piccoli e grandi aperitivi (grande mojito, e sorry per chi non ama la menta), e di accompagnamenti divini/di vini. E che gran gioia di papille, passare in poche righe da quella grande pietanza nazionale della parmigiana di melanzane a quell’altrettanto grande e napoletana del gattò di patate. Un bello sforzo, l’apprezzare quello scivolare su sapori aulici, scarsamente riproducibili, ma senza l’affettazione del grande critico culinario, né quella finto - ironica alla Burbery. Come quando sento i profumi del legno di faggio che affumica il sale Danese. O mi congratulo per l’utile smitizzazione di pepi “aromatici”, rispetto ad un sano e robusto pepe naturale. Come non andare insieme da Tonino l’ortolano a prendere della verdura di stagione, fino a salire alle alte vette di quella cucina tanto semplice da essere inarrivabile. Due esempi su tutti: gli spaghetti aglio e olio e le uova al pomodoro. Piatti semplici, ma di una bontà senza uguali. Certo poi si può anche arrivare al “Framasson di Monzù Terremoto” e se qualcuno vuole gliene parlo. Ma lì il massimo è leggerne per vedere come viene fatto. A farlo… insomma, letto metà all’andata e metà al ritorno nella trasferta madrilena, mi ha fatto compagnia con il suono italico mentre andavo a gustare un “jamon de pata negra bellota” (ne possiamo parlare?). Buona digestione a tutti.
“Il primo tentativo, forse non solo quello, sarà per voi, come è stato per me, un mezzo fallimento. Ma non desiste: coraggiosi, verso un prossimo e trionfale successo. In fondo non esistono piatti difficili, o, senza un po’ di passione-attenzione, lo sono tutti” (164)
Passiamo poi ad uno dei miei sempreverdi, anche se non al meglio.
Erri De Luca “Una nuvola come tappeto” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 5,20 euro)
[in: 23/04/2010 – out: 11/07/2010]
Interessante, inclassificabile, ma cosa vuole dire? Qui siamo dalle parti dell’Erri dotto, che studia l’ebraico e legge la Bibbia in originale. Ed io immagino che da quella lettura vengano fuori annotazioni, domande, pensieri che, da buon amante della scrittura, De Luca non può fare a meno di prendere. Ed una volta presi, non può fare a meno di rileggerli e di avere la necessità di condividerli. Questo mi sembra il solo filo che lega le pagine di questa nuvola. E noi riflettiamo con lui, su alcuni passi della Bibbia, e sul modo di arrivare a noi di cose difficili e ahi quanto mediate. L’ebraico, come l’arabo che conosco meglio ma la radice è quella, è anch’essa una lingua che si compone di radici consonantiche significative. E quindi con sollecitudine intellettuale, scopriamo i nomi d’origine di situazioni e personaggi che fin dal nome hanno una loro ragione. Giacobbe da Yakov che significa “colui che afferrò il calcagno”, ma le radici del nome significano anche “ingannatore”. Ed una luce nuova si stende sulle sue vicende e su quelle di Esaù (a parte il proustiano ricordo di piatti di lenticchie che in gioventù mi avevano lasciato perplesso e che solo le frequentazioni medio - orientali mi hanno consentito di comprendere). O Giobbe da Iiòv che significa avversato. O la storia della città di Scin’ar e della sua torre che noi siamo abituati a pensare col nome di Babele. Financo tutta la storia (riassunta per capoversi, ma ce ne sono i passi fondanti) che porta da Isacco (colui che ride) a Giacobbe, a Giuseppe, a Mosè, a Giosuè ed all’insediamento delle 12 tribù in Israele. Facendoci anche ricordare che, temporalmente, siamo vicini alla Guerra di Troia. Ma che differenza di atteggiamento tra i bellicosi achei, l’ingannatore Ulisse, ed i mistici ebrei che cercano di conquistare la Terra Promessa. Ed in che modo? Guerreggiando e sconfiggendo coloro che in quella terra vi abitavano. De Luca non se la sente (ed a ragione) di fare ulteriori paragoni tra lo ieri lontano e l’oggi bruciante. Ma come se indicasse un pensiero e dicesse a noi di ragionarvi sopra. Tanti altri pezzi dotti si accumulano nelle poche pagine del libro, che riesce faticoso condensarli in una così breve disamina. Di questo è meglio che si legga, e si legge con piacere e scorrevolezza. Ne esce fuori quella umanità storica senza la quale certi passi, certe decisioni, certi atteggiamenti sembravano rimanere sospesi. Sarcastiche le pagine di San Paolo che prova a parlare del Dio Unico nell’agorà di Atene. Interessanti le righe su Giona e la distruzione di Ninive. Mi ero proprio scordato perché Giona finiva nella balena! Questo è tutto il bene che posso dirne. Ma rimane il mio grido iniziale. Che cosa mi vuoi dire di altro, caro scrittore? Quale urgenza altra, che non ho compreso, spinge la tua penna? Perché se ci si limita ad un esercizio intellettuale, si può nutrire bene il proprio cervello. Ma lo spirito ne rimane non so dire se inquieto o quanto meno disorientato. Ecco, questa è la sensazione mia personale alla fine. Mi sono dilettato nello scoprire cose che non sapevo, le pagine sono volate vie in un lampo. Ma alla fine non è uscito il dolce da quel forte come diceva Sansone (c’è chi si ricorda a mente perché?). Il tuo grido finale di amore per il Mediterraneo è il mio grido di sempre. Però mi aspettavo qualche cosa in più che qui non ho trovato. Ma cercherò ancora.
“Un sogno che non si interpreta è come una lettera non letta” (47)
“Come il martello frantuma la roccia in una moltitudine di frammenti, così un solo passo della Scrittura ha molti significati (Talmud)” (78)
“Per il tempo che le parole sono nella tua bocca sei il loro signore; una volta pronunciate, sei il loro schiavo” (109)
Non parlo ancora del buon napoletano, e salto a più pari verso lo spagnolo anche lui perso in giochi di mente.
Enrique Vila-Matas “Storia abbreviata della letteratura portatile” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato 5,25 euro)
[in: 25/07/2010 – out: 20/10/2010]
Un gioco intellettuale tutto costruito, ma alla fine sterilino. L’idea è quella di costruire un grande pastiche prendendo spunto da gesta (tra vere e inventate) dei surrealisti e della gente che girava a loro intorno, verso gli anni ’20. Vila-Matas è un gran conoscitore di letterature e dei primi decenni del secolo. Socio onorario dei seguaci di Joyce che si riuniscono a Dublino il 16 giugno di ogni anno, scrittore di altri pastiche che hanno per protagonisti il Bartelby di Melville e il Montano di… Sempre sul filone della difficoltà di scrivere. Anche qui, la scrittura diventa un pretesto di vita. Un gioco altro per giocare con tanti frammenti. Inventando la nascita di una società segreta che in codice si fa chiamare SHANDY. Gli adepti devono portare sempre con loro le loro opere, come nella famosa Boîte-en-valise di Marcel Duchamp. E per narrare le loro gesta si inventa la scrittura al contrario di un testo immaginario (La “Storia portatile della letteratura abbreviata” di Tristan Tzara che il franco-rumeno mai si era sognato di scrivere). Oltre a Duchamp, della congiura shandy fanno parte a uguale titolo Walter Benjamin, Jacques Rigaut, Blaise Cendrars, Valery Larbaud, Scott Fitzgerald, Vicente Huidobro, César Vallejo, Salvador Dalí, Tristan Tzara, Ezra Pound, Cyril Connoly, Francis Picabia, Georgina O'Keefe e il principe Mdivani. Con la partecipazione straordinaria di Aleister Crowley e Louis Ferdinand Celine nel ruolo di traditori, presunti o reali che fossero. Ma che cos'è uno shandy? In un primo significato, "Shandy, nel dialetto di alcune zone del contado dello Yorkshire (dove Laurence Sterne, l'autore del Tristam Shandy, visse gran parte della sua vita), significa indistintamente allegro, volubile e un po' picchiatello". Lo shandy è un tipo caratterizzato da una "volontà costante di trasgressione". E, su un altro piano, una persona "impossibile, gratuita e delirante". Ma shandy, più che essere correlato al personaggio di Sterne, deriva più che altro da una bevanda inglese: una sorta di birra amarognola che, tracannata a grandi sorsi in estate, riesce a placare la sete. Shandy soprattutto significa votare la propria vita al nomadismo, e, come corollario, al celibato, alla vita senza troppi pesi. Forse è tutta qui l'essenza del portatile: il paradigma di un uomo celibe, impossibile, libero e delirante, ovvero "un artista portatile, oppure, il che è lo stesso, qualcuno che si potesse portare tranquillamente da qualsiasi parte". Shandy significa votarsi alla non causa di una congiura senza movente e senza scopo. Nessun membro della società segreta sa a cosa serva, a quali superiori destini sia consacrata la congiura. Cospirare tanto per cospirare. Quel che è certo è un metodo di elezione: miniaturizzare la letteratura. Necessità nomade, la letteratura portatile serve a far sì che quando la congiura potenziale si esplicherà, accada quel che accada, tutto l'inessenziale sarà a portata di mano. In una valigetta. E tutto narrato sempre infarcendo reale e menzogna. Oltre alla bibliografia con metà libri inventati, anche le azioni sono mescolate, Jacques Rigaut che si suicida come Roland Roussel, Pola Negri che non si sposa con il principe Mdivani, la malia di Georgia O’Keefe. E via elucubrando. Un gioco letterario (sarebbe curioso farne una contro-lettura, con le “vere” storie dei “veri” artisti) ma alla fine un po’ sterile e fine a sé stesso. Appunto godibile se si sanno tante storie. Altrimenti così, rimane un bel ricordo e nulla più. Se non lo stimolo ad essere sempre più nomade, almeno dentro la testa.
“Più che artisti, che suona vuoto e pomposo, siamo artigiani, cioè gente che fa cose” (69)
“A Siviglia … diventa collezionista di libri e di passioni, perché sa che la caccia di libri … arricchisce la geografia del piacere, e in ciò trova un’altra ragione per vagabondare per il mondo” (101)
Veniamo ora all’elenco delle letture del mese settembrino, iniziate con calma e poi intensificate, con ben 3 (tre) punte di eccellenza.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Beppe Sebaste
Panchine
Laterza
9,50
5
2
Jack London
Il vagabondo delle stelle
Adelphi
13
5
3
Christian Jacq
Le procès de la momie
Pocket
8,50
2
4
Loriano Macchiavelli
Cos’è accaduto alla signora perbene
Einaudi
11
3
5
Alfredo Colitto
Cuore di Ferro
Piemme
11
3
6
Goliarda Sapienza
L’arte della gioia
Einaudi
14,50
5
7
Esmahan Aykol
Hotel Bosforo
Sellerio
13
3
8
Zygmunt Bauman
Vita liquida
Laterza
8,50
5
9
Maxence Fermine
Opium
Livre de Poche
5,60
3
10
Andrea Camilleri
La caccia al tesoro
Sellerio
14
2
11
Michael Connelly
Ghiaccio nero
Piemme
10,50
3
12
Massimo Carlotto
Il fuggiasco
E/O
8
3
13
Elizabeth George
Corsa verso il baratro
TEA
8,90
4
14
Éric-Emmanuel Schmitt
Milarepa
Magnard
5,53
3
15
Gian Mauro Costa
Il libro di legno
Sellerio
13
3

A Merano tutto bene (a parte la neve). Per il resto un gran bisogno di riposo (che spero arriverà) ed un pensiero a tutti i miei amici sagittario – capricornici (sia a Carlo e Luciana in omaggiamento  in questi giorni sia a coloro che verranno, ma che non si fanno in anticipo). 

mercoledì 28 marzo 2012

La storia romanzata - 28 novembre 2010

A parte un po’ di gialli ambientati in improbabili Duecento danteschi o Antica Grecia aristotelica, confesso che non sono un grande amante e/o lettore di storia romanzata, anche se devo confessare c’è del fascino in alcune prove (e rimando alla classica pentalogia di Jacq su Ramsete II, con quell’immagine finale dell’incontro con il toro-dio, che un po’ mi si ritrova nel cervo di De Luca). Ma sulla spinta di alcune lezioni di Barbero ho letto cose sulla fine dell’Impero Romano, sul ricordo di Jacq mi sono ritrovato tra le mummie, per scoprire che poi era altro il mistero, per risalire poi ai medioevali fasti con una prova “gialletta” senz'altro migliore di quelle sulla medicina che tanto vituperai a suo tempo.
Ma andiamo ad iniziare questa storia allegra.
Giulio Castelli “Imperator” Newton Compton euro 4,90 (in realtà, scontato 3,20 euro)
[in:  24/07/2009 – out: 06/04/2010]
Non sono un grande lettore di romanzi storici (e si vede anche nei tempi trascorsi tra acquisto, lettura e recensione), che in genere riservo all’antichità egizia, o tutt'al più greca (i primi Jacq o il classico Manfredi). E sono assolutamente digiuno (se non in reminiscenze scolastiche ed in qualche puntata sulle tavole riassuntive di Gibbon) rispetto all’andamento del mondo durante la caduta dell’impero d’Occidente ed al rinvigorirsi di quello d’Oriente. Mi sono quindi accostato a questo librone di quasi seicento pagine un po’ timoroso. Risultato: niente male! Non è la svolta della vita, né un libro indimenticabile, eppur tracciando in modo soggettivo le avventure di Giulio Valerio Maggioriano, mi ha tenuto compagnia per alcuni giorni senza pentimenti. Devo riconoscere che la scrittura è abbastanza quieta per scorrere sopra la storia, anche se, in modo forse leggero ma non banale, si affrontano le tematiche precipue di questa caduta: il sorgere di nuovi potentati barbari ai confini dell’Impero, e l’incapacità di un centro corrotto di capirne le valenze e le possibilità. Nonché il venir meno a quell’idea unificatrice della prima Roma (che poi sarà quella di pochi secoli dopo dei primi arabi) di unificare mediante l’inglobamento delle potenzialità dei vinti, senza creare quelle tabule rase alla mongola, che possono essere mantenute solo con l’uso della forza. E viene fuori gradevolmente anche un affresco del mondo così come Giulio Valerio lo vede evolversi intorno a quel 450 d.C. di svolta per le sorti occidentali. Vediamo il fiorire di Ravenna per il suo appoggio a Costantinopoli, la calata di Alarico ed il primo sacco di Roma, la difesa del prode Ezio che guerreggiando ai confini riesce a costruire un baluardo di “barbari” per difendere un centro sempre più decadente. Vediamo il sorgere della potente Chiesa, sotto la spinta del grande Leone I, le scorrerie di Attila, la grande battaglia dei Campi Catalauni che lo fermò la prima volta. Ed il crescere ed affermarsi da Cartagine del vandalo Genserico, ed il suo secondo e forse definitivo sacco della città. Che da quel punto mestamente andrà richiudendosi su piccole beghe inutili, fino all’ultimo regno e conseguente esilio di Romolo Augustolo. In mezzo a tutto ciò, si aggira il nostro, che mantiene una sua coerente dirittura morale, quasi fuori luogo. E ne apprezziamo il percorso (forse un po’ forzato) che lo fa partire da Alessandria al tempo del martirio della non ortodossa Ipazia, lo fa passare in Cartagine a conoscere l’allora vivente, anche se non per molto, Agostino di Ippona. E poi lo colloca a Roma, rampollo emerito di una tipica famiglia patrizia, con i suoi amori per la prostituenda Thea, il matrimonio inutile con la bruttina Greta, e gli amori maturi (non si sa quanto e se consumati) sia con Amalia (ormai vedova di Ezio) si soprattutto per Licinia Eudoxia moglie sventurata dello sventato Valentiniano III, ultimo discendente diretto della dinastia teodosiana. Ne ammiriamo la crescita nell’esercito, ed il suo ritirarsi nella villa di Tuscolo a studiare quando le lotte di potere si fanno insostenibili. Fino ad ascendere, lui così abbastanza schivo, al soglio imperiale. E tentare un ultimo drammatico approccio per ristabilire la legalità romana. Legalità basata (appunto) sulle leggi che all’epoca venivano promulgate a spron battuto e mai applicate. Certo, il lato “rapporti umani” (e soprattutto femminili) è lasciato discretamente in ombra, se non per piccoli accenni. Ma nel complesso, anche quando si dibatte sull’ordine e sul ripristino delle sane leggi imperiali del divo Cesare, non ci si annoia più di tanto (anzi, se si fanno i paragoni con gli sfaceli attuali…). Insomma un libro decente, certo più adatto a qualche ombrellone estivo, piuttosto che ad un si freddo inverno romano.
“Thea aveva anche la facoltà di scovare un’altra persona in me… andavo scoprendo nuovi impulsi. Cercavo di godere delle sensazioni, di fermare gli attimi deliziosi. Thea era fantastica nell’abbandono.” (146)
“con un gioco di parole potrei dire che era un profondo conoscitore delle cose superficiali e un superficiale conoscitore di quelle profonde” (192)
“La verità è che tu mi ami e non mi ami… Forse sei un po’ geloso. Ma non bruci di passione. .. Non ami le persone. Ami le idee, non gli esseri umani.” (196)
“avevo cominciato a pensare che la decadenza è una lenta spirale. Dapprima gli uomini non la avvertono. Poi il movimento si fa sempre più rapido fino a divenire inarrestabile. A quel punto tutti ne diventano consapevoli ma ormai è troppo tardi.” (346)
Passiamo quindi all’egittologo da anni abbandonato.
Christian Jacq « Le procès de la momie » Pocket euro 8,50
[in : 13/02/2010 – out : 09/09/2010]
Erano anni che non prendevo in mano un libro di Jacq, dai tempi in cui mi ero rivolto alla lettura dei 5 volumi dedicati alla vita romanzata di Ramsete. Buona scrittura, ma qui, lasciato un po’ il campo proprio dell’Egitto antico, e trasformatosi in un pastiche ambientato a Londra intorno al 1820, lascia un po’ deluso. Non è che lasci da parte l’Egitto, si intende, ma cerca di imbastire una storia semi-moderna con tocchi della sua materia preferita. Ottiene comunque alcuni effetti minori: suscita l’interesse intorno alla figura dell’avventuriero italiano Giovanni Belzoni, tratteggia i motivi politici della nascita di Scotland Yard, lancia strali contro la spoliazione che nell’Ottocento, francesi ed inglesi fecero delle reliquie egiziane, descrive abbastanza fedelmente l’ambiente in decadenza del regno di Giorgio IV. Ma la storia che dovrebbe sorreggere il tutto è debolina. Belzoni riporta dall’Egitto montagne di reliquie, tra cui una mummia imbalsamata. Organizza una mostra, dove tre notabili inglesi mancano di rispetto alla mummia. Presto morranno, e la mummia scompare. Questo il plot “giallo”, che da modo a Jacq di introdurre la pacata figura dell’ispettore Higgins, che, passo dopo passo, con pazienza ed arguzia, riuscirà a debellare le trame ordite da tutti i cattivi e ad arrivare alla risoluzione delle morti e della scomparsa. Ma l’attento lettore, fin dai primi colpi di scena intuisce la soluzione del giallo. Più intricata, ed avvincente, la storia dei tentativi di rivolta fomentati da un amante della Rivoluzione Francese, che vorrebbe esportarla in Inghilterra. E questa trama è più complessa e meglio trattata. Anche perché consente di descrivere il mondo londinese tra il 1821 ed il 1823, con la nascita dei quartieri signorili, la corruzione della polizia, la superbia dei curatori del British Museum, la povertà dei dock, ed il degrado del quartiere di Whitechapel (che pochi anni dopo vedrà le gesta di Jack lo Squartatore). Il filo però è la mummia, e lì ritorna, di tanto in tanto, facendo vedere che ben consoce riti ed atteggiamenti dell’antico Egitto verso l’imbalsamazione, la lettura del libro dei morti, le divinità egizie, la decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion. Ed è ovvio, lui è l’esperto di tutto ciò, lui il divulgatore delle mirabilie antiche. Però queste parti rimangono un po’ appiccicate, non riescono a suscitare l’interesse che rivolgiamo, pagina dopo pagina, alle attività dell’ispettore Higgins. Essendo aduso a scrivere, la lettura è agevole, e si fruisce con la piacevolezza di un libro estivo. Rimane però un libro minore, che ricordo solo per avermi fatto scoprire la figura del padovano Belzoni, colosso di due metri, che, a dispetto di tutti i non riconoscimenti, scopre la tomba di Seti I nella Valle dei Re ed il luogo esatto del tempio di Abu Simbel. E di questo lo ringrazio sentitamente.
“Respecter autrui, et le comprendre, commençait par le maintien de soi-même.” [Rispettare l’altro, e comprenderlo, ha inizio con la cura di sé stessi] (205)
« Chacun peut être heureux, s’il veut ; car le bonheur dépend certainement de nous. L’homme qui se contente de ce que le sort lui donne est heureux, surtout s’il est bien persuadé que c’est là tout ce qu’il pourra obtenir. » [Ciascuno può essere felice, se vuole; poiché la felicità dipende certamente da noi. L'uomo che si accontenta di ciò che la sorte gli dà è felice, soprattutto se è bene persuaso che quello è tutto ciò che potrà ottenere] (277)
E finiamo con la lettura medioevale.
Alfredo Colitto “Cuore di Ferro” Piemme euro 11
[in: 04/03/2010 – out: 12/09/2010]
Un decente history-thriller, con un po’ di templari e la curiosità di sapere chi fosse Mondino de’ Liuzzi. E riscatta un po’ la precedente lettura di Colitto che non mi era piaciuta. Si vede il costante interesse per il lato medico da parte dell’autore, ma questa trama storica si lascia leggere con più agevolezza, e lascia il palato senza quel gusto amaro delle prove non riuscite. Intanto, pur essendo calato nella storia, non si arroga di far diventare detective personaggi illustri (come la serie che ha protagonista un improbabile Dante detective). Il personaggio centrale, motore del racconto, è sì un personaggio storico, in un certo senso minore, anche se ha la sua importanza nella storia della medicina. Inoltre non è improbabile, nel senso che Mondino mantiene le sue caratteristiche che lo hanno reso famoso: la passione per l’anatomia (sarà lui a reintrodurre la dissezione dei cadaveri per studiare meglio il corpo umano), il suo lato guelfo, ed il rispetto che mantenne per tutta la vita verso la sapienza araba, che in quegli anni bui era vista con più di un sospetto. La storia poi si cala in un momento topico della vita civile e religiosa dei primi anni del 1300: quando Filippo il Bello decide di sterminare i templari, più per suoi tornaconti personali che per una pretesa sete di giustizia. Ma si sa che i templari sono sempre visti come elementi alieni, dediti a pratiche strane, sempre sul filo del’eresia per quella ricerca alchemica dell’al-ikisir (che traduciamo elisir, nel senso della vita immortale, o della trasformazione del piombo in oro, e via alambiccando). Su questo plot storico si calano le vicende del novizio templare Gerardo da Casalbertone che si trova implicato in misteriose morti e chiede aiuto al suo maestro all’Università di Bologna, appunto Mondino. E mentre i due tentano di dipanare la matassa, sempre più minacciosa si fa la figura dell’inquisitore Uberto da Rimini, con i suoi modi spicci ed il ricorso ai metodi torquemadeschi della tortura per ottenere confessioni. Spiccano anche le figure femminili, dalla sfigurata Fiamma alla bella fattucchiera Adia. Si gusta anche la ricerca storica dell’ambientazione, che fa rivivere senza affettazione la Bologna del tempo, divisa tra guelfi e ghibellini, e con la presenza del nume tutelare dell’arcivescovo di Ravenna. La vita quotidiana si dipana alla meglio, anche se (ma questo è un mio pallino di perversione), nel momento che i vari personaggi parlano lingue ed idiomi differenti renderli tutti nell’italiano attuale non fa rivivere a pieno alcuni momenti della vita trecentesca. Lì ci sarebbero i dotti che parlano in latino, il volgare usato dal popolo (quello che, imbellito, pochi anni prima Dante sfoggiava nella sua Commedia), il tedesco ed il francese dei templari, l’arabo di Adia. Ma questo è peccato minore. La storia scorre, piacevole e rilassante per un pomeriggio settembrino. E non è poco.
“Non vedete che per ogni vostro desiderio, trovate una scusa per non poterlo realizzare? Non capite che tutto dipende da voi?” (299)
I denti sono stretti, si è fatta la valigia, e domani si parte in treno per una settimana a Mereno (sarebbe Merano, ma mi serviva la rima), sperando resti sereno. Un mio amico continua a dire che come si fa a non capire davanti a tutti questi segnali negativi. Io per ora ribatto, sul lato privato ovvio, che davanti a tutti questi segnali positivi, per ora taccio, muto e attonito, aspettando come la terra, il nunzio…  

martedì 27 marzo 2012

Gialli d’appendice - 21 novembre 2010

Uso questo termine, un po’ improprio, non per parlare di libri di scarsa rilevanza (in genere si usa il termine “d’appendice” per denigrare romanzi scritti in fretta e con poco mordente), ma nel suo termine filologico. D’appendice erano scritti messi come ultime pagine delle riviste di un tempo, e quindi tornavano, periodicamente con la rivista, a deliziare il lettore. Il quale ritrovava i personaggi cui era aduso, e, se ben fatti e scritti, ne gustava il procedere, come si farebbe ora con una telenovela (magari non troppo estesa nel tempo) o come quelle serie di fiction (del tipo di “Friends” che adoravo). Qui, allora, ritroviamo (o troviamo per poi ritrovare) tre commissari, di natura un po’ nordica, ma di bella resa. Qualcuno sta per terminare il suo percorso, qualcuno lo inizia ora. Troviamo allora (ancora per pochi libri) il commissario Beck, ritroviamo (dopo tanto tempo) il commissario Van Veeteren e troviamo (e lo ritroveremo spero presto) il commissario Van In.
Cominciamo da uno dei due svedesi, quello più nordico.
Håkan Nesser “Il commissario e il silenzio” TEA euro 8 (in realtà, scontato 6,80 euro)
[in: 03/04/2010 – out: 21/05/2010]
Dopo tanti anni ritrovo il commissario Van Veeteren. Sempre piacevole. A volte prolisso. Ma leggibile. Una decina di anni fa uscivano i suoi primi volumi tradotti in italiano, uno dei primi autori svedesi che ora hanno rotto l’argine e sono diventati un po’ troppo di moda. Ora (anche se sempre saltando su e giù per la sua produzione) ne escono finalmente nuovi anche in economica. Mi torna quindi a trovare l’ormai “anziano” (ma solo perché ha 55 anni…) commissario, amante dei libri, della musica, degli scacchi e del buon cinema italiani (bella la scena al cinema con altri 5 a vedere i fratelli Taviani). Ha un solo difetto, che ogni tanto me lo allontana. Quando prende dal taschino uno stuzzicadenti e solo tiene in bocca mentre sta lì a pensare. Perché lui pensa. Difficile vederlo agire di corsa come nei nostri commissari un po’ latini. Forse non è un caso che si dica somigliare (anche fisicamente) a Maigret. Sta lì che si aggira, chiede, si interroga, riflette sulle parole. E mi da anche una bella immagine del lavoro poliziesco (ma anche più in generale di situazioni di vita). Come vedere la fine di una partita di scacchi e cercare a poco a poco di ricostruire tutte le mosse che l’hanno portata fin lì. E quando si arriva all’apertura, si trova il colpevole. Tornando al testo, certo è al solito pieno delle grandi paure dei freddi nordici. Ancora una volta ci troviamo a far fronte alla morte di ragazzine (12-13 anni) che sembra una costante in un lungo filone scandinavo. Da qui partono, forse la parte meno rodata, riflessioni sul bene e sul male, sul modo di affrontare la vita e perché no sulla solitudine dell’anima, che mi sembra un'altra costante di questi bravi autori. Altri si agitano, e si dannano. Van Veeteren cerca di trovare fili solidi a cui far abboccare i pesci. In un certo senso si isola nel suo mondo (passando la maggior parte del tempo a chiedersi se andare o meno in vacanza a Creta, e penso che qualcuno lo possa aiutare in questa scelta). Ma lascia aperta la mente, e questa ricettività gli darà modo di scovare il filo giusto. Il giusto ramo da cui partire per scendere fino alle radici dell’albero. Dal punto di vista del giallo puro, un po’ ce lo aspettavamo da diverse pagine, ma ben si chiude il cerchio intorno a chi deve essere punito. Se ne leggerà ancora.
“Perché no?... doveva pur essere una faccenda abbastanza semplice lavare una verità retroattiva dalla sabbia della menzogna. Ma come mi esprimo elegantemente oggi… dovrei cominciare a scrivere le mie memorie, un giorno o l’altro” (18)
“non esistono combinazioni… se la vita è un albero, non deve necessariamente esserci una così gran differenza se si finisce su un ramo o sull’altro… per trovare la radice” (301)
Passiamo quindi al fiammingo.
Pieter Aspe « Le Carrè de la vengeance » Le livre de Poche euro 7,30
[in : 07/03/2010 – out : 03/08/2010]
Avevo sentito parlare di questo scrittore belga e mi aveva incuriosito, così, una volta a Bruxelles (strano, eh ?) ho deciso di prenderne una copia, e quale la mia sorpresa constatando che sì, Aspe è belga, ma non del lato Simenon, ma del lato “fiammingo”, cioè anche in francese è tradotto (certo, con una vicinanza di lingua diversa di quando lo si traduce in italiano). E quindi sono entrato nel mondo di questo strano personaggio, nato poco prima di me (sempre Ariete, eh…), che ha ormai scritto ben 25 libri della saga del commissario Pieter Van In. Comunque la fortuna aiuta i temerari, e questo, in effetti, è il primo volume della serie, quello dove cominciamo a conoscere il commissario, anzi commissario aggiunto. Un poliziotto quarantenne, un po’ sbracato, che non trova di meglio che buttar giù Duvel su Duvel con il suo amico Léo. Finché si trova bene o male coinvolto in una nuova trama, che gli fa dimenticare il divorzio dalla moglie Sofia, e che (ma solo verso la fine) gli fa pensare di smettere di fumare (vedremo). Intanto entrano prepotentemente in scena il brigadiere omosessuale Guido Versavel ed il sostituto procuratore procace Hannelore Martens. Spero rimarranno nei libri della serie che mi auguro di leggere (anche se bisogna decidere in quale lingua; no, non credo per il momento che cercherò di studiare il fiammingo…). Ed entriamo pian pianino nella bellissima cittadina di Bruges, con la sua aria medioevale, il fiume, le chiese, il BeginHof ed altre amenità (ricordo di gite vicine e lontane, ma tutte piacevoli). Facciamo conoscenza con il bel mondo della “bourgeoisie brugeoise” (intraducibile ma dal bel suono) e con le sue “malefatte”: amori, tradimenti, vendette, politici corrotti e/o corrompibili, scandali (Italia 2010 o Belgio 1995?). In tutto questo Van In si muove prima con difficoltà, poi, una volta raggiunta la sua idea (vincente) come un fulmine travolgente. La trama si svolge piacevolmente, si da un giusto peso ai personaggi, usando un registro a metà strada tra Simenon e Christie (anche se Aspe deve fare ancora della strada…). Peccato solo la trovata del quadrato templare, un po’ scontato per noi lettori appassionati di Eco. Però, che bel ritorno ai gialli “classici”, quelli che nelle ultime pagine fanno un riassunto intelligente degli avvenimenti, spiegando al colto e all’inclita le parti oscure, disvelando eventuali misteri. Insomma, lasciando me lettore soddisfatto della lettura e della scrittura. Non ci sono grandi frasi da ricordare, soltanto un filo di birra gelata che ci accompagna per tutto il libro (ricordandomi le grandi bevute del mio amico Filip). Se ne riparlerà (in qualche modo e in qualche lingua).
E finiamo con i nostri stranoti svedesi “doc”.
Maj Sjöwall & Per Wahlöö “L’uomo sul tetto” Sellerio euro 13
[in: 21/02/2010 – out: 25/05/2010]
Ottavo libro del commissario Beck. Qui si va sul “politico”. Per chi si è perso le puntate precedenti, ricordo che Sjöwall & Wahlöö erano una coppia svedese che decise negli anni Sessanta di scrivere dieci romanzi a tesi. Cioè per dimostrare che la cosiddetta socialdemocrazia svedese non era così “felice” come veniva dipinta. Per attirare il pubblico decisero anche che il tema di partenza era qualcosa di attraente: un giallo, che avrebbe attirato il pubblico. Cominciarono così le avventure del commissario Beck, con i primi romanzi tutti sul versante poliziesco, poi man mano scivolando su tematiche più sociali e/o politiche. Da alcuni anni, sulla spinta di una buona recensione di Camilleri, Sellerio li sta riproponendo. Ora siamo all’ottavo ripubblicato (in realtà è il settimo della serie) e mancano l’ottavo reale ed il decimo ed ultimo. Come dicevo si va sempre più sulla critica. Qui si prende spunto dall’omicidio di un commissario di polizia, all’apparenza normale, che durante il corso dell’indagine si scopre sempre più nefasto. Razzista, violento e “degno della fine che fa”. Non c’è un vero e proprio giallo, che ben presto si capisce il meccanismo della morte e di altre uccisioni. Il tutto con alcuni capitoli dedicati alle malefatte della polizia svedese verso immigrati ed altri soggetti che ora chiameremo “extra-comunitari”. Diventando quasi più un saggio sull’anormale normalità svedese. Interessante, dal punto di vista sociologico. Un po’ tirato dal punto di vista della scrittura. Come da accordi tra la coppia, uno dei due scriveva il primo capitolo che poi passava all’altro, e via alternandosi. Nei primi romanzi, questo creava un crescendo di difficoltà, ognuno cercando di creare situazioni che rendessero difficile la prosecuzione all’altro. Ora il meccanismo, troppo dedicato alle tesi da dimostrare, mostra la corda. Sempre gradevole, invero, e ci si domanda anche quanto sia diversa non solo la Svezia di 35 anni fa, ma l’Europa tutta. Quanto il rispetto dell’altro non sia mai entrato nel sentire comune. Una prova degna, ma si sente l’avvicinarsi della fine del progetto. Aspettiamo le ultime prove.
Sappiamo tutti che siamo al giro di boa, e come quando si stava su Luna Rossa, bisogna stringere i denti e tirare avanti, sperando che il vento sia sempre favorevole. Ma, come dice sempre qualche mio amico, comunque andrà, sarà un successo. Perché, noi tutti, dentro, siamo sempre i più forti.