domenica 27 agosto 2023

Spettacolo d'arte varia - 27 agosto 2023

Una citazione musicale per introdurre una settimana poco classificabile omogeneamente, se non per la sua diversità. Abbiamo testi che parlano di viaggi, con in testa i mateturisti di Silvia Benvenuto e subito a ruota i viaggi ed i sogni di Gianluca Gotto. Abbiamo l’economia spiegata ai non economisti, con buona resa ma poca simpatia, da Carlo Cottarelli. Abbiamo i suoi momenti di pandemia attraversati, anche se mi aspettavo di meglio, da Alan Bennett. Ed abbiamo un libro sulla scrittura, che chi legge spera sempre di saper anche scrivere. Ovvio, scrivere libri non piccole trame anche molto spoilerose.

Quindi, per continuare la citazione, venite via con me in questo viaggio.

John Gillard (a cura di) “Quaderno di scrittura creativa” Repubblica euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 12/02/2023 – T: 13/02/2023] && 

[titolo: Creative Writer’s Notebook; lingua: inglese; pagine: 191; anno: 2015]

Durante la pandemia, per ingannare le lunghe chiusure, sono proliferati libri e scritture diverse che normalmente non avrebbero attirato la mia attenzione. D’altra parte, leggere di un quaderno (ma nella prima edizione si parlava anche di “Manuale”) dedicato alla scrittura creativa mi aveva stimolato all’acquisto. Tuttavia, un primo sfoglio delle pagine mi aveva anche bloccato dal proseguire, lasciando il testo ad altri momenti.

Che non sono venuti, fortunatamente. Si è usciti dai picchi del covid, ci sono state altre ed interessanti e più coinvolgenti iniziative. Ora, con la calma di aver tempo nel prendere in mano i libri accumulati, ne ho ripreso la lettura, e con essa, la critica.

Intanto, il libro era originariamente uscito in Italia per i tipi di Fandango, nell’ambito delle iniziative della benemerita casa editrice per spingere prima alla lettura e poi alla scrittura. Repubblica, un po’ cavalcando le onde, lo riprende, anche se la pubblicazione senza una parola di spiegazione del suo utilizzo porta ad una lettura e ad un eventuale utilizzo un po’ monco.

L’idea del curatore (almeno da come l’ho interpretata io) sarebbe quella di presentare un ventaglio di autori di livello alto, che hanno in qualche modo portato avanti delle innovazioni nella scrittura. Per ognuno se ne presenta una scheda di due pagine, cercandone i motivi chiave della scrittura, elencando quali siano le opere chiave dell’autore e catalogandolo con una tipologia di scrittura come fosse una chiave di lettura dell’opera.

Così, sotto l’etichetta di modernista abbiamo James Joyce, Virginia Woolf, Franz Kafka, William Faulkner ed Ernest Hemingway. Abbiamo il gotico americano sempre con William Faulkner ma anche con Flannery O’Connor. C’è la ventata postmoderna di Vladimir Nabokov, la beat generation di William S. Burroughs, la controcultura di Kurt Vonnegut e la cultura pop di Douglas Coupland. Una ventata di realismo magico con Gabriel García Márquez, Murakami Haruki e Patrick Süskind. Infine, la scrittura filosofica di Iris Murdoch, la scrittura autobiografica di Maya Angelou, la narrativa speculativa di Margaret Atwood, la memoria romanzata di J. M. Coetzee, la narrativa storica di Peter Carey, l’horror di Stephen King, nonché l’avanguardia (??) di Georges Perec.

Fino a qui, magari con qualche divergenza, ci potrebbe stare. Poi, qualche svarione, come indicare “Il vecchio e il mare” come “ultimo romanzo di Hemingway”, magari sarebbe stato utile aggiungere “pubblicato in vita”, perché da quello in poi ha pubblicato racconti e poi sono usciti romanzi postumi. E le piccole schede, a volte, condensate come sono in due pagine, sono riduttive e poco esaustive.

A fronte di ogni autore, il curatore inserisce alcune pagine di esercizi. E qui siamo proprio nel baratro. Cioè, ci può stare che, a fronte di Joyce, si chieda di scrivere un “flusso di coscienza”. Ma come lo posso interpretare io, da solo? Apro a caso, e mi si chiede, a proposito della scrittura autobiografica di Maya Angelou, di scrivere un brano sulle mie scarpe infantili. Bene, lo faccio, e poi? Mi ricordo delle scarpe blu con la fibbia che ho sempre odiato, ne posso parlare, ma qual è il senso di legarlo alla scrittura di Maya, e ad un libro (“I Know Why the Caged Bird Sings”) che non è mai stato pubblicato in Italia?

Guardando tutti gli esercizi proposti, credo che uno solo abbia senso per un “creativo solitario” che approcci questo testo. cioè, l’esercizio 42 relativo a Georges Perec. Lo scrittore francese, che io ritengo un sommo nel suo genere, con una serie di sodali, tra cui Raymond Queneau e Italo Calvino, era convinto che bisognasse avere dei vincoli alla scrittura per poterne far uscire fuori le potenzialità. L’esercizio in questione propone un vincolo base del gruppo, denominato “S+7”, cioè scrivere un testo, poi sostituire ogni sostantivo (S) con un relativo sostantivo che fosse posizionato sette sostantivi dopo nel dizionario. Se volete, provatelo.

Per il resto, come approcciare i piccoli miracoli quotidiani di Virginia Woolf con le quattro stagioni di Margaret Atwood? Come il dialogo con il futuro di Kurt Vonnegut con le parole pescate a caso di Douglas Coupland?

Un ultimo sentito appunto deriva dall’americocentrismo del testo, che prevede si qualche escursione verso scrittori non anglosassoni (Perec, Kafka, Marquez), ma nessun italiano, neanche per sbaglio? Forse non ne avrei messi tanti, ma per la creatività di idee e scritture, avrei di sicuro messo un accenno a Moravia, a Flaiano, a Calvino e forse anche ad Eco. Se fossi un editor italiano, ci avrei pensato. Così come, tanto per dirne una, Sellerio, nel pubblicare “Curarsi con i libri”, ha inserito Fabio Stassi nella revisione, così che l’ottimo conoscitore della letteratura italiana ha potuto inserire con cognizione alcuni nomi.

Insomma, non giudico Gillard, che mi pare abbia fatto poco, giudico decentemente la fatica delle citazioni e dei rimandi, trovo inutile e troppo commerciale l’operazione complessiva.

Carlo Cottarelli “Pachidermi e pappagalli” Feltrinelli s.p. (Natale degli Arabini)

[A: 25/12/2022 – I: 01/03/2023 – T: 03/03/2023] && --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 264; anno: 2019]

Un libro utile scritto da una persona che a me non sta simpatica. Non ho nulla, in realtà, contro il professor Cottarelli, ma ci sono situazioni di pelle che rimangono pur essendo razionalmente inspiegabili.

Devo comunque dire che questo suo libro, con tutti i se e tutti i ma, risulta in un certo suo modo divertente, soprattutto per la parte che, in maniera quasi teorica, spiega (o cerca di spiegare) la nascita delle bufale. O, come si dice ora, delle “fake news”. Ed anche per la nascita del titolo, e per alcuni spunti che cercherò di sintetizzare.

Il titolo viene da una simpatica canzone di Francesco Gabbani dal titolo omonimo, incentrata appunto sulle “bufale”, tipo Elvis è vivo, la terra è piatta e l’uomo non è mai arrivato sulla luna. Per ricentrare il testo sulle “fake news” di cui vuole parlare, Cottarelli aggiunge un sottotitolo esplicativo: “tutte le bufale sull’economia a cui continuiamo a credere”.

Vediamo allora, in alcuni ambiti analizzati nel libro, quali siano le “palle” di maggior successo (così in adolescenza chiamavamo quelle che in maturità diventarono bufale ed ora fake news).

Lasciando l’euro per ultimo, vediamo allora la bufala che le banche sono state salvate affossando i conti correnti dei cittadini. A parte che salvare le banche significa in ogni caso intervenire salvificamente sull’economia, Cottarelli dimostra, dati alla mano, che i salvataggi tedeschi sono costati l’11% del PIL, mentre in Italia il prezzo è stato l’1%.

Per rimanere sul PIL, altra bufala è che la caduta del PIL fu colpa di Monti. Errore: a causa della crisi dello spread causato dal governo Berlusconi, il PIL stava già in calo nel 2011, e Monti ne frenò la discesa. Non salvò tutto, ma non furono i tecnici ad affossare il PIL.

Una bufala che mi tocca da vicino riguarda la pensione, cui in Italia si sostiene andiamo troppo tardi. Ora dati OCSE alla mano, vediamo che l’età media della pensione in Italia è di circa 62 anni, contro la media europea che si avvicina ai 64 (anche se rispetto allo scritto la forchetta si è un po’ ridotta). Non solo, ma anche la durata è una delle più lunghe. In Italia si percepisce per esempio per oltre 20 anni, poco meno della Francia e molto di più di altri paesi. Poi ci sono i dati fuori contesto, dove posso certificare che mia madre ha percepito la pensione per 47 anni, più di quelli per cui ha lavorato. Bravissima!

Alcuni brevi flash posson riguardare ad esempio la corruzione che una fake news afferma costarci 60 miliardi di euro l’anno. Ovviamente costa, ma la Corte dei Conti non ha MAI pubblicato una stima puntuale. Oppure il fatto che la flat tax farebbe pagare meno, dove, conti alla mano, farebbe pagare meno solo il 5% dei redditi più alti italiani (quelli sopra i 100.000 euro di guadagno annuo).

Infine, torniamo sulla prima e fondamentale: l’euro ha raddoppiato i prezzi. Sbagliato, che l’inflazione al tempo dell’euro (2002) era del 2,5%, ma il mercato decise di approfittare del cambio per aumentare i prodotti di consumo giornaliero: esempio chiarissimo, l’aumento del costo del caffè. Nel 2000, più o meno, costava circa 1200 lire, cioè 62 centesimi di euro al cambio ufficiale. Nel 2004 il prezzo medio era di 78 centesimi di euro (1510 lire). Un aumento del 26% rispetto ad un’inflazione, nello stesso periodo di 12,5%.

Interessante e da approfondire è la tecnica di produzione delle bufale, che ovviamente variano a seconda dell’ambito in cui operano, anche se hanno tutte un fondo comune. Non è facile riconoscerne la genesi, ma di certo c’è bisogno del nostro aiuto per farla diventare una bufala consolidata. Se non circola, non diventerà mai news e rimarrà fake. Altro elemento è la leva che la bufala fa sulle emozioni. Non a caso, molte nascono in momenti di crisi, quando si cerca un aiuto ad andare avanti. Ma se ne guardiamo i contorni, dovrebbe essere facile vederne il profilo: notizie urlate, fondate su dichiarazioni di esperti sconosciuti o fatti passare per esperti anche internazionali. Se il professor Urbhut (nome inventato) docente a Oxbridge annuncia di avere le prove del terrapiattismo, si deve prima decodificare che Oxbridge non è un’università di Oxford e Cambridge, ma un’invenzione, poi si deve cercare inutili info su Urbhut. Più facile credere e far circolare la fake.

Ultimo punto, è proprio qui che si biforca la via tra disinformazione (diffondere notizie false con il preciso scopo di nuocere) e misinformazione (veicolare false notizie senza sapere che sono tali e che possono essere dannose). Un esempio super chiaro sono la disinformazione relativa ai “Protocolli dei Savi di Sion” (un falso documentale creato dall'Ochrana, la polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo, poi ripreso dai nazisti per giustificare lo sterminio) o la misinformazione della trasmissione “La guerra dei mondi” di Orson Welles (un panico creato ad arte dai giornali a fronte della trasmissione, inventando stime di vittime e disastri, per un audience che risultò clamorosa all’epoca, e che convinse il geniale Orson a fare tre anni dopo il film “Quarto Potere”).

Altro e finale punto è il rischio cui si espone Cottarelli quando, rispetto ad altre analisi pur corrette, si azzarda a fare piccole ipotesi e previsioni. Che ovviamente possono e debbono essere discusse, ma apprezzo il pericolo dell’esposizione. Come quando sostiene che tra austerità e “sperpero” c’è una giusta via di mezzo. O quando propone di mandare prima in pensione chi ha famiglie più numerose, un modo di incentivare la natalità senza costi aggiuntivi per lo Stato.

Insomma, non un manuale per la controinformazione, ma un’utile compilazione che ci stimola a riflettere. Non è poco.

Gianluca Gotto “Le coordinate della felicità” Mondadori s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 06/01/2023 – I: 07/04/2023 – T: 09/04/2023] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 376; anno: 2020]

Un libro seppur non pienamente riuscito che è piacevole leggere, come sempre è piacevole ascoltare qualcuno che parla “di sogni, viaggi e pura vita” (citazione dal sottotitolo).

In realtà, più che la ricerca di esplicitare quali siano le coordinate per raggiungere la felicità (una ricetta che nessun libro riuscirà mai ad esplicitare sino in fondo) è l’autobiografia, interessante di sicuro, dell’autore, Gianluca Gotto. Studente torinese, insoddisfatto della vita che stava procedendo verso qualcosa che non lo stava coinvolgendo, Gianluca decide di provare altro. In questo, sorretto, in qualche modo complementato, dalla sua compagna Claudia. Una presenza, che se non ci fosse non avrebbe consentito a Gianluca di essere quello che è. Anche se, nel testo ha una parte da “attrice non protagonista”, degna di candidatura ma non riuscita a tutto tondo come il protagonista.

È a tutti gli effetti un inno a quello che Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana, battezzò con il termine “sobrietà”. Cioè quel percorso, interiore ed esteriore, che porta l’individuo a guardarsi dentro ed a capire di cosa ha bisogno e di cosa piò fare a meno. È un percorso difficile, che, pur affrontato, non sempre porta risultati giusti (giusti per chi lo affronta), ma che (e qui sono in accordo con il testo) andrebbe affrontato con il coraggio della coscienza. Della coscienza di sé senza l’incoscienza dell’età.

Gianluca e Claudia affrontano il loro viaggio sobrio verso la loro felicità attraverso una serie di tappe ed una serie di sconfitte. Cominciano con un visto di lavoro temporaneo per l’Australia, dove, a Perth, raggiungono alcune tappe importanti: capire che si piò fare a meno di molto, capire che è bello avere tempo per sé, godere un tramonto, godere della compagnia degli altri senza barriere. Gianluca affronta alcuni lavori, ma non ha uno skill che gli consente di trasformare il visto temporaneo in visto permanente.

Dopo una delusa parentesi italiana, Gianluca prova una seconda chance in Canada, a Vancouver, dove anche lì aggiunge tappe alle sue capacità, alle sue possibilità, ma che alla fine si scontrano con altrettante impossibilità di portare sino in fondo quanto di libertario esce dal suo carattere (e da quello di Claudia).

Un nuovo passaggio in Italia, altri momenti girovaghi intorno ad altre terre, fino a trovare una strada che sembra promettere la sobrietà (e la libertà) che i nostri anelano. Diventare nomadi digitali. Una tipologia di esistenza che ora, dopo le vicende COVID, capiamo molto meglio, mentre solo cinque o sei anni fa sembrava una parola astrusa, praticata da persone altrettanto astruse. Gianluca riesce a trovare il modo di sfruttare la rete, producendo prima articoli, poi altre situazione “di rete” che gli consentono di avere i giusti (per lui) introiti che gli permettono una vita come ha sempre felicemente cercato di ottenere.

Dove, come ed in che modo si completa il suo percorso, vi consiglio caldamente di leggere, che, soprattutto per noi viaggiatori, ci sono spunti degni di nota. Tanto che una parola ad un certo punto pervade il mondo di Gianluca e Claudia, completandone il percorso: Wanderlust. Come dicono i dizionari, la Wanderlust indica il desiderio di andare altrove, di andare oltre il proprio mondo, di cercare qualcos'altro. Ma anche, in senso stretto, la semplice voglia di viaggiare (e posso ben dirlo io che ne sono pieno).

Ora, non voglio entrare sul percorso personale della ricerca della felicità, che altrimenti avremmo pagine e pagine per discutere e controbattere i diversi pareri. Molto sinteticamente, appunto, credo che la felicità sia nel proprio percorso personale, che ognuno troverà guardando sé stesso con tutta la cattiveria e la sincerità possibile. Non so, non riesco a quantificarlo, se io stesso sono felice, ma ho la certezza di aver provato a fare tutte le cose che mi hanno creato piacere in tutti questi anni.

Voglio invece tornare al libro per la parte viaggi, che in alcuni punti ha toccato corde in me molto sensibili, risvegliando echi, non solo positivi, purtroppo. Ma di certo, ho apprezzato, intorno a pagina 137 la vita canadese, in particolare ritrovandomi con Gianluca nella bellezza di Vancouver Island e più precisamente affacciandosi sul mare da Tofino. Ancor di più mi sono sentito coinvolto, verso pagina 235, nelle loro avventure asiatiche. Meno nella parte thailandese, ma molto nel Laos, ad Angkor Wat o in Vietnam. Anche se, personalmente, il mio ricordo di Luang Prabang è abbastanza distante dal suo. La trovai una città molto gradevole, molto “Marguerite Duras”, e niente affatto caotica. Tra l’altro con un bar di una simpatia unica, dove gustai, ancora una volta, l’ottimo “kopi luwak”.

Infine, quando parla delle problematiche di persone care che si ammalano tu lontano, ricordo, con un dolore che non sarà mai sopito, la Patagonia del febbraio 2018.

Se poi vogliamo continuare a parlare di viaggi, credo che anche qui si aprano scenari ed orizzonti praticamente senza fine.

Mentre, se volete seguire gli attuali percorsi di Gianluca Gotto, comunque, vi consiglio di affacciarvi al suo blog “Mangia Vivi Viaggia”.

“L’unico viaggio di cui ti puoi pentire è quello che non hai mai fatto.” (197)

Silvia Benvenuti “In viaggio con i numeri” EDT s.p. (Regalo avventuroso)

[A: 08/01/2023 – I: 18/04/2023 – T: 20/04/2023] &&&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 450; anno: 2022]

Un alto voto per la parte matematica, altrettanto per la parte turistica, con tanti “meno” ancora per la matematica, come poi vedremo.

Cominciamo intanto a completare il titolo, che finisce recitando: “Dieci passeggiate per mateturisti curiosi”. Dove, appunto, si calca molto la mano su quel “mateturisti”, neologismo dell’autrice per indicare “turisti con il pallino (professionale o meno) per la matematica”. In effetti, con tutta la buona volontà dell’autrice, molte parti si addentrano in meandri matematici che non tutti possono o vogliono esplorare. Per questo, se mi fossi stato richiesto un parere sulla resa editoriale del testo io ne avrei suggerito una diversa distribuzione.

Cioè, da una parte abbiamo le dieci passeggiate, che magari avrei anticipato con una piccola mappa per collocarle all’interno della città (ne riparliamo poi per Bologna). Da questi itinerari, avrei estrapolato le particolarità matematica che ci interessa illustrare. Intendendo, e qui sono in completo accordo con Silvia, tutto quanto si può legare alla matematica. Che, per l’appunto, non sono solo numeri, ma figure, espressioni, geometrie, anche fisicità.

Facendo un salto personale all’indietro, quello che mi legò, adolescente, alla matematica fu la scoperta che con opportune espressioni era possibile descrivere tutti gli oggetti del creato. Mi ricordo che guardai il comodino di mio padre e cominciai a pensare su come potesse essere descritto con equazioni e sistemi rappresentativi fatti a tale scopo.

Tornando al testo, una volta introdotti i luoghi e le loro peculiarità, allora sì che mi sarei addentrato nelle specifiche, oserei dire “tecniche” che i più interessati avrebbero ben seguito (anche appassionandosi, come faccio io quando ne leggo). Sarebbe quindi stato un libro da diversi gradi di lettura: un turismo interessato alle particolarità dei luoghi, un turista che cerca di legare quelle particolarità ad elementi matematici, un matematico (vero o appassionato) che si sarebbe tuffato nel terzo livello. E quest’ultimo, a questo punto, avrebbe avuto la mente sgombra da altro, così da poter seguire il percorso mentale e storico che sottende a molte bellezze italiche.

Così possiamo allora tornare a seguire il percorso consigliatoci dalla dottoressa Benvenuti. Cominciando da Pisa, ovvia fucina di matematici usciti dalla sua Scuola Normale, ma anche patria del mate-letterato Marco Malvaldi (che segue in ogni sua espressione letteraria trovandolo sempre quanto meno gradevole) e soprattutto sede di meraviglie a partire dall’eccelsa Piazza dei Miracoli.

Per poi proseguire verso Torino, Bologna, Milano, Urbino, due volte Roma (forse anche per la Città del Vaticano), Venezia, Napoli e Firenze. Ecco un altro punto dolente del discorso. Va bene cominciare da Pisa, ma allora avrei anche fatto un percorso geometrico all’interno dell’Italia, proseguendo con Torino, Milano, Venezia, Bologna, Urbino, Firenze, Roma e Napoli. O al massimo, volendo fare un cerchio da Urbino si prosegue con Napoli, Roma e Firenze.

Per ogni città, ci sono cose che all’occhio dell’appassionato (ma anche del profano) non posson che sembrare “del creato meraviglia”. Le proporzioni pisane, le prospettive leonardesche dell’Ultima Cena, gli splendori dei Montefeltro (e di Raffaello) ad Urbino. Se ne potrebbero elencare a iosa. Ma io, per stuzzicare la vostra curiosità ne cito solo alcuni.

Innanzi tutto, per sfatare la leggenda che la pianta di Piazza San Pietro nel Vaticano sia ellittica. In realtà, la sua figura è un “ovato”, cioè una pseudoellisse costruita raccordando quattro archi di circonferenza. Da qui, facendo in modo che i quattro ordini di colonne siano non esattamente paralleli e leggermente decrescenti in altezza, si ottiene quell’effetto ottico che tanto meraviglia i turisti. Meraviglia che potete proseguire andando a vedere le due chiese vicine ma rivali di Sant’Andrea al Quirinale del Bernini e di San Carlo alle Quattro Fontane del Borromini, su di cui rimanderei al dotto scritto di mio cugino Alessandro “Il genio e l’architetto”.

Ma non dimenticherei mai la serie di Fibonacci in quel di Pisa, nonché le lezioni pisane e milanesi di quel gran matematico che fu fra’ Luca Pacioli (maestro di numeri per Leonardo ed autore di un libro esimio dal titolo “Divina Proportione”), finendo magari con l’analisi minuta e ben dotta della “Scuola di Atene” di Raffaello. Per i più patiti poi, segnalo approfondimenti vari su trompe l’œil, simmetrie, prospettive, coniche, poliedri regolari ed altre bellezze matematiche.

Farei solo un ultima digressione prima di una considerazione finale e personale. Siamo a Bologna e come mateturisti non possiamo mancare i visitare Palazzo d’Accursio (per le unità di misura), la Loggia dei Mercanti (con la misura della tagliatella), la basilica di San Petronio (e la meridiana di Cassini), e poi la Basilica di Santo Stefano, il Portico dei Servi, la Torre degli Asinelli e la piazza di Re Enzo. Se noi li rappresentiamo su di un piano e li numeriamo, possiamo avere la rappresentazione di un grafo che illustra il “teorema del commesso viaggiatore”, al fine di risolvere quale sia il cammino minimo per raggiungere tutti questi luoghi. Soluzione che, come ogni buon matematico sa, non esiste.

Non posso che terminare, citando infine che molte e giuste volte viene illustrata la bellezza e la potenza del numero sette. Penso che tutti sanno quanto io stesso sia legato al sette, cui dedicherò quanto prima una dotta disquisizione. Qui lo ricordo solo per i sette nani e per il fatto che è scomponibile come somma di due numeri a lui inferiori ma sempre diversi: 1 + 6, 2 + 5, 3 + 4. Se non c’è bellezza in tutto ciò…

Alan Bennett “Arresti domiciliari. Diari della pandemia” Adelphi s.p. (Regalo di Raul&Viviana)

[A: 07/05/2023 – I: 11/05/2023 – T: 11/05/2023] - && e ½ 

[tit. or.: House Arrest. Pandemic Diaries; ling. or.: inglese; pagine: 63; anno 2022]

Ero curioso, a fronte di citazioni dei supplementi letterari dei maggiori giornali italiani, di visitare ancora una volta uno scritto del simpatico “vecchietto” gay della letteratura inglese. Che Alan Bennett, a parte i suoi orientamenti che non entrano nel merito di nessun discorso, si avvia, il prossimo 9 maggio 2024 a compiere novant’anni.

Pur essendo eminentemente un autore, ed in particolare di teatro, ho sempre letto con un buon gradimento i suoi scritti, arguti, spesso ironici, sempre in ogni caso con qualche tocco che ci permette di usare i nostri pochi neuroni. Qualche pennellata di umanità e molte stoccate verso un modo di vita inglese non sempre rispettoso degli altri, siano essi donne, emarginati o altro.

Fatta questa premessa, anche in virtù dei sottotitoli e dei lanci pubblicitari, mi aspettavo, pur nell’ovvia brevità dello scritto, qualche riflessione sul momento che tutti abbiamo attraversato, e da cui, spero, credo, possiamo ben dirci, ora, vaccinati.

Le brevi note di Alan si focalizzano proprio in uno dei periodi più duri della pandemia, dal febbraio 2020 all’autunno del 2021. Purtroppo, toccano solo marginalmente i nodi del periodo, rimanendo invece molto legati al personale ed al personaggio.

Certo, da un quasi novantenne non ci aspettava un rimpianto forte rispetto ad uno stravolgimento della propria vita come è potuto essere il lungo lockdown mondiale. Bennett non aveva certo una mobilità paragonabile anche a persone di venti anni di meno. Aveva già una vita regolata, e ben inquadrata, fatta di colazioni, di scritture, di passeggiate con il compagno. Quello che anche lui nota fin da subito è un certo isolamento. Fisico, anche se poi contatti ci possono essere, con telefoni, con computer ed altro. Ma anche a lui, si sente, manca quella fisicità che a tutti venne tolta nel marzo di tre anni fa.

Il suo diario, tuttavia, è più riempito da note verso possibili nuove iniziative, magari in video, se i teatri non potevano essere aperti. Riprende vecchi testi, ripensa a momenti di scena, ne cita brani (a volte seguiti da noi non anglosassoni con qualche difficoltà, visto che non sempre seguiamo le televisioni estere).

In alcuni punti la pandemia emerge. Quando il governo inglese annuncia il primo lockdown, ed Alan commenta che in questo modo il suo normale stile di vita viene reso obbligatorio a tutti, quasi allora che si senta “celebrato” nella sua quotidianità. Ed entrano anche, veloci, con cenni che non sempre si riesce a cogliere, critiche al governo Cameron, insofferenze verso il governo Johnson, parole dure verso la Brexit. E rimpianti, ad esempio, per i cari amici che muoiono, anche non per il coronavirus, ma che, nella morte, non possono essere accompagnati verso gli ultimi passi.

Si sente, in trama più che in esplicite parole, il vissuto della pandemia. Soprattutto nell’ultima parte, quando, nell’autunno del ’21, si può uscire di nuovo, senza mascherine, magari salutandosi non da lontano, ma con, di nuovo, delle strette di mano. Nella descrizione della passeggiata liberatoria di fine lockdown, Bennett ci porta per le strade della sua Londra, ce ne narra i nomi, gli incroci, i palazzi, quasi che si potesse in questo modo riportare a nuova vita quello che per quasi due anni era stato sopito.

È un breve ma intenso lamento, ripeto tuttavia più sussurrato, più accennato, che esplicitato e meditato. Non mi aspettavo di certo una riflessione come quella del mio amico Paolo e dei suoi sodali, sulle implicazioni globali che questo periodo ha portato. Ma mi aspettavo, almeno, qualche riflessione personale, su quanto, questo stesso periodo ha inciso sullo scrittore, sull’uomo di mondo e di relazioni.

Non nego che avrei voluto, appunto, confrontarmi con quelle mancate parole. Che, seppur personalmente, ha portato cosa mai pensate nella mia vita, è stato in ogni caso un periodo che mi ha tolto anche molto. Stare fermo, non viaggiare per due anni è stato durissimo, ad esempio, ma non per i viaggi in sé, quanto per il fatto che, avendo ormai anch’io un’età da tenere in considerazione, due anni pesano molto di più. E sono irrecuperabili. 

“Lucian Freud: le tue opere dicono alla gente che sei stato vivo.” (34)

Ovvio che in una trama sregolata, possa venir bene un florilegio di citazioni tratte dal libro “Un mondo senza regole” di Amin Maalouf, un autore franco-libanese da me amato sin dai tempi dei suoi libri sulle crociate viste dagli arabi.

Qui abbiamo qualche riflessione, sull’immigrazione e sulle sue conseguenze: “Contrariamente a quanto si ritiene di solito, l’errore secolare delle potenze europee non è stato quello di aver voluto imporre i propri valori al resto del mondo, ma esattamente l’inverso: di aver rinunciato costantemente a rispettare i propri valori nei loro rapporti con i popoli dominati.” (58); “Ciò che cerco di dire è che si passa accanto all’essenziale ogni volta che si tralascia di vedere l’emigrato dietro l’immigrato. E che si commette un grave errore strategico quando si valuta lo status degli immigrati in funzione del posto che occupano nelle società occidentali, cioè spesso in fondo alla scala sociale, anziché in funzione del ruolo che hanno, e che potrebbero avere cento volte di più, nelle loro società di origine, quello di vettori di modernizzazione, di progresso sociale, di liberazione intellettuale, di sviluppo e di riconciliazione” (248).

Sulla vita civile e sui pensieri che vanno e tornano: “Ogni essere ha bisogno che gli si fissino dei limiti. Ogni potere ha bisogno di un contropotere per proteggere glia altri dai propri eccessi, e anche per proteggersi da sé stesso.” (183); “Una grande lezione del secolo da poco conclusosi è che le ideologie passano e le religioni restano” (207).

Per finire con una frase che metterei in testa a tutte le discussioni sull’ambiente: “Quando un paese è in pieno marasma, si può sempre cercare di emigrare. Quando l’intero pianeta è minacciato non si ha l’opzione di andare a vivere altrove. “(200).

Volevo infatti darvi qualche spunto in più di pensieri disordinati in vista di una o due settimane in cui tornerò a non farmi sentire. Una nuova pausa di cui vi parlerò al ritorno. Per ora continuerò a leggere, a scrivere, ad abbracciarvi. 

domenica 20 agosto 2023

Sì, è proprio gialla - 20 agosto 2023

Continuo il finto gioco di domande retoriche iniziato la trama precedente. Che l’estate, questa estate, bisogna riposarsi, staccare la spina, anche se in maniera intelligente. Ecco allora una trama seriale, di quelle che (quasi) riprendono gli episodi di vari investigatori sparsi per le lettere. In particolare, italiani. Abbiamo così la decima avventura di Lolita Lobosco (così così) e la dodicesima di Rocco Schiavone (molto meglio), la prima del duo Bramard e Arcadipane (buono) e la prima di Serena Martini (anche meglio). Il tutto condito da un romanzo storico di Malvaldi (che ci sta sempre bene). Un consiglio: se poi non volete leggere tutto saltate subito alle perfette patatine fritte.

Gabriella Genisi “Lo scammaro avvelenato e altre ricette” Sonzogno s.p. (Natale di Mario&Ines)

[A: 25/12/2022 – I: 06/01/2023 – T: 07/01/2023] && -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 183; anno: 2022]

LOBOSCO10

In occasione delle feste, dovendo scegliere nuovi libri, ed in previsione dell’inizio a gennaio della nuova serie televisiva dedicata a Lolita Lobosco, non potevo certo esimermi dall’acquisto dell’ultima avventura dell’avvenente commissario barese. Anche perché, generalmente, la scrittura di Gabriella Genisi è di gradevole accompagno ad ore distensive.

Pur alfine riconoscendo che la scrittrice non delude (molto) le normali aspettative, devo dire che il risultato finale di questo libro è decisamente inferiore alle aspettative ed alle potenzialità dei personaggi.

Anche perché, leggendo attentamente il titolo, poteva venire un sospetto. Rivelatosi presto certezza. Non è un romanzo, ma un racconto lungo, dove metà delle 180 pagine è in realtà occupata da una serie di ricette. Gustose, certo, in linea con le modalità con cui si erano editorialmente proposte le prime avventure di Lolita. Ricordo infatti che i primi libri erano dedicati alle arance, alle ciliegie, all’uva, e dopo un salto, agli spaghetti.

Ma un conto è avere un piccolo addendo di ricette, un altro è rimpinzare il testo come fosse un trattato di cucina barese. Rilevante, per l’interesse culinario. Tuttavia, fuorviante se acquisto un romanzo e mi trovo tra le mani un trattato di cucina. Dove, tra l’altro, sono presenti anche ricette non solo non baresi, che la Puglia in genere va bene, ma anche di altre provenienze marinare (Napoli e Genova) e perfino limitrofo (ricette della zona del Novese in provincia di Alessandria). Insomma, una deriva che ci poteva essere risparmiata.

Venendo al racconto in sé, anche qui ci aspettano sorprese poco gradite. Intanto, i mitici bracci destro e sinistro di Lolita, cioè l’ispettore Forte e l’agente Esposito, praticamente non compaiono; sono relegati ad una piccola e marginale comparsata pur se a sostegno della nostra in un momento di estrema difficoltà.

Neanche l’amica Marietta si palesa. È invece presente “amoremio” Caruso, pur continuando il suo tira e molla tra Bari e Manfredonia. Ma è un rapporto che sta tirando le cuoia. Come direbbe il barese Modugno, “la lontananza sai è come il vento”. Soprattutto quando Caruso non riesce a tenere fermo il proprio appetito maschile verso altre bellezze muliebri. Un rapporto che è destinato a morire, qui e, spero, anche in future prove.

Rimane la vicenda in sé, che è tutta, in un certo senso, privata. Ruota tutto intorno a Carmela, la sorella di Lolita. Sappiamo dagli altri libri, che si è separata, che vive con la madre ed i due figli, che è abbastanza invidiosa della sorella, e che ha avviato, con successo, un b&b, dal fascino discreto soprattutto per le doti culinarie della famiglia Lobosco.

In questo novembre vicino al Natale (la storia si svolge dal 25 novembre al 5 dicembre) nel b&b si è trasferito tal Enrico, millantato scrittore, di sicuro alla ricerca di intingere il suo maritozzo. Cosa che fa, ma quando vede Lolita, e quando Carmela si fa più pressante, decide che sarebbe più salutare una ritirata in buon ordine.

Peccato che non possa mettere in atto i suoi propositi che, dopo una cena con lo scammaro, muore avvelenato da un botulino maligno. Ovvio che Carmela è la prima sospettata, come è ovvio che Lolita debba ritirarsi in secondo piano, essendo parente della sospettata. Ma il gioco è veramente sporco. Non si può immaginare Carmela assassina, anche se tutto sembra contro di lei. Ed in particolare, se il botulino viene da un peperone sott’olio mentre lo scammaro ha solo un peperone crusco (cioè secco e piccante) ecco che bisogna cercare altrove il bandolo della matassa.

Un lettore attento poi, saputo le modalità della morte, e leggendo con un po’ di neuroni attivi lo svolgimento delle pagine, avrebbe detto a Lolita & co dove dirigere i sospetti già dalle prime battute. Noi ci leggiamo le novanta scarse paginette, registriamo che i nostri sospetti sono fermati ed aspettiamo metà gennaio per vederne la trasposizione televisiva. Dove andremo a vedere anche come e quanto la resa televisiva si discosta dal testo.

Dispiace che le esigenze televisive abbiano fatto uscire questa decima indagine forse prima che la scrittrice riuscisse a maturare compiutamente la trama. Peccato, anche se, cara Gabriella, ti vogliamo bene ugualmente.

Sarebbe stato comunque un gentile omaggio al lettore affamato di sapere, far conoscere l’origine dello “scammaro”. Come si evince dal testo è di certo un piatto povero, e soprattutto magro. Deriva dal piatto unico servito in convento. Nei giorni di magro, alcuni monaci, se cagionevoli di salute, potevano mangiare carne, ma al chiuso delle loro camere. Gli altri mangiavano di magro fuori dalle camere. I primi erano detti “cammarati” (con la camera) ed i secondi “scammarati” (senza la camera). Per estensione, quindi “cammaro” è il mangiare grasso e “scammaro” il mangiare magro.

Marco Malvaldi & Samantha Bruzzone “Chi si ferma è perduto” Sellerio s.p. (regalo di Natale di Mario&Ines)

[A: 25/12/2022 – I: 08/01/2023 – T: 11/01/2023] &&& e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 343; anno: 2022]

Non è il primo libro che scrivono insieme, né il primo che firmano insieme, ma questo, per i coniugi Malvaldi, è il primo che esce a firma congiunta per Sellerio, dopo che altri sono usciti per collane per ragazzi. Le note editoriali sostengono, e noi non possiamo certo andarvi contro che Samantha ha collaborato anche ad altri libri Sellerio, e di questo possiamo essere contenti.

Entrambi laureati in chimica, Marco abbandona presto la carriera universitaria per dedicarsi alla scrittura ed ai fortunati (e da me amatissimi) libri del BarLume. Samantha rimane di più nella ricerca, ma credo che ora anche lei abbia rosee prospettive letterarie. La loro sinergia, in questo romanzo, è palese. Il personaggio centrale è tutto nella testa e nella penna di Samantha, mentre nell’intreccio giallo si nota bena la mano di Marco. Ma queste esegesi sono peregrine, per cui noi prendiamo la coppia insieme ed insieme andiamo a vedere cosa riescono ad imbastire, in un libro al solito di ambientazione toscana, anzi praticamente pisana.

Come dicevo, l’impianto generale è di pura derivazione della casa, che si presta molta attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, e ad alcuni aspetti che sono molto italicamente usuali. La gestione dei bambini, in particolare, e della casa in generale. La scuola, dove, per mancanza di prossimità i pur laici coniugi Rossi – Martini si appoggiano alla Scuola Paritaria della Casa Missionaria del Grande Fiume, gestita dal clero ma con molti insegnanti laici.

La protagonista della vicenda è Serena Martini, molto modellata su Samantha. Ex-chimica licenziatasi per evidenti dissapori con la gestione femminile dell’azienda, ha un olfatto particolarmente sensibile, tanto da aver fatto anche una piccola carriera da sommelier. Ora è alla prese con la casa, con i due figli, Pietro e Martino, nonché con il marito, Virgilio Rossi, lui rimasto nella carriera universitaria, ma sempre con un’anima fricchettona dentro. Tanto che, occupandosi a livello di ricerca di videogiochi, spesso ha la testa altrove. Non chiude mai la porta di casa, difficilmente si ricorda di avviare gli elettrodomestici, ed altre piccole “banalità” (che io da maschio capisco benissimo). Fortunatamente, ha anche l’intelligenza di conoscere i propri errori e di avere doti laterali di aiuto e conforto (umorismo e capacità culinarie in primis). Con alcune particolarità, sempre anche lui modellato, ma su Marco.

Il terzo personaggio, che ogni tanto irrompe sulla scena in prima persona, è il sovraintendente Ana Corinna Stelea, per tutti Corinna. Poliziotto della zona, incaricata delle indagini, ligia ai regolamenti, in perenne contrasto con il magistrato titolare dei procedimenti, ma anche capace di comprendere l’utilità delle doti di Serena, e di utilizzarle al meglio.

La storia è abbastanza esile, tuttavia, essendo quasi un pretesto per dipingere scena di casa e di provincia, descritte sempre con molta ironia. Serena trova il cadavere del professor Caroselli, docente di musica della scuola di cui sopra. Ucciso da un fucile a pallettoni, localmente molto usato per la caccia. Incidente di caccia, allora? Pare proprio di no, che, oltre a stranezze su luogo e posizione del corpo, l’olfatto di Serena sente sul luogo del delitto un odore di acido isovalerico. Odore che ritrova anche nel gabinetto della scuola durante un consiglio d’Istituto.

Viene quindi spontaneo approfondire la figura del Caroselli. Clavicembalista di valore, ma anche ecologista duro e puro, che rinuncia alla carriera musicale perché si rifiuta di usare mezzi di locomozione diversi dalla bicicletta. Ha un buon seguito nella scuola, soprattutto per Gabriele, il figlio del liutaio Cosimo, gran talento musicale emergente. Ma Caroselli è anche un rompiscatole di prima grandezza, che si fa coinvolgere nelle beghe del clero della scuola, laddove si accorge che donne di dubbia fama entrano nel convento annesso alla scuola.

I nostri autori così riescono a mettere molti sospetti sulla graticola delle ricerca di Corinna. Le stranezze di Caroselli, lo strano rapporto con il liutaio, le liti con la Madre Superiora, il continuo inimicarsi con il Padre Spirituale della scuola, la presenza di un bidello con evidenti ritardi mentali. Saranno le capacità olfattive e chimiche di Serena che, una volta ristretto il campo, troveranno il modo di capire chi, come e cosa ha portato all’omicidio del professore.

Ma come detto, la parte più gradevole è il contorno, la tipicizzazione dei personaggi, le sparate giustamente ecologiche di Serena, le sue ricette di cucina con applicazioni della chimica, di cui riporto in finale un esempio. Meno convincenti alcune sparate anticlericali, che ci possono stare ma forse a volte sono troppo forzate.

Comunque, una lettura gradevole, con ironia, garbo e che non stanca troppo. Forse sono indulgente che la famiglia Malvaldi a me sta simpatica, ma io sono un lettore non un critico.

Un ultima domanda, analoga a quella che ho fatto nella trama del libro di Gesuino Nemus “La teologia del cinghiale”. È un caso che Gesuino chiami una psicologa esattamente Samantha Bruzzone? Se qualcuno lo sa…

“Quando ho qualche problema a cui non riesco a venire a capo, preparo un dolce.” (271)

Perfetta Patatina Fritta della Mamma chimica.

Numero uno, lavare le patate e tagliarle a bastoncini, poi asciugarle bene. Mai lavarle quando sono già tagliate, leverebbe l’amido superficiale che è esattamente quello che diventa croccante nella patatina fritta.

Numero due, cuocere le patate a vapore per 15 minuti dopo averle pennellate con poca acqua in cui avete sciolto un cucchiaino di bicarbonato. Questo alza il pH della superficie e facilita lo scioglimento della pectina, la sostanza che tiene insieme le cellule delle patate. Così saranno ammorbidite e un po’ ruvide, in pratica aumenta la superficie disponibile a diventare croccante. Nel frattempo, accendete il forno.

Numero tre, dividete le patate in porzioni.

Numero quattro, nel frattempo portate l’olio d’arachidi a 175°. È importante che l’olio resti caldo, è per quello che si dividono le patate in piccoli mucchietti, se ce le mettete tutte insieme l’olio si raffredda.

Numero cinque, friggete le patate a 175° per tre minuti tre e quando dico tre minuti intendo centottanta secondi.

Numero sei, nei tre minuti tra una frittura e l’altra prendete le patate appena scolate dall’olio, appoggiatele su un piatto con carta cucina e mettetele immediatamente nel forno a 180°. Se le lasciate scolare mentre raffreddano, il vapore acqueo presente nelle cavità delle patate improvvisamente condensa ad acqua liquida e crea il vuoto, nel quale l’olio superficiale viene risucchiato. Invece, con la procedura appena descritta, scolando e asciugando le patatine calde, la maggior parte dell’olio superficiale viene via.

Davide Longo “Il caso Bramard” Einaudi 14 (in realtà, scontato a 13,30 euro)

[A: 19/03/2021 – I: 01/02/2023 – T: 02/02/2023] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 273; anno: 2014]

Un po’ di tempo fa c’è stato un buon battage pubblicitario su Longo e la sua serie di gialli, tanto che Einaudi lo ha ripubblicato dopo un’uscita in sordina avvenuta con Feltrinelli nel 2014. Tutto perché, come si può evincere dalla fascetta, il buon Baricco si è messo di punta per sponsorizzarle. Cosa che mi ha messo la pulce nell’orecchio, pulce che sono riuscito a togliermi dopo aver scoperto che Davide Longo è anche un docente della Scuola Holden.

Comunque, essendo io curioso come un cervo, ho comprato la trilogia, ed ora ne ho letto la prima puntata. Dove inizio con un secondo lamento: certo, nelle pagine compare con una solida presenza il commissario Vincenzo Arcadipane, ma non certo in veste di solutore dei problemi del protagonista. Aiuto certo, sostegno anche, ma l’ex-commissario ci mette molto del suo (ed anche della simpatica pseudo-Salander che lo accompagna).

La serie si sviluppa intorno a Corso Bramard, ex-commissario della Omicidi di Torino, che, seguendo un caso di serial killer sviluppatosi lungo una serie di anni (almeno cinque o forse sei), incappa nel killer che gli uccide la moglie e forse la figlia (di questa non si sa più nulla e non si trova il copro). Distrutto Corso si ritira sui monti limitrofi, e fa altro (tipo insegnare, salire sui monti senza protezione, intavolare, forse, una storia con la rumena Elena, parlare a lungo anche senza parole, con l’amico Cesare). Altro che ora, quando incominciamo a leggere, sono passati venti anni dai fatti.

Ma non sono passati invano, cioè il killer è sempre lì, con una sua astuzia strana, che fa recapitare periodicamente lettere a Corso, con brani di una canzone di Leonard Cohen. Perché in quest’ultima c’è un capello come se il killer fosse distratto? O forse ha fatto apposta per scatenare una nuova caccia, un nuovo divertimento?

Fatto sta che Corso coinvolge il commissario che ha preso il suo posto a Torino, il buon Arcadipane, tutto fuori dalle righe salutiste, al contrario di Corso. Che Bramard non fuma, beve poco, cammina molto e Vincenzo è su di peso e accende una sigarette dopo l’altra. Ma sono una bella accoppiata da indagine, anche se, come detto, Corso è l’anima pensante mentre Vincenzo è l’anima agente.

Comunque, il capello mette in moto tutta una serie di micro-avvenimenti che ci fanno fare piccoli passi avanti. Intanto, il capello rimanda alla prima vittima del killer, l’unica che non è stata uccisa, ma che è rimasta talmente colpito da andare fuori di testa. Donatella è ora ricoverata in un ospedale para-psichiatrico, mentre la famiglia è andata in pezzi: mamma suicida dal balcone, fratello morto in un incidente automobilistico in Grecia, padre morto di malattia.

Ma Corso non demorde: Donatella sembra essere visitata periodicamente da qualcuno che rimanda al possibile killer. E perché il killer dovrebbe visitare la sua prima vittima? In concomitanza (roba di targhe) si scopre la presenza di tal antiquario nelle vicinanze e nei tempi concordi delle visite. Antiquario specializzato in cose orientali e soprattutto giapponesi. Antiquario che era anche amico della famiglia di Donatella.

Affiancato, per ordine di Arcadipane, dall’agente Isa, maga del computer, Corso risale le fila delle varie frequentazioni, aiutato, almeno nell’idea, da tal madame Gina che gli parla di una casa di appuntamenti mutuata da “La casa delle belle addormentate” del premio Nobel Yasunari Kawabata. Poiché il testo è molto noto non mi addentro nelle possibili sinergie tra questo e gli avvenimenti, rimandando solo al pensiero, già più volte sviluppato durante le indagini di Corso, di un collegamento forte con il Giappone.

Fatto sta che collegando il libro, dei fiori di una camelia giapponese nel giardino del suicidio della madre di Donatella nonché una composizione di petali di fiori riprodotta sulla schiena delle vittime, Corso, aiutato dalle ricerche di Isa, riesce a ricongiungere i tasselli del problema, arrivando ad un finale dove il killer già sappiamo chi sia e chi possa essere e perché sta facendo quello che sta facendo, scoprendo anche rivoli imprevisti questi sì sorprendenti ed intriganti.

Alla fine, il romanzo risulta abbastanza gradevole, lasciandoci tuttavia alcune perplessità. La prima relativa a termine per me ignoti, come le caramelle sucai (di cui Corso è ghiotto) e che non conoscevo. Sono caramelle morbide senza gomma animale al gusto liquirizia. La seconda è relativa a tutte le vicende legate a tal Mancinelli che compare a tratti nella narrazione e che sembra messo un po’ senza troppo filo nel corso della trama. Infine, la soluzione del giallo avviene un po’ troppo frettolosamente, quasi si fossero saltati passaggi. Si cerca una macchina con targa svizzera e la pagina dopo Corso incontra il killer. C’è veramente una parte mancante o l’idea dell’autore è di saltare passaggi, lasciando noi a costruire i pezzi saltati?

Idea che rimane anche in altre parti. Il rapporto tra Corso e il cugino, ad esempio, o tra Corso ed Elena, o la provenienza dell’agente Isa Mancini, di cui si dice essere figlia di tal agente Mancini, come se noi si dovesse sapere chi è e cosa ha fatto il tizio.

Per ora un giudizio positivo, sperando le altre letture della trilogia illuminino meglio le vicende.

Marco Malvaldi “Oscura e celeste” Giunti s.p. (Regalo di Paola&Ferdinando)

[A: 07/05/2023 – I: 08/05/2023 – T: 09/05/2023] &&& +  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno: 2023]

Un gradito regalo compleannico, che va a rendere sempre più completa la mia collezione dell’opera omnia del simpatico pisano. Certo, non è il Malvaldi del BarLume, non è l’autore dei gialli della squadra Sellerio, ma è, in ogni caso, un libro interessante, poliedrico, di difficile collazione, veramente, anche se, alla fine, direi che lo colloco onorificamente tra i gialli d’autore.

In effetti, nella produzione di Malvaldi si incontrano sovente personaggi “storici” che vengono immessi in situazione “di indagine poliziesca”, anche se con alcune notabili particolarità. Da un lato, abbiamo i Pellegrino Artusi, dove l’indagine ha un suo peso, e ne vediamo l’uscita per i tipi di Sellerio. Dall’altra, i Leonardo, o come qui, i Galilei, dove c’è anche una forte componente scientifica e divulgativa, e non a caso, vengono pubblicati da Giunti.

Siccome il Leonardo non l’ho ancora letto, debbo comunque restringere il campo a questo scritto focalizzato su di un anno specifico della vita di Galileo Galilei, il 1631. Malvaldi ha così modo di intervenire e divulgare sia alcune particolari scoperte ed intuizioni del grande toscano, sia farci toccare con mano l’insipienza di un certo tipo di potere, in massima parte di derivazione cattolica. Tuttavia, non potendo esimersi da porre anche un piccolo rompicapo all’interno della narrazione, il tutto è condito anche da una vicenda “noir” che dobbiamo risolvere, insieme all’autore ed a Galileo.

Un rompicapo che Malvaldi, con la sua nota capacità di mescolare Storia e storia, intreccia nelle godibili pagine del testo. Da una parte c’è il mistero, fittizio, della morte di Suor Agnese, suora di clausura nel convento di San Matteo, laddove sono rinchiuse anche le figlie di Galileo. Dall’altra, la Storia, tutta la vicenda legata alla pubblicazione del capolavoro di Galileo, il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, intrecciata a dotte ma comprensibili escursioni nel mondo delle invenzioni e del pensiero galileiano.

Galileo è anziano, per l’epoca (67 anni), ha bisogno di aiuto nello scrivere, sorretto dalla figlia Suor Maria Celeste, ed aiutato (fittiziamente) dalle revisioni di Suor Agnese. La quale, esperta di scienze, si ingegna all’invenzione di apparecchi meccanici atti sperimentalmente a sorreggere le tesi del maestro. Per questo viene inopinatamente uccisa, scatenando la ricerca del colpevole all’interno di una non facile indagine data la peculiarità del convento. Un’indagine, che non approfondisco, ma che Galileo, attraverso ragionamenti logici, porta alla felice conclusione. Un solo esempio, Galileo dimostra l’impossibilità del suicidio attraverso lo studio della caduta dei corpi, una trentina di anni prima degli studi di Newton sulla gravitazione universale.

Ben più interessante è la ricostruzione storica della genesi del “Dialogo”. Galileo ne ottiene l’imprimatur papale prima di averlo pubblicato, e, stante la situazione del dilagare della peste in Italia in quegli anni, si procura i mezzi per pubblicarlo a Firenze invece che a Roma. Tuttavia, la congrega gesuitica a guardia della “vera fede” farà in modo di incriminarlo per aver propagato dottrine contrarie alla teoria tolemaica del geocentrismo. Impagabile la diatriba sul passo della Bibbia nel Libro di Giosuè (“fermati o sole …” [10:12;13]). I gesuiti imputavano a Galileo un‘eresia perché, se fosse stata vera la teoria eliocentrica, le dimostrazioni di Galileo avrebbero negato la Bibbia. Partendo da questo cavillo, viene istituito il famoso processo, la forza abiura dello scienziato, nonché il suo esilio nella cittadina di Arcetri sino alla morte.

Ora noi, e Malvaldi, sappiamo che Galileo era nel giusto, ma è godibile tutta la costruzione dello scrittore intorno alla polemica, alla sua nascita, alla presenza di spie che cercano di sottrarre i manoscritti a Galileo, alle riunione della commissione esaminatrice. Insomma, a tutto quanto di risibile sorse intorno allo scritto. Devo per completezza chiosare con due elementi di grande rilevanza. La Chiesa ha riabilitato Galileo dalla condanna solo nel 1992, sotto la spinta di papa Giovanni Paolo II. Inoltre, attenti lettori della Bibbia in aramaico, nonché fini scienziati, hanno ritradotto il testo come “sole cessa di splendere”, frase che sarebbe in accordo con il fatto che il 30 ottobre 1207 a.C., epoca della battaglia di Canaan, nei luoghi della battaglia, si verificò un’eclissi solare, motivo che porta di conseguenza alla cessazione della luminosità solare.

Non voglio entrare in ulteriori particolari scientifici, lasciandovi l’amenità di leggerne. Vorrei solo sottolineare come Galileo, togliendomi le parole di bocca, afferma che “la natura è scritta in caratteri matematici”. Caratteri che vanno letti, intrepretati, e che danno una visione omogenea alle leggi universali. Il tutto senza che venga messo in discussione né la Bibbia né i credi religiosi, che i misteri di fede sono ben altri che il moto dei pianeti e delle stelle.

Malvaldi, da buon toscano e da esimio divulgatore, ci fa calare nel mondo di Galileo, dei Medici e del papato, con una fedele ambientazione ed una plausibile ricostruzione. Come dice lui stesso, tuttavia, è un romanzo non un trattato di storia, e quindi gli permettiamo piccole invenzioni, ma soprattutto gli concediamo quella libertà di battuta che rendono ancora più godibile il testo.

In conclusone, certo, io rimango fedele a Massimo ed al BarLume, ma continuerò, come spero farete anche voi, a leggere del nostro (magari ancora in altre prove con Samantha).

Antonio Manzini “ELP” Sellerio euro 17 (in realtà, scontato a 16,15 euro)

[A: 07/06/2023 – I: 26/07/2023 – T: 28/07/2023] &&& e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 533; anno: 2023]

ROCCO12

In attesa che in autunno esca un nuovo libro di Malvaldi e dei suo BarLume (versante noir-ironico), ecco che esce un nuovo episodio di Rocco Schiavone, di cui ringraziamo sempre la lucida padronanza di Antonio Manzini che, nonostante alcuni intoppi, continua a sfornare avventure del nostro simpatico amico commissario (anzi vicequestore) in trasferta permanente in quel di Aosta.

Come ormai tradizione nei gialli seriali, il filone narrativo continua a svilupparsi sui due piani di svolgimento intrecciati ma in molti casi solo paralleli. Rimane sempre, ed a volte si fa più vivo, il filone privato. Si trova, ma non sempre con la necessaria profondità di sviluppo, una trama noir che faccia da filo conduttore. Quando poi, come in questo caso, alcuni passaggi suggeriscono che le due scelte si invertono.

Abbiamo così i personaggi ormai consueti, che continuano la loro vita, e che affrontano nuovi momenti del loro percorso. Italo, quello che si era ormai dedicato al poker ed alle truffe, è stato “bevuto”, come dice Rocco, ed ora è al gabbio (carcere mandamentale cioè), in attesa di processo e giudizio conseguente. Un’assenza che non ci pesa che il personaggio aveva fatto il suo tempo.

A fare da secondo a Rocco, avanza quindi prepotentemente Antonio, che qui viene messo alla prova da Rocco. Antonio ha bisogno di soldi per aiutare il fratello. Rocco gli propone alcune soluzioni, sempre al di fuori della legge. Magari aiutato dai suoi sodali romani. Antonio dovrà fare una scelta ed un percorso: andare una volta fuori dai ranghi potrebbe essere consentito, ma per cause eccezionali. Se si prova il gusto dell’adrenalina, si farà la fine di Italo. Staremo allora attenti alle scelte di Antonio.

Due sottoposti procedono i loro percorsi ormai rodati: Casella è ben avviato nella sua storia con Eugenia, pensieroso solo dei possibili comportamenti antagonisti del di lei figlio Carlo; Deruta è al sicuro con il suo fidanzato-panettiere, con il solo obbligo di rifornire la Questura di paste fresche ogni mattina. Riflettendo a posteriori, nelle puntate precedenti, ogni sottoposto di Rocco, prendeva per un po’ la luce dei riflettori, portando a compimento il suo percorso.

Qui è il caso di D’Intino, quello imbranato che aveva ferito accidentalmente Rocco. Riprende i contatti con una sua vecchia fiamma di paese, spera di poter riallacciare un rapporto ora che la belloccia è vedova. Solo che lei si presenta ad Aosta con madre e nove valige. D’Intino prova a ribellarsi, trova poco solidarietà, ma alla fine avrà modo di capire quale sia la sua strada, e la seguire con tutta la brutalità del caso.

Rimane il rapporto di Rocco con le donne. C’è sempre Marina che compare nei sogni e nelle sue proiezioni, un blocco che Rocco non riesce (o non vuole superare). C’è Caterina, tornata ad Aosta, ormai chiaritasi con il nostro, e che sembra destinata a convolare con un collega, non senza aver prima un definitivo incontro con Rocco. E poi c’è Sandra, quella che potrebbe essere, ma che non riesce mai, che ogni volta Rocco, quando sta per, si ritrova (almeno mentalmente) Marina, e non fa il passo che deve fare. Che sa che, facendolo, potrebbe ritrovarsi in una storia che gli faccia chiudere i conti con il passato. Ma lui, lo vuole?

Rimane poco spazio per la trama nera, che in effetti è un di cui. Approfittando dell’ondata “alla Greta”, Manzini inserisce un fantomatico ELP, Esercito di Liberazione del Pianeta. Che si picca di fare azioni significative per sensibilizzare l’opinione pubblica. Come gli attivisti verdi. Però gli ELP non si incatenano alle opere d’arte, ma liberano animali destinati al macello ed altre azioni dimostrative e, fondamentalmente, innocue. Tuttavia, Manzini gioco sui ruoli istituzionali, mettendo dietro le scene tutta una serie di forze dell’ordine, di diverso grado, che cercano di venire a capo di questi episodi.

Ovviamente, qualcuno poi ne approfitta, ed usando impropriamente la sigla, prima brucia un negozio di tassidermia, poi piazza una bomba in un plico inviandolo al titolare di una ditta che potrebbe inquinare, ma che ha tutti i documenti in regola per non farlo. Nel marasma generale, solo Rocco persegue la strada di un episodio “privato”, magari scatenato dalla moglie divorziata del morto, o dal primo figlio che non accettò il divorzio, o del secondo figlio sempre in debito di soldi o della seconda moglie, magari dedita ad altri amori ancillari, o del secondo in ditta, magari alla ricerca di una scalata professionale e personale.

Nelle more di tutti gli avvenimenti, Rocco sarà il solo a trovare il bandolo dell’intricata matassa, risolvendo il giallo, e facendoci capire che, prima o poi, ci sarà una nuova puntata.

La scrittura di Manzini continua a mantenersi su buoni livelli, mentre la trama gialla è un po’ zoppicante, anche se gli attacchi ai distruttori ambientali sono giusti, ben fatti e ben motivati. Rimane anche quell’attaccamento alla moglie morta, di cui non si capisce il motivo di riuscirne, come sarebbe il caso visto che sono passati quindici anni, ad elaborarne il lutto. Ed uscirne.

Questa volta, visto che abbiamo un Marco Malvaldi che pervade tutto lo scritto, mi permetto di segnalare due sue citazioni tratta da “Il gioco delle tre carte”. Una riguarda i comportamenti umani in generale: “Uno degli aspetti più fastidiosi dell’essere umano è la ridicola convinzione che non siamo responsabili delle conseguenze delle nostre azioni, come testimonia l’infantile disinvoltura con cui troppo spesso attribuiamo alla volontà del Fato il disastroso esito delle nostre cazzate” (87).

La seconda, pur avendo una valenza per il me matematico, la prendo ad emblema di una riflessione che tutti abbiamo (dovremmo aver) fatto nella vita: “La dote fondamentale per fare il matematico è l’umiltà. L’umiltà di riconoscere quando non hai capito una cosa, e di non tentare di prenderti in giro. Se non hai capito una cosa, o non ne sei convinto, non puoi prenderla per buona. Se fai così, ti farai solo del male. Devi essere assolutamente sincero con te stesso. Bene, io per quanto riguardava la matematica ho sempre tentato di essere sincero con me stesso. E la conclusione che ho raggiunto non poteva che essere la seguente: non ero abbastanza bravo. Non ero adeguato per quel lavoro. Era al di là delle mie forze. Se avessi continuato, avrei perso del tempo e mi sarei preso in giro da solo” (169).

Confesso che erano anni che non avevo un agosto così ricaricante. Certo, non tutto è oro, ci sono tante cose che potrebbero essere migliorate, ma chi siamo noi per continuare a lamentarci, in vista di una ripresa autunnale che ci aspetta intensa? Quindi, bando ai lamenti e via con un abbraccio.