domenica 25 aprile 2021

Recami + 1 - 25 aprile 2021

Una settimana massimamente dedicata a Francesco Recami ed alle storie della casa di ringhiera. Alcuni racconti (sei più uno) e due romanzi, che però non raggiungono dei grossi livelli di gradimento. Anche se dobbiamo registrare, con questa uscita, la fine (ad ora) delle storie imperniate su Amedeo Consonni ed i suoi amici. Meglio il bonus track con Marco Malvaldi ed un piccolo racconto dei vecchietti del BarLume, anche se in trasferta a Pisa (con alcune interessanti escursioni filologiche).

Francesco Recami “Sei storie della casa di ringhiera” Sellerio euro 14

[A: 07/05/2018 – I: 02/12/2020 – T: 04/12/2020] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 285; anno: 2017]

Purtroppo, l’anno di edizione si riferisce alla raccolta delle sei storie, che, come racconti, sono invece stati pubblicati precedentemente, come indicato nella trama. L’unico tentativo, devo dire abbastanza riuscito, è di creare una sorta di filo rosso tra i vari testi, di modo che, pur non essendo un romanzo, si ha come l’impressione di seguire una logica temporale tra di loro. Infatti, il primo racconto si svolge nel Natale del 2011 e poi li altri procedono temporalmente tra Natali e Capodanni, fino all’agosto del 2014.

Fin dal primo racconto, il giallo sembra una variabile poco presente. In “Natale nella casa di Ringhiera” tratto da “Un Natale in giallo” del 2011, l’episodio scatenante è Amedeo che regala un fucile rumoroso al nipotino Enrico. Questi cerca di divertirsi con gli abitanti della casa di ringhiera, anche perché prima di sparare si sente una stentorea voce poliziottesca che rampogna i passanti. Ma è solo un pretesto per presentare, a chi ancora non li conosce, i vari abitanti della casa. Interesse quasi nullo.

Si avanza di poco, passando al “Capodanno nella casa di ringhiera” tratto da “Capodanno in giallo” del 2012. Anche qui, si gira e rigira sui personaggi della casa, sui propositi che loro e tutti noi si fanno l’ultimo dell’anno, per poi mescolarsi quando un tappo di champagne fa svenire Amedeo, e da lì partono le solite confuse circonvoluzioni in cui ognuno pensa che l’altro pensi ma che poi noi dice, per cui… Barboso.

Passano altri mesi fittizi, per cui si arriva al “Ferragosto nella casa di ringhiera” tratto da “Ferragosto in giallo” del 2013. Qui abbiamo il primo dirazzamento, visto che l’unico protagonista diventa l’anziano Luis, quello della BMW. Che rimasto solo nella casa, gli altri essendo in vacanza, si trova coinvolto nel salvataggio di una escort che scappa per oscuri motivi. C’è anche un piccolo scenario “osé” con la signorina che gira nuda per casa di Luis dopo… Ma mica ve lo dico, anche se un po’ meglio degli altri.

Ritorniamo verso Natale con “Scambio di regali nella casa di ringhiera” tratto da “Regalo di Natale” sempre del 2013, dove i regali di Natale preparati da Angela si mischiano a valle di una rapina banca. Divertente il cross-gift, e con qualche risvolto sempre tra il detto ed il taciuto, diventato il marchio di fabbrica di Recami. Si solleva un po’ il labbro per l’ironia.

Arriviamo a febbraio con “Festa di Carnevale nella casa di ringhiera o ‘El Bombo atomico’” tratto da “Carnevale in giallo” del 2014, il primo dove c’è un minimo di giallo. Per la festa tutti si travestono, e Amedeo ed Angela si trovano coinvolti nella ricerca di una collana trafugata in un ricovero per anziani. Il titolo fa poi riferimento ad un mega-botto preparto dai fantomatici peruviani della casa.

E finiamo ancora in estate con “Giallo a Milano (Marittima)” tratto da “Vacanze in giallo” del 2014, anche qui con un giallo: il ritrovamento di due gay morti in una pineta al mare, dove la famiglia Consonni ed Angela (pur se nascosta) passano una settimana estiva. Un po’ di ironia sui morti che si spostano, ed un finale al solito molto ridanciano (o abbastanza).

Come avete capito e come ormai siamo abituati, e sta diventando un marchio di fabbrica un po’ pesante, quello che massimamente succede nelle storie di Recami è che la gente non parla, o se parla non si fa capire, o chi ascolta prende fischi per fiaschi. Diventa alla fine un po’ troppo scontato e ripetitivo, riducendosi al minimo anche gli sprazzi di ilarità che caratterizzavano i primi libri.

Ma si sa, ormai l’ho imparato leggendone, che nelle serialità spesso si cade in trappole senza uscita. Si è costruito un personaggio (tipo Amedeo) con certe caratteristiche e non si riesce a farlo evolvere, a cambiare, nonostante tutte le sollecitazioni all’intorno. Così che alla fine tutto si sclerotizzata e le letture perdono il loro fascino. Speriamo si cambi!

“Era una lettrice cosiddetta ‘forte’, smaltendo all’incirca un libro a settimana.” (150) [ah]

“Amava regalare libri. La cosa la convinceva sotto vari aspetti. Prima di tutto c’era quello culturale: aveva sempre adorato la lettura … Il secondo motivo … era che i regali potevano essere selettivamente personalizzati … Il terzo motivo era, non c’è da vergognarsi, economico.” (150)

Francesco Recami “Ottobre in giallo a Milano” Repubblica “Italia in giallo” 15 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 28/11/2020 – I: 08/12/2020 – T: 08/12/2020] && -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2017]

Un racconto che avevo già recensito nell’ambito della trama dedicata a “Un anno in giallo”, dove, pur non essendomi particolarmente piaciuto, aveva qualche elemento di interesse e novità. Qui, isolato dal contesto della raccolta, risulta abbastanza inutile.

Siamo sempre nell’orbita delle avventure della casa di ringhiera. Questo breve excursus è tutto dedicato a Luigi De Angelis detto Luis, ed alle sue tribolazioni di pensionato, anziano, solitario nonché proprietario di una BMW da favola.

Nel contesto del libro da cui è tratto, si parlava di 12 racconti, ognuno dedicato ad un mese (immagino che avrete indovinato il mese di Recami). Ma non solo, ogni testo era collegato al seguente laddove si citava un personaggio, non dell’autore, ma della serie cui il successivo racconto faceva parte.

Così, nel racconto di settembre, due abitanti della casa di ringhiera incontrano Garzon in crociera. Mentre qui, in ottobre, uno dei personaggi “non protagonista”, ma ben presente, è Lorenzo La Marca, un esimio professore ben presente nelle storie di Santo Piazzese, cui era dedicato il mese di novembre.

Qui, tutti questi richiami saltano. Rimane la storia di Luis che, per non essere rapinato da Lorenzo, lo tramortisce. Poi, spaventato, con l’aiuto del tuttofare Angelo, cerca di sbarazzarsi del corpo. Ovviamente, tutti i tentativi abortiscono, ed i due non trovano di meglio che depositarlo all’Ospedale. Luis prima fugge, poi pentito cera di costituirsi ma scopre che nel frattempo La Marca è stato riconosciuto come truffatore di anziani, ed arrestato.

La storia è esile, la mancanza di Amedeo ed Angela si fa sentire (anche perché, stando al romanzo precedente, Consonni dovrebbe essere morto), il tutto svolto come un compitino ben fatto ma niente di più.

Se fossi un insegnante direi all’alunno Recami: con le tue capacità potevi fare di meglio. La prossima volta ti interrogo senza preavviso.

Trama super corta, visto che già ne ho parlato altrove.

Francesco Recami “Il diario segreto del cuore” Sellerio euro 14

[A: 04/11/2020 – I: 12/12/2020 – T: 14/12/2020] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 210; anno: 2018]

L’esimio scrittore aveva detto: faccio sei libri e poi basta. Ma si vede che la casa di ringhiera stimola ancora, e non ci si riesce a staccare. Ha cercato, Recami, di chiudere tutto con una puntata super-confusa, finita con sparatorie e funerale di Amedeo Consonni. Ma labili indizi già ci dicevano che forse c’è ancora carne sul fuoco (o brace sotto la cenere?).

Nel mentre ci si pensa, tanto vale tirar fuori una puntata sghemba, magari tutta incentrata su altro. Così Recami qui punta la penna sulla famiglia Giorgi. In particolare, su Donatella, la madre, e Margherita, la figlia. Il tentativo, come adombrato nel titolo, sarebbe di scrivere una sorta di libro “Cuore” aggiornato alla realtà degli anni Venti del XXI secolo. A parte che di De Amicis preferisco “Amore e ginnastica”, soprattutto nell’interpretazione cinematografica di Senta Berger (qualcuno se lo ricorda, un film del 1973?). Ma, tornando al testo, il risultato è poco convincente.

Insomma, è ottobre (come all’inizio di Cuore), e nella casa di ringhiera sono tutti via. Non c’è Amedeo, presumibilmente morto. Non c’è Angela, rifugiatasi nella casa ligure. Non c’è Luis, in giro chissà dove. Non c’è la signorina Mattei-Ferri, a fare le cure nella stazione termale. Di conseguenza, non c’è il badante, il signor Claudio. Non c’è Antonio, temporaneamente in Germania. E non ci sono i peruviani, misteriosamente scomparsi.

Rimangono solo i Giorgi, con Giampiero, il maggiore, preso dalle turbe da quattordicenne, nonché dalle problematiche relative ai casini confezionati nelle puntate precedenti (e siccome sono tanti e complicati, o li ricordate o li andate a rileggere); e con Margherita, l’alunna modella, che però…

Ecco da qui interviene la pervicace Donatella. Che scopre il diario segreto del titolo, che lo legge (e la struttura ricorda il libro Cuore, con interventi in prima persona, stralci di temi e lettere genitoriali), e che comincia a capire che il mondo finto dorato di Marghi e Giampi forse è meno dorato di quanto sembra. Intanto, scopre che la figlia è bullizzata da alcune sue compagne di classe, in special modo perché (come il sottoscritto) è un anno avanti a scuola. Quindi è per età più piccola, e lei anche per costituzione.

Donatella, nella sua ingenuità, concepisce una vendetta informatica che ha un parziale successo sulle poco intelligenti compagne di scuola della figlia. Purtroppo, innesca una serie di effetti domino cui non aveva pensato. Sentendosi in colpa si confida con il marito separato Claudio, altra aquila. Che ovviamente non fa che guasti, riuscendo a farsi incolpare dalla folla scolastica come pedofilo, malmenato e spedito in ospedale.

Donatella decide allora di riprenderlo in casa, i figli continuano ad essere strani, ed ovviamente le autorità postali sgamano subito il computer da cui sono state fatte le magagne. Incolpando però l’incolpevole Giampiero. Innescando altre piccole (o grandi) incomprensioni.

Anche nella vacanza di idee e di “giallo”, Recami non dimentica il filone principale. Così Luis passa per la casa con una vistosa bionda in auto, e poi torna nell’ombra. Angela ritorna momentaneamente dall’esilio ligure, immergendosi nella tristezza della casa senza Amedeo. Torna da Salsomaggiore la signorina Mattei-Ferri, e dovrà cominciare a risolvere i suoi problemi con Claudio Giorgi. Torna dalla Germania il manovale Antonio, portandosi al seguito la giunonica Yutta. Tornano i peruviani, o meglio le peruviane, che i maschi non si vedono.

Poiché il nostro scrittore non manca di mettere piccoli fiori laddove non sarebbe necessario, c’è anche un drone che sorvola la casa, per schiantarsi su qualche auto in sosta. Non è difficile capire che è uno dei tanti mezzi perché i cattivi che hanno ucciso Consonni tentano di sorvegliare la casa. Ma sono, come sappiamo, più che altro pasticcioni. Come si capisce subito, da due righe e dalla storia di Antonio, che Yutta dovrà essere altro da quello che sembra.

Ma ritornando a “Cuore”, l’unico elemento di interessante divertimento, è la considerazione topografica della vicenda. La casa di ringhiera è in via Accademia, che prosegue in Via De Amicis (ma guarda!), la cui continuazione è via Carducci. Ed il vate fu una delle più alte voci che stigmatizzò la scrittura melensa del sabaudo.

Nel complesso, Recami mostra che sta arrivando alla frutta con questa storia. Certo, le pagine diaristiche sono ben tornite. Come i falsi temi di Margherita. Ed altre piccole escursioni descrittive. Ma il risultato finale non convince, non prende, non è giallo, non è ironico. Continua soltanto a farci vedere che quando non si parla, quando non si ascolta, solo situazioni imbarazzanti escono fuori. Tuttavia, sono sette romanzi che lo ripete, ed è un ritornello ormai un po’ troppo ascoltato.

Francesco Recami “La verità su Amedeo Consonni” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)

[A: 05/11/2019 – I: 14/12/2020 – T: 16/12/2020] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 388; anno: 2019]

Eccoci, finalmente, all’ultimo libro pubblicato che si rifà esplicitamente alle storie della casa di ringhiera. Che invece di 6 sono diventate 8, senza contare poi alcuni racconti di contorno, che comunque portano acqua al disegno generale del nostro teatro d’azione. Teatro costituito appunto dalla casa di ringhiera di via Accademia 14 a Milano.

Certo, aver letto i sette libri precedenti consente di gustare con il piglio giusto questo nuovo libro, dove tutti i personaggi che popolano la casa di ringhiera tornano ad occupare i loro spazi istituzionali.

C’è la falsa invalida, la signorina Mattei-Ferri che cerca in tutti i modi di liberarsi dai ricatti del suo badante, l’ex-alcolista Claudio Giorgi, ormai uscito dal tunnel dell’alcool (o quasi). Claudio che ha scoperto i segreti ospedalieri della signorina e che è tornato (più o meno) nella casa della moglie Donatella, dove sono anche i suoi due figli Margherita e Giampiero (grandi protagonisti del romanzo precedente). C’è l’ottantenne Luigi “Luis” De Angelis, ex-tassista, amico di Consonni, proprietario di una stupenda BMW Z3. 3.2 24 valvole roadster, e preoccupato di avere la casa infestata da fantasmi, quando invece è vittima di un tentativo di raggiro facente capo, come ovvio, allo scapestrato nipote Daniel. C’è l’architetto Du Vivier, sempre alla ricerca di una ristrutturazione economicamente conveniente (ma solo per lui). E prima di parlare di Angela e Amedeo, notiamo la comparsa di Yutta, una bellezza teutonica, calata dalla Germania insieme al manovale Antonio, che si aggira seminuda per i tetti della casa di ringhiera, facendo balzare a mille i cuori e gli ormoni di tutti i maschi dei paraggi.

Ovviamente ritroviamo Angela, che fa la spola tra Milano, dove deve seguire l’andamento del processo al poliziotto probabilmente a capo di un racket di malaffare e prostituzione, e la Riviera, dove ha acquistato una casetta da sogno. In cui vive con tal Amedeo, che però scopriamo presto essere nient’altro che Amedeo travestito, messo sotto protezione in quanto testimone chiave del processo.

Così si svela l’arcano, che era ovvio non potesse morire Amedeo così, senza spiegazioni e lacrime. Ma Amedeo, che attende pazientemente il processo (annoiandosi a morte) ha un colpo di coda, scoprendo nella casa di ringhiera un nascondiglio segreto pieno di lingotti d’oro.

A questo filone, si aggiunge il ritorno della bella Svetka, la prostituta che Amedeo aveva aiutato nel liberarsi del giogo del poliziotto cattivo.

Recami mette molta carne al fuoco, come al solito. Molte storie, storielle che si intrecciano. Angela che non si capacita dell’apatia di Amedeo, non sapendo dei lingotti. Yutta che si muove sfarfalleggiando, ma capiamo presto che ha anche qualche altra cosa in mente. De Angelis ed i suoi problemi economici. La signorina Mattei-Ferri alla ricerca di una macchina fotografica perduta e compromettente. Anche il piccolo Enrico, detto Cipolla, che si avventura sui treni lombardo-liguri alla ricerca del nonno (che ovviamente ritrova, mentre i cattivi no).

C’è tutta una parte dedicata al processo, che avrà una svolta non tanto per merito del redivivo Amedeo, quanto della ritornante Svetka. E sarà forse un caso che il 90% dei lingotti ad un certo punto sparisca, sparendo anche Yutta contemporaneamente?

Mentre tutto il teatro di ringhiera, alla fine, ritrova il proprio posto. Magari malconcio, ma tornando a ricoprire ruoli consoni all’inizio della serie. Quello che Recami spiega in maniera confusionaria e poco convincente è invece proprio il ruolo di Yutta e di altri tedeschi di contorno.

Tanto che ci si domanda se quel poco di apertura che il finale lascia socchiuso non possa prevedere che ci sia qualche altra puntata nel futuro. Domanda legittima ma di risposta dubbia, visto che in parallelo, sta decollando (purtroppo solo nel numero di libri scritti non nel mio gradimento) la serie autonoma delle commedie nere.

Ripeto quanto detto sopra e altrove: Recami scrive in maniera gradevole, ma non sempre gradita; i suoi personaggi farebbero bene, ogni tanto, non solo a parlarsi ma anche a capirsi, invece di continuare nelle loro strade un po’ autistiche. Ma anche se per gustarne le sfumature bisogna seguire i suoi filoni così come si costruiscono, non dispiace averne letto. Con il pensiero ai Navigli ed alle case di ringhiera che ho conosciuto.

Marco Malvaldi “Il Capodanno del cinghiale” Repubblica “Natale in giallo” 4 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 12/12/2020 – I: 27/12/2020 – T: 27/12/2020] &&& ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 47; anno: 2012]

Come detto anche altrove, lo ripeto qui che non so mai quale trama leggerete prima. E se poi ne leggerete. Nella mini-raccolta del “Natale in Giallo”, otto racconti omaggio di dicembre da parte di Repubblica, ce ne sono tre che avevo già letto. Alcuni da poco, altri da più tempo. Quindi li utilizzo per riempire qualche buco di trama, e qualche altro resoconto da scrivano.

Intanto una considerazione: Repubblica invece di regalare racconti, al fine di vendere i giornali di carta, dovrebbe ripensare meglio alle sue strategie di vendita tra edicola e mercato online. Ma è una polemica che ho cercato di discutere con loro, che, ovviamente, si guardano bene da tenerne conto. Andiamo avanti.

Un secondo rilievo è sul testo in sé, che è nuovamente legato al Capodanno in una collana dedicata al Natale. Infatti, il racconto anche qui proviene dalla raccolta di Sellerio “Capodanno in giallo”. Aggravante, il Capodanno pisano si celebra il 25 marzo, come dico sotto.

Pur ripetendomi, come scrissi, ho rilevato che, rispetto agli altri racconti della raccolta dedicata ai vecchietti del BarLume, qui, almeno, si ritorna ad un minimo di indagine, anche se la soluzione del caso Malvaldi ce la butta lì, senza tante sottigliezze, visto che sembra più interessato a narrare i comportamenti dei goliardi pisani e degli scherzi epocali della confraternita.

L’idea divertente, e comunque reale e non inventata, è il Capodanno pisano, che si celebra il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, essendo 9 mesi prima del Natale. La confraternita del Cinghiale decide di festeggiarlo cantando canzoni maremmane all’interno del Battistero di San Giovanni a Pisa. Peccato che qualcuno si intrufoli (o prenda l’occasione o altro) per commettere il delitto di cui sopra. Ma questo è di poca importanza rispetto sia agli scherzi sia soprattutto alla descrizione del Battistero stesso, mirabile opera di tal Diotisalvi architetto per altro ignoto del dodicesimo secolo, che costruì la cupola con due elementi sovrapposti, l’uno riprendendo la Moschea della Roccia e l’altro la Cupola del Santo Sepolcro, entrambi in quel di Gerusalemme (di cui per ora non dico altro).

In sintesi, in ogni caso, una scrittura che riporta Malvaldi ai punti più interessanti della sua produzione.

Siamo alla quarta settimana del mese, e quindi vanno a riposo allegati ed altro. Rimangano le citazioni come bolle di memoria. Questa volta rimaniamo nel febbraio del 2007, a valle di un libro letto dell’israeliano Yizhar Smilansky, che usava il fantasmatico pseudonimo di S. Yizhar e che nel suo per me libro maestro “La rabbia del vento” ci lascia questa riflessione: “C’è sempre chi rinfocola la propria fiducia con la forza della volontà”. Ma soprattutto, e mi piace ricordarlo in questo 25 aprile, ripenso a quel suo messaggio, “clamans in desertum”, dove nel 1949 sussurrava (non potendo gridarlo): “Forse stiamo facendo agli arabi quello che noi abbiamo subito nella nostra storia di ebrei, forse da vittime che siamo stati lungo tutta la nostra storia siamo diventati carnefici”.

Settimana di attesa per al riapertura dei vaccini, e per gli incastri che si stanno formando, di lavori, di incontri, di possibilità. Proseguiamo, con la fiducia di cui sopra, e con l’affetto che sempre va ai miei lettori. 

domenica 18 aprile 2021

Eco-grafia 1 - 18 aprile 2021

Se fossi un fine analista, avrei scritto eco-logia (sempre con il trattino), visto che stiamo parlando (logos) di Umberto Eco. Poiché però ne scrivo, preferisco, ironicamente forse, parlare di scrittura (grafos) intorno a capitoli della biografia in lettere dell’autore, ormai da cinque anni scomparso. Chiedendo preventivamente scusa di eventuali travisazioni, chiedendo in contemporanea aiuto e venia ad un culture di Eco come mio cugino Alessandro.

Io scrivo di alcune uscite dell’eco-pensiero allegate in omaggio a Repubblica, ribadendo che si trovano al di sopra, e di molto, di tante altre letture da me fatte nel periodo.

Umberto Eco “Il fascismo eterno” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 12/09/2020 – I: 29/09/2020 – T: 29/09/2020] &&&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 44; anno: 1995]

Repubblica, nel momento del suo declino, si sta “inventando” mille modi per costringere il lettore a non allontanarsi. Ora, a metà settembre, in concomitanza con l’uscita del giornale “Domani”, edito da De Benedetti, con una banda di fuorusciti dalla casa madre, decide di regalare ai propri lettori, in due giorni contigui, due interventi di Umberto Eco. E siccome Eco è un po’ “super partes”, ci si aspetta una massiccia adesione a Repubblica, ignorando il Domani.

A prescindere da questa genesi, il primo dei due interventi presentati, è la trascrizione, quasi una “lectio magistralis”, pur con alcune modifiche, di un discorso tenuto da Umberto Eco alla Columbia University il 25 aprile 1995, per celebrare il cinquantesimo della liberazione italiana.

Un intervento agile, ed interessante, concentrato su questo termine un po’ trasversale, che si coagula nella parola “fascismo”. Eco spiega, e noi capiamo, che ci sono tante piccole sfumature nei fascismi di ogni età. Spiega che, pur accomunati nel termine, Mussolini, Hitler e Franco sono diversi. Che il fascismo, più che un monolite legato alla razza ariana, è stato un collage di idee a volte differenti, se non contraddittorie.

Ecco allora che il nostro semiologo, nato durante il fascismo, ed avendone visto il culmine e la decadenza, ci propone una lista di caratteristiche che, anche se presenti in un solo elemento, possono “fascistizzare” un movimento, un partito, una ideologia.

Eco ci presenta quindi il suo Ur-Fascismo attraverso quattordici capisaldi:

1.     Culto della tradizione; come rivendicare le proprie radici (in genere bianche e cristiane), accogliere solo chi si adatta a questa tradizione.

2.     Rifiuto del modernismo e in generale propensione all’irrazionalismo; sostenere spada in resta tesi anacronistiche, ad esempio sugli omosessuali.

3.     Culto dell’azione per l’azione e rifiuto della cultura; del tipo, la cultura non fa guadagnare, esprimere compulsivamente la propria opinione sui social.

4.     Rifiuto del disaccordo; chi non è d’accordo con me è un traditore.

5.     Paura delle differenze, dando la colpa di tutto quello che va male agli stranieri, proporre di mandarli tutti via, e non accorgersi che, magari, lo stupro, l’assassinio, il femminicidio sono fatti da gente che non ti è straniera.

6.     Appello alle classi medie frustrate, ripetendo fraudolentemente che gli immigrati fanno la bella vita, e voi non arrivate a fine mese.

7.     Ossessione del complotto, sostenendo che abbiamo contro non so, poteri forti, la stampa, i mercati, la finanza, e chi più ne ha…

8.     Incapacità di valutare il nemico, che è allo stesso tempo troppo forte e troppo debole; gli extra ci invadono (forti) ma noi li rimandiamo a casa (deboli).

9.     Pacifismo è collusione con il nemico: quindi bisogna attuare la tattica di una guerra permanente.

10.  Disprezzo per i deboli, arrivando agli estremismi con cose come ‘prima gli italiani’ e disprezzare i neri, i rom, le ‘zecche’ dei centri sociali.

11.  Culto della morte: tutti possiamo diventare eroi, e farsi giustizia da soli.

12.  Machismo, come mostrare che la propria moglie/campagna/figlia è felice si stirare e cucinare per me; ed ovviamente deridere gli omosessuali.

13.  Inneggiare al popolo contro il parlamento, considerando unica vera voce quella del “popolo sovrano”, che solo noi eletti sappiamo interpretare.

14.  Povertà nell’uso della lingua, arrivando a semplificare tutte le idee e le definizioni: chiamare ‘capitano’ il proprio leader; ‘vice scafisti’ le Ong impegnate nel Mediterraneo; ‘partitocrazia’ qualsiasi forma di politica non esplicitamente populista; ‘burocrati di Bruxelles’ le istituzioni europee; ‘invasione’ i flussi migratori.

Eco ci dà anche un ultimo insegnamento: studiamo la storia, perché solo sapendo cosa è successo, impariamo a non ripetere gli stessi errori. Questa è non solo un’agile e lucida analisi, ma, anche, una profezia che, detta venticinque anni fa, è di una attualità impressionante. E non sarò certo io a farvene vedere i rimandi, che sono sotto gli occhi di tutti.

Uno dei tanti interventi, saggi e racconti, che in meno di cinquanta pagine, ci dicono molto. Questo, pur con alcuni limiti (dovuti anche al fatto che l’auditorio primo era americano, e quindi con necessità di più semplificazioni di noi “vecchi” europei), è uno da mettere in testa, e da far leggere, soprattutto nelle scuole.

Umberto Eco “Migrazioni e intolleranza” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 13/09/2020 – I: 09/10/2020 – T: 09/10/2020] &&&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 45; anno: 1997-2012]

Nella seconda puntata della spinta di Repubblica all’acquisto dei suoi giornali, ecco che ci ritroviamo con quattro velocissimi testi, diseguali in intensità ma di eguale importanza. Il primo viene da una conferenza tenutasi a Valencia nel 1997 dal titolo “Le migrazioni del Terzo Millennio”. Il secondo è un discorso sul tema dell’intolleranza, pronunciato poche settimane dopo il primo a Parigi. Gli ultimi due sono invece più recenti: un intervento del 2012 a Nimega nell’anniversario del primo trattato di pace europeo colà firmato nel 1678. L’ultimo una introduzione ad alcuni testi antropologici usciti nel 2011 a cura dell’associazione Transcultura.

Pur essendo quattro interventi differenti, nel tempo e nello spazio, alla fine si riconducono sempre al titolo cumulativo che il figlio di Eco, Stefano, ha chiesto di mantenere.

Uno dei caposaldi del ragionamento di Eco è la distinzione fondamentale tra “immigrazione” e “migrazione”. Nel primo caso, un gruppo di individui, seppur numerosi, ma non incidentalmente grandi rispetto al nucleo di partenza, si trasferisce da un paese ad un altro. Un fenomeno che il paese ricevente può gestire, limitandolo o incoraggiandolo, secondo le proprie esigenze politiche e culturali. E gli immigrati, comunque accolti, accettano (almeno in una grande parte) i costumi del paese ricevente.

Nella migrazione, al contrario, un intero popolo si sposta, andando ad incidere sugli usi ed i costumi della nazione ricevente. Cioè si ha “migrazione” quando i migranti trasformano la cultura del territorio in cui si spostano. Ed è questo un fenomeno incontrollabile. Abbiamo visto, nel passato lontano o recente, fenomeni di portata simile. Lo spostamento da est a ovest dei popoli caucasici, radicatisi poi tra le piane del Danubio ed il Mediterraneo basso, creando nuove aggregazioni e mutando la biologia del posto (vedi la nascita degli ungheresi e dei turchi, ad esempio). Ma anche da nord a sud, quando i “barbari” invadono l’Impero Romano e creano nuove culture. Ultima nel ricordo, poi, la migrazione europea verso il continente americano. Una migrazione a tutti gli effetti, che i bianchi “invasori” non hanno assunto la cultura dei nativi americani, ma hanno fondato una civiltà del tutto nuovo, dove anche i nativi rimasti (quelli sopravvissuti agli stermini) hanno deciso, biologicamente, di adattarsi.

Eco conclude quindi il suo ragionamento con una sentenza che riporto nella sua lucida essenzialità: “Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, ‘ colorato’. Se vi piace, sarà così, e, se non vi piace, sarà così lo stesso”.

L’altra faccia della medaglia delle migrazioni e delle immigrazioni è la tolleranza. O meglio, come si appiglia Eco, l’ospitalità. Come quella già descritta da Kant nel 1795: “Ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro”. Kant ed Eco proseguono illustrandone gli aspetti, ma a noi bastano due esempi o riflessioni per chiudere il discorso.

Il primo, come descrive il filosofo, ci viene dal dipinto di Goya poco successivo allo scritto di Kant: “Il sonno della ragione genera mostri”. Quando gli uomini non ascoltano il grido della ragione anche una migrazione pacifica può apparire, a chi ne vuole distorcere l’uso per propri fini (personali o politici) una minaccia alla sicurezza nazionale.

La seconda riflessione riguarda il fenomeno, nato in America, del “political correct”. Nato per promuovere la tolleranza diventa fondamentalismo che investe tutta la vita del cittadino, nel suo quotidiano anche, dove si discrimina chi non è “political correct”. Dove si censurano i pensieri di Aristotele, perché nell’antica Grecia c’erano gli schiavi. Ed avere uno schiavo non è corretto. E tanti altri esempi di intolleranza ognuno potrebbe farne.

Che si passa in maniera rapida (benché dolorosa) dall’integrismo all’integralismo e al fondamentalismo. Cattolici illuminati vogliono seguire la lettera del Vangelo, come ebrei il Talmud, tutto in modo “integrato”. Ma quando si passa a volerlo imporre ad altri che la pensano in modo diverso, ecco che ricadiamo nella barbaria occidentale odierna.

Chiudo lasciandovi con la riflessione finale che fa Eco, e che faccio mia. Sperando che il tutto possa portare a discussioni, anche fra di noi. Che non mi aspetto di essere da tutti condiviso. Mi aspetto solo che anche queste righe vengano lette con il giudizio della ragione.

“Capirsi fra culture diverse non significa valutare ciò cui ciascuno deve rinunciare per arrivare a essere uguali, bensì capire bene reciprocamente ciò che ci separa e accettare questa diversità.” (44)

Umberto Eco “La bellezza” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 07/02/2021 – I: 14/02/2021 – T: 14/02/2021] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 41; anno: 2005]

Con questo titolo iniziano una nuova serie di omaggi dedicati da Repubblica ad Umberto Eco, nominalmente per ricordarne i cinque anni dalla morte, fattivamente per spingere la pubblicazione, proprio nel febbraio 2021 di un libro su Umberto Eco (“La filosofia di Umberto Eco”) edito da “La nave di Teseo”. Ricordo infatti, che nel suo testamento Eco chiese di non celebrarlo per almeno cinque anni. Cioè fino a questo febbraio 2021.

Ma noi siamo tetragoni ai motivi e ci godiamo questo libricino, che in realtà è una riedizione di una riedizione. Il testo originale venne redatto nel 2005 in occasione di un convegno a “La milanesiana”, per poi essere edito in volume nel 2012 come primo testo del libro “Sulle spalle dei giganti” edito, guarda un po’ la coincidenza, da “La nave di Teseo”.

Lo sforzo apprezzabile è stato quello di inserire nel testo riferimenti iconografici puntuali al discorso del filosofo alessandrino. Cosa che veramente porta il libretto ad un grado di fruibilità certo maggiore delle analoghe (o similari) uscite degli altri libri evocativi.

Vedendo i quadri e le rappresentazioni collegate, la prima domanda che ci si pone con Eco è se si tratta di una rappresentazione di una cosa bella o di una bella rappresentazione di una cosa brutta. In tutti e due i casi, comunque, l’importante è che l’elemento discriminante è lo spettatore: il bello, anche se non sappiamo cosa sia, dipende dall’occhio che lo guarda. Così i Greci, ad esempio, fissavano i canoni della bellezza nel rispetto delle proporzioni, attraverso sezioni auree ed altre figure geometriche. Ma Eco ci dimostra come poi le proporzioni siano anch’esse volubili, e dipendano da come le interpretiamo.

Poiché poi Eco è un fine filosofo e conoscitore di filosofia, non può che far riferimento, come sentenze con cui fare un discorso, a Tommaso d’Aquino che ci dice: “Sono belle le cose che ci piace guardare” e ad Agostino che sottolinea (parlando d’altro, ma Eco lo riferisce anche al bello): “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”

Lascio a voi fini lettori percorrere le poche pagine dell’excursus che fa Eco attraverso i secoli, le mode, le differenze di interpretazione, per tornare sul concetto iniziale, che poi sarà la conclusione del suo discorso. Il bello esiste se esiste uno spettatore che guarda la scena. Noi, l’essere umano, guardiamo una scena di cui non facciamo e non vogliamo fare parte. Noi, in sala, guardiamo la scena (il “bello”) ed il boccascena (colui che sta guardando una cosa bella).

Se di certo, in finale, sono d’accordo con le sue conclusioni, mi domandavo, leggendone, cosa penso io del bello, cosa mi sembra, o mi è sembrato, bello. Ripensavo a momenti filmici, godendo della bellezza di Audrey Hepburn che canta “Moon River” alla finestra, o di Julia Roberts nel parco di Notting Hill. A momenti personali, rivedendo tutte le belle persone che ho incontrato. Il bello della musica, per esempio, in quell’indimenticabile concerto di Keith Jarrett nella piazza del Campidoglio a Roma. Ed ai tanti momenti viaggianti: l’alba nel deserto dell’Akakus in Libia, un caffè in un bar sulle rive del Mekong a Luang Prabang, un nascosto giardino zen a Tokyo, l’albero cui mi appoggiavo aspettando di entrare a Louvre, molto prima che esistessero le entrate piramidali, l’entrata a cavallo davanti al Monastero di Petra, l’uscita dalla chiesa acefala etiope per entrare, di lato, nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, la vista delle piramidi dalla piscina dell’Oberoi de Il Cairo, la leonessa ed i suoi cuccioli parco del Kalahari in Botswana, la nebbia che avvolge all’alba il Machu Picchu in Perù, la vista dall’alto delle piramidi di Tikal in Guatemala.

Avete capito, anch’io sono, come Eco, un “guardone della bellezza”.

Umberto Eco “La bruttezza” Repubblica s.p. (Omaggio di Repubblica)

[A: 07/02/2021 – I: 20/02/2021 – T: 20/02/2021] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 44; anno: 2007]

Di sicuro, un libro che va letto in sequenza con il precedente, di cui risulta un contraltare ovvio ma non scontato. Purtroppo, dovendo convenire con Eco che la grande differenza tra bellezza e bruttezza è la partecipazione personale, devo anche rilevare che questo scritto, proprio per questo motivo, mi ha soddisfatto di meno.

Eco dice, e noi con lui, che la bellezza è un elemento cui si può assistere da spettatori nel proscenio di una grande rappresentazione. Mentre la bruttezza implica un coinvolgimento più personale. È qualcosa che provoca in me disgusto, malessere, stati di alterazione poco positivi.

Nella poliedricità del pensiero di Eco c’è anche spazio per una dotta citazione de “Il capitale” di Karl Marx: il denaro, chiave di volta del capitalismo, è anche capace di cambiare i giudizi trasformando il brutto in bello (e credo che ne abbiamo esempi a iosa).

Poi si fa ancora un passo avanti: c’è distinzione tra i brutti. C’è il brutto dell’arte ed il brutto della vita. Anche qui, Eco viene sorretto dalla bella confezione del testo, mostrandoci un bel quadro di un fiore, dipinto però da una brutta persona: Adolf Hitler. Possiamo, e fino a dove, separare i due giudizi?

È sempre gradevole passeggiare nei percorsi culturali di Eco, dove, come ci insegnò nella “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, si può (si deve?) camminare tra l’alto ed il basso, che tutto ha dignità di essere, se lo si sente come veritiero (cioè espressione vera di qualcuno). Così, il brutto non può prescindere dal Cristianesimo, dove, una volta passata la sbornia giottesca di Santi e Madonne, si può passare per il bellissimo brutto di Caravaggio. Che, come ci insegna Hegel, è con il cristianesimo che il brutto entra nella storia dell’arte.

E dal brutto al mostro, o al mostruoso, il passo è breve. Quindi ci addentriamo nei sentieri della fisiognomica e delle brutture lombrosiane, senza dimenticarci come De Amicis descrive il cattivo Franti, ribadendo quel cliché di brutto come cattivo che pervade molto Ottocento. Proseguiamo poi anche nel brutto della vita, dove non ci meravigliamo di leggere descrizioni che non possono che raccapricciarci siano esse di Céline o di Giorgio Almirante.

Arriviamo in fine all’Avanguardia, che sdogana il brutto e le sue forme (quanto brutte sono le merde di Piero Manzoni?), per sfociare nel brutto artisticamente rivisitato nel Kitsch. Il Colosseo incastonato in palle di neve con la neve finta, o queste righe delle “cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria: “il caminetto un po’ tetro / le scatole senza confetti / i frutti di marmo protetti / dalle campane di vetro”.

Un elemento quasi finale della digressione di Eco viene dalla citazione di quel capolavoro di fantascienza, brevissimo, di Frederic Brown, intitolato “La sentinella”, di cui riporto un super corto riassunto in finale, dopo la mia citazione.

Il breve libretto è quindi, anche, una riflessione sull’emissione di giudizi e pregiudizi personali, che Eco ci invita a superare. Laddove la diversità dal senso comune non deve essere rifiutata come “brutto modo di vivere”, ma accettata e compresa. Una riflessione che dobbiamo sempre fare nostra mi viene quasi da dire, come accettando in modo parallelo la lezione di papa Francesco su “Fratelli tutti”. Con un “tutti” che deve essere veramente globale.

Unico punto dolente personale è il forse troppo alto tasso di citazioni che servono ad Eco per parlare di bruttezza. Avrei preferito forse una sua maggiore riflessione. Ma se poi devo ragionare anch’io, ritornando a quanto detto all’inizio, se di bellezza possiamo parlare canonicamente ed in modo distaccato, il brutto implica sempre il nostro intervento giudicante personale. Anche per questo, mentre con il bello potevo concludere citando “il mio personale bello”, non me la sento di fare altrettanto con il brutto.

“Il Kitsch può essere cose diverse. Si può parlare di Kitsch come mancanza di gusto: i nanetti da giardino, le cupole di vetro in cui cade la neve sulla Madonna di Oropa, ma anche le buone cose di pessimo gusto di Guido Gozzano.” (35)

Frederic Brown – La Sentinella: “Il protagonista è un soldato in una guerra interplanetaria contro una specie aliena e si trova su uno sperduto pianeta, a cinquantamila anni luce da casa. Sta sorvegliando la sua posizione in trincea e soffre per la lontananza, per l’ambiente ostile e per le privazioni causate dalla guerra. Ad un tratto un nemico tenta di avvicinarsi, ma lui lo vede e lo uccide. Ma nelle ultime frasi del racconto avviene il colpo di scena: mentre il soldato descrive con ripugnanza e odio l’aspetto ‘orribile’ del nemico che ha ucciso, il lettore si rende conto di star leggendo il racconto di un alieno che ha appena ucciso un essere umano”.

Aspettando di aprire nuovi capitoli di “libri felici” per ora esauriti, questa settimana non ci rimangono che alcune citazioni commentate del repertorio personale.

Per il resto, tutto bene, anche se non mancano pensieri. Però ci sono speranze per le riaperture e quindi per la possibilità di riprendere, seppur con diversi modi, ma sempre con uguale passioni, quanto si è sospeso in questo guerra.

Ma nonostante il coprifuoco, non posso fermare il pensiero che va, sempre, ai miei lettori.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di aprile

Eccoci ancora con le mie bolle di memoria, dove ci mettiamo a guardare appunti e pensieri inscatolati nel gennaio del 2007.

Leggevo del massacro armeno, al di là del pur bel film che ne fu tratto. E ricordavo queste frasi d’amore che sono sempre valide, nella sottolineatura delle scelte e della presenza. Era il libro di memorie di Antonia Arslan “La masseria delle allodole” che riportava:

“Shingagian capisce ora, fino in fondo, il mistero della forza che unisce l’uomo e la donna che si sono scelti. ‘Dove sei tu, ci sono anch’io’. Nessuno può interrompere davvero il colloquio di due sposi amanti, né sciogliere le loro viscere che si sono intrecciate”.

Era anche un periodo di riflessione sulla psicoanalisi, essendo da poco uscito dal lungo rapporto di reciproca stima e affetto con la mia mentore Luisa. Rimaneva quindi dal libro di Massimo Donà dedicato alla “Serenità” questa lunga caratterizzazione:

“Sereno è dunque chi si lascia attraversare dalle cose, dagli eventi e dalla loro eventuale carica emozionale senza rimanerne in qualche modo scioccato; chi non cerca di evitare le cose, le persone … chi non teme l’imprevisto [perché] … ne ha disattivato il potenziale eversivo. Chi accoglie qualsivoglia possibilità lasciandosi attraversare dalle emozioni da essa implicate, senza temere che esse mettano in questione la propria esistenza. Senza che quest’ultima finisca per rimanere traumatizzata … dall’eventuale violenza di un improvviso impatto con le medesime”.

Anche se ben lungi da quello che potrei pensare ora, di 13 anni più grande, leggevo del grande filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, e restavano incollate alla memoria questi due splendidi aforismi tratti da “L’arte di invecchiare”:

“Tutti vogliono vivere ma nessuno sa perché”;

“Per quanto vecchi si diventi, dentro di sé ci si sente comunque in tutto e per tutto gli stessi di un tempo, quando si era giovani, anzi bambini. Ciò che rimane immutato, e sempre identico, e non invecchia col passare degli anni, è appunto il nucleo della nostra essenza, che non sta nel tempo, e proprio per questo è indistruttibile”.

E ne sono ancora convinto, che il nucleo centrale, il nostro nucleo centrale, non è legato al tempo.

Erano anche tempi di scoperte di autori allora a me poco noti. Un sardo che avrei imparato ad apprezzare, Sergio Atzeni che parlava intorno al sentimento di appartenenza in “I sogni della città bianca:

“Ognuno prima o poi deve tornare alla sua casa. Altrimenti finisce di essere qualcuno e diventa nessuno. Un uomo fuori dalla sua terra è come un cavallo senza testa…”

Ed una giovane che invece non è più entrate nelle mie letture. Giulia Carcasi nel suo “Ma le stelle quante sono” faceva questo invito che sottoscrivo certamente:

“Ricomincia ad ascoltarti ed avrai le tue risposte“.

Si passò poi ad un febbraio più pensoso, con un libro sul mito di Elena che tuttora consiglio a chi ne fosse incuriosito. Compendiato da tre grandi autori Euripide, Hofmannsthal ed il greco Ritsos, il saggio “Elena. Variazioni sul mito” conteneva queste due perle:

“Quando si è in due non può essere felice l’uno ed infelice l’altro”

e

“I corpi non hanno il dono dell’ubiquità, i nomi sì”.

Perché è con i nomi che ci riconosciamo e ci teniamo in reciproco contatto.

Pensoso anche perché lessi un bellissimo libro dello svizzero Friedrich Dürrenmatt che in “Greco cerca greca” anche lui invitava all’amore:

“Il mondo è spaventoso e privo di senso. La speranza che ci sia un senso dietro questo assurdo … possono mantenerla solo coloro che nonostante tutto amano”

Infine, in quell’anno uscì anche un libro del cantante Luciano Ligabue, forse un po’ involuto e non sempre riuscito. Una storia fantastica (se volete ve ne parlo) intitolata ”La neve se ne frega”, dove, sempre in tema d’amore, c’è questa sentita dichiarazione dei sentimenti:

“Sei sempre stata bellissima. Anche quando eri così brutta”

Confesso, che è una frase che non direi, né penserei mai per la mia amata, che non mi interessa che sia, in assoluto, bella o brutta per qualche criterio canonico. So che però è la persona che amo, comunque.


domenica 11 aprile 2021

Avventura Mix - 11 aprile 2021

Avrei voluto dedicare tutta la trama di oggi ad un solo autore di avventure, ma ho terminato tutti i libri già usciti di Wilbur Smith (e leggete la bella intervista su Robinson di questa settimana). Quindi ci aggiungo un lontanissimo (e poco riuscito) Cussler per chiudere le trame odierne. Sarà che questi autori sono diventati un po’ ripetitivi nei loro temi, ma i romanzi di oggi vanno dal poco riuscito ma discreto sino all’inutile. Speriamo sempre che il futuro ci riservi sorprese migliori.

Clive Cussler & Thomas Perry “L’enigma dei Maya” TEA euro 9,90

[A: 28/05/2018 – I: 21/08/2020 – T: 23/08/2020] - &&  

[tit. or.: The Mayan Secrets; ling. or.: inglese; pagine: 331; anno 2013]

FARGO05

Mi sembra quasi superfluo rilevare come le storie dei coniugi Fargo si collochino in basso del mio gradimento verso Cussler, che, per le altre serial story rimane immutato ed alto. Secondo libro letto dopo la morte di Clive, ed anche questo come vedete in alto, dispiace per il poco coinvolgimento intellettuale ed emotivo che mi ha recato.

Come rilevato nella precedente puntata, Cussler ingaggia Perry per risollevare le sorti della serie. E con Perry torna alla riproposizione di elementi storici che vengono da lontano e che danno un certo senso alla vicenda. Tuttavia, pur essendo uno spunto interessante, non riesce a dare una svolta al romanzo, che rimane sull’onda di lotte, inseguimenti, sparatorie e poco altro.

Intanto, facciamo un passo indietro, verso il titolo. Ora, per tutta la vicenda, seppur in modo trasversale e mai diretto, si parla dei Maya e delle cose da loro fatte e rimaste incomprensibili: scritture non tutte decifrate, testi astronomici e matematici all’avanguardia. I Maya hanno ancora tanti segreti che dobbiamo scoprire. Così come sottolinea Cussler. Non certo “un” enigma da rivelare, come farebbe intendere il titolo italiano.

Proprio dai Maya la vicenda comincia, ricordandoci l’interessante figura di Bartolomé de Las Casas, prima soldato sbarcato alla conquista delle Indie di Colombo, poi frate domenicano che spese tutta la vita a difendere gli indios dalle angherie spagnole. Certo, era prete e missionario, e stava in America Centrale per convertire i pagani (anche). Ma mai con la forza, e sempre rispettando la dignità di quelli che all’epoca erano considerati “selvaggi”.

La figura di Bartolomé serve agli autori per introdurre un codice Maya, salvato dalla distruzione spagnolo a Rabinal nel 1537 (fatto storico) da un indio che lo porta a nasconderlo nei dintorni del vulcano Tacanà, sempre in Guatemala, ma vicino al Chiapas. Piccolo inciso di rimembranza, sono sempre e per vari motivi legato al Chiapas, la cui capitale si chiama San Cristobal de Las Casas, indovinate perché.

Da qui intervengono i coniugi Fargo. Sono nella Baja California a studiare squali, sentono di un terremoto a Tacanà, e si precipitano. Lì, fortuitamente, scoprono il nascondiglio dell’indio di cui sopra, e tanti reperti archeologici. Qualcuno tenta di rubarli, ed i nostri, con abili mosse, li trafugano, portandoli nella loro casa a La Jolla in California. Insieme ad un docente dell’Università cominciano a decifrare il codice, ma vengono presto interrotti dal cattivo, anzi dalla cattiva di turno. Sarah Allesby, predatrice di tesori in giro per tutta la terra, nonché stanziatasi in Guatemala, dove offre parte delle sue terre ai signori della droga.

Purtroppo, da qui in avanti la maggior parte della trama si risolve nei tentativi di Sarah e dei suoi scagnozzi di fermare, depistare nonché cercare di uccidere i nostri bravi Sam e Remi. Utilizzando in particolare due “bravi” manzoniani, che tuttavia fanno più che altro la figura degli Gianni e Pinotto del crimine. Finendo spesso nel ridicolo. Ma soprattutto, dopo che hanno prima messo in ridicolo Sarah, poi messa in difficoltà, poi fatti uccidere dalle forze del bene un centinaio di scherani del signore della droga, finendo in modo poco dignitoso nel “chunnel”.

È abbastanza scontato che i Fargo ed i loro amici avranno la meglio, ma l’escamotage di Cussler questa volta è deboluccio. Perché l’asso della manica dei Fargo è il ritrovamento, tra le carte del lascito di Bartolomé al convento di San Gregorio in Valladolid, della copia del libro Maya, dove i nostri riusciranno a decifrare alcuni importanti e sino ad ora non conosciuti siti Maya. Ora, è praticamente impossibile che nessuno, in 450 anni, non abbia compulsato le carte del nostro pur bravo domenicano.

Quindi, storia poco credibile, scene di lotta e di morte un po’ “a muzzo”. Riamane al solito qualche brandello di memoria: la calata nel cenote, che mi ricorda il mio primo viaggio in Messico ed il bagno che vi feci (cosa che ora, sapendone la pericolosità eviterei); i passaggi nel Chiapas (paese del cuore) ma anche il Guatemala di Coban e dello stato di Verapaz (che esiste veramente, proprio con capoluogo il sito stupendo); ma anche il ricordo di Livingston e del passaggio tra Belize e Guatemala, che non feci, ma che lo scorso anno vidi da vicino con un gruppo di bravissimi viaggiatori.

Alla fine, un cenno di ricordo al sempre amato Clive, ed una speranza che le altre serie siano più all’altezza delle mie aspettative.

Wilbur Smith “La volpe dorata” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,45 euro)

[A: 25/08/2018 – I: 25/08/2020 – T: 27/08/2020] - & e ½  

[tit. or.: Golden Fox; ling. or.: inglese; pagine: 417; anno 1990]

(periodo: 1969 - 1977) (COURTNEY 18)

Devo dire, dopo aver letto decine di libri di Smith, che questo l’ho trovato uno dei peggio riusciti. E per fortuna che ne leggo solo in quanto filone cronologico della storia, perché se lo avessi letto all’epoca della scrittura, avrei preso tutta la “smithografia” e l’avrei cestinata.

Ora, non è che non sia vero che i Servizi Segreti intervengono nella storia di molti paesi del mondo. Lo hanno fatto e lo fanno tuttora. Ma dipingere come “cattivi” solo il KGB russo, ed in corollario, tutti quelli dei paesi comunisti (o che almeno lo erano all’epoca della scrittura) mi sembra una forzatura non da poco.

Smith cerca di dipingere il mondo australe africano come si stava sviluppando negli anni Settanta, ma con molto occhio a quanto sta accadendo, soprattutto in Sud Africa, al momento della scrittura del romanzo. Smith, infatti, scrive il testo nel 1990, anno in cui, l’11 febbraio, dopo 27 anni di carcere, viene fatto uscire di prigione Nelson Mandela, e si avvia il processo di liberazione del Sud Africa dalle morse dell’Apartheid.

Certo, il testo si colloca subito dopo il precedente, sia per il tempo della scrittura che per il tempo dell’azione. C’è ancora lo Smith sequenziale, che, dopo un po’di cartucce in giro per la sua Africa amata, si fissa sulla saga dei Courtney, quella del ramo “Waite”. Così, anche qui, ritroviamo la capostipite, Centaine detta Nana, il figlio da lui avuto con Michael durante la prima guerra mondiale, Shasa, ed i suoi quattro figli: Sean, il maggiore, ormai stabilmente dedicatosi alla caccia e stabilitosi in Rhodesia, Garry, il secondogenito, destinato a prendere il posto del padre nell’impero della famiglia, Michael, il giovane, che sapevamo già propenso ad aiutare i neri, e qui sempre più coinvolto (anche se il fatto che sia gay credo sia una caduta dello stile Smith, non per il fatto in sé, ma per il modo) e Isabella, detta Bella, che diventa il fulcro della narrazione, e vedremo perché e come. Ci sono poi tutti i personaggi sopravvissuti ai disastri dell’ultimo libro. La moglie di Shasa, Tara, ormai stabilmente a Londra ed in sostegno alla lotta armata dei neri, anche con Ben, il figlio avuto da Moses. Il ribelle nero Raileigh Tabaka che non riesce ad assurgere al ruolo di vero protagonista.

Il protagonista, come dal titolo, è Ramon de Santiago y Machada. Di antiche origini spagnole, è in realtà cubano e soprattutto membro di spicco del KGB. È lui che ordisce tutta la trama che risulta essere la spina dorsale del libro. Irretisce Bella facendola innamorare, la metta incinta, poi le sottrae il figlio Nicholas Miguel Ramon de Santiago y Machada Courtney e con il ricatto di fargli del male, costringe Bella a diventare un agente dei Servizi Segreti russi.

Non vi sto a tediare su come Bella faccia carriera politica, ma le sue delazioni servono a fermare la corsa alla bomba atomica del Sud Africa, ad alcune avventure collaterali, sino al fermo e probabilmente alla distruzione della produzione di un surrogato di gas nervino. Ora, le cose che Bella ferma sono giustamente bloccate (tant’è che, libero Mandela, il Sud Africa aderisce al bando delle armi di distruzione di massa), ma il modo in cui Smith presenta le azioni di Bella fanno risaltare la cattiveria di Ramon (giusto, è un cattivo e dovrà finir male), la mal riposta infatuazione di Michael, lo stesso agire sconsiderato dei russi in Etiopia (per cacciare e/o uccidere Hailé Selassié, e poi avere decenni di Terrore Rosso con Menghistu) o dei cubani in Angola (con l’appoggio ad Agostino Neto ed altre rappresentazioni storiche che se fossi stato Smith avrei evitato di rappresentare, come le scene ed i piani militari che vengono discussi tra Ramon e  … Fidel Castro; da evitare).

Per inciso, Shasa trova anche il modo di innamorarsi dell’italo-svizzera Elsa Pignatelli.

La rete di Ramon intorno a Bella crollerà solo quando, anche se fortuitamente, la famiglia Courtney verrà coinvolta nell’affare.

Tutta la famiglia, in un finale convulso, partecipa alla liberazione del piccolo Nicky, al tentativo (vedrete voi se di successo) di fermare Ramon ed i suoi. Tra l’altro, con l’aiuto di militari quasi regolari rodesiani, comandati da Ronald Ballantyne (ecco un altro spunto per riunire le due saghe). Comunque, dopo pagine e pagine di “finta” spy story alla Le Carré, troppo veloce si avvia alla conclusione, lasciando sul terreno alcune domande che si spera saranno risolte in altri libri.

Chi e quanti saranno i morti alla fine delle avventure della “Volpe Dorata”? Anche perché il diciannovesimo libro dei Courtney è uscito l’anno prima di questo, e penso difficilmente potrà contenere elementi di chiarimento. Forse solo il libro uscito quest’anno in Inghilterra, che dovrebbe basarsi sulle avventure di Jack Courtney potrà darci lumi. Perché Jack, se capisco dalle parole di Smith, dovrebbe essere il figlio di Nicky.

Comunque, quando parla di politica attuale, anche se lo ha fatto trenta anni fa, è meglio che Smith adotti un basso profilo. E forse è meglio torni alla caccia grossa, che quando descrive di Sean in Rhodesia è molto più coinvolgente di tutto il resto del libro.

Wilbur Smith “L’ultima preda” Longanesi s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 19/03/2018 – I: 31/08/2020 – T: 02/09/2020] - &&  

[tit. or.: A Time to Die; ling. or.: inglese; pagine: 516; anno 1989]

(periodo: 1987) (COURTNEY 19)

Cronologicamente nel senso della storia, questo è l’ultimo volume della saga dei Courtney, essendo invece il settimo dei diciannove scritti per la serie completa. E sono elementi che si sentono pesantemente, tanto che lo scritto si risolleva per la prima metà, dove si parla di caccia e di Africa, mentre cade vertiginosamente nella seconda metà, quando entra a parlare della Guerra Civile del Mozambico, e dei riflessi nella regione.

Come speravo alla fine della trama precedente, questo libro anteriormente scritto, ha una lunga parte dedicata alla caccia grossa. Della grande stirpe dei Courtney, coinvolta in disastri nella fine del libro incentrato sulla “volpe dorata”, veniamo a sapere solo che ci ha lasciato, nel 1979, Centaine. Mentre, con vari titoli, sono ancora in giro Garrick con la moglie Holly diventato il capo dell’impero, Isabella, ritiratasi a vivere con il figlio Nicky, il grande vecchio Shasa, nonché, visto che ne è il principale protagonista, Sean. Compare in un cameo finale il “cuginastro” Lothar, ed in un inciso sappiamo che il colonello Roland Ballantyne è morto pure lui.

Ma qui, ci dedichiamo a Sean Courtney. Sappiamo che la famiglia gli ha regalato una bella riserva in Rhodesia, già dai tempi di Ian Smith. E sappiamo anche che Sean aveva combattuto con le milizie rhodesiane, contro sia i guerriglieri interni, che quelli dei paesi limitrofi (soprattutto Mozambico e Angola). Ora il paese è suddiviso in Zambia e Zimbabwe, ma noi non ci facciamo confondere da tutto ciò.

Perché la prima parte è ben fatta, e come dice Smith, parla delle cose che lui ben conosce: le grandi distese africane, gli animali, la caccia. Sean lavoro per i ricchi cacciatori, ed ora sta facendo da balia ad un italo sudamericano, Ricardo Monterro, accompagnato dalla figlia Claudia. Già dall’inizio immaginiamo un happy end tra Sean e Claudia, ma molta acqua dovrà passare sotto i ponti. Intanto, Ricardo è malato terminale, e questa è in ogni caso la sua ultima caccia. Per cui vuole uccidere un leone ed il grande elefante delle riserve, il vecchio Tukutela, che secondo quanto ci dice Smith, dovrebbe avere 74 anni più o meno. Seguiamo la caccia al leone, e, a parte le descrizioni cruente, può andare. Ma l’elefante fugge in Mozambico, e per accontentare i suoi fornitori di dollari, Sean decide inopinatamente di addentrarsi nel territorio ex-portoghese. Molto scriteriato, che il Mozambico, benché formalmente pacificato, è ancora scosso dalla guerra civile tra i governativi del FRELIMO (Frente de Libertação de Moçambique) ed i contro governativi del RENAMO (Resistência Nacional Moçambicana). I primi di ispirazione marxista e sovietica, i secondi conservatori. Non ci sorprende che Sean dopo la fine della caccia all’elefante con morte conseguente di Tukutela e di Ricardo, venga catturato dal RENAMO del suo acerrimo nemico soprannominato “el Chino”. Che ovviamente userà Claudia come elemento per costringere Sean a lavorare per lui. Così che in una serie di azioni che sono la parte più pallosa del libro, Sean deve fronteggiare gli attacchi del FERLIMO con elicotteri usati dai russi in Afghanistan, andare in Zimbabwe a rubare al governo locale i missili “Stinger”, armamenti americani unici a poter fermare gli elicotteri.

Ovvio che el Chino alzerà ogni volta la posta, che Sean e Claudia cercheranno ogni volta di farvi fronte, fino alla battaglia finale, di cui non posso svelare l’esito scontato.

Anche perché, ad ora, questo è l’ultimo libro, dove la saga iniziata nel 1565 con sir Charles Courtney, si ferma, ora che siamo nel 1987.

Ripeto, quando Smith parla di politica attuale non è che siamo molto efficace, anche perché pur cercando di presentare i punti di vista di tutte le fazioni, ha comunque una piccola riserva in favore dei bianchi, che sono sì cattivi, ma qualcuno si salva. Mentre dei “coloured” nessuna ha una valenza positiva.

Anche dal punto di vista dei personaggi, seppur abbiamo seguito e con interesse quelli che di volta in volta, nella grande famiglia Courtney impersonavano elementi positivi, Smith non smentisce la sua scrittura un po’ manichea. Tendenzialmente misogina, dove forse solo Centaine de Thiry e Saffron Courtney sembrano avere caratteri positivi, mentre in genere sono i maschi ad avere preponderanza. Anche se solo i maschi “alfa”, quelli che attirano su di sé tutte le voglie. Mentre i gay, pur presenti, sono sempre un po’ bistrattati: come Jordan Ballantyne, che si suicida, o Michael Courtney, terrorista dalla parte sbagliata. E per finire, il lato politico delle storie scritte negli anni ’80 è ancora troppo vicino agli avvenimenti per avere un occhio più disteso, come da prima frase riportata. Occhio che avrà più agio di distendersi nelle storie post Duemila.

Prima di lasciarvi, un ricordo personale, che Sean e Claudia attraversano i confini verso il Mozambico intorno al fiume Limpopo. E ben ricordo una delle mie più belle “gite” australi, proprio dal Kruger a Maputo guadando selvaggiamente il fiume. Ricordo bellissimo.

Ora aspettiamo solo l’ultimo capitolo dei Ballantyne, e magari qualche nuovo episodio del “vecchio” Smith.

“Oltre quel confine si trovano quindici anni di marxismo, corruzione, avidità e incompetenza.” (33)

“L’ultimo fiume era il Limpopo, il ‘gran grigioverde oleoso’ di Rudyard Kipling, tutto costellato di eucalipti.” (444)

Wilbur Smith “La notte del leopardo” TEA euro 6,90

[A: 01/11/2018 – I: 02/04/2021 – T: 04/04/2021] - && e ½

[tit. or.: The Leopard Hunts in the Darkness; ling. or.: inglese; pagine: 465; anno 1984]

(periodo: anni ‘80) (BALLANTYNE 08)

Ultimo (finalmente) dei “vecchi” scritti di Wilbur Smith che chiude (almeno parzialmente) i cicli storici iniziati dall’anziano autore. Ora escono altre avventure, che si incastreranno qua e là, nelle storie dei Courtney e dei Ballantyne, ma i romanzi “classici” con questo sono terminati.

Sicuramente il libro risente dei quasi quaranta anni dalla scrittura e, come ho scritto altrove, dal fatto che Smith parla di avvenimenti praticamente contemporanei alla scrittura, motivo per cui è da una parte coinvolto anche personalmente (o almeno emozionalmente) dall’altra non ha ancora una prospettiva storica per interpretare le trame politiche del nascente Zimbabwe.

Anche la scrittura è datata, si perdono un po’ le descrizioni “africane” che tanto avevano avuto successo nei suoi primi libri. Certo, rimane l’immagine iniziale degli elefanti, qualche leopardo e qualche iena, ed un po’ dei modi di vita dei locali. C’è anche del sesso, come era nelle prime scritture, ma anche qui molto lieve, molto di passaggio. Ma tutto è molto datato, ed anche poco consequenziale, come gli ultimi libri del grande ex-rhodesiano ci hanno abituato.

Tra l’altro, il protagonista principale è sì della stirpe dei Ballantyne, ma di lontana generazione, anche se era il protagonista della seconda parte del libro “Gli angeli piangono”. Stiamo infatti parlando di Craig Mellow, bis nipote dell’ultimo Ballantyne noto, cioè Jonathan “Bawu” Ballantyne. Cioè, per la precisione, una delle tre moglie di Bawu dà alla luce due figli: Douglas e Jean. Il primo sposa Valerie da cui nasce Douglas che muore ne “Gli angeli piangono”. Jean invece sposa un tal Mellow (forse discendente alla lontana dei Codrington che nell’Ottocento intrecciarono i loro destini con i Ballantyne) e dalla loro unione nasce Craig (quello che qui seguiamo). Craig che avevamo lasciato in partenza per New York, a seguire la sua carriera di scrittore insieme alla bella Janine.

Ora lo ritroviamo ancora a New York, caduto nella spirale alcolica, senza prospettive per altri libri, irretito da lusinghe editoriali della World Bank, bistrattato dal suo editor, incuriosito dalla figura della fotografa Sally-Anne (essendo Janine volata ad altri lidi).

Tutto congiura a che Craig torni nello Zimbabwe, dove trova la situazione politica che noi, a quarant’anni di distanza, ben conosciamo. Cacciata dei bianchi, razzismo alla rovescia, atteggiamenti tipici degli arrivisti (neri, bianchi o di qualsiasi colore), ingerenze delle potenze straniere (lì molta Russia e un po’ di CIA, ora tanta, tantissima Cina), insomma il solito circo africano, senza neanche troppe “invenzioni”.

Craig ritrova Tungata, suo sodale di razza matabele, ma non riescono ad intrecciare subito le vecchie sinergie. Viene invece irretito da Peter Fungabera, aitante ministro di razza mashona, che lo coinvolge in alcune sue idee di modernizzazione del territorio. Craig ci casca mani e piedi, anche se noi già pensiamo che ‘sto Peter mica ci convince tanto. Craig va su e giù per le terre dei suoi avi, con la bella Sally-Anne che fa delle foto da favola. Ma anche qui, il gioco è scoperto: quanto ci metteranno per andare a letto insieme?

Craig ricompra le terre del nonno, ipotizza di lanciare turismo dei parchi (cosa che ancor oggi vediamo stentare; se volete vi parlo della mia ultima visita in Botswana), ed insieme alla sua bella cerca di mettere fine al bracconaggio verso i rinoceronti. Ovvio che cada nella trappola di Peter, accusi e faccia condannare Tungata, con tutto quello che ne consegue.

Assistiamo allora al solito carosello di facili conseguenze che ci aspettiamo dal classico Smith: Craig e Sally-Anne capiscono di aver toppato, cercano, con l’aiuto di Sally, la donna di Tungata di metterci una pezza, Peter se ne accorge, dichiara Craig nemico del popolo, gli requisisce terre e soldi, cerca anche di uccidere lui e Sally-Anne. Anche perché Peter, sobillato dai russi, cerca anche di ritrovare il famoso tesoro di Lobengula Khumalo, il secondo ed ultimo re dei Metabele. Vi posso facilmente risparmiare le vicissitudini avventurose un po’ alla Cussler più che alla Smith che vedono protagonisti Craig, Sally-Anne, Sarah e Tungata (per chi lo avesse scordato, ricordo di passaggio che il suo vero nome era Samuel Khumalo, fate voi i collegamenti) e che li porteranno a sfuggire ad ogni trappola, a ribellarsi a Peter, a trovare il modo di metterlo fuori causa, nonché a trovare il tesoro dei matabele, con tutto quello che ne consegue, in termini personali e di “happy end”.

Finirei soltanto rimarcando, appunto, che la troppa vicinanza con gli avvenimenti lascia l’occhio di Smith poco distante e poco “neutrale”. Non dico che bisognava prendere le parti di Robert Mugabe, il dittatore rosso dello Zimbabwe che, in varie forme, tenne il potere dal 1980 al 2017, ma di certo neanche dargli addosso (almeno in alcune attività iniziali). Certo, Mugabe e la sua 5^ Brigata (che nel libro diventa 3^) furono colpevoli dell’eccidio di almeno 20.000 matabele. Certo, Mugabe era (e venne dimostrato esserlo) corrotto. Ma dare senza mezzi termini tutte le colpe al KGB (come fa qui Smith) senza tener conto anche del ruolo della CIA, mi sembra un po’ troppo facilone.

Comunque, con questo ed il precedente siamo arrivati agli anni ’90 dello scorso secolo, sia per i Courtney che per i Ballantyne. La scrittura di questi libri è molto datata, e io sento la mancanza delle “grandi colline d’Africa”. Non so se quelli che stanno uscendo (e ne parlerò a tempo debito) riescono a rinverdire i fasti dell’inizio, ma spero che almeno siano emozionalmente migliori. Vedremo.

Seconda trama del mese, che, in tema con i sentimenti del periodo, è dedicata alla vecchiaia.

Visto che in molte uscite del periodo la poesia è in prima linea, anche se non spesso nelle mie corde, vi dedico comunque un breve versoi di Alda Merini tratto dal bellissimo "Sono nata il ventuno a primavera": "nuvole di pianto sono le mie parole / un brivido di canto il silenzio del tuo respiro".

È comunque un periodo arduo, tanto si accavalla, di attività e di impegni da risolvere, che non staremo qui ad elencare, ma che ci ricorderemo insieme più in là. Penso solo che tutti riescano a fare i vaccini, come sperato. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2021

Beh, non sarà mai una malattia, ma di certo è una condizione cui tutti (spero) arriveremo in forma, e che dovremmo affrontare. Come?

VECCHIAIA, ORRORE DELLA

Jane Gardam            “Figlio dell’impero britannico”

Marco Malvaldi         “La briscola in cinque”

«La vecchiaia ha i suoi lati positivi che, per quanto differenti, non sono inferiori ai piaceri della gioventù». Così disse il vecchio saggio Somerset Maugham, che gradì tanto l’ultimo periodo della sua vita da superare i novant’anni. La maggior parte di noi non riesce a vederli, questi lati positivi, e alcuni addirittura arrivano ad auspicare una via di uscita alla James Dean, vivere veloce-mente e smettere quando si può ancora «lasciare un bel cadavere» come dice il personaggio di Nick Romano in “Le lacrime della città” di Willard Motley (ne è stato tratto anche un film con Humphrey Bogart). La stragrande maggioranza di noi lascerà arrivare la vecchiaia; essere vivi, anche se deboli, inaciditi e scorbutici è meglio, in generale, che essere morti. Per aiutarvi ad accogliere il vostro canto del cigno in un modo più positivo, vi prescriviamo due romanzi per dimostrarvi che avere settant’anni non significa ancora essere finiti.

Il giudice Feathers, protagonista di “Figlio dell'impero britannico” di Jane Gardam è un uomo estremamente dignitoso e ancora straordinariamente bello, con una forte presenza. È anche molto pulito - quasi vanitoso. Le sue scarpe splendono «come castagne d’india», i suoi vestiti sono eleganti com’erano negli anni Venti, completi di fazzoletto di seta nel taschino e calzini gialli acquistati da Harrods. Non vi è alcun odore di vecchiaia nella sua casa - è ricco, e un tempo aveva dei domestici, eredità degli anni di servizio in Oriente, che si «occupavano» di lui. Non è per mancanza di igiene personale o domestica, quindi, che da parecchi anni viene soprannominato «vecchia schifezza»; è un nomignolo che si è dato da solo, perché «dopo aver fallito a Londra, ci aveva provato con Hong Kong».

Lui e la moglie Betty, in realtà, a Hong Kong avevano avuto un successo strabiliante, e tutti davano per scontato che ci sarebbero rimasti. Ma qualunque ipotesi formulata su Feathers tende a non cogliere nel segno. Nella sua vita, infatti, ci sono dei segreti alimentati da traumi del passato, e il giudice è in realtà un uomo completamente diverso da quello che sembra. Sotto la superficie, scopriamo un caleidoscopio di progetti di viaggi, miriadi di persone da visitare, sogni di incontri riparatori - e lui è uno più che capace di realizzare tutto questo. (Soprattutto di lasciarsi alle spalle un bel cadavere).

Pensatela così: quando sarete vecchi, non dovrete più farvi ostacolare dalla facciata professionale degli anni della maturità. Potrete fare uscire il giudice Feathers che avete dentro - sperando, tuttavia, che il vostro guidi un po’ meglio.

Non si deve comunque mai dimenticare che la migliore ricetta è vivere ogni età della propria vita con ironia. Un buon esempio lo danno i vecchietti del BarLume. Abitano a Pineta, nella provincia di Livorno, davanti al Mar Tirreno. Tutti i giorni, alla stessa ora, calano dalle loro case come uno stormo di uccelli che molto hanno volato, si siedono al solito tavolino e da lì cominciano a cicalare nei loro discorsi tutta la vita che non potranno più vivere.

Del resto, quando hai ottant’anni ed è agosto «l’unica cosa che puoi fare è andare al bar» a giocare a briscola in cinque o a spiare la scollatura di una ragazza. Ma può anche capitare che le loro chiacchiere servano a qualcosa, perché non si smette mai di essere utili. Per esempio, a sgomitolare l’affaraccio di un omicidio costringendo i pensieri a viaggiare alla velocità giusta. La verità è che da seduti si guarda meglio. E la loro banda lo sa. Hanno nomi d’altri tempi: Aldo, Pilade, Ampelio, Gino. Sono i più anziani e irregolari investigatori che si siano mai visti da queste parti. In una strana forma, comica e leggera, oppongono la loro sfrontata resistenza a un mondo che non la finisce di offendere e di devastare la memoria di tutto.

Bugiardino

Jane Gardam ce l’ho e prima o poi lo leggerò, ed allora ne riparleremo. Malvaldi, invece, è presente con tutti i suoi scritti nella mia biblioteca, e questo citato è il primo che ne lessi, che mi fulminò d’amore immediato. Certo, ne parlai tredici anni fa, in un tempo in cui le mie trame erano molto stringate. Chissà se meglio ora o allora?

[tit. or.: Gone with the Wind; ling. or.: inglese; pagine: 1104; anno 1936]

Marco Malvaldi “La briscola in cinque” Sellerio euro 10

[tramato il 23 dicembre 2007]

Opera prima del ricercatore pisano. E come tutte le prime piena di elementi positivi e interessanti. Vedremo la seconda. Per ora mi godo l'aria della Pineta versiliana, il BarLume che offre caffè artigianale di Seravezza. Ed un mistero che si dipana proprio quando sembra arrivato ad un punto morto. Da un cassonetto dell'immondizia in un parcheggio periferico, sporge il cadavere di una ragazza giovanissima. Siamo in un paese della costa intorno a Livorno "diventato località balneare di moda a tutti gli effetti, e quindi la Pro Loco sta inesorabilmente estinguendo le categorie dei vecchietti rivoltandogli contro l'architettura del paese: dove c'era il bar con le bocce hanno messo un discopub all'aperto, in pineta al posto del parco giochi per i nipoti si è materializzata una palestra da body-building all'aperto, e non si trova più una panchina, solo rastrelliere per le moto". L'omicidio ha l'ovvio aspetto di un brutto affare tra droga e sesso, anche a causa della licenziosa condotta che teneva la vittima, viziata figlia di buona famiglia. E i sospetti cadono su due amici della ragazzina nel giro delle discoteche. Ma caso vuole che, per amor di maldicenza e per ammazzare il tempo, sul delitto cominci a chiacchierare, discutere, contendere, litigare e infine indagare il gruppo dei vecchietti del BarLume e il suo barista. In realtà è quest'ultimo il vero svogliato investigatore. E sotto all’intrigo giallo, la vita di una provincia ricca che sopravvive testarda alla devastazione del consumismo turistico. Per l'estate al Forte.

Conclusioni

Intanto, visto che avevo scritto “vedremo la seconda (per Malvaldi)”, devo dire che l’ho vista, mi è piaciuta e continuo a leggerne. Forse non sono solo questi gli orrori della vecchiaia, che, e parlo soprattutto per Malvaldi, più che di orrori parlerei di consolazioni. Per gli orrori, avrei citato qualcosa che descrivesse malattie e stati d’animo “tristi”, che so, tanto per fare un nome, “Una cosa da nulla” di Mark Haddon.