domenica 23 febbraio 2014

Assaggi di Scozia - 23 febbraio 2014

E già, visto che Edinburgh pian pianino si avvicina, ecco che ci immergiamo nuovamente nelle atmosfere scozzesi di Ian Rankin e del suo detective John Rebus. Come già altrove scrissi, una bella epopea, che, insieme alle atmosfere soft di McCall Smith, mi ha dato un senso di quello che spero troverò. Qui abbiamo poi ben tre storie di Rebus, che fino a poco fa dovevano essere le ultime, anche se ho letto che lo scrittore scozzese vuole riprendere in mano l’ispettore (o forse l’ha già fatto). In coda torniamo ad altri luoghi a me cari, con un romanzo d’ambiente portoghese, d’interesse anche perché non si svolge a Lisbona.
Ian Rankin “Indagini incrociate” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 28/04/2012– I: 05/09/2013 – T: 09/09/2013] - &&&& e ½
[tit. or.: Fleshmarket Close; ling. or.: inglese; pagine: 467; anno 2004]
Ritorna l’amato John Rebus con il sergente Siobhan Clarke di rinforzo e tutta l’Edimburgo che ci aspettiamo in sottofondo. Siamo al 15° libro dedicato al dolente poliziotto scozzese, sui 18 che in totale gli sono stati dedicati. Rimarchiamo anche che di questi solo 13 sono stati pubblicati in italiano. E visto che stiamo parlando di scrittura seriale, veniamo subito alle notizie positive. Rankin, come non molti autori, riesce a progredire nelle storie senza farci rimpiangere di non aver letto i libri precedenti. Non ci sono rimandi incomprensibili, anzi, con facilità riusciamo ben presto a farci un’idea del nostro ispettore. Divorziato, con figlia grande, lontana e non presente, molto dedito alle passioni scozzesi: birra e whiskey, tanto che a volte a me da un po’ fastidio l’abuso che ne fa. Anche se non cade più (almeno in questo libro) in trance alcooliche. Fa squadra con il sergente Clarke, con la quale sono più che compagni, amici, e forse (se non ci fosse qualche anno di troppo di differenza) anche qualcosa in più. C’è sempre tra loro una quasi tensione sessuale. Tanto che, da veri amici, sono contenti e gelosi se frequentano altro. Come l’ispettore Les Young per la Clarke o come Caro Quinn per John. Altro elemento che ho trovato molto positivo è l’attualizzazione delle storie. Non più soltanto gialli di ambiente, ma ambienti veri, reali (grande si sente ancora la lezione dei maestri svedesi degli anni sessanta), che ci portano nel presente e nelle sue contraddizioni. Non a caso parliamo di un libro che ha meno di dieci anni, quindi direi quasi contemporaneo. E ci si sente tutta l’attualità: la crisi economica, il cercare mille mestieri per sbarcare il lunario, il degrado delle periferie, i violenti e femminicidi presenti in tutte le latitudini,  i rigurgiti neo qualcosa dei razzisti di tutte le risme. Ma anche e soprattutto, il problema dell’immigrazione, sia quella legale che quella clandestina. La Scozia dei primi anni del secolo come l’Italia degli ultimi venti anni. Veniamo quindi allo scenario intricato che ci presenta Rankin. Intanto i tagli all’economia stanno smembrando le varie forze di polizia per cui Shiv e John si trovano sbattuti in stazioni periferiche e divisi come squadra. Nel quartiere di Knoxland (uno tra i più degradati di Edimburgo) viene ucciso un immigrato clandestino (e se ne occupa John) e vicino, al Fleshmarket Close vengono ritrovati due scheletri (e se ne occupa Shiv, che cerca di aiutare anche il ritrovamento della scomparsa Isabel, sorella di una donna sucida dopo lo stupro presente in molti libri fa). Sono queste le indagini incrociate del titolo, che però si incentra appunto sul luogo perno della vicenda, il Fleshmarket del titolo inglese. Ma più che il giallo in sé, che questa volta ha veramente un tono minore, è tutto il contesto, la vita, come direbbe Camilleri, che esce dalle pagine a fare da padrone. E benché le indagini si incrocino, non avranno una soluzione univoca, anche se John e Shiv si aiuteranno a vicenda, fino a terminare con una solenne bevuta a casa di John, preludio di qualche altra cosa, che però qui ancora non avviene. Sul fronte dei clandestini, c’è la parte migliore, dal punto di vista umano. La descrizione dei Centri di Accoglienza, terribili ovunque. La “cattiveria”, anche gratuita di chi ha il potere. L’inerme lotta degli immigrati, regolari e non, che non trovano protezione da nessuno. Si apre un dibattito che anche qui in Italia non è facile da portare avanti: che fare con il clandestino che fugge da situazioni di pericolo in casa propria? Come distinguere la fuga dall’asilo politico? Il morto di John si scopre essere un curdo, perseguitato in Turchia, ma non creduto in Scozia, tanto che lo vogliono rimpatriare con la famiglia. Lui fugge, la moglie e i figli no. Lui si batte, unisce le forze con delle studentesse senegalesi, trova (da buon giornalista com’è in patria) collegamenti per scoprire chi gestisce i traffici. E tenta di salvarsi con un piccolo ricatto. Che finisce male per lui. Che Rebus ricostruisce, passo dopo passo, aiutato da alcuni buoni (la Caro di cui sopra, un’alternativa che si batte per gli immigrati, che sembra poter nascere una storia, ma che poliziotto e alternativo non possono avere futuro). E dal cattivo, quel Big Ger di 3 libri fa, che si cercò di incastrare, e che qui si muove nell’ombra, maneggiando i cattivi (fornendo clandestini rifugi) e buoni (fornendo indicazioni per incastrare i cattivi). Ma solo per vendicarsi di alcuni torti antichi. Riusciranno John e Shiv ad incastrarlo? Sul fronte degli scheletri, che ben presto si scoprono fasulli, si innesta la storia di Isabel, della sorella, e del suo stupratore David. Uscito dopo 3 anni di carcere, ma ancora e completamente dedito allo stalking verso le donne. Però farà una brutta fine, e sarà il secondo omicidio che dovranno affrontare i nostri. Immergendosi nel mondo delle ballerine da night, della pornografia e analoghe nefandezze. Dove questo mondo si innesta con il cattivo di cui sopra, che un night-club nefando gestisce. Alla fine ritroveremo la scomparsa Isabel innamorata del padrone del locale dove vennero ritrovati i cadaveri. Cadaveri usati dai trafficanti di clandestini per spaventare i cinesi (se ti ribelli, farai quella fine). Padrone che cerca di sfruttare i cadaveri per inventarsi un business di “Ghost tour”, come ne esistono tanti ad Edimburgo. E che è coinvolto nella non rimpianta fine di David. Ma è coinvolto lui o protegge l’amata Isabel? Alcuni punti li lasciamo in sospeso che se vi dico tutto, che lo leggete a fare? Ripeto, per finire la lunga trama, che mi è piaciuta la dolente atmosfera che Rankin descrive nella sua crepuscolare città, che riflette il momento attuale in tutte le parti del mondo occidentale.
Ian Rankin “Dietro quel delitto” TEA euro 9,60 (in realtà, scontato a 8,16 euro)
[A: 29/06/2012– I: 22/11/2013 – T: 24/11/2013] - &&&&
[tit. or.: The Naming of the Dead; ling. or.: inglese; pagine: 477; anno 2006]
Dietro quel delitto c’è molto, ma anche poco, che la parte centrale, quella più propria di Rankin (e di Rebus) è la denominazione dei morti. Cioè quello snocciolare i nomi delle persone morte, che John (e poi anche Shiv) continuano per tutto il libro a declamare. Fatta questa premessa filologica, veniamo al romanzo, dove il nostro amico scrittore di Edimburgo ci fa seguire Rebus verso la fine della sua carriera di ispettore. Si sente sia l’aria stanca di chi ha ormai scritto libri su libri (questo è il 16°) sia del nostro eroe, ormai vicino alla pensione. Tuttavia l’intreccio ha spunti di interesse, per i versanti sociali e personali della vicenda. Intanto Rankin ha la bella idea di inserire le gesta dei nostri nel contesto del G8 di Edimburgo dei primi giorni di luglio del 2005. Questo dà del mordente alla vicenda stessa, ma consente soprattutto allo scrittore di fare un po’ di critica su come viene gestito il summit, sia dai protagonisti che dagli antagonisti (stupenda l’immagine di Bush, della sua passeggiata in bicicletta e del suo capitombolo). E permette a Rankin di scrivere qualche riga un po’ più politica, che non guasta. Anche se lo spunto del G8 serve a far risaltare la presupponenza dei vertici polizieschi, e le connivenze che i vertici stessi hanno verso personaggi ai limiti della legalità. Cose note, ma (gli svedesi insegnano) sempre ben accette in un contesto popolare. Altre frecce vengono da Rankin scagliate contro chi si comporta in modo violento verso le donne, sia fisicamente che moralmente. Al centro, infatti, ci sono dei morti che risultano, dopo un congruo numero di indagini, essere violenti e tutti più o meno condannati per attentati verso le donne. C’è anche un sottosegretario che muore, non si capisce se per suicidio o per incidente. C’è la di lui sorella, in forza alla polizia londinese, ma più che altro intenta ad infiltrarsi tra gli antagonisti, per riprenderne le mosse, con reportage fotografici, di altro utilizzo. John e Shiv tentano di muoversi in questa gran confusione, con i soliti piedi di elefante che pestano i piedi a tutti per cercare di far luce. E che si accompagnano anche a personaggi poco raccomandabili, sempre nell’intento della verità. Ma dov’è, questa verità? Che i violenti uccisi non li rimpiange nessuno. Tanto che anche l’ispettrice Ellen, con sorella appena divorziata da un marito violento, e con un debole per il nostro Rebus, non sembra volerli aiutare, pur avendo informazioni utili. Shiv, poi, è dilaniata tra l’indagine e l’aiuto ai suoi genitori, un po’ alternativi, che si trovano inopinatamente nel casino degli scontri. Dove risalta anche la figura di un politico locale, che ha buon gioco nel calmare le acque pubblicamente, per poi gettare legna sul fuoco di nascosto. Un personaggio ambiguo, che farà anche lui una brutta fine dopo la scoperta di sue relazioni extra-coniugali con… E questo non lo dico. Ma torna ai nostri, che tra una pinta di birra ed un whisky al malto, mettano assieme uno dopo l’altro i pezzi del rompicapo. Come poteva sembrare dall’inizio, i morti non sono uguali, ed è una tecnica usuale, che uno è il bersaglio e gli altri una cortina fumogena. Ed uno dei morti potrebbe essere implicato nella morte della madre del suicida di cui sopra. E la sorella poliziotto sembra sparire negli attacchi dinamitardi alla metropolitana di Londra, avvenuti in contemporanea. Rebus riesce tuttavia a presentarci uno scenario plausibile, che spiega i perché ed i come di tutte le morti. Soltanto con prove indiziarie, tanto che non ci saranno seguiti (se non per la morte del politico, che poco entrava nel contesto). E tuttavia, l’ispettore ed il sergente hanno talmente “rotto le uova” che nel finale vengono anche sospesi in attesa di accertamenti. Si sente, come detto, nella penna di Rankin la fatica di portare ancora avanti la storia. Sembra come cercare un modo elegante di finire. E questo è un dubbio che viene sovente ai creatori di personaggi seriali. Come finire? Far finire prima il personaggio o prima la scrittura? Terminare come Conan Doyle che dopo aver fatto morire Sherlock lo risuscita a furor di popolo e come Vazquez Montalban che muore prima che Pepe Carvalho raggiunga il suo estremo? Dubbi irrisolti. Godiamoci intanto questi scampoli di bella scrittura. E mandiamo a mente la topografia di Edimburgo, in attesa del viaggio.
“Se aveva perso la testa …, la sfigata era solo lei. D’altro canto lo era sempre stata, no? ‘Però sono simpaticissima’, borbottò tra sé.” (418)
Ian Rankin “Partitura finale” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 01/01/2013– I: 06/01/2014 – T: 08/01/2014] - &&& e ½
[tit. or.: Exit Music; ling. or.: inglese; pagine: 427; anno 2007]
E siamo così arrivati al 17° e supposto ultimo libro dell’ispettore Rebus. Dico supposto in quanto, nell’idea dello scrittore, doveva proprio finire qui, ma ho visto in libreria recentemente un nuovo libro che si proponeva come “il ritorno di Rebus”. Vedremo. Intanto, la colonna sonora abituale accompagna l’uscita di scena di John Rebus, in questi ultimi dieci giorni prima della pensione. Ovviamente non poteva mancare un ultimo caso, ben complicato, utile anche a Rankin per cercare di chiudere tutte (o quasi) le parentesi aperte nei primi sedici libri. E per rimarcare, se ce ne fosse bisogno, i caratteri peculiari di Rebus, delle sue indagini, delle sue manie, e della sua città. Quell’Edimburgo che ci aspetta per Pasqua. Intanto, pur non essendo il migliore della serie, senz’altro risale la china rispetto al deludente romanzo precedente. Sia nella trama (almeno nell’intreccio delle possibilità) sia nei personaggi. Certo, non ci aspettiamo che cambi Rebus (sempre un po’ alticcio, anche se meno di Harry Hole, e sempre molto antagonista verso burocrati e leccapiedi). O che cambi Shiv Clarke, la sua partner e prosecutrice in pectore della serie (ma credo che non sarà così). E questa volta di morti ce ne sono due o forse tre, con un intreccio mortifero di potere e malaffare (ma guarda un po’ cosa ti va a pensare Rankin!). Il morto che scatena le danze è un poeta russo dissidente, forse rifugiatosi per altri motivi in Scozia. Peccato che muoia proprio durante una visita di una delegazione di magnati russi intenti a prospettare futuri investimenti in loco (e mi verrebbe da dire, attenti amici scozzesi, a non fare la fine di Riccione o della Versilia…). Il poeta era stato in giro per conferenze, registrato da uno strano tecnico del suono, maniaco delle riprese live. Tecnico che poco dopo muore nel rogo della sua casa di registrazione, bruciando insieme a molti suoi nastri. Le complicazioni politiche arrivano ben presto: i russi sono sponsorizzati dai nazionalisti scozzesi e da una banca d’affari, il più malavitoso tra i russi (tal Andropov, nomen omen) è anche in contatto con una nostra vecchia conoscenza, quel Cafferty che regge le sorti di buona parte dei traffici loschi di Edimburgo. Tra gli scagnozzi di Cafferty c’è un certo Sol che guarda caso è il fratello di Todd, che invece fa il poliziotto, ed è aggregato alla squadra di Rebus - Clarke in vista del pensionamento di John. Non solo, Sol è il ragazzo di Nancy, quella che ha trovato il poeta morto. E Nancy usa come alibi una sua visita a Gill, ragazza sbandata, dedita a droghe e porno scivolate anche un po’ registrate. La quale Gill è anche figlia del capo della banca di cui sopra. E tanto per chiudere il cerchio il nonno di Sol “il cattivo” e Todd “il buono” è stato anche il primo piccolo criminale che Rebus ha mandato in galera nella sua lunga carriera. Il poeta morto, tra l’altro, viene trovato vicino ad un grande parcheggio custodito senza che il guardiano dica di aver visto qualcosa. Il numero due della banca d’affari è poi molto intimo di Andropov, il quale è anche preoccupato perché ex-amico del poeta, gli augura la morte durante il reading registrato dal tecnico. Ed alla fine, Cafferty viene massacrato e ridotto in fin di vita (forse morirà?) da qualcuno che per farlo tenta di incastrare il nostro ispettore. Ma proprio questo ultimo atto, benché faccia sospendere Rebus fino a poche ore dalla pensione, consente al nostro di effettuare i collegamenti giusti, di trovare prove seppur indiziarie. E di farci vedere, insieme a Shiv che fino alla fine è dalla sua parte, che probabilmente i morti sono collegati da un filo rosso, che tuttavia può portare ad assassini differenziati. Su questo abbandono la trama, scolando l’ultima pinta do birra insieme al nostro ormai ex-ispettore. Non so dire se affronterò il ritorno di Rebus, ma questa lunga serie è decisamente uno dei migliori affreschi, per me che ne sono fuori, della vita scozzese. Unita al contraltare buonista di McCall Smith, ci dà una visione globale delle nebbie scozzesi, dei pub, della vita dei quartieri malfamati, e dei quartieri bene. Ci fa andare dal Golden Miles, al Fife, all’Arthur’s Seat, portandoci un affresco a tutto tondo della vita locale. E dei contrasti, di potere ma anche di intelletto, fra chi usa il proprio cervello per una vita quanto meno etica, se non corretta, e chi, lì come qui, come in Russia (tanto per ribadire i toponimi maggiori degli scritti) uso il potere solo e soltanto per il suo bene personale. E quando non basta il potere, ci si aggiungono comportamenti criminosi. Alla fine, tutte le parentesi si chiudono (Rebus e tutti i suoi morti, ed i suoi carcerati, Rebus e il potere, Rebus e Cafferty). Rimane solo in sospeso quel trasporto che potevano avere John e Shiv se non fossero legati da rapporti di lavoro e divisi dall’età. Peccato non aver risolto quest’ultimo rebus (ah, ah, ah).
Francisco José Viegas “Un cielo troppo blu” Beat euro 9
[A: 19/10/2013– I: 27/12/2013 – T: 30/12/2013] - &&&
[tit. or.: Um ceu demasiado azul; ling. or.: portoghese; pagine: 261; anno 1995]
Un altro portoghese entra nelle mie letture, spinto dai bei ricordi estivi. Peccato non averlo scoperto già a Lisbona. Peccato, inoltre, che le sue scritture siano datate. Non tra i più noti all’estero, ma direttore della Casa Pessoa, Viegas è un mi dicono buon giornalista lusitano, attualmente direttore di una rivista chiamata “Ler” (Leggere). Negli anni Novanta, ha imbastito alcuni romanzi polizieschi, come si direbbe ora, d’ambiente. Non tanto e solo portoghese, ma forse d’atmosfera, quasi (se fossimo al cinema) rivisitando con l’occhio del grande De Oliveira le scorribande nel tempo del primo Wenders. Questo fa si che l’andamento dello scritto (e della lettura) sia alternante e cullato da ritmi che non vengono dalle indagini, pur presenti. Ma dai personaggi e dal loro muoversi nella scena locale. Innanzi tutto, dovrei far una tirata d’orecchi agli estensori di note in copertina ed in quarta, dove si citano appunti i suoi scritti come aventi protagonista l’ispettore Jaime Ramos. In realtà, seppur Ramos ha una parte importante e centrale, c’è un coprotagonista, il vice-ispettore Filipe Castanheira, che non solo partecipa alle indagini, ma che in questo romanzo dà delle spinte decisive verso la possibile soluzione. Di converso, elemento di interesse collaterale del romanzo è l’ambientazione non lisbono – centrica della vicenda. A sottolineare, se ce ne fosse bisogno, che il Portogallo è anche altro. È Porto, dove vive e lavora Ramos. E sono le Azzorre, dove invece s’è trasferito da alcuni anni Castanheira. Entrambi, pur nelle mutate città e condizioni, con atteggiamenti similari verso la vita. E con un rapporto problematico con le loro donne. La Rosa di Jaime e la Isabel di Felipe. Intanto ci scappa il morto, che guarda caso è di famiglia altolocata e benestante lui stesso. Trovato morto nel bagagliaio della sua auto. Con pazienza certosina (questa la cifra di Ramos) il nostro ispettore colleziona informazioni e dati, incontra persone, gira lungo i paesetti della valle del Douro che hanno visto gli ultimi giorni di João Alves Lopes. Tornato dal Messico via Madrid, ma non si ferma a casa, prende e risale il fiume. Passa una notte con due spogliarelliste e mentre una dorma, fa a lungo l’amore con l’altra. Poi viene trovato cadavere. Viegas centellina le informazioni, ricostruisce brani della vita di João. Studente ribelle, convivente rivoluzionario, poi il ritorno a casa, la laurea, convivenze con belle donne, un’agenzia pubblicitaria di successo a Porto, e, prima della partenza, un ingaggio con una grande agenzia di Lisbona. Per staccare tra i due lavori, si concede una pausa in Messico. Ramos allora ne segue le tracce, che lo portano a scoprire come in Messico ci sia stato con la bella Amélia, “more uxorio” come si direbbe. Poi uno stacco, quasi una fuga, per pensare in quel di Cuba. Il ritorno, la ricerca di Amélia, che è una delle due spogliarelliste. E mentre Jaime scopre tutto questo in America Latina, lasciandosi tentare da una breve storia d’amore con la simpatica Victoria, Felipe fa altre scoperte. Perché lui in gioventù aveva conosciuto Amélia, anche lui preso dalla giovane esaltazione del ’75. E sa, e segue, la pista “amorosa”. Che João era un “sex addicted” anche se di gusto. Felipe ritrova brani anche della sua gioventù, seguendo gli amori con Lia, Luisa sino all’algida Aurora, ora a capo dell’agenzia di Lisbona che ha offerto il posto a João. Sarà al ritorno di Jaime in patria, che i nostri due ispettori riusciranno a ricostruire tutta la storia, iniziata proprio da quella convivenza rivoluzionaria di João e Amélia, con João che la lascia quando decide di scegliere tra sentimento e carriera. Non vi offro tutti i passaggi, per lasciarvi gustare alcune parti del libro che hanno un buon sapore di letture. Altre sono più stanche, tanto da non andare oltre un giudizio di media, come vedete sopra. Una buona riproposta, insomma, della casa editrice Beat (che sta per Biblioteca degli Editori Associati di Tascabili), la quale prende opere di una serie di editori non forti del mercato nazionale, riproponendole in economica. Lodevole e da seguire.
“Ci si deve prendere cura del proprio corpo, sottoporlo a privazioni, come un padre severo disciplina i propri figli. Ma lui sarebbe stato un padre senza figli.” (15)
“A cinquant’anni è tardi ormai per dare un nome alle cose che succedono. Era ingrassato negli ultimi tempi, ma non avrebbe comprato un abito nuovo. Quelli che aveva gli stavano. … Sapeva anche che non avrebbe cambiato macchina così presto, dopo aver comprato questa cinque anni fa.” (127)
“E sarebbero giunti altri ricordi, come … quei giorni di vacanza … dopo un viaggio … dove era stato alla ricerca di una storia d’amore e di una coincidenza, due cose che non gli piacevano. Le storie d’amore, perché si ripetono troppe volte e troppe volte amareggiano e feriscono e fanno ripetere le stesse parole. Le coincidenze, perché fanno immaginare che il mondo stesso si ripeta, quale che sia il posto, quale che siano le circostanze. E ingannano.” (142)
“Nonostante fosse innamorato, come si sentiva quella notte, vecchio stupido, hai quasi cinquant’anni, una discreta esperienza in materia, l’agilità di un uomo di quarant’anni suonati, soggiogato come un vecchio stupido che pensa di essere padrone di sé.” (207)
Pur notando che i “libricini” di gradimento di questa trama vanno in calando, è pur sempre una trama di buon livello. Con la quale vi lascio per quindici giorni, visto che sarà difficile tramare dall’Africa Australe. Ma si sa che il viaggio viene (quasi) prima di tutto. 

domenica 16 febbraio 2014

Avete scritto di meglio - 16 febbraio 2014

Una settimana dedicata a scrittori che sono ben presenti nelle mie storie di lettura. Per l’ovvio motivo che mi piacciono i loro scritti e la loro scrittura. Tuttavia, come rammenta il titolo, sono scrittori di cui ho letto opere migliori. Forse il solo Oz rimane ad un livello soddisfacente. Certo, Hornby (anche per colpa di editor e affini) precipita nell’inutile. Ed i due libri para-fanatscientifici di McCarthy e di Auster mi fanno rimpiangere “Meridiani di sangue” e la “Trilogia di New York”. Sperando magari di trovare qualcuno a cui sono piaciuti, ed ingaggiare una lotta di opinioni all’ultimo colpo.
Cormac McCarthy “La strada” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 15/04/2013– I: 23/10/2013 – T: 26/10/2013] - && e ½
[tit. or.: The Road; ling. or.: inglese; pagine: 218; anno 2006]
Confesso immediatamente e senza ombra di dubbio: questo libro non mi è piaciuto. Pur riconoscendo al solito la bella scrittura di McCarthy, la sua capacità descrittiva (nei suoi libri, quando descrive paesaggi, mi fa immediatamente volare dentro la pagina, chiedendomi come si possa essere così abili nel tratteggiare luoghi anche desolati), questo libro non mi ha per nulla coinvolto. Purtroppo siamo lontani da quelli che considero i suoi momenti migliori. Quando la sua prosa spazia nelle ampie praterie americane, magari selvagge, magari piene di cow-boy. Quando parla di quelle vite vissute ai margini, spesso anche oltre i margini stessi. Le cattiverie, le piccolezze. Il quotidiano essere lontano da quei punti focali che noi qui vediamo nell’America. I suoi personaggi non si muovono a New York, a Los Angeles, a Las Vegas, a Chicago, a Boston, e neanche nelle lande della Florida. I suoi eroi stanno dalle parti dei monti del Vermont, del Montana, delle pianure tra Texas e Arizona. Insomma sono altrove. Ma sto divagando, per rimpiangere quello che in questo libro non c’è. Anche perché quello che c’è non mi ha coinvolto. Sarà che ho un discreto passato di cultore della fantascienza in tutte le sue forme (e qui si potrebbe aprire un bel dibattito su questa forma espressiva, cara alla mia giovinezza, e sulla forma “poliziesco di attualità” che sta cullandomi in questi anni; anzi sulla forma in generale di letteratura popolare, se vogliamo essere dotti, nel senso in cui la descriveva Gramsci in uno dei suoi quaderni dal carcere), ma il plot di McCarthy è tipico di quella che viene battezzata come “fantascienza post-apocalittica”. Ora senza scomodare le pietre miliari di questo genere (come “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley, “La macchina del tempo” di H. G. Wells o “La peste scarlatta” di Jack London), basterebbe pensare a “Io sono leggenda” di Richard Matheson del 1954 esempio preclaro di come si può scrivere di orrori dopo una “fine del mondo”. Qui abbiamo solo un tale con il figlio che si aggirano per una terra forse devastata ma non si sa (e non si saprà) da cosa. Che cercano di andare verso un fantomatico mare, emblema di una qualche speranza. E ne assistiamo agli incontri con altri derelitti. Le lotte. Le fughe. Le città senza vita, dove si cerca disperatamente qualcosa da mangiare. E si mangia di tutto. Tanto che non ci meraviglia la nascita di un cannibalismo orrorifico. McCarthy mette qua e là spunti sempre più crudi della degradazione possibile degli altri, mentre i nostri due cercano di mantenersi al di qua di un certo modo di essere. Non a caso il bambino continua a chiedere a più riprese al padre se loro sono i buoni e se continueranno ad esserlo. Con qualche flash-back assistiamo anche alla presa di coscienza della madre del piccolo, al suo “andare fuori di testa” e lasciare soli i due (si sarà uccisa? avrà cercato altre vie? Chissà, di certo sappiamo solo che ora non c’è più). I due troveranno il mare, ma non la speranza. Troveranno altri derelitti, forse buoni quanto loro. E finalmente anche il padre potrà mollare e morire. Lasciando al piccolo l’eredità di continuare a vivere nel mondo devastato. Così ci vuole comunicare allora il nostro scrittore? Che di fronte a crisi estreme i comportamenti umani sono impredicibili? Che i mostri sono dentro di noi? Che non c’è speranza? Non lo so. Ma so che non esce fuori da questo romanzo. Che passa di orrore in orrore sino alla sua naturale fine. Forse McCarthy ha cercato di usare dei registri per ribadire quanto dice in altri suoi (e migliori) scritti, sulla solitudine umana, sulla cattiveria interna ad ognuno di noi. Continuo ad essere perplesso. E continua a preferire chi coscientemente e volutamente usa questo tipo di scrittura, con risultati per me più interessanti. Come, e qui finisco le citazioni, in “Un cantico per Leibowitz” di Walter M. Miller in cui dopo il crollo dell’umanità, i sopravvissuti a poco a poco recuperano le conoscenze perdute, ricostruiscono, ricominciano a vivere, fino a ricadere di nuovo negli errori del passato ed a scatenare una nuova guerra nucleare devastante. Questa sì senza speranza. Aspettiamo di leggere di meglio dal nostro texano.
Nick Hornby “Tutti mi danno del bastardo” Guanda euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 08/10/2013– I: 19/11/2013 – T: 20/11/2013] - &
[tit. or.: Everyone’s Reading Bastard; ling. or.: inglese; pagine: 65; anno 2012]
Qui bisognerebbe dare del Bastardo a molte persone. C’è solo l’imbarazzo da dove cominciare. Forse comincerei dall’editore Guanda che spaccia per “romanzetto” questo forse divertimento ma sicuramente solo e soltanto racconto. Un racconto tra l’altro non inserito in nessuna antologia, ma pubblicato dall’autore sul web, in una specie di rivista online dal nome “Byliner” (che indica l’occhiello di un articolo in cui compare il nome dell’autore). Secondo bastardo il traduttore del titolo che ha cercato di dare un’interpretazione del testo nei confronti del protagonista. Quando l’originale dice, correttamente, “Tutti leggono Bastardo”, che risulta essere una rubrica periodica pubblicata dalla giornalista Elaine, in cui riporta (ma non solo) le malefatte del divorziando marito Charlie. E tutto il raccontino è imperniato proprio su questo “gioco”. Charlie ed Elaine decidono di divorziare. Lui è un esperto finanziario di una promettente banca d’affari. Lei è una giornalista di costume. Che decide di mettere in piazza i suoi affari privati “sputtanando” il malcapitato Charlie. Scrivendo una rubrica sul suo giornale, intitolandola appunto “Bastardo” (come se qualcuno scrivesse un racconto su Michele Serra chiamandolo “Tutti riposano sull’Amaca”). Terzo e più pieno bastardo il mio ex-amato Nick Hornby. Seguo Nick dai suoi primi scritti, e ne seguo la parabola che lo ha portato dalle prime prove assolutamente e genuinamente da me amate, agli attuali scritti, sempre e viepiù meno graditi. Ricordo il fulminante inizio, prima con quel grido d’amore appassionato verso il calcio con “Febbre a 90°” e poi con quel romanzo di formazione “Alta fedeltà” che ha fatto entrare nell’inconscio di molti la mania delle liste (i cinque migliori dischi, i cinque migliori romanzi, le cinque migliori donne che ho frequentato, tanto per ricordare le prime liste del protagonista del romanzo). Ora il buon Nick (che tra l’altro è un appassionato lettore, come si legge nelle sue recensioni come “Un anno da lettore” o “Shakespeare scriveva per soldi”) si cimenta  per la webzine sopra citata con un raccontino appunto sul divorzio e sulle sue conseguenze (perverse?). Che indubbiamente ha alcuni spunti di divertissement: lo stupore di Charlie quando scopre appunto che Elaine mette in piazza le sue malefatte private, il tentativo (timido) di Charlie stesso di giustificare le sue “cazzate”, il rapporto con la madre che da sempre ragione ad Elaine, il rapporto con i figli e la discussione filologica sull’origine del termine Bastardo (in effetti, Charlie nasce che i suoi genitori non erano ancora sposati, quindi, etimologicamente è proprio un bastardo), fino all’incontro (non si sa se poi avrà un seguito) con Helen anche lei perseguitata mediaticamente dal marito giornalista da cui sta divorziando e che pubblica una rubrica contro di lei, dal titolo “Stronza”. Ma Charlie, quando spiega le sue bastardate, cade spesso tra il patetico ed il ridicolo (mandare a quel paese la sorella di Elaine durante il battesimo del nipote potrebbe avere una sua logica, come quella di imprecare come uno scaricatore anche davanti ai figli scoprendo un furto nella sua auto nuova), fino a trovare anche un’auto-giustificazione della rubrica (la sua prossima donna non avrebbe dovuto scoprire a poco a poco quanto e come si possa essere bastardi, ma lo scopre prima, così non avrà sorprese). E dopo le bastardate verso la famiglia, Elaine va a proporre al suo pubblico (che sembra però perdere di lena con il tempo e la ripetitività) prima le miserie sessuali di Charlie, poi la sua bastardaggine come esperto finanziario. Dato che questa trama sta diventando quasi più lunga del racconto stesso, devo dire che Nick a questo punto lascia cadere tutto. Su questo ultimo punto, ci mostra Charlie che va ad un aperitivo con i colleghi e… punto finale. Ma che vuole dire? Bastavano le prime tre righe per dire tutto, ma se si allunga per 60 pagine, ci si aspetta qualcosa in più. Un intreccio, un prima, un durante, un’ipotesi per il dopo. Come se si entrasse in un cinema a metà del primo tempo, ed all’intervallo si dicesse: “Beh, basta così”. In fondo il meno bastardo di tutti sembra a questo punto proprio Charlie. Perché Nick tu sai scrivere, sai imbastire storie, sai prendere il lettore. O hai forse scritto questa bastardata solo per prendere in giro anche i lettori del web? Speriamo.
Amos Oz “Soumchi” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 5,25 euro)
[A: 03/08/2013– I: 20/11/2013 – T: 22/11/2013] - &&& e ½
[tit. or.: Soumchi; ling. or.: ebraico; ling. trad. inglese; pagine: 85; anno 1978]
Quando lessi i primi racconti di Alice Munro, dissi subito che l’autrice canadese era meritevole del Premio Nobel, cosa avvenuta ora a distanza di cinque anni. Ebbene, da quando leggo gli scritti di Oz, mi viene in mente lo stesso pensiero. E spero che prima o poi anche l’autore israeliano possa essere insignito del massimo riconoscimento. Qui sono andato a riprendere uno dei suoi primi scritti (ormai vecchio di più di 30 anni), scritto dall’autore sulla soglia dei suoi quaranta. L’ho trovato attuale, ben scritto, coinvolgente, praticamente senza tempo, pur essendo inserito nel suo tempo. Inoltre, è uno scritto che dovrebbe essere rivolto ai ragazzi, quasi fosse etichettato di una scrittura diversa. Andrebbe invece letto da tutti, grandi e piccini. Perché a tutti dà spunti di riflessione. E per i più giovani adotta un linguaggio che ritengo sia di presa immediata. Oz riesce, infatti, a riproporci la lunga riflessione del giovane Soumchi intorno ad un particolare momento della sua esistenza, con quella freschezza che mi ricorda i miei voli pindarici giovanili. Quando tutto era permesso (di pensare) e quando tutto era difficile (da fare). Intanto siamo ben inseriti nel tempo, che accenni sparsi qua e là collocano la lunga giornata di Soumchi tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita dello stato di Israele. Siamo in quell’epoca tormentata dove si agitavano i cuori e le azioni degli ebrei in terra natia. Con l’oppressione degli inglesi, le ribellioni, l’esistenza certa di spie e contro-spie. Ed anche se non comprendono tutto, i bambini sono immersi in questa storia. In questo passaggio (senza essere troppo di peso) di momenti di storia e di Storia. Ma i bimbi si sa leggono il loro presente anche in chiave eroica, pensando a grandi imprese, a fughe, a lotte. Vedendo in un’ombra un nemico, in una voce l’amico che chiama alla riscossa. Facendo passare i propri coetanei dall’amore all’odio solo per una parola, solo per un gesto. E cercando di capire i grandi quando parlano delle “loro cose”, di quelle che orecchie innocenti non devono sentire. Ben dice Soumchi essere un tempo di cambiamenti. Lui narra questa giornata che ne ha cambiato delle prospettive. Ma sa che il cambiamento, le modifiche, continueranno, saranno anche altre e più profonde. Il nostro undicenne è un tipico bimbo in età scolare, che ammira lo zio scapolo che si inventa mille follie durante la vita quotidiana, che è innamorato perso di una bimba della sua classe, a cui scrive poesie ma che in pubblico tratta “da femmina”, tirandole i capelli, che si sente inadeguato verso il più ricco amico Aldo (di origini italiane) che ha addirittura una tata (ma che gli ruba il quaderno di poesie), che ha odio e amore verso i pretesi bulletti della classe, che vorrebbe frequentare, ma che lo snobbano alquanto. La folle giornata di Soumchi comincia quando il pazzo zio gli regala una bicicletta. Di cui fa subito sfoggio, andando per vantarsene dall’amico Aldo. Che lo gabba proponendogli uno scambio tra la bici e parte del suo meraviglioso treno, con tanto di rotaie e vagoni. Tornando verso casa con il treno, si imbatte nel bulletto Gael, che lo costringe ad accettare un cane in cambio del treno (e gli rivela i tradimenti di Aldo). Poi il cane fugge, Soumchi si trova solo, ma in mezzo alla via trova un temperino. Su questo costruisce le sue folli fughe verso l’Africa, ad affrontare paesi che non hanno visto l’uomo bianco. Ma a casa il padre non accetta le sue timide spiegazioni sulla bicicletta. Fuggito in lacrime per andare a scalare l’Himalaya, viene raccolto dal padre della sua innamoratina. Che lo accoglie, che parla con lui “da uomo a uomo” anche di politica. E lo fa dormire con la sua bella Esthie. I due, come tutti i bimbi, fanno scaramucce di parole. Poi Soumchi si lascia andare, narrando le sue prodi idee di fuga verso lo Zambesi, e tante altre storie (che Soumchi sa parlare bene, quando inventa mondi ed avventure). Tanto che conquista il tenero cuore di Esthie. E benché torni a casa dal padre (che i giorni seguenti, ripercorrendo la catena degli scambi, riporterà a casa la bici), per sei settimane vivrà la sua prima storia d’amore. Ecco, si legge d’un fiato, e rimane nella testa. Rimane la nostalgia di quell’innocenza. E di quella voglia di fare, e poi di ricominciare. Oz lo scrive in una forma che me lo ha fatto leggere due volte prima di considerarlo finito. Un solo appunto: purtroppo la traduzione, come si intuisce dalla titolazione, è avvenuta non dall’originale ma dall’inglese. Peccato.
Paul Auster “Nel paese delle ultime cose” Einaudi euro 9,50
[A: 03/08/2013– I: 13/12/2013 – T: 16/12/2013] - && e ½
[tit. or.: In the country of Last Things; ling. or.: inglese; pagine: 167; anno 1987]
Sembra quasi che ogni tanto autori di rimarcata solidità trovino la voglia e la necessità di cimentarsi con qualcosa di catastrofico. Certo con risultati ed intenti diversi. Come non ricordare positivamente “Le intermittenze della morte” di Saramago. E come non ricordare altrettanto negativamente “La strada” di McCarthy. Ecco, seppur in anni ed in contesti leggermente diversi, Auster con questo scritto mi ha riportato quei due alla mente. Ed alla fine della lettura, sempre ringraziando la mia amica Luana che me lo fece conoscere anni fa, trovo questo scritto dell’autore americano datato, carente, insomma, per me, insoddisfacente. Intanto (ed è sempre un mio pallino sottolinearlo) diffido sempre quando un maschio scrive tutto un romanzo nei panni di una donna. A meno di sensibilità particolari (e Auster, pur bravo, non vi arriva) c’è sempre qualcosa di forzato, di non lineare in questo. Certo, se l’autore si pone in terza persona riesce a presentare una panoramica di personaggi, di tutti i generi e di tutte le età. Ma scrivendo un diario (o come dice l’io narrante, una lunga lettera) nei panni di Anna Blume, il nostro Paul non mi convince. Secondo elemento di disturbo non è tanto la descrizione di cosa stia capitando “nel paese lontano”, ma questa immersione nel catastrofismo, senza nessuna transizione, senza nessuna spiegazione. Anna comincia a descriverci questo strano paese, dove si comincia a perdere la memoria delle cose, dove tutto va a scatafascio, dove si sopravvive più che si vive. E comincia con quegli elementi che dovrebbero far presa sul pubblico, elementi “di cassetta”. Tutto va male, la gente tende alla morte. Ed ecco, una cinquantina di pagine dedicate alle diverse compagnie della buona morte: i Maratoneti, i Saltatori, i Predicanti, gli Striscianti, i cultori dell’eutanasia e quelli dell’assassinio rituale. Mentre ci narra tutto ciò, apprendiamo che la nostra eroina si è recata nel paese di cui, per cercare il fratello giornalista scomparso. Fratello che, come è ovvio, non troverà mai. Dalle morti cercate, poi passa a raccontare i suoi possibili modi di vita. Prima randagia, poi spazzina (uno dei mestieri più semplici, anche se faticoso). Poi cercatrice; di cosa? Ma di quello che si può riusare e che Riciclatori comprano. In questa “ricerca della sopravvivenza”, incontra Isabel anziana signora dedita al marito Fernand, che non ci sta più con la testa. Nasce un sodalizio che resta fino alla morte (e non vi dico come) prima dell’uomo poi della donna. Anna continua a vagabondare senza arrendersi, ed incontra (sempre fortunati i cercatori…) un altro giornalista, Sam. Con il quale vive un’intensa storia d’amore. Con il quale rimane incinta. Poi, per circostanze fortuite, perde sia il bambino sia Sam. E si ritrova nella Casa gestita da Victoria. Lì dove rinasce per la terza volta, esce dal suo torpore, ed aiuta la bella Vic nella gestione di quel rifugio temporaneo per derelitti (non più di una settimana a testa, con docce, stanze e cibo, poi di nuovo in strada). Finché durano i soldi del padre di Vic. La quale si innamora, ricambiata, di Anna. Poi ritrovano (ma veramente, che c…) Sam sbandato, e rimettono in sesto pure lui. Alla fine, i soldi evaporano, Boris (uno strano tuttofare, metà ruffiano metà buon cuore) organizza la fuga in macchina dalla città. Purtroppo la carta di Anna finisce proprio in quel momento. E non sapremo come procede. La fuga, le storie, la vita. Ma che ci vuole dire Paul? Anzi, che ci voleva dire, visto che il libro ha più o meno venticinque anni sulle spalle? Che il mondo si avvia verso una brutta piega? Che le risorse finiranno, e saremmo costretti a riusare tutto? Prima la spazzatura, e poi i morti? Non vorrei illudere il caro scrittore, ma ci sono libri di fantascienza “pura” che ne parlano e con più efficacia e cattiveria. Ci sono anche romanzi che ne parlano meglio. Ed allora? Un viaggio di dannati nel girone dell’inferno? Povero Dante che si rivolta nella tomba. L’unico punto a favore di Auster è il fatto che dopo cinque pagine mi sembrava un libro insopportabile. E tuttavia è riuscito a tenermi sulla pagina fino alla fine. Non che mi sia piaciuto, ripeto. Ma volevo vederne le consequenzialità. E le “Invenzioni”. Purtroppo, oltre alla bella scrittura, niente che mi abbia riportato alla bellezza della “Trilogia di New York”. Peccato.
“Le nostre vite altro non sono che la somma di molteplici contingenze, e non importa quanto possano essere diverse nei dettagli, condividono tutte un’essenziale casualità nel loro disegno.” (129)
Dobbiamo accettare momenti anche non soddisfacenti, che ci fanno riflettere su momenti diversi, e ci predispongono verso nuove e stimolanti mete. Così come questa influenza, che pur scemata non accenna a passare. Così come la preparazione dei prossimi viaggi, sia quelli certi e vicini, come il Sudafrica, sia quelli certi e più lontani (tanto la Scozia si avvicinerà, prima o poi), sia quelli incerti né vicini né lontani. Insomma, per ora un nuovo (raffreddato) saluto...

domenica 9 febbraio 2014

Leggete saggi - 09 febbraio 2014

Un grido che erompe dal più profondo. Bene i romanzi, benissimo le divagazioni. Pur tuttavia, mai scordarsi di tornare alle fonti. E di affrontare i problemi alle radici, con tutti i saggi possibili. E qui ne abbiamo a iosa per discuterne. Quindi, oltre che leggere i saggi, provate a leggere questa trama, forse una delle più complesse che abbia elaborato sin qui. Che spazia dall’analisi della formazione del proprio essere nel bel libro di Hillman, all’incapacità (impossibilità) di scrivere dello stupendo Vila-Matas, finendo nei meandri della storia che ci consentono di essere quello che siamo nelle pagine in punta di lingua di Le Goff. Transitando nel mai sopito e/o dimenticato pensiero del rapporto genitori – figli (e giovani – vecchi) dell’agile libretto di Serra.
James Hillman “Il codice dell’anima”  Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)
[A: 01/01/2013– I: 15/09/2013 – T: 24/09/2013] - &&& E ½
[tit. or.: The Souls’s Code. In search of Character and Calling; ling. or.: inglese; pagine: 391; anno 1996]
Come dissi nella trama del bellissimo libro di Hillman sull’arte di invecchiare, avevo sentito parlare di questo psicologo, uno dei massimi allievi di Jung, da Luciana. Che mi aveva citato proprio questo libro. E che in realtà è quello che pone le basi della costruzione del mondo di Hillman. Dopo molto cercare e girovagarci intorno, quest’anno l’ho finalmente comprato. E dopo molto attendere, l’ho anche letto. Anche se ho impiegato molto a leggerlo (nelle serate mesoafricane) e molto di più a digerirlo. Dopo il libro sul carattere, infatti, mi aspettavo meglio, come se un autore, quando ti piace, debba (per il solo fatto che a te piace) scrivere cose che siano sempre al top. Questo, poi, oltre a non darmi le soddisfazioni che mi auspicavo, è anche un libro difficile, costruito per spiegare e dimostrare la propria tesi, attraverso discorsi che ho trovato più complessi, appunto, della linearità di quando si parlava di invecchiare. Anche se il concetto di fondo, la tesi che sottende le quasi quattrocento pagine è di una semplicità unica: ognuno di noi ha una sua personalità, una sua vocazione, una sua immagine che lo contraddistingue in modo radicale e che, di conseguenza, va ricercata e alimentata senza posa, per rendere davvero autentica la nostra esistenza. Come diceva brillantemente già Platone: noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere. In questo senso siamo chiamati a decifrare il codice della nostra anima, affinché possiamo cogliere il senso della nostra presenza nel mondo. Ecco perché il nostro modello di vita è da sempre inscritto nella nostra anima: scegliere la virtù, coltivare la parte migliore di noi stessi o attuare ogni giorno, con coerenza e coraggio, la nostra vocazione dipende, quindi, solo da noi. Ma se queste sono le tracce essenziali su cui si muove Hillman (tutti abbiamo una vita da percorrere, e non è detto che debba essere sempre “superlativa”), il modo in cui l’autore arriva a spiegarci e dimostrarci il suo assunto non è dei più facili. Hillman parte comunque da lontano, e da un punto fermo a tutti noto: Platone ed all’uso che il filosofo greco fa del termine daimon. Quello che è innato in noi, che altri chiamano anima o destino individuale. E riempie il libro di bellissime mini biografie, ricorrendo alle vite di divi quali Judy Garland, Josephine Baker, il torero Manolete, lo scrittore Truman Capote, John Lennon, Quentin Tarantino e Woody Allen, di figuri quali Hitler, i serial killer, Richard Nixon e Henry Kissinger (tanto per citarne alcuni, e comunque sarebbero tutte da leggere e riprendere). Di questi è palese la “chiamata”, anche se c’è un bellissimo paragrafo che parla della scolarità di questi personaggi: ebbene la  maggior parte dei “superlativi eroi” a scuola quanto meno andava male, se non peggio. Loro, i divi, poi ce l’hanno dimostrato di avere una missione, ma tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Ma se tutti hanno una strada, un destino, un'anima, un angelo, esiste forse un angelo mediocre? Domanda di rara difficoltà, cui Hillman risponde rifiutandosi di identificare l'individualità con l'eccentricità. La vocazione accompagna la vita di tutti quanti e la guida in maniera impercettibile e in forme meno vistose di quelle a cui si assiste nelle descrizioni esemplari presentate in questo libro. Non è una grande risposta, ma almeno ci prova. Come prova a sfatare il rapporto idilliaco tra genitori e figli (di cui riporto una frase che trovo stupenda). Alla fine, un altro libro pieno di spunti, non al meglio si diceva, ma che collocherei in una trilogia ideale, con l’etica di Baumann e l’empatia di Bianchi.
“Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.” (18)
“Una teoria sulla vita deve fondarsi sulla bellezza, se vuole spiegare la bellezza che la vita cerca.” (60)
“Secondo una leggenda ebraica, la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell’anima la portiamo impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è l’impronta dell’indice che l’angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle … ed è per questo che, quando inseguiamo … un pensiero che sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa scannellatura.” (69)
“Ci sono due assunti [sulla solitudine] che io non posso accettare. Primo … che la solitudine coincide con l’essere soli … Secondo … che la solitudine sia fondamentalmente un sentimento spiacevole.” (80)
“Un figlio felice: mai, in nessun tempo e in nessun luogo, questo è stato il fine che i genitori si sono proposti.” (112)
“Non è dall’autoritarismo o dalla confusione dei genitori che i figli fuggono; i figli fuggono dal vuoto insopportabile del vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare compere, lavare la macchina e scambiarsi convenevoli.” (214)
“Gli eventi ci accadono e gli uomini non possono capire perché una cosa è accaduta, ma, visto che è accaduta, evidentemente, doveva accadere. Dopo l’evento, diamo una spiegazione di ciò che l’ha fatto accadere.” (243)
“Il modo come immaginiamo la nostra vita influisce su come alleviamo i nostri figli, sul nostro atteggiamento verso i sintomi e i disagi degli adolescenti, … sullo straniamento della vecchiaia e sulla preparazione alla morte.” (352)
Enrique Vila-Matas “Bartleby e compagnia” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 5,20 euro)
[A: 01/02/2013– I: 10/10/2013 – T: 13/10/2013] - &&&&&
[tit. or.: Bartleby y compañía; ling. or.: spagnolo; pagine: 180; anno 2000]
Una bellissima prova sulla difficoltà (impossibilità a volte) di scrivere. Un libro che l’autore definisce una serie di note a piè di pagina per un testo inesistente. Favoleggiando, anzi, un libro che sia fatto solo di note (mi sembra di ricordare Nabokov in tutto ciò?). Un libro forse senza trama, senza scenari, ma importa? La mirabolante scrittura di Vila-Matas si cala nel narratore (ma non se ne identifica), un sedicente scrittore, autore 25 anni prima di un libro. E poi scomparso nell’impossibilità di scrivere. Intrappolato, in un certo senso, in quella malattia “alla Bartleby”, in cui non si riesce ad attuare nulla, in cui tutto si riduce in quel “Preferirei di no”. E dopo 25 anni passati nell’ombra, a leggere, accumulare notizie, prova ad esternare questa sofferenza andando ad analizzare, descrivere, riportare, esempi, brani di vita, relative a molti personaggi affetti dalla stessa malattia. Narrando di se stesso narrante, il narratore percorre le pagine (anche) con brandelli della sua vita. Per cui ne conosciamo il rapporto con il padre. Ne conosciamo le pulsioni amorose, l’innamoramento verso una donna con cui non riuscirà ad andare oltre il pensiero. Per terminare il suo cerchio aggrappandosi alla fine della scrittura, con un’ultima nota dedicata alla morte di Tolstoj che, rinunciando alla scrittura, rinuncerà anche alla vita. Ma allora di cos’è fatto questo libro? Essendo, come detto, fatto di note, sono un centinaio di notarelle (86 per l’esattezza) in cui il narratore esemplifica il suo assunto. Ne esce quindi una massa di citazioni, di descrizioni, di situazioni. Da Rimbaud che per non scrivere fugge ad Aden, a Salinger che si rifugia nelle montagne americane, al messicano Rulfo (bellissima l’immagine stravolgente di Rulfo che alla domanda perché non scriva più, risponde “perché è morto zio Celerino”). Il bello è la serietà con cui il narratore attraversa gli scrittori, per poi inzepparne alcuni (lui dice cinque in un’intervista) completamente inventati. Lo stimolo (mio) intellettuale è anche trovarli. Ad esempio Roberto Moretti autore di un improbabile “Istituto Pierre Menard” descrizione di una scuola in cui si insegna a dire No (con tutte le citazioni parallele del caso, essendo Menard l’autore del Quijote inventato da Borges). O Antonio de la Mota Ruiz, che inventa il personaggio di Paranoico Perez che non scrive più dopo che appena finisce un libro, Saramago ne pubblica uno con lo stesso titolo e soggetto. O Clément Cadou che non trovando sbocco nella scrittura, decide di riparare e dipingere mobili (con l’altra citazione obliqua, inventando una descrizione di Cadou fatta da Georges Perec nel fantomatico “Ritratto dell’autore visto come un mobile, sempre”). Ma come non intrigarsi nella descrizione di un ciclista, tale Piquemal ciclotimico sprinter che a volte decideva di non finire le corse (inventatissimo) paragonato a Marcel Benabou, autore del libro “Perché non ho scritto nessuno dei miei libri” (realissimo). La bellezza è ovvia nelle parti auliche, dove a sostegno della difficoltà, impossibilità di portare avanti la scrittura, Vila-Matas cita Leopardi, Gadda, Walser, Hofmannsthal, Traven, Henry Roth, Magris, Keats, Hawthorne, ancora e sempre i miei miti Borges e Perec. Sono tutti elementi che vanno a ricostruire il rompicapo di chi ha scritto cose bellissime (tutti i citati) o anche cose minimali (decine di mini altre citazioni che vi risparmio) e poi decide o pensa che lo scrivere non possa più essere, non possa più rappresentare il se. Per cui c’è chi coscientemente si bartlebyzza dicendo “Preferirei di No” e chi lo fa involontariamente. L’amore che ho avuto verso queste brevi pagine (oltre l’indubbio piacere intellettuale) deriva da uno stimolo ed un punto di arrivo. Lo stimolo sarebbe di ripercorrere il libro, enuncleandone persone vere e false, e farne un florilegio, un’esegesi, un saggio. Il punto di arrivo è forse l’auto giustificazione, che se tanto è complicato scrivere, è giusto che io continui a leggere ed a scrivere (solo) queste note-trame. Per concludere come nella citazione sotto che ho scritto il mio libro, pensando di scriverlo (come ha ben sottolineato il mio amico Carlo).
“Il romanzo … illustra l’impossibilità della scrittura, ma ci suggerisce anche che possono esistere sguardi nuovi su nuovi oggetti e perciò è meglio scrivere piuttosto che non farlo.” (33)
“Passò la vita a cercare un libro che non scrisse mai, anche se, a ben vedere, lo scrisse in modo quasi incosciente, pensando di scriverlo.” (58)
“Non era un filosofo né qualcos’altro di simile. Non era nemmeno un letterato. E, grazie a ciò, pensava molto. Quanto più si scrive, meno si pensa.” (99)
Michele Serra “Gli sdraiati” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 09/11/2013– I: 05/12/2013 – T: 06/12/2013] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 108; anno 2013]
Devo dire che Michele Serra è uno di quei giornalisti che seguo sempre con piacere. Ritengo che a volte, l’uso di immagini iperboliche tenda un po’ al Benni prima maniera, e non sempre ne gradisco. Tant’è vero che non molta della sua produzione è presente nella mia libreria. Solo un vecchio e magistrale esercizio di “mascheratura” intitolato “44 falsi” (e sappiamo quanto mi divertano gli epigoni di Guido Almansi) ed ovviamente la prima parte delle uscite della rivista “Cuore”. Pur tuttavia, seguo con discreto interesse i suoi elzeviri su Repubblica. Questa lunga introduzione, per spiegare come, una volta visto questo suo libro, salire inopinatamente i vertici delle classifiche italiane, scalzando vecchi leoni alla Camilleri o giovani alla Volo, mi sono detto valesse la pena leggerne. Anche perché avevo sentito parlasse del suo (non facile) rapporto con il figlio poco meno che ventenne. Vero è. Ed è anche vero che, con la lucidità ed il garbo che gli riconosco, riesce a dipingere alcuni momenti dei rapporti padre – figlio (o giovani – vecchi) in maniera magistrale. Ci sono pagine in cui ritrovo tracce (poche per fortuna, che oramai è ben cresciuta) di Sara, ma nelle stesse non tracce, ma segnali forti di ragazzi coevi al figlio di Serra. E dei loro padri e delle loro madri (ovviamente qui parlo per sentito più che visto, e sentito dalla parte dei vecchi, naturalmente). La descrizione del disordine della camera del figlio è da incorniciare. Così come quella dei piatti lasciati in giro, posacenere colmi, piatti nel lavello, e bagni da intervento della disinfestazione. Altrettanto centrata la figura del giovane “connesso”: sdraiato sul divano, guardando (sic!) la televisione accesa, cuffia con iPod, cellulare nella mano sinistra e computer sulla pancia. Che dire poi dell’attesa di parlare con i professori? Ma il colmo della realtà odierna, e della difficoltà comunicativa, è nella descrizione del fantomatico negozio Polan&Doompy (ipotizzo nome fittizio, la cui descrizione non può che invece portarmi ad Abercombie&Fitch). Le file di ore dei giovani per comprarsi delle felpe. L’astio di chi era stato da A&F a New York (o a Tokyo) ed ora lo vede aprire a Milano. I locali con poca illuminazione, commessi e commesse con dei fisici da top model, grandi manifesti di giovani altrettanto belli alle pareti. Il tutto appunto per delle felpe “firmate” o al massimo delle sneakers. Detto dei passi sublimi, lascerei nella parte oscura del testo quella della battaglia tra giovani e vecchi, con l’alter-ego di Serra che, vecchio, empatizza per i giovani. Sì, ben scritta, ma, appunto, un po’ pindarica e troppo metaforica. La stessa forza evocativa del problema (di una parte del problema), Michele la raggiunge nel racconto della gita in montagna (finalmente!) con il figlio. Ognuno con la sua individualità: e qui si vede appunto sia il contrapporsi sia l’avvicinarsi tra le due categorie (i giovani e i vecchi). Michele che contesta al figlio l’abbigliamento non proprio da gita in montagna. Il figlio che se ne sbatte, ma fa la gita con il padre, cuffiette in testa (“ma così non senti i rumori del bosco!”). Michele perso nei suoi pensieri, con la paura che la tanto decantata gita sia un disastro (era bella nella tua immaginazione, ma come la prenderà tuo figlio?). Il figlio che invece ne gusta (a suo modo) il sapore. E come non capirne di più, quando, forte della giovanile baldanza, lascerà il povero Michele per ritrovarsi solo in vetta ad aspettarlo? Sono i reali momenti di crescita. È il momento in cui Michele fa un salto di conoscenza, anche verso se stesso, oltre che verso il figlio. Ecco, questo mi lascia il veloce libro. L’angoscia, di Serra, ma anche mia, e di molti altri che conosco, verso il nostro crescere, verso i nostri valori che (sembra) non vengano accettati e/o compresi dai nostri figli. Il confrontare i rapporti odierni con quelli da noi avuti nella nostra gioventù. Sono d’accordo completamente con Serra quando mi dico che spesso non comprendo i giovani, e non ne comprendo le modalità di vita. Poi mi ricordo che, spesso, i miei calzini sono difficili da trovare. O il mio lavello aspetto anche 48 ore per essere liberato. Alla fine, comunque, è un libro sull’etica. Quella mia, che ritrovo, abbastanza, nel comportamento di Michele. Quella dei giovani, che cerco, ma non sempre riesco, di interpretare. Ed è un libro che, volendo, ci può essere utile per riflettere su di noi e sul nostro modo di essere al mondo. Bravo, in ogni caso, Serra!
Jacques Le Goff “Cinque personaggi del passato per il nostro presente” Ibis euro 8,80 (in realtà, scontato a 6,77 euro)
[A: 06/12/2013– I: 02/01/2014 – T: 05/01/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: Cinq personnages d’hier pour aujourd’hui; ling. or.: francese; pagine: 102; anno 2001]
Non lo riporto come sottotitolo, ma eccoli i personaggi di Le Goff: Buddha, Abelardo, san Francesco, Michelet, Bloch. E pur non citate nel titolo, importanza rivestono nelle parti a loro dedicate le due donne: Eloisa e santa Chiara. Facciamo comunque un piccolo passo indietro, e veniamo più che al testo anche al contesto. Intanto Le Goff è un fine storico divulgatore, medievalista eccellente, che ha usato la sua esperienza nel campo per partecipare ad alcune trasmissioni di “France culture”, dove ha appunto riproposto una disamina di queste figure di ieri. Inserendole (almeno secondo la percezione che ho avuto dalla lettura), su due filoni paralleli: persone notevoli che hanno insegnamenti universali e storici notevoli che, in più, ci permettono di riflettere proprio sul ruolo dello storico. Il risultato è un libretto agile, che in pochi trattati comunica quello che intende trasmettere. E dà a noi, volenti, il compito di approfondirne. La capacità di Le Goff è anche (e su questo poi non mi dilungo) quella di biografare in poche pagine queste persone, dandocene i tratti salienti della vita e degli atti che interessano il discorso. (Per meglio esemplificare il suo discorso, pongo i suoi efficaci sottotitoli vicino ai cinque personaggi). Così è per Buddha (“la saggezza venuta dall’Oriente cinque secoli prima di Cristo”), dove credo ci voglia trasmettere la relatività del mondo Occidentale. In Oriente, appunto, cinque secoli prima di Gesù, un uomo ebbe la capacità di riflettere sulle cose, e di trasmetterci il bisogno di un agire retto per seguire la strada della pace interiore. Forse questo è anche il messaggio sotteso, come fare, come agire per essere, non dico felici, ma pacifici. Anche quando, come Abelardo, veniamo da una smisurata considerazione di sé. Ma ponendo le basi (lì intorno al 1200) della riflessione matura sulle cose del mondo. Anche a costo di entrare in conflitto con i beni terreni. Per poi elevarsi ad un pensiero fecondo, in questo sorretto dall’amore di Eloisa (“il primo intellettuale moderno e la prima coppia di innamorati moderna”). Anche Francesco entra in conflitto con i poteri temporali. La sua umanità, prima che la sua divinità, lo porta tuttavia ad essere talmente empatico con tutte le cose, da riproporre, in termini cristiani, l’insegnamento di quasi quindici secoli precedenti venuto dall’Oriente. E fortunatamente ripropone le brevi righe della Laude, esempio eponimo del rispetto che Francesco aveva per tutte le cose. Da laico, prima che da chierico, e sorretto anche qui da quella stupenda figura femminile di Chiara d’Assisi (“Resistenza e novità in un’epoca di trasformazioni”). Prima o poi qualcuno riuscirà a scrivere una storia delle influenze femminili nel corso del tempo, riportando meglio in luce, quante di queste signore e signorine hanno fatto per noi. Sul fronte storico, ho avuto delle difficoltà a seguire i discorsi su Jules Michelet (“l’Ottocento, il secolo della Storia”), a parte la capacità di questi nel fondare una storiografia complessa fondata sulla sua monumentale “Storia di Francia” in 24 volumi. Meglio ho seguito le vicende più a noi vicine (anche se relativamente) di Marc Bloch (“rinnovatore della Storia e partigiano”). Che ha unito una vita esemplare ad una capacità professionale fuori dal comune. Storico militante, si direbbe forse, grande professore, fondatore di quell’approccio ai problemi che dovrebbe battezzarsi “antropologia storica”. Laddove, appunto, si vede che la storia non è, non può essere disgiunta dalle altre branche del sapere. Forse ovvio per noi ora, ma non cento anni fa. Dove Bloch univa geografia, analisi dei catasti rurali, movimenti dalle campagne alle città, per dar conto di come si poteva analizzare la storia post hoc, ma non in modo fine a sé stesso. In modo da poter ipotizzare le linee di tendenza che dal passato, spiegando il presente, ipotizzano uno o più futuri possibili. E militante perché, lui ebreo non praticante, e fervente francese, non si tira indietro dalla lotta e dalla guerra partigiana contro l’occupazione nazista. Tanto da finire torturato e poi giustiziato nel giugno del ’44. Questo percorso serve a Le Goff per darci, come dicevo all’inizio, lo spunto di riflessione sui comportamenti umani, e su quella frase che riporto alla fine, di come la storia (e noi con essa) non può che essere una scienza dell’uomo inserito nel tempo della sua vita. Non è sempre riuscitissimo, per cui alla fine non avrà il massimo del mio gradimento. Ma è un libretto da tener presente. E che mi piace chiudere proprio con la frase che Bloch chiese venisse scritta sulla sua tomba, e che mi piacerebbe fungesse da stella cometa a me e a tutti voi: “Dilexit veritatem”.
“Lo storico è un passatore. Convoca gli uomini del passato per sollecitarli … consegnare il loro messaggio agli uomini del presente.” (11)
“L’uomo – e lo storico è un uomo – è incapace di predire il futuro. Ma può prepararlo.” (13)
“Bloch: Reputo l’accondiscenza verso la menzogna, di qualunque pretesto possa ammantarsi, la peggiore lebbra dell’anima.” (88)
“La storia nella sua continuità come nei suoi mutamenti, è la scienza degli uomini nei tempi.” (96)
Come promesso, alla seconda trama del mese allego un’appendice di cura. Questo mese rimaniamo sull’adolescenza, dove mi dilungo un po’ su qualche rimembranza “alla Holden”. Ed intanto si prepara il viaggio sudafricano di fine mese.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2014
Dopo aver affrontato il mese scorso il problema di essere adolescenti e quali siano i migliori libri omeopatici per accettare quest’epoca di transizione, rimaniamo questo mese “in tema”, occupandoci della Adolescenza come malattia.

ADOLESCENZA

Il giovane Holden, J. D. Salinger
L'ospedale delle rane, Lorrie Moore
Dietro la porta, Giorgio Bassani
Il gelo, Romano Bilenchi
Gli ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio. Il pomo di Adamo si ingrossa, la voce cambia. L'acne infuria. I seni sbocciano. Il cuore - e i lombi - s'infiammano alla minima provocazione.
Per prima cosa, smettetela di pensare che capiti solo a voi. Qualunque cosa vi stia succedendo, Holden Caulfield ci è già passato. Se pensate che tutto faccia schifo; se non volete parlarne; se ai vostri genitori verrebbero «due emorragie a testa» se sapessero quello che state facendo proprio in questo momento; se vi hanno espulso da scuola almeno una volta; se pensate che gli adulti siano tutti gente falsa; se bevete/fumate/cercate di rimorchiare persone più grandi di voi; se i vostri cosiddetti amici vi voltano di continuo le spalle; se i vostri insegnanti dicono che vi state lasciando andare; se vi proteggete dal mondo con la spavalderia, le parolacce, o fingendo indifferenza per ciò che può accadervi; se l'unica persona che vi capisce è vostra sorella Phoebe, che ha dieci anni - se una o più di queste cose si applica anche a voi, allora II giovane Holden vi porterà in salvo.
Per l'adolescenza non esiste cura, ma esistono vari modi per cavarsela. L'ospedale delle rane di Lorrie Moore è zeppo dei soliti orrori - la voce narrante, Berie, è una ragazzina in ritardo con lo sviluppo che nasconde il proprio imbarazzo facendosi beffe delle sue «uova al tegamino» e delle sue «lattine schiacciate da una macchina»; lei e la sua migliore amica, Sils, si sganasciano dal ridere se ripensano a quella volta che Sils cercò di togliersi i brufoli con un rasoio. In effetti ridono parecchio insieme - e lo fanno «violentemente, convulsamente», senza emettere un suono. Insieme cantano, anche - qualunque cosa, dalle canzoni di Natale alle sigle televisive a Dionne Warwick. E noi le applaudiamo. Perché se non si canta male e a squarciagola con i propri amici quando si hanno quattordici o quindici anni, lasciando che la musica ci prepari il cuore a quel «qualcosa di grosso e terribile» che deve ancora venire, quando dovremmo farlo?
Eppure, per alcuni l'adolescenza resta il periodo più infelice della propria vita, come per Carlo Cattolica, il protagonista di un breve romanzo di Giorgio Bassani. «Sono stato molto infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l'ottobre del 1929 e il giugno del '30, quando facevo la prima liceo». È il momento in cui, attraverso le amicizie buone e cattive, si manifestano il tempo della Storia in cui si vive e il proprio tempo inferiore. Anche se Carlo scoprirà di essere inchiodato per nascita a un destino di separazione e di livore, non vi fate abbattere: la porta che troverete davanti a voi dovete spalancarla, a qualsiasi costo.
Un altro grande e in parte dimenticato cantore dell'adolescenza è stato Romano Bilenchi. A distanza di quarant'anni dai due racconti precedenti, nel 1982 pubblicò l'ultima parte di una trilogia che in seguito raccolse sotto il titolo ‘Gli anni impossibili’. «Il gelo del sospetto e dell'incomprensione si levò fra me e gli uo-mini quando avevo sedici anni, al tempo della licenza ginnasiale» dice la voce narrante, riprendendo il filo del discorso interrotto quasi mezzo secolo prima. L'adolescenza è il tempo del gelo, che segue quello della siccità e della miseria. Ma non vi spaventate. Per fortuna, la letteratura è un farmaco a temperatura inversa: più è asciutta, e spigolosa, e gelida, più riscalda. Sarà come applicare un cubetto di ghiaccio su un ematoma, in attesa che si sgonfi.

Bugiardino

Credo di aver letto il giovane Holden per la primissima volta già negli anni Sessanta. Ne ricordo una copia nella biblioteca di mio padre (il DNA non mente molto), e ne ricordo una lettura partecipata nella mia stanza da quindicenne. Stanza che c’è ancora, anche se ormai non abitata. Ma c’è, con il letto giovanetto incassato in una parete di libri. Libri che ormai sono curati da mia madre (altra potente lettrice, che non va mai a dormire se non legge almeno cinquanta pagine di un libro). Ed io ne lessi, e mi appassionai, nel ricordo almeno, più che alle ribellioni, alle “disfatte”, a tutti quei momenti del libro in cui Caulfield è preso a schiaffi dalla vita. Certo le mie reazioni erano molto diverse, più interiori che altro. L’ho ripreso negli anni Settanta, per quella curiosità intellettuale più che verso il libro, ora verso l’autore. E verso il traduttore. Mi incuriosiva questo strambo scrittore che, scritto e con successo un libro, invece di gloriarsi di allori e fama, si andava a rintanare nel New Hampshire, rifiutava giornali, rotocalchi, interviste. E probabilmente neanche scriveva. Solo tardi venni a sapere di altri scritti, e qualcosa ancora ne lessi. Ma, nel mio immaginario, rimane l’autore di un solo libro. E, nei miei primi ardori di lingue altre, avendo ormai introiettato il francese, i primi gradini dell’inglese venivano a stimolarmi. Mi sono quindi imbattuto nel titolo originale “Catcher in the rye”. Dovete inoltre sapere che, all’epoca, mi dedicavo anche all’unico sport agonistico che abbia mai praticato: il baseball. Ed in questo sport, figura di perno della difesa è appunto il ricevitore, che in originale si chiama “Catcher” (visto che in italiano acchiappatore suona un po’ orrendo, anche se l’atleta proprio questo fa: acchiappa le palle lanciate dal lanciatore). E date le iniziali conoscenze alcoliche, sapevo anche che “rye” è la segale da cui si fabbrica un ottimo whiskey. Ma che voleva dire “l’acchiappatore nella segale”? Ricerche tardive mi portarono a comprenderne la derivazione da una storpiatura di una famosa (ma non per me) poesia di Robert Burns, il bardo scozzese. Quando il giovane Holden, per rispondere alla domanda della sorella Phoebe su cosa farà da grande, rispondere che vuole “acchiappare i bambini prima che cadano dal burrone mentre giocano in un campo di segale”. Burns diceva “coming”, Caulfield pensa a “catching”, e si inventa il resto con la sua solita fantasia sfrenata. Quella della bellissima domanda su dove vadano le anatre d’inverno quando ghiacciano i laghetti di New York. Ma l’acchiappatore sarebbe stato un titolo orrendo in italiano, anche se il primo traduttore aveva proposto “Il salvatore sul precipizio” come scappatoia. Ma subito ci si accorse della difficoltà della resa di un tale titolo. La seconda scelta cadde su di un volo pindarico “Vita da uomo”. E solo alla fine, si optò per l’ormai pieno di successo “Il giovane Holden”. E capisco anche che altre lingue abbiano avuto problemi analoghi. Tipo il francese, dove è stato tradotto con “L’attrape-Cœurs” (il Rubacuori). Più vicino va lo spagnolo con “El Guardian entre el Centeno” (Il Custode o Portiere nella Segale, giocando sul ruolo sportivo che potrebbe indurre il termine “Guardian”). Solo il tedesco si è mantenuto puro con “Der Fänger im Roggen”. L’ultima rilettura del libro avvenne negli anni Novanta, sulla spinta della nascita, per merito/colpa di Baricco, della “Scuola Holden” di scrittura creativa a Torino. Sempre amante di letture, e sempre preoccupato di non essere capace di scrivere, pensai seriamente di associarmi alla scuola (peccato fosse a Torino). Nelle more mi dissi valeva bene una lettura del libro. Che, ed è ovvio, mi lasciò meno preso, ma più colpito. Ora non era il tempo di immedesimarsi in Holden. Ma era il tempo di capire il fantastico modo di scrivere di questo scrittore, che riusciva, in pochi tratti, alternando riso e pianto, a rendere a pieno il disagio giovanile della crescita. Non parlerò qui della trama in sé, non essendo uno dei libri entrati nella grande rete delle trame. E poi già ne hanno tratteggiato le “curatrici”, e lì vi rimando.
Pur conoscendo gli autori degli altri libri citati, non li ho letti, e quindi, onestamente, non ne parlo.

Conclusioni

Completamente d’accordo sulla necessità di leggere Salinger una volta nella vita, sarei curioso di conoscere qualcuno che ha letto il libro di Bassani. Anche perché, mi verrebbe di accostarlo al grido di poco posteriore di Paul Nizan quando afferma che non è vero i vent’anni siano la più bella età della vita. Per ora, accontentiamoci di guardare i laghetti ghiacciati continuando a farci domande.

domenica 2 febbraio 2014

Bosch e non solo - 02 febbraio 2014

Perché dopo una puntata tutta dedicata a Banana, questa trama è tutto centrata sul grande Michael Connelly. E dove di certo abbiamo il suo eroe di punta, con il ritorno di Bosch nei ranghi della polizia di Los Angeles, dove ricomincia ad indagare dai “cold case”, ma ben presto tornerà sulla cresta dell’onda, anche se dovrà sempre far fronte al suo caratteraccio. Ma abbiamo anche l’ingresso nell’arena di Mickey Haller, con un ottimo romanzo, che vedrà dei seguiti interessanti nel futuro.
Michael Connelly “La ragazza di polvere” Piemme euro 11 (in realtà, scontato a 8,25 euro)
[A: 01/09/2012– I: 22/08/2013 – T: 27/08/2013] - &&&&
[tit. or.: The Closers; ling. or.: inglese; pagine: 394; anno 2005]
Dopo un paio di libri in cui il nostro amato Bosch, ovviamente Hieronymous detto Harry, è rimasto fuori dalla polizia, ecco che, con un altro colpo da maestro, il mago del thriller ci riporta dentro i dipartimenti di polizia di Los Angeles. Così in un solo colpo, ritroviamo l’ambiente maestro di Bosch, ritroviamo Kiz Rider, la sua compagna – alter ego, contro altare delle migliori indagini di Bosch. E Connelly avrà modo di innestarsi su uno dei filoni preferiti del thriller degli ultimi anni: quello dei cold case. Harry chiede di tornare in servizio, e, insieme alla fida Kiz, viene incluso nelle squadre che si occupano dei casi “vecchi”, ma non risolti (e sappiamo che Bosch ha sempre avuto una passione per questi, inclusa l’uccisione irrisolta della madre). Ed il primo caso è subito “complicato”. Rebecca, una ragazza uccisa quindici anni prima, non ancora maggiorenne. La riapertura del caso è dovuto al fatto che ora si dispone dell’analisi del DNA, non fattibile all’epoca. E sulla pistola viene trovato il DNA di un pregiudicato. Inizia così, con il solito metodo “BOSCH”, una ricerca a tutto tondo. Sull’ambiente della vittima (la scuola, le amiche, il ragazzo, la famiglia, il pregiudicato). E l’analisi dei vecchi rapporti, redatti da due poliziotti, uno andato in pensione e poi stranamente suicidatosi, l’altro all’apice di una grigia carriera ed in vista della pensione. Altri sfasci porta alla luce la morte di Rebecca: la famiglia si è sfasciata, la madre continua a vivere nel ricordo della figlia, lasciando intatta la stanza di lei, il padre non ha retto, è andato via di casa, e fa il barbone per le strade. Si scopre inoltre che Rebecca aveva fatto un aborto poche settimane prima della sua uccisione. E nella stanza di lei, Bosch trova un diario con pagine d’amore dedicate ad un certo MTL. Che non sono le iniziali dello spasimante, ma l’acronimo per “My True Love”. Ritrovano anche Mackey il pregiudicato, ne cercano i passi falsi, ma quando sembra che riescano ad ottenere qualcosa, il tipo viene misteriosamente investito. Morte casuale o omicidio premeditato? Il tutto, inoltre, ostacolato da qualcosa, da interventi non richiesti, da (sembra) depistaggi. Che il pregiudicato, all’epoca dei fatti, faceva parte di una banda di quartiere, di quelle che sorgono in America tanto perché è un popolo pacifico. Banda razzista, dedita a piccoli attentati verso negri ed ebrei. E non a caso i vecchi fatti avvenivano nel 1988, dove 88, nell’iconografia degli sbandati è la doppia H (ottava lettera dell’alfabeto), quella del saluto nazista (Heil Hitler). Volevano fare “casino” i giovani sbarbatelli. Ma la polizia li seguiva da presso. E ne limava le unghie, per cercare di non far scatenare altri casi di “odi razziali”. Non è un caso che sempre la vicenda “Rodney King” esca fuori. Per far tacere gli sbarbatelli si usavano le maniere forti. Meno con il capetto, che guarda caso era figlio di un boss della polizia locale. Harry e Kiz mettono a nudo tutta quest’ala di potere sotterraneo, di malversazioni, di oscuri personaggi dalla luminosa carriera. Ora però siamo nel XXI° secolo, e sembra che anche la polizia voglia ridarsi lustro, emarginando le pecore nere (ahi, perché non abbiamo esempi anche qui da noi, dove le pecore nere continuano a condizionare la vita di tutta una nazione…). Alla fine, scopriamo che Mackey era stato costretto dal giudice correzionale a prendersi un diploma, che aveva rubato la pistola di cui sopra ad un ebreo, che aveva preso lezioni private in una scuola con gli stessi docenti di quella di Rebecca, che era dislessico, ma aveva preso il diploma ugualmente. Bosch fa fatica, ma alla fine tutti gli elementi del conto tornano e disvela la vicenda. La madre di Rebecca riprende a respirare, i cattivi (sia poliziotti che civili) hanno le loro punizioni. Solo il padre di Rebecca non si trova, ma alla fine… E no, questo non ve lo dico. Insomma, un buon ritorno di Connelly, che, uscito dall’impasse di aver fatto dimettere Bosch per incompatibilità con il suo capo, ora lo reintegra, e riesce a far andare in pensione anche il cattivello. Aspettiamoci altri fuochi e fulmini anche nei prossimi libri (sperando che non si continui con gli assurdi titoli che la Piemme continua a sfornare: ma dove sta la polvere della ragazza? Anche se capisco l’intraducibilità del titolo, derivato dal gergo del baseball, dove con il termine “closers” si indicano quei lanciatori che entrano verso la fine di una partita compromessa per cercare di ribaltare il risultato).
Michael Connelly “Avvocato di difesa” Piemme euro 11,50 (in realtà, scontato a 8,62 euro)
[A: 01/09/2012– I: 24/11/2013 – T: 26/11/2013] - &&&& e ½
[tit. or.: The Lincoln Lawyer; ling. or.: inglese; pagine: 426; anno 2005]
Ho sempre pensato (ed i fatti lo confermano) che Connelly sia un bravo scrittore. Direi da bravo a eccellente. Ci sono capitoli della saga di Harry Bosch veramente degni (intrecci, sguardo sul mondo, tensione, rapporti umani). Come ci sono dei bassi (è umano). Al pari dei grandi scrittori seriali poi, a fianco della serie principale, un bravo scrittore inserisce storie, episodi che possono avere vita propria. Si vede come rispondono. E se funzionano si continua. In questo, basta analizzare la maestria della ditta Cussler & co di cui spesso ho parlato. Qui, Connelly (come in altri libri già recensiti) inserisce un nuovo personaggio. Un avvocato difensore (da cui il titolo italiano) che viaggia sempre su delle Lincoln, avendone quattro (e da cui il titolo originale inglese). Devo dire che questo nuovo personaggio funziona. A volte può sembrare irritante, soprattutto nel modo di intendere e rappresentare la giustizia. Ma è di sicura presa. Ha anche una storia interessante alle spalle: padre grande avvocato, morto quando lui aveva cinque anni, cresciutone all’ombra, poi avvocato lui stesso, sposato con Maggie, pubblico ministero (detta Maggie la Spietata), da cui divorzia dopo aver avuto una figlia (Hayley) che ora ha otto anni, poi sposato con Lorna, ma si accorgono presto di aver fatto tutti e due un errore, divorziano, ma rimangono buoni amici, tanto che lei gli fa da segretaria. E lui, Mickey Haller, l’avvocato che gira in Lincoln, fin dall’inizio ci dà un saggio dell’idea di giustizia americana. Oltre al romanzo in sé, questo libro ha anche il pregio di illuminarti, senza essere pedante, su come funzioni la giustizia di là dell’Oceano. Prima di tutto con quella divisione tra penale e civile, per cui se tu patteggi una colpevolezza lieve in un processo penale, puoi essere spennato dai risarcimenti nel processo civile per danni (leggi OJ Simpson, tanto per dirne una). E poi nel penale, tutti i trucchi e trucchetti vari, per aggirare la legge, o quanto meno per trarre vantaggi dalla sua rigida applicazione. Che è quello che fa Mickey, facendo uscire di prigione personaggi colpevolissimi, solo perché c’è qualche intoppo burocratico (tipo, classico, quello di non leggere i diritti all’imputato, o di fermarlo per un motivo ed arrestarlo per un altro; ma ci vorrebbe un avvocato per parlarne, a me resta la sensazione che sia una giustizia veramente “sul filo del rasoio”, con l’unico pregio, sembra, di essere comunque veloce, non come qui in Italia, dove si potrebbe cominciare un lungo discorso, ma lo salto). Detto questo contorno che comunque è interessante, la vicenda ha un suo piglio ed andamento niente male. Mickey viene ingaggiato da un riccone (e questo è una manna per un avvocato difensore) per essere difeso da un’accusa di tentato stupro e omicidio. Con l’aiuto del fido investigatore Raul, si riescono a mettere in fila una serie di prove che rendono dubbia la testimonianza della vittima. Ovviamente calcando la mano sul fatto che sia una prostituta. Tuttavia, cominciano a crearsi delle crepe quando Louis, l’imputato, inizia a dire delle bugie, che Raul scopre. E quando Mickey si accorge che Regina, la prostituta colpita, è molto simile ad un’altra, però uccisa, e per la quale il suo cliente di allora, uno spanglish di nome Jesus, sta scontando una lunga pena a San Quintino, la prigione di San Francisco (ovviamente le gesta di Haller sono a L.A.). Il processo si avvicina, con Mickey che cerca di capire chi, tra Louis e Jesus, sia innocente. Ripetendo una massima del suo augusto padre (“Non c’è cliente peggiore che un cliente innocente”). La situazione precipita quando il suo aiutante Raul, dopo aver lasciato un messaggio a Mickey in cui dice di aver trovato la soluzione, viene ucciso. A questo punto l’avvocato (e noi con lui) è praticamente certo che Louis sia colpevole della precedente morte, ma anche di questo tentativo. Comincia il processo, ed è molto gustoso, dal punto di vista della trama, vedere Mickey che come avvocato cerca di far salvare il proprio cliente dall’accusa di tentato omicidio nel processo in corso, ma cercando nel contempo di mettere le basi per farlo accusare sia del precedente omicidio, che della morte di Raul. Inoltre, di questa seconda vicenda, molto si complica una volta scoperto che la pistola usata è quella che Mickey teneva in cassaforte. E che inoltre Louis (pur appoggiato da una famiglia forte, con madre dispotica) ha un braccialetto di segnalazione che ne individua i movimenti, per cui è impossibile che abbia ucciso Raul. Tuttavia Mickey, con una strategia magistrale (che non rivelo) pur mettendo in pericolo la figlia (ma la LAPD fa buona guardia, e tra lui e Maggie sembrano rinascere pulsioni), trova il bandolo della matassa, riuscendo a far risorgere un sentimento di giustizia che per tutto il libro si era andato perdendo. Ma c’è, come c’è nella serie maggiore di Harry (e noto di passaggio che Connelly passa sempre per la musica, con Bosch patito di jazz e Mickey intriso del rap, che spesso gli dà la chiave dei comportamenti dei suoi assistiti). Insomma, un buon inizio per una possibile nuova serie, rispetto a quelli tentati nei libri #9 e #11 da lui scritti, ma che poi non videro seguito. Una bella e solida scrittura. E, ripeto, una descrizione dei meccanismi giudiziari americani veramente impagabile.
Michael Connelly “Il cerchio del lupo” Piemme euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,92 euro)
[A: 01/09/2012– I: 27/11/2013 – T: 29/11/2013] - &&& e ½
[tit. or.: Echo Park; ling. or.: inglese; pagine: 358; anno 2006]
Un altro buon romanzo di Connelly, solo leggermente scalfito dall’insensatezza della titolazione italiana. Costava molto lasciare il titolo originale? Tanto che nelle maggiori lingue in cui il libro è stato tradotto (almeno in quelle a me note) il titolo è rimasto con il riferimento al quartiere di Los Angeles (noto ai cinefili per aver ospitato gli studios dei primi film di Chaplin e di Stanlio e Ollio). Da noi si traduce, e si introduce un elemento di fastidiosa inutilità. Perché di lupi non c’è nessuna traccia in tutto il libro. Tutt’al più di volpi, che il personaggio cattivo centrale si chiama Raynard, storpiatura del francese Reinart, volpe appunto. E la volpe ha un suo ruolo centrale nella trama. Appunto, allora, veniamo al libro, sperando che prima o poi qualcuno si renda conto delle idiozie commesse. Qui ritorna in primo piano l’eroe di Connelly, il nostro amato detective Hieronymus “Harry” Bosch. Ancora relegato alla sezione “Cold Case” come nel precedente, ed ancora con Kiz Rider come partner. Tuttavia più che su Kiz (qui un po’ in ombra) le luci si riaccendono su Rachel Walling, agente FBI con cui Bosch ha avuto una storia in “Il poeta è tornato”, e che qui Harry coinvolge per cercare di capire meglio la personalità del malvagio di turno, appunto Reinart Waits. Ed è fatale che si riaccenda la fiamma tra i due. Intanto la storia si incentra su Waits, fermato casualmente ad Echo Park con un furgone contenente due cadaveri. Per salvare la pelle dalla pena capitale, accetta di collaborare con la polizia, ed in particolare con Richard O’Shea, un capo dipartimento che sta cercando di dare una scalata politica al potere locale (uno dei tanti meccanismi politici urbani americani che un po’ mi lasciano perplesso per la loro diversità). Comincia a confessare altro, ed in particolare l’omicidio di tal Marie, un caso di cui si era occupato Bosch una dozzina di anni prima, e che era rimasto in sospeso. Qui si scatena la vena intrallazzona di Connelly che mischia polizieschi procedurali e legislazione americana (che abbiamo cominciato a conoscere meglio nel precedente libro sull’avvocato Haller) per darci il solito quadro di mescolanza tra arroganza dei poteri, meschinità delle persone, carrierismo ed altri intrallazzi vari. Proprio per capire meglio Waits appunto, Harry coinvolge Rachel, che gli fa intravedere subito possibili incongruenze, andando poi ad uno dei noccioli della questione (il nome che Rachel subodora falso). Harry si ingarbuglia anche perché O’Shea gli mostra un reperto della sua vecchia indagine che avrebbe portato a Waits ma che fu ignorato. Con tutti questi incasinamenti nella testa, si organizza la ricerca del cadavere di Marie. Che si trova nei boschi intorno ad Echo Park (e devono essere dei signori boschi, visto che ci hanno girato film western). Dove Waits sfrutta un momento di confusione per rubare la pistola ad un poliziotto, ucciderlo, ferire quasi mortalmente Kiz e fuggire. Anche se incolpevole, Harry viene sospeso. Ma il nostro non si arrende mai. Ovviamente aveva copie dei verbali di tutto, e rileggendoli scopre incongruenze con quelli attuali. Mette l’antenna fuori alla ricerca dei bastardi, ovviamente puntando su O’Shea e la sua cricca. Nel frattempo Waits rapisce un’altra donna. Harry e Rachel, spulciando quei verbali trovano una traccia, che li porta di nuovo nei dintorni di Echo Park, dove pare sempre più probabile trovare la tana della volpe (ma quale lupo, signori miei!!). Il nostro eroe senza macchia e senza paura, segue come un segugio questa traccia, riuscendo a stanare la volpe, mettendo a rischio però la vita sua e di Rachel. E questa volta lei non lo perdona. Tutta la storia di Marie era una montatura per incastrare Bosch (oltre che per far salire le quotazioni di O’Shea). Ma che interesse aveva il politico ad incastrare il poliziotto? Una volta che Harry scioglie questa matassa, riesce a risalire anche all’altro bandolo della stessa ed a trovare il vero assassino della ragazza. Chiude così il caso dopo 16 anni. Ma chiude anche la storia con Rachel. Rimane in sospeso il rapporto con la sua ex e la figlia che ormai si sono trasferite ad Hong Kong. Vede compromesso il futuro lavorativo con Kiz, che tornerà in polizia, ma con mansioni più da ufficio. Insomma, tanta carne al fuoco per le prossime avventure del nostro. E per l’inventiva di Connelly, che, confesso, scrive la parte finale con una maestria che mi ha tenuto incollato alla pagina per ore, nottetempo. Dovevo vederne la fine. Questo il segreto di un seriale di successo. Se ti incolla alla lettura, ha già fatto una metà del lavoro. Poi l’attenzione alla realtà quotidiana, ed ai suoi guasti, fa il resto (ricordo che l’azione dei romanzi di Connelly è generalmente in contemporanea alla lettura).
“Qualcuno ha detto che … si finisce per conoscere una città … se si rimane seduti al bancone di un ristorante.” (138)
Michael Connelly “La città buia” Piemme euro 5,90
[A: 15/07/2012– I: 02/12/2013 – T: 04/12/2013] - &&&
[tit. or.: The Overlook; ling. or.: inglese; pagine: 232; anno 2007]
Se mai mi capitasse di scrivere un romanzo storico, penso che lo dovrei intitolare: ”Le astronavi del Sesto Pianeta”. Che c’entra? Beh, come spiegate allora il cambiamento dal mestiere di supervisore (quello che guarda da sopra, l’overlook) a quello di dipendente comunale in sciopero che lascia quindi “la città buia”? E perché buia? Forse perché il nostro amato Bosch - Batman risolve il caso in sole 12 ore, la maggior parte delle quali in notturna? Eppure la supervisione ha un suo preciso senso nello svolgimento della trama. Come l’altro significato possibile, visto che l’omicidio avviene si lungo Mulholland Drive (che ogni volta mi riporta a David Lynch), nel punto denominato Hollywood Bowl Overlook (che è ovviamene un punto panoramico). Questo romanzo, tra l’altro, può essere considerato un passaggio tra il Bosch maturo e quello del tramonto. Ovvio, non di scrittura, ma di impegni e di capacità. Harry, come tutti, invecchia (dovrebbe avere ormai tra i 55 e i 60 anni), e serviva a Connelly un romanzo di raccordo dopo il precedente che aveva messo tanta carne al fuoco, ed era finito forse un po’ bruscamente. Allora, la storia tra Harry e Rachel è tramontata, con la seconda ormai sempre più inserita nei meccanismi FBI. La partner storica di Harry, Kiz, è rientrata dopo il ferimento e la quasi morte, occupando un lavoro d’ufficio. Harry ritorna alla Omicidi, lasciando i Casi Freddi, e si deve ambientare con il nuovo partner Ignacio Iggy Ferras. Insomma, serve un po’ di spazio per mettere qualche punto fermo e consentire anche al lettore “nuovo” di inserirsi nella trama. E quanto di meglio, mettere sul piatto un omicidio con possibili conflitti tra poliziotti e federali? Viene uccisa una persona sulla collina che domina LA, come detto sopra. Peccato che non sia una persona qualunque, ma sia un tecnico addetto al trasporto di materiale radioattivo per cure oncologiche. Peccato che si scopra la moglie legata al letto, e costretta a far da tramite, per permettere a qualcuno di rubare il cesio che trasportava il marito. Ovvio che da qui cominciano subito i conflitti, tra LAPD ed FBI. Ed in particolare, tra chi conduce le indagini da una parte, Harry, e chi dall’altra, Rachel. L’FBI sospetta la mano terroristica e mira tutto al ritrovamento del cesio. Bosch è interessato a risolvere l’omicidio. Quindi contrasti, sgambetti, testimoni che vengono reciprocamente nascosti. Insomma, quanto di meno collaborativo si possa trovare. Ma mentre anche una parte della polizia cade nei tranelli terroristici, e soprattutto post-2001, cioè con tanti arabi di mezzo, Bosch prosegue nei suoi ragionamenti, coinvolgendo il nuovo partner Iggy, anche se un po’ di malavoglia. Che Bosch, e noi con lui, si domanda perché la signora Kent non sia stata uccisa come il marito. Domanda che ti domanda, tra un interrogatorio ad un possibile testimone, ed un’escalation di colloqui con i vertici della polizia, la svolta (ma noi già la si pensava da un po’) l’abbiamo al ritrovamento di una persona con malattia da contatto con i radioisotopi. Si trova l’auto del tizio, con il cesio ed altre prove. Ovviamente senza arabi. Purtroppo Harry maneggia il cesio e rischia anche lui il contagio. Ma riesce a convincere Rachel del suo ragionamento, la porta a casa Kent dove trovano altri riscontri. Ed esce fuori il colpevole, che sembrava veramente poco sospettabile. Come nella migliore tradizione di Connelly, i colpevoli pagano per le loro colpe, ma raramente attraverso la giustizia ordinaria. Bosch sblocca il rapporto con il nuovo partner (che speriamo veder migliorare nelle prossime uscite), e smuove anche il rapporto con Rachel (sempre il difficile connubio tra cuore e testa). Quelli che fanno una figura barbina, sono i supervisori ed i superiori in genere. Anche se l’anarchia di Bosch ormai è un po’ troppo scontata. Nuoce inoltre alla (possibile) bellezza del libro la brevità, che fa succedere tutto di corsa, ma non con quell’andamento mozzafiato dei thriller di gran successo. Di corsa perché Connelly vuole chiudere in fretta, per dedicarsi a qualche trama più articolata. Alla fine, sembra quasi un libro su commissione, visto che, magari, avrà fatto un accordo con tanto di libri a scadenza. Aspettiamo di meglio, anche se questo non è un brutto libro.
“A cinquantasei anni era ancora in forma e asciutto … I capelli bianchi non avevano avuto la meglio su quelli castani, anche se ormai erano molto vicini alla vittoria.” (10)
Ma sapete anche, miei lettori di lunga data, che è la prima trama del mese. Quindi riporto i libri letti nel mese di Novembre, dove l’attesa del futuro Tommaso mi ha reso viepiù lettore, con ben 18 titoli nel carniere. Con due buone prove: la Banana di cui ho parlato la settimana scorsa e l’avvocato di Connelly di cui parlo sopra. C’è anche una pessima riuscita, di una novella di Nick Hornby, che dispiace viste le ottime prove cui l’autore mi aveva abituato.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Banana Yoshimoto
Sly
Feltrinelli
6,50
4
2
Liza Marklund
Freddo Sud
Marsilio
12,50
3
3
Andrea Vitali
La modista
Garzanti
s.p.
2
4
Andrea Vitali
Il meccanico Landru
Garzanti
11,60
3
5
Andrea Camilleri
La rivoluzione della luna
Sellerio
14
3
6
Haruki Murakami
Kafka on the shore
Vintage Books
9
3
7
Ezio Mauro & Camillo Ruini
Laici e credenti nell’età di Papa Francesco
Repubblica – Idee
1
2
8
Nick Hornby
Tutti mi danno del bastardo
Guanda
9
1
9
Clive Cussler & Dirk Cussler
Alba di fuoco
TEA
9
3
10
Giovanni Negri
Il sangue di Montalcino
Einaudi
12
3
11
Amos Oz
Soumchi
Feltrinelli
7
3
12
Erri De Luca
E disse
Feltrinelli
10
2
13
Ian Rankin
Dietro quel delitto
TEA
9,60
3
14
Michael Connelly
Avvocato di difesa
Piemme
11,50
4
15
Francesco
Lumen Fide
Libreria editrice Vaticana
3,50
3
16
Roberto Alajmo
Il primo amore non si scorda mai, anche volendo
Mondadori
10
2
17
Michael Connelly
Il cerchio del lupo
Piemme
10,50
3
18
Erri De Luca
Storia di Irene
Feltrinelli
9
1
E per finire, anche se febbraio si preannuncia come un mese di meditazione e costruzione, già si intravede la possibilità di un nuovo viaggio sudafricano per l’inizio di marzo. Spero che si concretizzi, dato che vorrei tornare nell’Africa australe ora orfana di Mandela. Per ora un saluto