giovedì 23 febbraio 2012

Estate classica - 04 luglio 2010

Comincia l’estate (anche perché fino a pochi giorni fa si aveva ancora il maglioncino), e si tornano ad affrontare dei classici. Accomunati da alcune particolarità: sono tutti e tre Adelphi (e questo non è un caso), e sono tutti e tre scrittori nati lontano dalla patria (il primo in India, il secondo, francese, a Torino, ed il terzo, inglese, a Parigi). Ed ovviamente, essendo classici, sono tutti morti. Domanda ardua: si può diventare classico in vita? Il primo è uno di quegli autori che nel libricino delle possibili letture sono da anni presenti, ma che per chissà quale ragione sempre si rimandava. Il francese è una scoperta, piacevole, della meritoria mini-serie dell’Adelphi. Ed il caustico inglese, è rimasto nel cuore dopo “La diva Julia” di cui si parlò tempo fa.
Gerald Durrell “La mia famiglia e altri animali” Adelphi euro 9 (in realtà, scontato 4 euro)
[in: 04/10/2009 – out: 11/12/2009]
Un classico, cinquantenne, con una passione dentro e con dei momenti veramente esilaranti (tra tutti la cena finale funestata dagli animali di Gerry e dove tutti gli animali, anche quelli a due zampe, danno il loro meglio). La storia è abbastanza nota, data la sua vecchia datazione, ma riassumendola non è altro che l’epopea della famiglia Durrell (tra l’altro, il fratello maggiore che qui viene spesso ritratto come un po’ troppo presupponente, divenne un ottimo scrittore, autore di quel Quartetto di Alessandria che prima o poi rileggerò), che, spinta dalle folli idee appunto di Larry decide di lasciare la brumosa Inghilterra per andare nel sole del Sud, e precisamente in quel di Corfù, dove, tra alti e bassi, vivono 5-6 anni di formazione per il buon Gerald detto Gerry. Ed è appunto Gerry che fa da perno a tutte le vicende, guardandole con il suo occhio di ragazzo che cresce, ed avendo un’empatia gigante con tutti gli animali, anche i più “schifosi”. Durante questi anni, di sfuggita, vediamo crescere anche gli altri due fratelli di Gerry, il cacciatore Leslie, e la ragazzina, la Margo, che a poco a poco diventerà donna. E su tutte la madre, che sarebbe ben interpretata da una Stefania Sandrelli in grazia, svampita ma buona, dolce, e soprattutto capace sempre di assecondare le follie dei suoi 4 figli (anche quando Gerry le porta in casa due sconquassati cani che, per le loro caratteristiche, chiamerà Pipì e Vomito). Facciamo anche conoscenza di tutta la fauna dell’isola, dai grechi furbetti che non parlano una parola di inglese e cercano di raggranellare qualcosa, a personaggi più simpatici, come lo Spiro che diverrà il deus ex-machina dei rapporti con i locali e Lugaretzia che affliggerà tutti con i suoi veri o finti malanni. Gerry cresce e per non rimanere indietro gli vengono appioppati tutta una serie di improbabili precettori, finché non trova il suo pendant nello scienziato Theodore che lo inizia ai misteri dei microscopi (e delle rane botola, e di altri improbabili animali). Fino a che, per varie cause e peripezie, si deve lasciare l’isola del sole e tornare a quella della pioggia. Ma tutto ciò lascerà un segno indelebile in Gerald che continuerà ad amare e studiare gli animali, dedicando loro tutto il resto della sua vita. Libro agile, con una passione dentro che mi ha commosso (quando un amore sconvolge tutta la vita, come quello di Gerald per tutti gli animali). E con un tocco di leggerezza nel descrivere situazioni e modi che mi è molto piaciuto. Certo, a volte, alcune descrizioni sono troppo “animal-dipendenti” per cui ne perdo il filo. Come perdo il filo quando si parla di alberi ed altre botaniche ricercatezze. Ma alla resa dei conti, una lettura, avvenuta in ritardo, ma che non rimpiango affatto.
“io sono troppo vecchia e tu sei troppo giovane per l’amore, eppure sprechiamo il nostro tempo a cantare canzoni d’amore” (51)
“Tu pensi sempre che le cose che fanno gli altri siano semplici” (216)
“Quasi tutti sostengono che man mano che si invecchia … si diventa più aperti alle idee. Che sciocchezza! Tutti i vecchi che conosco hanno la mente chiusa come un’ostrica grigia e ruvida sin da quando avevano quindici anni” (564)
Félix Fénéon “Romanzi in tre righe” Adelphi euro 5,50
[in: 20/01/2010 – out: 01/04/2010]
Fulminanti ma inscindibili dal “personaggio Fénéon”, sorta di letterato vissuto più di 80 anni a cavallo tra il 19 ed il 20 secolo. Dei pezzi riempitivi che per un anno hanno popolato le colonne del giornale “Le matin”, narrando della vita, alla maniera giornalistica. Ma con un taglio di una pura bellezza estetica: una riga per l’ambiente, una per la cronaca del fatto, una per l’epilogo. E poiché non siamo dal lato del “bravo giornalista”, ma del valente letterato, ecco che l’epilogo è lì per stravolgere il senso e la visuale delle righe. Ma serve anche a collassare in uno spazio risibile un mondo di avvenimenti. Del tipo
“Un colpo apoplettico ha steso il signor André, 75 anni, di Levallois, nei paraggi del pallino. La sua boccia rotolava ancora, e lui non c’era già più” (sentite la bellezza della fine in originale:
“Sa boule roulait encore qu’il n’était déjà plus”).
O ancora meglio
“Un uomo sulla trentina si è ucciso in un albergo di Macon, lasciando un biglietto: ‘Non cercate di scoprire il mio nome’”
Oppure
« Mme Olympe Fraisse conte que, dans le bois de Bordezac (Gard), un faune fit subir de merveilleux outrages à ses 66 ans »
Notate la bellezza di quel “meravigliosi oltraggi”!! Son degli haiku occidentali, opera di questo strano critico d’arte ed altro, vicino ai gruppi anarchici francesi (tanto da essere implicato e processato per un attentato, ma assolto anche per il modo come, durante l’interrogatorio in Tribunal, riuscì a ridicolizzare il Pubblico Ministero). Tra l’altro Fénéon in vita ha pubblicato un solo pezzo, che però almeno nella mia memoria, lo avrebbe reso immortale: un breve articolo sugli impressionisti che nel 1886 avrebbe consentito di rendere immortale la loro definizione. In realtà, pubblica anche un libro sull’opera completa di Degas, ma senza una riga di commento ai quadri: ne presenta il nome, le dimensioni, i colori (a volte aggiungendone la tipologia di costruzione). Mi rendo conto che divago, rispetto all’agile libretto, cui va aggiunta una post-fazione mirabile di Matteo Codignola sull’autore che me ne ha fatto conoscere l’opera e cui vanno sentiti ringraziamenti. Un autore o meglio un letterato da ritrovare nelle pieghe della letteratura.
Félix Fénéon nasce come detto a Torino l’anno dell’unità d’Italia, vive nella sua Francia dove muore a 83 anni sul finire della seconda guerra mondiale. Anarchico e critico d’arte, come sopra riportato, andrebbe ripreso nel famoso dibattimento sulle bombe anarchiche degli anni ’90 francesi, con la sua ormai classica presa in giro del giudice del tribunale, con una maestria tale, che, seppur probabilmente colpevole, la giuria lo assolve.
W. Somerset Maugham “La lettera” Adelphi euro 5,50
[in: 20/01/2010 – out: 04/06/2010]
Sessanta paginette che si leggono in un fiato (nella fattispecie tra due percorsi di andata e ritorno in metro per andare a vedere un ottimo film argentino “Il segreto dei suoi occhi”). Ed il cinema ci sta bene, non fosse altro perché da questo canovaccio prima Maugham ha tratto una pièce teatrale, poi un film, quelle “Ombre malesi” diretto da William Wyler che nel 1941 arrivarono a collezionare 7 nomination all’Oscar, tra cui l’impagabile presenza come protagonista di Bette Davis e la regia stessa di Wyler (anche se quell’anno vinsero Ginger Rogers nel film “Kitty Foyle, ragazza innamorata” di Sam Wood, John Ford come regista per “Furore”, nonché “Rebecca la prima moglie” di Hitchcock come miglior film) senza vincerne nessuno. E sembra proprio cucito su Bette Davis il personaggio di Mrs. Crosbie. Leggendolo ti balza subito in mente, lei ed i suoi occhi (qualcuno ricorda Kim Carnes?). Maugham ha poi questa straordinaria capacità di farti balenare i personaggi con due righe di scrittura, riuscendo a condensare così in poche righe, elementi che altri avrebbero portato avanti per capitoli interi. Così vediamo il carattere fermo, anche se ormai aduso agli inganni orientali, dell’avvocato Joyce, l’onesto e faticoso lavoro di piantatore (inteso come responsabile di piantagioni) di Mr. Crosbie, la viscidità del cinese Chi Sheng che ha studiato in Occidente e che lì a Singapore rappresenta un po’ il punto di incontro tra la cattiveria occidentale e quella orientale. Il bel mondo degli inglesi trapiantati in Oriente, che vivono in un’isola dorata, fuori dal contesto sociale, riproponendo quello che chiamo “il tè delle 5” in posti dove ci sono 35° all’ombra fin dalle 6 del mattino. Il bello che fa sempre la sua figura in questo tipo di mondo. E poi lei, la ritrosa Mrs. Crosbie che fredda con sei revolverate il bello che cerca di sedurla quando il marito è lontano. Ma il viscido tira fuori una lettera che potrebbe dare un senso del tutto diverso alla faccenda. Chissà come andrà finire? È colpevole Mrs. Crosbie? Riuscirà l’avvocato a trovare qualche bandolo? A voi l’estremo piacere di scorrere queste pagine e di seguire l’affastellamento incalzante di situazioni che ci propone Maugham, fino al suo scioglimento finale. Scioglimento che, è bene sottolineare, è diverso da quello che verrà sviluppato nel film, dove si aggiunge al finale del racconto, quello che viene chiamato un sottofinale che andrà bene per il pubblico delle grandi sale. Ma che se ora dovessi portare il testo sullo schermo lascerei così. Questo è un finale. Quello “un’americanata”. Ricordo comunque che non è mai facile trasportare un testo pensato per un mezzo espressivo (la carta) in un altro mezzo espressivo (lo schermo). Anzi è un’operazione di una difficoltà enorme. Comunque, un grande piccolo classico, da divorare e poi prenderci sopra un bel Martini cocktail ghiacciato. Sarà poi un caso che Maugham (di cui lessi lo stupendo ritratto di attrice “La diva Julia” e di cui ricordo ancora quella frase che giro alla mia amica Rosa “tutto il mondo è teatro … ma la realtà siamo noi, gli attori”) lo leggo sempre a giugno?
Infine, essendo la prima trama del mese riporto l’elenco dei libri letti in aprile, con un gradimento medio, senza grandissime punte, ma con qualche obbrobrio.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
G
1
Félix Fénéon
Romanzi in tre righe
Adelphi
5,50
4
2
Giancarlo De Cataldo
Onora il padre. Quarto comandamento
Noir Repubblica
7,90
3
3
Giulio Castelli
Imperator
Newton Compton
4,90
3
4
Eric-Emmanuel Schmitt
Il bambino di Noè
BUR
5
4
5
Alexander McCall Smith
Amici, amanti, cioccolato
TEA
8,50
3
6
Fabio Volo
Il tempo che vorrei
Mondadori
s.p.
3
7
Benedetto XVI
Caritas in Veritate
Libreria Editrice Vaticana
2
3
8
Barbara Baraldi
Bambole pericolose
Mondadori
4,20
1
9
Massimo Pietroselli
La porta sulle tenebre
Mondadori
4,20
3
10
Henning Mankell
Nel cuore profondo
Mondadori
9,50
2
11
Clive & Dirk Cussler
Il tesoro di Gengis Khan
TEA
8,90
3
12
Arnaldur Indridason
La voce
TEA
8,60
4
13
Gianrico Carofiglio
Le perfezioni provvisorie
Sellerio
14
4
Il mondiale sudafricano è agli sgoccioli ed io continuo nell’organizzazione del viaggio, con i molti ostacoli dovuti al pienone che questo anno mondiale si riversa laggiù. Continuiamo a lavorarci, sperando che vada meglio tra i portoghesi mozambicani.

mercoledì 22 febbraio 2012

Saggi di fine stagione - 29 giugno 2010

Lo so che oggi è festa solo a Roma per il santo patrono, ma avendo un arretrato di trame che lievita come le discariche napoletane, ne approfitto per tirare fuori una tripletta (av-)vincente. In onore di Pietro e Paolo, ci occupiamo di saggi, diversi, compositi, ma molto affascinanti. Il primo perché parla di quel mondo pittorico a me caro fin dall’infanzia, di quegli impressionisti che cominciai ad amare con Cézanne allo Jeu de Pomme nei miei (lontani?) diciassette. E ne parla non solo e non tanto dal punto di vista pittorico, ma da quello della vita, intrecciando le vicissitudini umane di questo irripetibile gruppo. Il secondo perché parla con le parole del grande saggio della moderna difficile vita, appunto delle difficoltà di questa vita che sfugge da tutti i buchi possibili. Ed il terzo, altro modernista, perché affronta il tema del “dimenticare”, soprattutto, nel mio immaginario, dimenticare per vivere.
Sue Roe “Impressionisti” Laterza euro 12,50 (in realtà, scontato 6,25 euro)
[in: 04/10/2009 – out: 01/02/2010]
Quello che mi aveva attirato era il sottotitolo “Biografia di un gruppo”. Ed avevo visto giusto, era esattamente quello che mi aspettavo di leggere. Non un trattato di arte (anche se si parla di quadri, di colori, di idee) ma soprattutto il lato umano, oggi verrebbe quasi da dire il lato “gossip” dell’impressionismo, anche se il libro è molto più serio di una rivistina di terz’ordine. Ma loro, il gruppo degli impressionisti (anche se poi possiamo discutere se e come fossero un gruppo), facevano parlare di sé, per i quadri, ma anche per la loro tipologia di vita. È impressionante (scusate il bisticcio) vedere questi ventenni intorno ai primi anni sessanta del ‘800, che si affannano, cercano idee, dipingono, cercano di sbarcare il lunario, amano, insomma, gli anni sessanta sono sempre interessanti, anche scegliendo un secolo a caso. Poi qui la buona scrittrice inglese ci fa immergere anche nella Parigi dell’epoca, quella che viveva la trasformazione da città “imperiale” a “ville moderne”, con gli arditi interventi urbanistici del barone Haussmann. E noi, pian piano, cominciamo invece a seguire le vite ed il loro intrecciarsi di questi scalcinati bohemien, di Monet che cerca di andare a scuola di pittura per poter essere riconosciuto come “pittore ufficiale”, e lì incontra Pissarro, e Bazille (che morirà a 24 anni nella guerra franco-prussiana). Gli scontri per entrare al Salone Ufficiale dei Pittori, quello dei Corot e dei Delacroix, dove si agganciano a Manet (che sarà sempre ritenuto il capo anche se non esporrà mai con gli impressionisti). E l’italo-francese Degas (figlio del barone napoletano De Gas caduto in disgrazia) e l’italo-inglese Sisley. Poi arriverà dalla provincia un timido Cézanne che farà per tutta la vita la spola tra Parigi e Aix-en-Provence. E Caillebotte con i suoi lucidatori di parquet ed i suoi canottieri. E l’unica donna del gruppo, Berthe Morissot, infatuata di Manet, che però è già sposato, e dopo lungo patire ne sposerà il fratello. Pissarro è sempre l’anarchico che vive ai margini, quello che accoglie tutti, la spinta politica del gruppo. Dai caffè e dai Moulin di Montmartre si affiancherà uno degli altri assi portanti, Renoir, quello che si sposerà tardi con la dolce Aline che gli darà pace e figli (tra cui il famoso regista). Anche Pissarro ne avrà, e ben cinque (e forse un paio morti giovani). Poi ci sono i mercanti d’arte, quelli soli che, anche se pochi, credono in questa nuova pittura. I Durand-Ruel, che sempre sosterranno il gruppo, fino ad rischiare la catastrofe, ma che ce la faranno, e porteranno (ma solo dopo la metà degli anni ’80) un po’ di benessere ai martoriati artisti. O Hoschedè che invece andrà in rovina, e vedrà poi la dolce moglie Alice e i suoi tre figli andare a vivere con Monet, la moglie di lui ed i suoi figli: che scandalo! Le liti, il bisogno di soldi (Monet che cambia casa di continuo inseguito dai creditori), le incomprensioni. Il passaggio di meteora di Gauguin, che fa in tempo a litigare con tutti. Fino a consegnare il bastone negli anni ’90 ai Toulose-Lautrec, ai Suerat, ai Signac, ma soprattutto a Van Gogh. Ma questo appunto è il tessuto sociale, immerso come detto in quella Parigi che parte dalle trasformazioni del barone, attraversa la guerra del ’70, il grande sogno della Comune, per arrivare epigona, all’Esposizione Universale del ’93, quella della Torre Eiffel per intenderci. Poi c’è il tessuto pittorico. L’idea che il colore è nell’occhio di chi guarda, che le prospettive servono a far vedere il mondo com’è. Come diceva Degas “traccia una linea storta fino a che darà l’impressione di essere dritta”. Ecco, banalmente è questo quello che mi rimane di loro, come quel Salmone di Manet, dove non ci si mette a contare le scaglie come farebbero i fiamminghi del ‘600. Ma per terminare nel personale della nascita del mio amore per loro, dobbiamo fare un salto all’indietro di quarant’anni, quando il vostro tramatore si aggirava a Parigi studiando la lingua ed immergendosi in tutto quello che c’era, dal classico al nuovo. Anche allora, gli impressionisti non erano di casa nei saloni ufficiali (non lo sono mai), al Louvre c’è la Gioconda, c’è Rubens, c’è Rembrandt. Loro sono allo Jeu de Pomme, una casina di riposo dei principi ai margini delle Tuilleries. Lì ci si trovano ammassati alle pareti tutti i quadri più incredibili di quegli anni. E lì continuavo a tornare, non essendone mai sazio. Perché la prima volta, salendo tra piano terra e primo piano, lì sulle scale, c’è un quadro piccolo, due colpi di pennello, un albero di Cezanne. Ne sono rimasto folgorato. L’ho guardato per decine di minuti, e ci sono tornato e ritornato. E me ne sono innamorato. Ed è l’unica cosa cui rimango fedele appunto da quarant’anni. Finiamo col ricordare l’accattivante scrittura della Roe, che, fortunatamente, non ci lascia per strada, annodando i fili delle storie e chiudendole tutte, in un bouquet finale che mi rimanda alle Ninfee, di … (non ve lo dico, vediamo se siete preparati) ed all’indice degli autori citati che, meritoriamente, segnala anche i loro quadri.
“Lasciarlo sarebbe crudele, mi accontento di ingannarlo (Mary che parla del marito al suo amante Edouard Manet)” (274)
Zygmunt Bauman “Modus vivendi” Laterza euro 6,90
[in: 27/11/2009 – out: 16/02/2010]
Cioè come viviamo nel mondo di oggi? E non scordiamoci il sottotitolo “Inferno e Utopia del mondo liquido”. Da poco ho scoperto il pensatore polacco, e la sua visione del mondo fa suonare in me le corde della risonanza. Quando, con il suo sguardo attento, si aggira per i meandri della nostra vita, mi rende più chiari elementi di disagio che a volte non focalizzo. Con la sua idea forte nel fondo e sempre presente in tutti i suoi scritti, il mondo attuale, fatte crollare le barriere istituzionali ed economiche, è un mondo liquido, dove le cose da un lato prendono la forma del loro contenitore (e non viceversa) dall’altra è difficile rapportarvisi perché, come tutti i liquidi, scivolano via. Nei primi quattro capitoli, che sono più organici, questa lente analitica viene usata per guardare alcuni momenti forti della vita attuale, come la produzione industriale dei profughi, lo spostamento verso il basso dell’uso della politica dovuto ad una distorta interpretazione dell’uso del suffragio universale. Fino alla bella analisi degli stati d’animo di mixofobia e mixofilia, della paura e dell’amore verso lo straniero, verso l’altro (e che per versi opposti mi rimandano a Camarrone e Saviano). Stati che a volte, come tutte le cose complesse, coesistono all’interno di ciascun abitante delle città invase dagli “esterni”, da quelli che vengono cacciati dai loro posti di vita perché non c’è lavoro, c’è solo miseria e morte. E non vengono, non possono venire accolti. Da nessuna altra parte. L’ultimo capitolo è un po’ appiccicato, si sente che è frutto di una lezione universitaria, quindi risulta scollegato dal resto. Anche se lì è contenuta un’altra metafora della vita, o meglio del cambiamento della vita attraverso gli anni e i secoli. Dove l’uomo, anzi il progredire dell’atteggiamento umano maggioritario, viene paragonato prima a quello del guardiacaccia, che deve impedire ad altri di venire a cogliere i frutti del proprio territorio. Frutti che comunque vanno coltivati. Un guardiacaccia ha sempre cura degli animali che vivono con lui, perché, appunto gli danno la vita. Poi i territori diventano meno perigliosi, ed il guardiacaccia si trasforma in giardiniere, che ha cura del proprio giardino, e lo fa crescere e prosperare, sa quali piante far crescere e quali “erbacce” estirpare. Fino al rivoltarsi attuale, che lo trasforma in cacciatore, in bieco uccisore e predatore di tutto quello che c’è attorno. E dopo di me, il diluvio. Ecco alla fine l’unico neo, ma molto grosso, delle sue analisi sono appunto queste: sono analisi di situazioni, ma non si interviene, non si riesce a pensare a come modificare il reale. Certo, comprenderlo significa fare un bel passo avanti. Ma è come guardare un bel film-verità che ci svela esattamente com’è il mondo in cui viviamo. Ce ne fa capire i guasti e che così si finirà tutti male. Ma si riesce a fare qualcosa in positivo? Si torna sempre lì, Bauman è scettico anche verso gli interventi locali alla Gesualdi, perché in un mondo globale non esistono soluzioni locali. Anzi a volte, si giustificano malefatte proprie perché (o solo perché) localmente funzionano. Come mettere i profughi nelle mani degli operatori umanitari e dimenticarsi le guardie armate sullo sfondo; come se gli operatori stessi fossero un anello della catena dell’esclusione (e per di più a basso costo). Ma questa è (sarà?) un’altra storia. Intanto facciamoci montare la rabbia leggendone.
“i profughi … non cambiano posto. Perdono il loro posto sulla terra e sono catapultati in un luogo che non c’è … o in un deserto, per definizione una terra inabitata, una terra che non sopporta gli uomini e che gli uomini raramente visitano” (50)
“Dalle Città invisibili di Calvino, Marco Polo dice ‘L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio’” (126)
Marc Augé « Les formes de l’oubli » Rivages euro 5,95
[in: 07/05/2010 – out: 25/05/2010]
Sono contento d’averlo letto in originale, tanto che ho potuto dimenticare il senso dell’italiano e lasciarmi trasportare dal significato delle parole. Infatti mi sono scervellato a lungo su come rendere in italiano il termine ‘oubli’. Perché se da ricordare si può sostantivare il ricordo, da dimenticare come si fa? L’oblio diventa una parola forte, che prende troppo la mano e ci porta nell’omerico paese dei lotofagi. E qui, in questo saggio breve imparo ad amare sempre più lo strano etnologo francese, che, dopo una vita vissuta in Africa, decide di scardinare anche le nostre presenti vite, applicando quella scienza alla nostra vita quotidiana. Nasce così l’etnologo nel metro, la descrizione dei centri commerciali e degli aeroporti come non-luoghi. Ed ora, anche se questo ha già dieci anni, una passeggiata tra psicoanalisi, letteratura ed etnologia per rendere forte l’immagine dell’uso dell’oubli per poter vivere pienamente (passato, presente e futuro). Come un calcolatore un po’ datato, la nostra memoria si saturerebbe subito se non “scegliessimo” di dimenticare. E mi torna in mente quel bellissimo racconto di Borges (Ireneo Funès o della memoria) dove appunto c’era quest’uomo che non dimenticando nulla alla fine non può che scegliere di morire, non potendo sopportare il peso di tutti i ricordi cui veniva a contatto. Cavalcando tra queste discipline, Augé ci porta quindi a riconoscere l’importanza di dimenticare (direi quasi selezionare) i nostri ricordi. Facendoci anche riconoscere che poi questi ricordi sono sempre dei racconti. Cioè non sono mai “esattamente” la fotografia o il video di quello che succede, ma quello che di quell’esperienza vogliamo usare per poter passare da quel passato verso il nostro futuro. Ricorre anche ad una triplice immagine (sostanziata da scritti francesi, ma quasi ovunque noti), delle tre fasi susseguenti l’oubli. Il ricordo (Proust), la sospensione (Stendhal) ed il ri-inizio (Gracq). Soprattutto quest’ultimo mi ha incuriosito, dove si sostiene che  solo dimenticando qualcosa possiamo cominciarne altre, iniziando (ma, avendo dimenticato, ri-iniziando) il cammino. E parafrasando quell’immagine che mi torna da uno spettacolo di Rosa, dove si diceva che invecchiare è l’unico modo per non morire, Augé termina dicendo che dimenticare è il solo modo per restare presenti e ricordare la vita che stiamo vivendo.
“L’expérience des rêves est à la base de la théorie de l’univers qui se dessine dans les rituels, les comportements et les propos des Indiens Mohaves… Les Européens … ont tendance à oublier leurs rêves – ce qui est impensable chez les Mohaves” [L'esperienza del sogno è il fondamento della teoria dell'universo che emerge dai riti, i comportamenti ed i propositi degli indiani Mohave ... ... Gli europei tendono a dimenticare i propri sogni – cosa impensabile presso i Mohave – Trad. mia] (16)
“Je suis un homme entre deux âges, mais j’ai toujours ignoré lesquels” [Io sono un uomo di mezza età ma ignoro quale sia quella intera – Trad. mia] (29)
“L’oubli est la force vive de la mémoire et le souvenir en est le produit” [Dimenticare è la linfa vitale della memoria e ricordare ne è il prodotto – Trad. mia] (30)
“ [nous vivons dans des récits qui sont] le fruit de la mémoire et de l’oubli, d’un travail de composition et recomposition qui traduit la tension exercée par l’attente du futur sur l’interprétation du passé” [[Noi viviamo in storie che sono] il frutto della memoria e dell’oblio, un lavoro di composizione e ricomposizione che riflette la tensione esercitata dalla speranza del futuro sull'interpretazione del passato – Trad. mia] (55)
“il faut être au moins deux pour oublier” [Bisogna essere almeno in due per dimenticare – Trad.mia] (81)
“les voyageurs … savent … qu’un passant … d’un continent à l’autre, ils ne cesseront pas de vieillir … mais il leur suffit pour ... avoir l’illusion de conjurer l’écoulement du temps en se déplaçant dans l’espace. ” [I viaggiatori sanno ... che passando da un continente all'altro, non smetteranno di invecchiare ... ma questo è loro sufficiente per ... avere l'illusione di scongiurare lo scorrere del tempo spostandosi nello spazio. – Trad. mia] (83)
“les individus, au fur et à mesure de leur vieillissement, laissent apparaître des traits familiaux, qui jusqu’alors étaient restés invisibles sur leur figure” [Gli individui, mano a mano che invecchiano, presentano caratteristiche di famiglia, che fino ad allora erano  rimaste invisibile sui loro volti – Trad .mia] (106)
“La littérature est toujours virtuellement subversive” [La letteratura è sempre virtualmente sovversiva – Trad. mia] (114)
“Il est des pages et des images dont nous sommes naturellement amenés à penser que nous aurions pu en être l’auteur ou, à tout le moins, que nous aurions aimé être l’auteur” [Ci sono pagine e immagini che ci fanno pensare che avremmo potuto esserne l'autore o, almeno, che ci sarebbe piaciuto esserne l'autore – Trad. mia] (116)
“L’oubli nous ramène au présent, même s’il se conjugue à tous les temps : au futur, pour vivre le commencement ; au présent, pour vivre l’instant ; au passé, pour vivre le retour ; dans tous les cas, pour ne pas répéter. Il faut oublier pour rester présent, oublier pour ne pas mourir, oublier pour rester fidèle” [Dimenticare ci riporta al presente, anche se integra tutti i tempi: il futuro, per vivere l'inizio, il presente, per vivere il momento, il passato, per vivere il ritorno, in tutti i casi, per non ripetersi. Bisogna dimenticate per rimanere nel presente, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedele – Trad. mia] (122)
Ho voluto, per mia gioia interna, dare una mia traduzione di queste frasi che mi erano rimaste, per poterle condividere anche con i pochi che (ancora) non parlano il francese. 
Stiamo entrando in un caldo luglio di ricostruzione. Domani si torna ad Augusto Imperatore incrociando le dita delle mani e dei piedi. Continuo a scrivere ai miei corrispondenti dell’altro emisfero. E spero che tutti ci si avvii verso una bella estate. Ed un miglior resto del tempo.

martedì 21 febbraio 2012

Il finto noir - 27 giugno 2010

Dopo due settimane mono-autorali, questa volta mi dedico ad una collana, la tanto, da me vituperata, NOIR di Repubblica. Non perché di per sé i romanzi pubblicati siano brutti, anzi, comodo averne qualcuno che avevo perso in veste più economica. Ma perché sono tutti molto lontani dal noir. Possono essere gialli, forse thriller (ma poco), ci possono essere morti ammazzati. Ma niente (e questi ultimi tre ne sono un esempio lampante) di color nero, se non la copertina uniforme della collana stessa (quasi a ribadire il concetto di letteratura di genere, che da noi si chiama giallo in onore alle copertine Mondadori, ed in Francia Noir, per le edizioni Fleuve Noir). Quindi tre romanzi, onesti e leggibili. Ma non, mai, assolutamente noir.
Valerio Varesi “La casa del comandante” Noir Repubblica euro 7,90
[in: 08/09/2009 – out: 12/02/2010]
Il primo libro che leggo della saga del commissario Soneri e delle nebbie del Po. Probabilmente i primi sono più avvincenti. Questo ha interesse, ma non è un noir, tutt’al più un giallo d’atmosfera. Si sta nella bassa, in riva al grande fiume ed è lui che, con i suoi alti e bassi, regola la vita della campagna, e delle città. Direi con i suoi umori, che vengono da lontano, perché lì più d’ogni dove si è rimasti un po’ partigiani, e vibrano ancora le passioni. Quelle politiche, senz’altro; ma ora anche quelle sociali, perché ci sono tanti che arrivano da ogni dove (dal sud del mondo in pochi, dall’est in tanti e tutti un po’ cattivi). E ci sono quelle personali. Il tutto condito con (la mancanza di) soldi e dover tirare a campare. Quindi contrabbandi e tanti. Sigarette ed altro che vanno e vengono. Ma soprattutto armi. Per fare la rivoluzione? Boh! Molti sono i personaggi che vengono dalle prime storie e qui li ritroviamo, e chi come me non li ha ancora visti li trova a volte un po’ sfumati. Forse il commissario ne esce più a tutto tondo (ed ormai nell’immaginario con la faccia di Luca Barbareschi). Ed anche la sua donna. E poi grandi mangiate a bordo fiume, e bevute (con quell’odore di Fortana che si spande per i campi), e tante chiacchiere sul bene, sul dovere, sull’onore, sulla fedeltà. Alla fine la soluzione è un po’ moscia, anche se in linea con la costruzione globale del romanzo. Forse si dovrà leggere altro per dare un giudizio più completo. Per ora lo trovo scorrevole, anche se a volte cercando di fare del piccolo cabotaggio, ci si trova al centro del fiume, sbattendo un po’ sulla riva destra ed un po’ su quella sinistra. Diciamo va bene, anche se potrebbe andare meglio.
“nella vita ci vuole anche un po’ d’incoscienza. Con la saggezza tiri solo a campare. Senza l’incoscienza non combini una sega” (18)
“siamo tutti animali volubili e niente è serio come sembra” (72)
“Aveva sempre la pretesa di soddisfare il ventaglio di emozioni di lei, ma sapeva che quella pretesa era assurda con una come Angela e nessun uomo era mai al riparo dal desiderio di novità di una donna” (79)
“non stiamo parlando di geometria ma di sentimenti. La ragione c’entra poco. C’è una parte oscura di noi del tutto contraddittoria che fa a pugni con la logica” (217)
“Tu hai degli uomini che ti girano intorno … Avrebbe voluto che lei gli dicesse che non era vero: l’avrebbe fatto star bene. ‘Ce ne sono sempre stati, certo, ma per adesso ci sei tu e basta’ rispose … e lui si sentì di nuovo incerto e confuso” (218)
Loriano Macchiavelli “Sarti Antonio. Di nero si muore” Noir Repubblica euro 7,90
[in: 01/09/2009 – out: 29/03/2010]
Ancora un noir che non è un nero. E soprattutto un libro su Sarti Antonio assolutamente costruito, inventato per vendere qualcosa. 4-5 racconti, slegati che una mente perversa cerca di collegare con fili logici che non si legano. Ed un ultimo racconto, che sarà pure inedito, ma sembra soltanto una rimembranza senile di uno scrittore stanco. Ci sarebbe da prendere per le orecchie i due curatori, Massimo Carloni e Roberto Pirani e chiedere loro chi glielo ha fatto fare. Un’operazione inutile, che nulla aggiunge alla fama del nostro poliziotto o alla bravura del buon Loriano. Anzi rischia, in un malaccorto ma intenso conoscitore, di suscitare ire funeste. Ad una raccolta di racconti si chiede di avere uno spirito organizzativo unitario: lo stile dell’autore, alcune tematiche, la definizione di un mondo. Quando poi nell’introduzione si spacciano momenti di scrittura slegati come possibili brani di una biografia immaginaria del mondo del nostro Sarti Antonio, ci si aspetta di certo qualcos’altro. Dopo tutte le belle premesse, ecco che si snocciolano alcune avventure del bravo poliziotto bolognese, ma di corto respiro, dove il lato poliziesco non dico sia poco, ma come nelle migliori analisi urinarie, al massimo tracce. Certo, compaiano l’ottimo Rosas, la sua amante biondina, il mite Cantoni, ma non basta a sollevare il tutto. Compare anche l’alter ego, quello scrittore narrante che nelle normali azioni Sartiane ha un ruolo di cronista ma anche di stempero della tensione, quando c’è, e di elemento normalizzatore. Qui, addirittura, diventa quasi un protagonista, interviene, fa, dice, ed agisce. Fino a quell’ultimo racconto, spacciato “con la benevola partecipazione di”, e che è una rielaborazione di alcuni capitoli di un libro del nostro. Ma proprio in quanto capitoli di un libro, non hanno alcun senso compiuto, così, slegati dal contesto narrativo. Se in “Sgumbéi” Macchiavelli cerca di interpretare insoluti misteri bolognesi a ritroso fin nell’Ottocento, qui rimangono momenti isolati, ed oserei dire, inutilmente onirici. Chi ama o almeno chi vuole bene al disincantato poliziotto, alla sua colite, ma soprattutto al suo amore per il caffè, che gli fa marcare con una croce di ostracismo quei bar che ne servono di brodazze imbevibili, terrà questo libro come memento e complemento dell’opera completa. Non ne sarò certo arricchito. Né tanto meno (e questo è un altro grande difetto) incuriosito di modo che se ne vada a cercare altri. Peccato. Poteva essere un giallo invece è una cyclette (scusa Troisi). Mi accorgo che non ho tramato nessun pezzo di questa raccolta. Ma non ne merita.
“Noi siamo condannati ad essere quello che siamo … è così, non possiamo farci nulla. Ma non diteglielo, non lo sopporterebbe” (17)
Giancarlo De Cataldo “Onora il padre. Quarto comandamento” Noir Repubblica euro 7,90
[in: 21/07/2009 – out: 02/04/2010]
Ultima lettura della serie Noir di Repubblica. Finita e senza troppi rimpianti (anche questo è tutto fuorché un nero, anzi è proprio un giallaccio tra l’altro pubblicato in prima istanza proprio nei Gialli Mondadori e sotto pseudonimo). Un libro decente, che si lascia leggere, soprattutto con quella ambientazione di rimembranze riminesi. L’Hotel Excelsior, il Grand Hotel, le spiagge felliniane, Riccione e Gabicce a Mare. Manca solo il caffè Pascucci e il Mucho Macho e siamo al completo. Si sente che è un libro un po’ buttato giù “in fretta” quasi fosse più una prova per qualche sceneggiatura televisiva che per un riflessivo romanzo. Ma nella sua esilità, si legge comunque piacevolmente. L’indagine del bravo ispettore Marco Colonna, orfano di padre ignoto, che per la sua specializzazione presso l’FBI come esperto in serial killer viene catapultato nella natia Rimini che aveva lasciato a pochi mesi, fuggendo a Milano con la madre. Indaga sulla morte della facoltosa Federica, e subito scopre le tracce di un possibile serial killer. Contro le pressioni del pur ottimo vicequestore Prosperi si butta a capofitto alla ricerca di questo strano assassino, che non violenta le vittime (tutte donne), che brucia bastoncini di incenso e che mentre le tortura ascolta il cd Silence dei Flying Objects (inventata ma molto reale). Coinvolgendo il personale della stazione di polizia di Rimini (soprattutto la bella Anna, come tutte le riminesi doc). Alla ricerca del mostro si sovrappone ben presto anche quella del padre che lo ha abbandonato. Ma il giallo, ben presto si risolve, e la tensione al bene dei buoni rimane (non come il di poco successivo commissario Scialoja di Romanzo Criminale). Come rimane la descrizione di questa Rimini fuori stagione, dove ti allontani un po’ dal lungomare e trovi il mondo arcaico della provincia italiana. Di Piazza Cavour con i suoi bar, ma anche delle colonie estive di eredità mussoliniana. Ripeto, si lascia leggere, tanto che l’ho divorato in un paio di giorni, ma che non lascia molto su cui pensare. Una sola notazione marginale, a pagina 138, non avrei messo (o avrei annotato) la storiella che racconta un ispettore per mettere in ridicolo il questore, che è ripresa tale e quale dal monologo di quindici anni prima di Troisi intitolato “Il pazzo”, quando il grande comico spiega perché ha sodomizzato padre, madre e figlia, sotto la spinta dell’ossessivo padre che lo spingeva a farsi una famiglia!
“Alberghi, stazioni, aeroporti … luoghi di passaggio, insomma: fosse dipeso da lui, vi avrebbe consumata tutta la vita in un’interrotta sospensione del tempo” (17)
Tutto in pensiero alla chiusura dei lavori aperti ed al pensiero dei viaggi da chiudere.

lunedì 20 febbraio 2012

Anti-salveide - 20 giugno 2010

Questa settimana, in attesa dell’atteso libro a 4 mani con Lucarelli, e per rendere omaggio a chi va in Sicilia (o in viaggio di nozze o solo per vacanza) si parla di Camilleri. E, come accenna il titolo, di Camilleri senza Montalbano. Ho preso in mano due delle prime uscite, e la penultima. Come dire? Ci sono momenti che senza Montalbano funzionano meglio. Altri meno. Certo il buon commissario scicli-vigatese porta quel tocco di buonismo che manca in altri scritti. Ma non sempre le cose del mondo sono buone. Poi, soprattutto nel Birraio, ci sono momenti di grande ilarità. Correggo l’errore, di citare il Birraio come primo, essendo il secondo, ma peccato veniale fu. Infine, rispetto ad alcune delle penultime prove montalbaniche, qui si sente la penna del grande vecchio. Una buona penna, comunque sopra gli standard.
Andrea Camilleri “Il birraio di Preston” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato 4 euro)
[in: 04/10/2009 – out: 28/11/2009]
Finalmente sono riuscito a leggere il libro che ha dato il via alla saga di Camilleri, non nel senso di Montalbano, ma nel senso della Sicilia in generale e di Vigata in particolare. Piacevole e pieno di spunti, anche se mi ha fatto arrabbiare trovarmi scippato di un’altra idea mia (dopo quella rubatami da Diego Da Silva sui testi delle canzoni degli anni settanta), quella di utilizzare brani di altri libri come commento ai capitoli, per mescolare il tutto (e rendere un sano omaggio a Calvino). Qui si usano gli incipit di vari autori per principiare i capitoli che puntellano la saga del teatro vigatese. In un gioco tutto di equivoci e scambi vari. Strano poi avere questa sensazione di libro datato (in fondo è uscito una ventina d’anni fa) ma fuori dal tempo. Uno dei migliori esempi della verve di Camilleri. Storie che si intrecciano (gli amanti per una notte, il poliziotto cortese, il mazziniano romano fuori di testa, il prefetto piemontese forte della sua autorità, il mafiosetto locale, ed il grande capomafia, non a caso chiamato l’onorevole) intorno al nodo principale: l’inaugurazione del nuovo teatro di Vigata dove il prefetto vuole a tutti i costi far rappresentare un’opera risibile, quel ‘Birraio di Preston” di Luigi Ricci, realmente rappresentato al Teatro della Pergola in Firenze nel 1847 (e di cui il libretto d’opera esiste ed è conservato nella Biblioteca Nazionale Australiana!!!), pensando di averlo visto con la sua futura sposa (ma si sbagliava, era il Boccherini). E da questo scambio, e dalla pervicacia ed arroganza del potere, nascono tutti gli altri scambi, di persone, di amanti, di situazioni. La cifra è allegra, la lingua di base il dialetto vigatese, con inserti piemontesi (il prefetto), toscani (la prefettessa) e romani (il mazziniano). Peccato che alla fine dei giochi tutto vada un po’ male, e non c’è nessuno che ne esca non dico felice, ma neanche allegro. Questo sembra poi il messaggio finale di Camilleri, dove i soldi ed il potere mettono le mani non può che finire sempre e comunque male. Una lettura di testa e non di cuore, ma comunque letto con gusto.
Andrea Camilleri “La rizzagliata” Sellerio s.p. (regalato a e ripreso da Mamma)
[in: 19/10/2009 – out: 17/02/2010]
Un romanzetto gialletto senza il commissario. Ma, come dice il risvolto, qui ci sarebbe entrato a fatica. Non ci si può muovere con l’elefantiasi Montalbaniana nei meandri del giallo-politico-mafioso di Palermo. Da un delitto in stile Garlasco, ad una vicenda che intreccia poteri forti e deboli, nonché con delle buone frecciate verso i mass-media. Di buon effetto, ritornando un po’ alla falsariga comico-impegnata del famoso birraio. Qui, siamo nell’attuale e l’atmosfera si fa cupa. C’è la lotta di potere all’interno di una testata regionale RAI. Ci sono corna e contro-corna (cioè corna fatte per amore e contro fatte per spregio o per carriera). C’è il famoso delitto di cui sopra, dove si intrecciano mafia e gelosia. Ma ci si innesta anche la politica con tutta la pletora di clientelismo che vi girano intorno. Sarà il buon senatore (forse buon non è la parola esatta) che da lontano, da Roma, intreccerà e streccerà inganni e svisamenti, in modo che la vicenda, passo dopo passo, avrà una sua fine. Ed ovviamente, non sarà una fine positiva. I cattivi non avranno pene per le loro malefatte (o comunque non quelle che si meritavano). I cattivelli continueranno ad avanzare. I cattivi che sbagliano saranno puniti dai cattivi che non sbagliano. E i buoni? Beh, quelli non sono presenti, neanche di passaggio. Ma tutto avrà un suo fine, una sua logica (e questo è sempre un buon punto per un autore). Svelando anche il mistero di quel titolo preso, non casualmente, dalla pesca. Qualcuno lo sa decifrare senza andare subito su Internet?
Andrea Camilleri “Il corso delle cose” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato 6,40 euro)
[in: 23/04/2010 – out: 08/06/2010]
Sfatiamo subito il mito, che ho scritto due trame più su (ma che ho corretto nell’introduzione). Questo è in realtà il primo libro scritto dal buon Camilleri a 42 anni, solo che (come narra nella breve post-fazione) ha avuta una laboriosa e praticamente clandestina uscita. Solo la riproposizione presso Sellerio consente di apprezzarne la scrittura e la trama. E come primo tentativo, pur nell’altalenarsi ancora di momenti di peso diseguale, ha già un suo interesse. Per la lingua, dove appunto si usa il parlato, anche se ancora non a livelli dei bofonchiamenti dell’ultimo Montalbano. Un parlato molto diluito, ma che comincia a contenere espressioni e modi che non vanno “tradotti” (come dice lo stesso Camilleri, trasportarli in italiano fa risultare la prosa distaccata) ma fluiti, forse non capiti parola per parola, ma se ne sente il senso. Ed alcuni intarsi “di folklore e di costume”, ancora sbozzati, ma, soprattutto nelle pagine sulla genesi e lo svolgimento della saga di San Calogero (Calò per gli amici) si sente l’irrompere del “suo” mondo siciliano. Che, libro dopo libro, anche un po’ nostro è diventato. E non manca quell’impegno (o almeno tentativo) di libro di critica sociale, un po’ sulla scia di quelli che considerava i suoi maestri, i famosi svedesi Sjowall & Wahloo del commissario Beck. Qui ci si limita ad un accenno al “bandito Giuliano”, e poi all’atmosfera generale. Quella delle piccole e grandi mafie, degli sgarri, del dire e non dire, del mandare segnali di fumo, prima di arrivare al fuoco vero e proprio. Anche lo svolgimento è interessante, perché (d’altra parte ce lo avverte il titolo che il corso delle cose è sinuoso) si srotola a poco a poco, da una parte con un morto di mafia sicura, che i carabinieri non riescono a dipanare, dall’altra mentre seguiamo le avventure del buon Vito, che certo nulla ha a che vedere con quei fatti, ma che ci si trova invischiato senza la capacità di uscirne. Proprio perché è uno che non vorrebbe far torto a nessuno, che non vuole essere messo in mezzo. Ma questo suo defilamento si scontra con la sua “innocenza” (sbadataggine?) che gli farà fare dei passi più pericolosi di quanto sembra. Usando già questo rincorrere di fatti, prendendo spunto dei mille rivoli della storia, divagando tra personaggi e “pupi”, Camilleri ci costruisce una bella foto di uno spaccato di Sicilia che, purtroppo, ben reale 40 anni fa, non credo sia del tutto sparito. Si sarà evoluto (come si evolve la sua scrittura, se paragonata all’ultimo libro giallognolo senza Montalbano, di cui alla trama poco sopra). Ma certo non sparito. Come tutte le opere del suo spaccato di vita, è sempre un po’ con poche speranze, e soprattutto senza dei veri “buoni” (che si incarneranno soltanto in Montalbano, che, solo, riuscirà, nel suo piccolo, a raggiungere punti positivi). Insomma, pur avendo l’età di Camilleri quando lo scrisse, il romanzo scorre piacevolmente in questo inizio d’estate, promettendo succose granite di limone ai lettori.
“forse, come al dolore, c’è anche un limite alla paura, oltre il quale non si può andare, ed è così che, certe volte, i vigliacchi finiscono per diventare coraggiosi” (122)
Rendendo ancora omaggio ai novelli sposi, mi accingo a fare l’ennesimo bagaglio per una conferenza di lavoro in quel di Bled (Slovenia). E sottolineare come nel giro dio pochi giorni (in effetti meno di una settimana) abbia deciso di accettare un giro avventuroso (Sudafrica – Mozambico) che nel giro di un volgere di ore, si è già chiuso. Ma tutti in Sudafrica vanno, quest’anno?

domenica 19 febbraio 2012

La morale minima di Adorno - 13 giugno 2010

Niente paura, non mi sono dedicato alla scrittura pur interessante del grande filosofo tedesco, ma a quella, minima appunto, ma densa, della scrittrice italiana Luisa Adorno. Ormai avviata verso i novanta, e non particolarmente prolifica, mi è capitata tra le mani l’anno scorso. Mi è piaciuta, ed ho deciso di approfondirla un po’ prima di parlarne. Ho quindi letto prima il suo ultimo libro, poi i primi due. Tagli diversi. Diverse rese. Ma in tutte il suo modo di presentare fatti e sensazioni, e questo me l’ha reso piacevole leggerlo. E perché no, ricco anche di spunti di riflessione, sull’amicizia, sui rapporti con i genitori, sullo stare. Insomma letture di buon livello, di quelle che adoro, cioè dove lo scorrere è semplice, ma ci si trova sempre qualcosa, che semplice non è.
Luisa Adorno “Tutti qui con me” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato 8 euro)
[in: 18/10/2008 - out: 19/09/2009]
Un libro che mi piacerebbe potesse scrivere Rosa. La buona scrittrice, di cui penso che leggerò altro perché il suo stile mi è piaciuto, in vecchiaia manda in giro un po’ di cartoline per evocare, ricordare, tenere sul filo della penna, momenti vissuti, con tutti quelli (o almeno con molti) che hanno fatto dei tratti di strada insieme a lei. Rimangono in ombra il marito e la figlia, ma escono in piena luce amici, amiche ed anche momenti della lunga vita della quasi novantenne autrice. Si va indietro nel tempo, al dopoguerra, al primo impatto con la Sicilia, e poi agli anni iniziali di insegnamento via via fino all'oggi. È lungo la strada che la Adorno percorre compaiono volti più noti e meno noti: Anna Banti, direttrice della rivista "Paragone" insieme al marito Roberto Longhi; Carlo Muscetta, l'insigne italianista; Luciano Dondoli, filosofo crociano; Rosario Assunto, professore di estetica; Niccolò Gallo, filologo e critico; Guglielmo Petroni, poeta e scrittore. Su tutto e tutti svettano i paesaggi della Adorno, i suoi "luoghi dell'anima", Pisa, e la Toscana, Roma, ma soprattutto la Sicilia e Catania. E sempre con una grazia nel porgere, nel dire, nel fare. Con la capacità di evocare tutte queste presenze che hanno fatto in modo che una persona sia la persona che è adesso. Ognuno di noi si porta dentro questi pezzetti, con sé, ed è bello avere la capacità di riuscire a tirarli fuori, a tributarne omaggi ed a riceverne. Quello che siamo ora è il cumulo di quanto ci è avvenuto. E noi siamo, anche, tutto questo.
“non si invecchia a gradini, s’invecchia a pianerottoli” (125)
“eravamo ancora giovani e non lo sapevamo” (166)
Luisa Adorno “L’ultima provincia” Sellerio euro 8 (in realtà, scontato 4 euro)
[in: 04/10/2009 – out: 26/12/2009]
Il primo libro di Mila. Scorrevole, tipico della sua scrittura che altrove ho imparato a conoscere, qualche sorriso. Storia (autobiografica) del passaggio dalla giovinezza ribelle e segnata da Guerra e Resistenza, ad un dopoguerra dove, sposandosi, entra in contatto con un mondo “alieno”: una prefettura italiana degli anni ’50, con tutto il suo corredo di burocrazia e personaggi eponimi. Sciascia, nella sua introduzione, lo paragona a certe pagine di Brancati. Io ne riporto il detto, non avendone le capacità di commentare. Io ho gradito, quelle descrizioni di case che da contadine pian piano si fanno borghesi. Quei personaggi in bilico tra dovere e clientela. L’immensa Prefettessa, con tutto il suo bagaglio di silenzi, di piccoli cani, di paure e di trasalimenti. La storia in sé non c’è, per raccontarla si dovrebbe trovare quell’artificio di un vecchio Calvino che per riportare la storia ne ripercorre analiticamente tutti i passi, facendone un sunto più lungo dell’originale. Quindi non starò a tediarvi con 100 e più pagine. Leggetelo, perché merita. Leggetelo anche se fu scritto nei primi anni ’60. Ma quello scriversi a ridosso delle cose narrate, ci consente di apprezzarne la vivezza senza essere né offuscate né imbellite dal ricordo. Ripenso a dei passi. Alla fatica di essere accettata in un ambiente diverso. Al dispiacere di vedere l’amato soffocato dall’ambiente familiare. Ma con la capacità (per bravura e per amore) di uscirne. E bene. I piccoli drammi quotidiani, dai pranzi d’occasione alle serate fredde. Fino ad accompagnare il suocero nel suo calvario tra dovere e piacere, ed alla sua liberazione verso l’agognata pensione e la casetta di campagna. Con alcune chicche descrittive (le partenze, gli incontri canicolari, gli sguardi del cane, ma soprattutto quello dell’ammalato che riporto per la sua aderenza a molti miei vissuti). Ripeto quindi e vi lascio con un leggetelo, merita.
“Alla prima strinata di freddo Cosimo si ammalò. Una qualunque influenza che non gli impedì di giacere, fermo come un morto, le coperte tirate dalla punta dei piedi all’orlo del naso uncinato dal solco degli occhiali. ‘Perché non leggi? Perché non fai qualcosa?’, gli dicevo. Mi rispondeva un gemito di riprovazione appena soffocato dalle coltri. Questa che io credetti una sua stranezza, è invece il comportamento comune degli Adorno ammalati. Niente si deve fare per distrarsi dal male, niente per ingannarlo, e non per un bisogno di ascesi, ma nella ferma convinzione che a stare fermi, la bocca e le braccia coperte, a non ‘sventoliarsi’, il male se ne vada prima. Un Adorno ammalato non parla, geme, di preferenza dopo aver controllato sul termometro un minimo rialzo di febbre. Non ha bisogno di leggere, ‘… aio che pensare!’. Rifiuta infastidito, la sua mente essendo continuamente occupata a cogliere un dolore, un rantolo, una fitta, e a rispondere, dentro di sé a quell’ ‘unne lo pigliasti?’ con cui lo martella chi lo assiste.” (148-149)
Luisa Adorno “Le dorate stanze” Sellerio euro 8
[in: 25/04/2010 – out: 10/06/2010]
Ed ora, con molta più velocità dei precedenti, s’è letto anche un altro libro di Mila, che fa un po’ da contraltare al precedente, narrandone intersezioni, sequenze e conseguenze. È comunque un suo libro minore, meno riuscito del precedente, anche perché imbastisce tre tempi di una lunga storia, che poi non è che la sua vicenda di vita. Ma che risultano di diverso peso. Bella, coinvolgente, la prima, con questo strano rapporto di amicizia, che prosegue sul filo degli anni. Che nasce sui banchi di scuola, matura all’ombra della seconda guerra mondiale, poi si sfilaccia. Ma questo riannodare, forse per qualche dolore che non viene detto, per pudore, i fili della vita delle tre amiche, Luisa, Ninni e Valeria, ha dei momenti che mi ci facevano perdere. Le grandi pensate bambinesche quando tutto è (sembra essere) a portata di mano. L’intrecciarsi di vite, amori, fatti anche piccoli (una gita in bicicletta che mi ricorda le passeggiate giovanili in riva al Salinello). E poi le decisioni, la guerra, fosca, che permea tutto. E si ritrovano momenti che nel precedente erano anche ben trattati (quel ritornare a Pisa a vedere le macerie della propria casa) e se ne apprezzano le nuove angolature. Quel dilatare sui banchi di scuola i discorsi di Mussolini fino a farli diventare temi in classe. Ecco, è un momento, una frase che fa salire agli occhi, meglio di mille saggi, il clima di un’Italia dove la maggior parte di noi non c’era, ma che sembra ritornare con prepotente alterigia. E questo sottile sorriso che alleggia nel filo dei ricordi, è un balsamo per i cuori malati di ricordi. Com’è piacevole sentirli riaffiorare e poterli maneggiare. Con cura, perché ben sappiamo dalla lezione degli antropologi francesi e degli psicologi in genere, che poi non sono quelli i ricordi, quelli sono la parte di ricordi che ci piace ricordare, anche trasfigurata, ma immancabilmente diverse dal momento in cui si è vissuto quel momento. Ne mancava allora quanto meno la consapevolezza. E forse questa mancanza rendeva (rende) più accettabili anche momenti di scarsa felicità. Poi gli altri due tempi in cui si vede, si narra il rapporto di Mila con la seconda moglie del padre, per capirne i motivi segreti, di questa donna del Sud, che non riesce ad uscire dal suo bozzolo (un po’ di sano taglio comunista sullo sfruttamento delle donne è bene che sia presente). Ma la vicenda rimane un po’ lì, senza graffiare più di tanto. Più che altro serve per collegare fili altri. Come la morte del padre, o la presenza di questo fratello di venti anni più giovane. Come serve a poco, la vicenda svizzera di questo intermezzo un po’ pre-Erasmus di tre mesi a studiare in Svizzera durante l’Università. Si abbozza alla figura di questa Agathe che odia il suo nome e che ebbe una grossa colpa in gioventù. Ma tutto questo, unito alla presenza un po’ inutile del buon Hans che vorrebbe sposarla, sembra più un esercizio di stile che un utile momento di scrittura. Questi sono incisi, rimane, bello e forte, il primo tempo, con quell’immagine di lei che declama in greco sulla battigia della marina toscana a me cara le lamentazioni di Eschilo per la sconfitta di Salamina. Ha fatto piacere leggerlo. Ma bastano le prime 100 pagine, poi si può tornare al primo libro di cui ho parlato, il primo che ho letto, anche se è l’ultimo che ha scritto, e di cui rimane nel cuore il calore dell’amicizia.
“Ma che amicizia era mai la nostra se le cose importanti le dicevamo dopo averle decise o quando erano già accadute?” (59)
“se saremo insieme anche la vecchiaia sarà salva” (109)
“Je ne vous comprend pas … si j’aimais un homme, je ferais tout, tout ce qu’il veut” (231) [Non ti capisco … se amassi un uomo farei tutto, tutto quello che lui vuole]
Per il resto, a parte il caldo, un pensiero a mio padre (di cui oggi ricorreva il compleanno) ed alle prossime giornate di fitto lavoro. Poi, speriamo, dopo il 25, un po’ di sano riposo.

sabato 18 febbraio 2012

Scandinavo senza commissario - 06 giugno 2010

Questa settimana, dopo che s’è visto l’ultimo Millennium, facciamo un omaggio all’altro grande scrittore svedese, a noi ben noto per la saga del commissario Wallander. Ma anche, per chi non lo sapesse, sia per il suo impegno sociale in Mozambico (dove vive 6 mesi l’anno) sia per il suo impegno umanitario (era sulla nave che ha tentato di raggiungere Gaza). Qui ne riportiamo delle letture senza commissario. Devo dire che in queste prove non mi ha convinto molto. Forse solo la prima, dove, per continuità, ci presenta la figlia ormai cresciuta del commissario. Le altre hanno qualche idea (come dirò) ma nel complesso mi hanno lasciato un po’ freddo (certo è scandinavo!). Però mi piace nel suo complesso, e continuerò a parlarne.
Henning Mankell “Prima del gelo” Mondadori euro 8,80 (in realtà, scontato a 4,64 euro con Feltrinelli+)
[in: 25/01/2009 - out: 25/10/2009]
Qui siamo sul versante del quasi-dopo, dove si cerca un rinnovamento nella continuità. Ancora mi sembra da rodare. Il dopo, è che il commissario Wallander invecchia, e bisogna trovare un sostituto. Entra quindi a poco a poco, in scena la figlia, che decide di entrare inopinatamente in polizia, e qui viene coinvolta, poco prima della sua entrata in servizio, in una inchiesta tipica delle storie del commissario. Premesse altre, come al solito, e contesto attualizzato: si inizia ai tempi del suicidio di massa dei Bambini di Dio e si termina davanti ad un televisore l’11 settembre del 2001. In mezzo la storia di uno pseudo – svitato che fonda una setta religiosa e cerca di mettere a ferro e fuoco le chiese svedesi. Il tutto condito da un paio di rapimenti, qualche omicidio, ed una larvata storia d’amore (questa molto Mankelliana: l’ispettore del Ritorno del maestro di Danza, chiede il trasferimento nel commissariato di Wallander ed incontra la figlia di lui… vedremo il seguito). Le parti più deboli sono le lunghe tirate para – teologiche sulla (cattiva) interpretazione della Bibbia e delle Sacre Scritture (godibile l’intervento del teologo donna). Sembrano un po’ “appiccicate” come se facessero parte di altro. Ed un sospetto viene, che si tenti anche una minima operazione trasversale di instillare il pensiero che non solo il fondamentalismo mussulmano, ma anche quello cristiano non possano che portare a guasti e dolori. Più interessante la costruzione del personaggio di Linda, che nelle altre puntate Wallanderiane abbiamo a volte incrociato, e che qui si cerca di (ri-)costruire. I rapporti con la madre ed il padre (anche se questi probabilmente andranno avanti nei seguiti) e quelli con il nonno che disegna solo paesaggi scarni con o senza galli cedroni. Viene fuori un ritratto aggiornato di una svedese d’oggi, con le problematiche che ci aspettiamo nelle persone della fredda Scandinavia. Ma un po’ di dubbi me lo lascia il fatto che Henning è di un'altra generazione e vede i trentenni con i suoi occhi da sessantenne. Nel complesso, comunque, una buona lettura domenicale, ed una speranza che i commissariati svedesi non ci lascino soli.
Henning Mankell “Il cervello di Kennedy” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[in: 27/11/2009 - out: 06/02/2010]
Qui siamo sul versante “niente Wallander”. Comincia come un giallo e finisce come un reportage. Si sente tuttavia la partecipazione dell’autore, perché si parla di AIDS e molta parte della vicenda è ambientata nella sua Maputo. Ma il tutto, alla fine, non è che convince molto. Tra l’altro (forse volutamente) ti mette un’angoscia addosso, quando la madre archeologa, ad inizio libro (non rivelo nulla) va dal figlio e lo trova morto: omicidio o suicidio? In ogni caso una bella angoscia. Così come poi si continua con l’ineffabile Louise che si aggira per il mondo e (più o meno) sembrano morire tutte le persone buone che incontra. Comunque parte come un giallo e poi, Louise cerca di scoprire chi è il figlio realmente (e scopre che aveva soldi da vendere e case in affitto in mezzo mondo…). Non si capisce mai bene cosa c’entri il cervello di Kennedy, se non che pare sia scomparso… Ma poi tutto va verso l’AIDS, l’Africa ed il Mozambico tanto caro all’autore (ci vive per metà dell’anno). A questo punto prende la piega meno gialla e più reportage, e non decolla. Si vede la partecipazione emotiva dell’autore a questo gigantesco, incommensurabile dramma moderno. Ma non è nelle sue corde. Sì, maschera un po’ ritrovamenti casuali con filippiche contro il Congo Belga ed il colonialismo anni ’60 (tipo l’Africa sarebbe un paradiso se non ci fossero gli africani…). Alla fine, non essendo un vero giallo, i nodi sembrano sciogliersi (ma molto in sfumata). Rimane la voglia di fare qualcosa per i malati. E per trovarne cause e rimedi. Ma senza incisività, dato che la pena non è un grande aiuto nel fare. Interessante rimane la figura del padre Artur, lassù nei boschi scandinavi (ma perché aggiungere anche il mistero/dolore della morte della moglie? Non bastavano quelli già espressi?) con i suoi amati cani e la sensibilità della solitudine. Delle prove senza la famiglia Wallander, questa mi sembra la meno riuscita (anche se la più partecipata). Forse questo ha danneggiato un po’ il tutto. Rimane un buon scrittore, ma di altro (e altro mi dicono esca e sia uscito di buono e leggibile).
“chi non comprende le proprie sconfitte non porta con sé nulla nel futuro – Aksel Sandemose” (7)
“Ho cinquantaquattro anni. Sono arrivata fino a qui, che direzione devo prendere quando arrivo in fondo alla strada?” (21)
“Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità – Confucio” (101)
“Non sono mai stato sicuro di niente. I compagni della mia vita sono stati l’insicurezza e il dubbio” (108)
“[sulle colline greche] ‘Ero in africa’ – ‘Così lontano… Non è pericoloso laggiù?’ – ‘Cosa intende dire?’ – ‘Tutti quei… selvaggi?...’ – ‘L’Africa è molto simile a qui. Ci dimentichiamo troppo facilmente che gli uomini appartengono tutti alla stessa famiglia. E che ogni paesaggio, per certi aspetti, ricorda quello di altri luoghi’” (284)
Henning Mankell “Nel cuore profondo” Mondadori euro 9,50
[in: 20/01/2010 - out: 23/04/2010]
Piaciuto, non mi è piaciuto. Ha un solo pregio, quello di ruotare idealmente intorno ad una frase che si sente verso la fine sul misurare le distanze e non accorgersi delle vicinanze. Mankell scrive sempre bene, ma quando si allontana dal suo commissario Wallander ogni tanto (non sempre) perde colpi. Come detto, non mi è piaciuto, e l’ho trascinato un po’. Anche se poi, mentre ne penso e ne scrivo, vado recuperandone dei pezzi. E non a caso, molte sono le citazioni che me ne sono rimaste. Perché in fondo è la storia di un uomo e della sua incapacità di capire chi sia, cosa vuole, quali siano i rapporti umani su cui fondare la sua esistenza. Per trovare certezze, si aggrappa al suo mestiere, quello di misurare. Perché lui (siamo nel 1915 circa) fa il batinauta, cioè uno di quei pionieri che con il batimetro misuravano le profondità dei mari per permettere a chi di dovere di tracciare rotte sicure per le barche che sempre più pescano e bisognano di fondali sicuri. Lars si aggrappa a questa sicurezza dove i numeri gli rimandano le certezze che non trova nella fragile moglie, nella vita marinara, e nella scoperta di questa strana donna-pescatrice che vive selvaggia su di un’isola deserta. E qui, tra il retto stare, il misurare, e il trasgredire, il volere tutto, senza sapere poi realmente cosa volere, si consuma il dramma della sua vita. Con il suo percorrere tutti i gradini verso qualcosa che non solo non sa, ma che non credo che troverà mai. Ecco, da questo nocciolo, si dipanano forse troppe pagine, quasi diluendo un brodo che forte sarebbe stato concentrarlo in meno pagine. Certo, empatizzo con questa persona indecisa, cerco di capirne i motivi delle sempre maggiori bugie che come bolle riempiono a poco a poco la sua vita, fino a far uscire tutto fuori. Henrietta, Sara, Laura. Fino a quel passaggio illuminate che citavo prima, sul fatto di aver passato tutta la vita a misurare le distanze e non aver capito di farlo per aver paura delle vicinanze. Perché le persone a noi vicine ci fanno paura, dovendo di forza modificarci per essere. Ed è un compromesso che a molti non va giù. Questo fa riflettere sull’uomo e sulla sua vita sociale. Un punto a favore di Mankell per avere messo a nudo questo nodo. Il resto, come direbbe il Califfo, è noia.
“Il mare è un sogno a cui non piace farsi domare” (23)
“Quale altro volto si nascondeva dentro di lui? Sarebbe mai riuscito ad assomigliare solo a se stesso?” (67)
“Essere soli è molto peggio per un animale che per una persona. Forse, però, per un animale è anche più semplice farla finita” (112)
“Stava tracciando rotte per permettere ad altri di navigare sicuri. Ma per se stesso stava tracciando rotte che non portavano nel posto giusto” (125)
“Si chiese se fosse possibile vivere senza mentire. Aveva mai incontrato qualcuno che non lo facesse? Cercò tra i suoi ricordi, ma non gli venne in mente nessuno” (149)
“L’amore è incomprensibile. Incomprensibile ma forse anche invincibile” (209)
“Ho pensato davvero di aver trovato un uomo capace di mantenere fede alle sue promesse” (322)
“Non puoi dire la verità almeno una volta?” (327)
“A volte i pensieri erano di nuovo chiari. Capiva allora che non sarebbe mai potuto stare vicino ad un’altra persona, aveva troppa paura di perdere se stesso” (343)
Si è aperto alla grande nel giro delle mie stelle di rapporti questo mese gemellare. Un già matrimonio della mia amica Dromy, il battesimo di Pirillo, il sessantacinquesimo compleanno del mio più adulto cugino (ma sarà poi adulto uno che continua ad andare in giro in infradito…), il novantesimo genetliaco del vecchio zio (che imperturbabile continua a scrivere), in attesa di altre feste e ricorrenze dei prossimi giorni e settimane. E chi festeggia lo sa, ed io renderò omaggi ulteriori (e non cito compleanni di meno rotonde cifre, anche se di cari amici/amiche). Si aspettano sempre altri segnali ma il viaggio latita.