domenica 27 aprile 2008

Del viaggio e dell’altro

Inteso come altro da me, in questo caso sia l’africano che il mussulmano. Quindi più saggi che romanzi, anzi, come direbbero gli inglesi “non-fiction”. Da una parte un esimio ed erudito professore e dall’altra un giornalista che riesce a far combaciare la sua voglia di andare in giro con la sua professione. Certo, una settimana densa di spunti per riflettere, sempre sulla categoria dell’altro da noi, riprendendo quello che si diceva con Sofri qualche settimana fa: chi è il prossimo?

Cominciamo allora dal professore:

Bernard Lewis “L’Europa e l’Islam” Laterza euro 7

Come riuscire, in meno di cento pagine, a tratteggiare i caratteri essenziali di cosa porta al mondo che ora viviamo. Dall’analisi di un rapporto tra due termini che sembrano non essere rapportabili (uno geografico, l’altro religioso) fino all’invasione di ritorno degli ultimi anni, uno sguardo sull’evolversi dei rapporti sociali sullo scenario mondiale degli ultimi 1400 anni. Sembra paradossale, ma in queste poche pagine, Lewis mi restituisce la nascita, la crescita, la caduta ed il risorgere dell’islam, ma anche il decadere, il risorgere e l’affacciarsi al nuovo millennio di quell’entità per molto tempo astratta che è l’Europa. Lewis mostra ad esempio come la storia del conflitto tra Europa e Islam sia assai diversa, a seconda che questa sia scritta da un islamico oppure da un europeo. La storiografia di lingua araba ha riservato, ad esempio, una considerazione minima a pietre miliari della storia europea. La battaglia di Poitiers, celebrata come la vittoria che segnò la fine dell'avanzata degli infedeli in Europa, per gli storici arabi fu poco più di un tafferuglio. Le stesse crociate nell'immaginario islamico hanno ben poco da spartire con le moderne teorie che ricostruiscono le spedizioni belliche europee in Terra Santa come guerre imperialistiche ante litteram. Il libro non ha l'intento di fornire al lettore l'edulcorata prospettiva di una convivenza facile, né - al contrario - lo scenario apocalittico di uno scontro tra civiltà. Ciononostante la ricostruzione storica dell'autore sembra velare un monito: gli occhi con cui l'Occidente guarda oggi l'Islam, sono gli stessi occhi con cui un tempo i musulmani guardavano l'Europa. La condivisione di origini e finalità, che pure fu la causa della particolare asprezza del millenario conflitto tra Europa e Islam, potrebbe forse intraprendere la diversa - e ardua - strada che porta, attraverso una maggiore comprensione, al rispetto reciproco. Ottima la traduzione di Marina Astrologo. Pieno di spunti, che un lettore meno pigro di me potrebbe con piacere approfondire. Bello.

Alcune parole sul più che novantenne storico ed orientalista britannico Bernard Lewis (Londra, 31 maggio 1916). Considerato uno dei massimi studiosi del Vicino Oriente, è professore emerito di Studi sul Vicino Oriente alla Princeton University. Ottimo arabista e turcologo è specializzato sulla storia dei popoli islamici e sui rapporti tra l'Islam e l'Occidente. È stato tra i curatori della Cambridge History of Islam, strumento di riferimento fondamentale per gli studiosi accademici e non. Le sue prese di posizioni assai critiche verso certe forme di pensiero dell'Islam moderno e contemporaneo gli sono valse - malgrado la sua incontestabile dottrina - alcune aspre contestazioni, specialmente in ambiente islamico. In Francia, negli anni novanta, la sua visione critica delle violenze perpetrate dai Giovani Turchi ai danni della minoranza armena (che egli dubitava potessero essere bollate come "genocidio", limitandosi a qualificarle come "massacri" in quanto non mossi dalla precisa volontà di eliminare tutti gli armeni) gli valsero un processo e la condanna al carcere. Il tribunale non volle, infatti, in prima istanza tener conto della libertà d'indagine e di pensiero dello storico ma la cosa forse più grottesca fu che ad intentargli causa fu un'organizzazione che si batteva contro l'antisemitismo, del tutto indifferente al fatto che il grande studioso britannico (che all'epoca già insegnava nella prestigiosa sede accademica statunitense di Princeton) fosse di estrazione ebraica.

Passiamo quindi al reporter, al grande polacco da poco scomparso, di cui ho letto a breve distanza due libri, uno quasi sul versante biografico (dove nasce e come la sua voglia e capacità di fare il reporter) e l’altro tornando a bomba sulle tematiche del rapporto con gli altri. Vorrei proprio cominciare da questo

Ryszard Kapuscinski “L’altro” Feltrinelli euro 6 (in realtà, scontato 4,80)

E mi piace sempre più il reporter polacco. Da voce ad alcuni pensieri che da sempre mi ruotano: nel viaggio incontri l’altro. Ma chi è? Come ci si rapporta? Una bella immagine: dal villaggio globale all’aeroporto globale. Il libro raccoglie il materiale di sei conferenze e diventa occasione per riflettere sulla distanza fra l'uomo ipoteticamente senza connotazioni e l'uomo connotato. La definizione "l'altro"/"gli altri" può venir intesa come l'altro da sé, come l'individuo contrapposto agli altri individui, ma anche l'altro che affonda le radici nella diversità di sesso, generazione, nazionalità, religione. Attraverso il reportage (che secondo Kapuscinski è il genere letterario più collettivo che esista) l'autore ricorda gli interlocutori incontrati sulle strade del mondo, quelli che raccontano la storia della loro vita o che parlano della società alla quale appartengono. Questi interlocutori sono persone fatte da due parti spesso difficili da separare. Una è l'uomo chiunque, l'altra, sovrapposta e intrecciata alla prima, è l'identità razziale, culturale e religiosa. Le due parti non appaiono mai distinte, allo stato puro e isolato, ma convivono influendo l'una sull'altra. Kapuscinski fornisce in questo lavoro il suo punto di vista sulla percezione culturale delle persone. A me rimanda il messaggio: non aver paura della multiculturalità. Da ricollegare ad alcuni passi di padre Enzo Bianchi.

E poi la specie di autobiografia attraverso il colloquio con

Ryszard Kapuscinski “Autoritratto di un reporter” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato 5,25)

Anche in questo libretto, pur forzato nella scelta e nei tagli editoriali, viene fuori il grande personaggio del reporter. Da un materiale di migliaia di pagine e di oltre cento conversazioni, è stata ricavata una scelta, sui diversi temi cari a Kapuscinski: le sue origini di Kapuscinski, le ragioni che lo hanno portato a scegliere la professione di reporter, il suo approccio alla materia, la sua visione del mestiere. Questo libro è un'occasione per conoscere la profonda etica di un uomo cresciuto nella miseria più nera che nel suo lavoro mette al primo posto la comprensione e il rispetto per le sofferenze degli altri. Ma non solo, mi ha anche dato spunti su cui riflettere: il XX secolo che non ha visto solo la nascita (e la morte) di fascismo e comunismo, ma anche di quella cosa misteriosa etichettata come terzo mondo. La televisione che inventa la realtà. Il giornalista televisivo che diviene più simile ad un venditore di automobili che ad un cronista. Sprazzi di umanità, un po’ di mestiere qua e là, belle le parole, sincere, anche se preferisco i suoi scritti più organici (come il precedente). Il tutto condito con la migliore dote di Kapuscinski: l’empatia.

Alcune frasi da ricordare:

“la mia principale ambizione è di dimostrare agli europei che l’Europa non è il mondo intero”

“vai in giro per dieci anni senza prendere appunti. Poi comincia a scrivere. Le cose che avrai vissute te le ricorderai comunque, e quelle che dimenticherai vuol dire che non valevano la pena di essere scritte”

“la curiosità è sempre stata la molla che mi ha spinto a partire”

“quando sparisce … il problema della responsabilità ... l’uomo reagisce con il nazionalismo, il razzismo, il fondamentalismo”

La biografia di Kapuscinski l’ho già riprodotta nelle trame del 17 settembre 2007.

Sperando che sia una buona settimana per tutti, ancorché intensa.

Gio.

domenica 20 aprile 2008

Ripensiamo

A quello che accade, a quello che accadrà, a chi si è in fondo in questo scampolo di tempo che chiamiamo vita. Per una riflessione complessa, questa settimana parto da tre saggi, di cui parlo in ordine cronologico (e c’è un perché), che affronto tanti temi, ma, per me, sempre con la domanda finale, quanto mai di attualità: che mondo contribuiamo a costruire e che lasceremo a chi ci sarà dopo di noi? Certo l’ultimo libro è forse il più fondato intorno a questo tema, ma gli altri, per vie traverse, ci arrivano e comunque le domande me le hanno poste.

Cominciamo dal più lontano nel tempo, regalo dell’ultimo temporalmente natale arabista.

Doris Lessing “Le prigioni che abbiamo dentro” Minimum Fax s.p. (in quanto regalo di Rosanna)

Libretto interessante, anche se molto datato. Si sentono i quasi venticinque anni dalla sua elaborazione. Il Muro di Berlino è crollato, c’è stata la guerra in Iraq e tanto altro. Il libro, infatti, raccoglie un ciclo di lezioni che vennero trasmesse per la prima volta nel programma radiofonico canadese "Ideas", nel 1985. La scrittrice rivela in questi brevi saggi le sue capacità di analisi socio-antropologiche. Dove finisce la nostra libertà e dove comincia quella del vicino? Passando dal ricordo delle sue esperienze di bambina nella Rhodesia del Sud alle riflessioni sulle dinamiche di gruppo nell'era della comunicazione di massa, la Lessing ci racconta del sottile filo che separa l'esercizio della libertà da quello della brutalità, di un pericoloso ritorno al primitivo che caratterizza i rapporti individuali, il dibattito politico e le relazioni internazionali nella nostra epoca. Ma l’idea di fondo rimane, forte, siamo sempre noi i primi a costruirci dentro di noi le prigioni che ci porteremo appresso tutta la vita.

Due parole sul premio Nobel, ormai quasi novantenne: Doris Lessing all'anagrafe Doris May Tayler (Kermanshah - Iran, 22 ottobre 1919) scrittrice inglese, ha infatti vinto il premio Nobel per la letteratura 2007 con la seguente motivazione: «cantrice dell'esperienza femminile, con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa». Il padre, un ufficiale britannico reduce della prima guerra mondiale, dove aveva sofferto diverse amputazioni, aveva sposato la madre di Doris, un’infermiera, e si era trasferito in Persia, l'attuale Iran, dove lavorava come impiegato di banca. La sua famiglia si trasferì nella colonia britannica della Rhodesia del Sud (l'odierno Zimbabwe) nel 1925, conducendo la difficile vita dei coltivatori di mais. Sfortunatamente i mille acri di bush africano non divennero mai sufficientemente fecondi, ostacolando il desiderio della madre di vivere il sogno vittoriano delle "terre selvagge". Doris Lessing frequentò una scuola cattolica femminile, sebbene la sua famiglia non fosse cattolica. Anche come manifestazione del suo conflitto con la severità materna, lasciò la scuola all'età di quindici anni, divenendo da quel momento autodidatta. Nonostante le difficoltà e un'infanzia infelice, le opere della Lessing sulla vita nell'Africa Inglese sono piene di compassione sia per le infruttuose vite dei coloni britannici sia per le sfortune degli indigeni. Si è sposata due volte (entrambe seguite dal divorzio) e ha tre figli. Il secondo marito fu Gottfried Lessing, un emigrante tedesco. Il suo primo romanzo, L'erba canta, fu pubblicato a Londra nel 1949 (anno del secondo divorzio), dopo il suo trasferimento in Europa, dove ha vissuto da allora.

Continuiamo facendo un balzo di almeno quindici anni, toccando (anche se di lato) il punto nodale del nuovo millennio. E lo si fa con un italiano:

Andrea Canobbio “Presentimento” Nottetempo euro 7

In sé un po’ irrisolto, si intuisce qualcosa. Può accadere, nella vita, che i desideri e le paure più nascoste prendano all'improvviso corpo nel mondo. Hai paura di volare, e la gente che ti sta intorno, con cui era impossibile condividere la pena, di colpo ti capisce fin troppo bene. Il narratore di questa storia è partito un giorno per Londra ed è tornato qualche mese dopo da New York. Siamo nel settembre 2001. La cosa più bella per me, tuttavia, è l’articolo scritto a caldo su Ground Zero, ed i commenti che ne fa l’autore 4-5 anni dopo. E già l’articolo era di per sé bello. Si, forse Canobbio non sa se essere scrittore o editor, ma si legge, è comunicativo. Se facesse l’editor di sé stesso, tuttavia, troverebbe che in queste novanta paginette c’è qualcosa che manca. Il panico da viaggio, che aleggia quindi ovunque, poi non viene “catartizzato”: non se ne sa più nulla. Sarebbe utile ritornarci (e far un raffronto con l’epico “Un indovino mi disse” di Terzani).

Il quarantacinquenne Andrea Canobbio nasce a Torino e fa il redattore per Einaudi dove si occupa, ma non è da solo, di narrativa in lingua inglese e francese. Ha pubblicato da Einaudi Vasi cinesi (1989), Traslochi (1992), Padri di padri (1997) e Il naturale disordine delle cose (2004). Nel 2000 è uscito da Rizzoli Indivisibili.

In fondo si torna alla domanda della Lessing: io, la mia libertà, il mio vicino, l’uso della comunicazione. Ed allora finisco con un regalo, quasi un lascito fatto per il mio allontanarmi dal gruppo che per trentanni mi ha visto lavorare.

Adriano Sofri “Chi è il mio prossimo” Sellerio s.p. (regalo di Peppe)

Dopo circa 30 anni rileggo organicamente uno scritto di Sofri, e, cambiato lui, cambiato io, lo trovo leggibile. È vero a volte ho leggiucchiato alcuni suoi articoli, ma è la prima volta che mi immergo in una trattazione quanto meno organica. Non direi proprio del Sofri-pensiero, ma delle sue attuali riflessioni. Mi ha fatto bene leggerlo, per ritrovare percorsi similari, ma anche diversità. Di scelte, di comportamenti. Non che voglia paragonare le nostre viti, ma come due lenti all’estremità di un cannocchiale, qualcosa rimane di parallelo. Mi è piaciuto soprattutto il primo attacco, quella scrittura sul filo della parabola del buon samaritano, che, da sola, varrebbe la lettura del libro (anche perché alla fine so’ quasi 400 pagine!). Un buon filo di partenza, dove unire, tassello a tassello, fili futuri e nuovi. Soprattutto la parte riflessiva sul mondo che lasceremo (che lasciamo) ai nostri posteri. Senza ecologismi di bandiera. E senza aver paura di dire cose sgradevoli. In ogni caso, le dice. Si sente anche il sentimento che c’è dietro (dire per credere non per aprire bocca e fare “vetrina”). Ma poi la mente ritorna lì, al buon samaritano, ed a quel prossimo che non dobbiamo andare a cercare chissà dove, e che forse non è detto che sia sempre “altro da noi”. Quante volte andiamo avanti senza vedere quello che capita nel nostro condominio! Come fa notare Sofri, all’inizio del libro, la prospettiva corretta, quella, che sorprendendo il suo interlocutore, propone Gesù, è quella della persona che soffre, che subisce un danno o un’ingiustizia e che si trova in difficoltà. Gesù non chiede chi è il prossimo tuo, ma chiede chi è stato il prossimo per colui che soffre? E’ per la vittima che si pone con particolare urgenza e necessità il problema della ricerca del prossimo. E vittima di volta in volta siamo tutti. Un capitolo del libro parla della “eterogenesi dei fini” e di come influenzi il modo di pensare e di agire di chi fa politica il rendersi conto che i risultati delle azioni umane spesso non corrispondono agli scopi per i quali ci si era attivati. Perché, si chiede Sofri, nonostante le migliori intenzioni, poi “va tutto storto”?  Perchè siamo sostanzialmente indifferenti agli eventi tragici che si svolgono lontano da noi? E’ancora vero quello che sosteneva Adam Smith duecento anni fa? Che un terremoto in Cina, anche quando risultasse fatale per migliaia di persone non ci toglierebbe il sonno, mentre un evento infinitamente meno importante, ma a noi vicino, ci turberebbe infinitamente di più? Certo che è vero, sostiene Sofri. Con una terribile aggravante: quando Smith faceva questo esempio, era padrone di attribuire la nostra freddezza al verificarsi di tragici eventi remoti all’impossibilità di vederli con i nostri occhi, mentre oggi, che possiamo dire di assistere a questi eventi quasi in tempo reale, non abbiamo più alcun alibi dietro al quale ripararci. Un gusto Zibaldone di un Leopardi del XXI secolo? Un solo appunto: come ogni testo complesso è giusto corredarlo di note (servono ad aprire parentesi senza interrompere il discorso). Tuttavia il modo di incrociare riferimenti è talmente contorto (o almeno lo è per me che non l’ho capito), che alla fine le note stesse risultavano più di peso che di approfondimento. Magari usare qualche puntamento meno labile? Le note sono messe a fine capitolo, ed iniziano con una frase in corsivo che dovrebbe rimandare al testo; ma dato che non lo si apprende a memoria, bisogna ripercorrerlo per trovare il riferimento. Ed a volte, il corsivo è diverso tra testo e nota. Per me un guazzabuglio!!

Una sola frase, a lapide di tutto

“è difficile smettere, e smettere bene”

Anche se nota, riporto brevi righe della biografia del giornalista, scrittore, politico e carcerato Adriano Sofri nato a Trieste il 1 agosto 1942. Attivo nella sinistra operaista italiana sin dai primi anni '60 (collaborò alla rivista Classe operaia), fu tra i fondatori di “Potere operaio” a Pisa per divenire poi leader della formazione extraparlamentare comunista Lotta continua, fino al suo scioglimento nel 1976. Dagli anni Ottanta, abbandonata la militanza politica, si è dato all'attività di studio e pubblicistica in campo storico, politico con numerosi articoli e saggi. Collabora con La Repubblica e il Foglio. È stato al centro di una complessa e controversa storia giudiziaria, che in seguito alla confessione di Leonardo Marino, che lo ha chiamato in correità, lo ha visto condannato assieme a Giorgio Pietrostefani come mandante e ad Ovidio Bompressi e Leonardo Marino come esecutori materiali del delitto - per l'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio del 1972.

Pensiamoci al nostro prossimo, ma tutte queste righe mi fanno pensare più che altro a me (come si diceva all’inizio) cioè all’io ed a cosa siamo/facciamo qui ed ora.

Un abbraccio

Gio.

domenica 13 aprile 2008

Un po’ di leggerezza

Dopo settimane passate a parlare di libri “pesanti” e coinvolgenti, questa sarà una settimana all’insegna della leggerezza. Anzi anche un po’ di più, forse spensierata noncuranza, per leggere e parlare di qualche libro da passeggio. Da leggere così, per rilassarsi un po’ come ascoltando qualche compilation anni ’70. Un po’ di buona musica, anche se i testi lasciano a desiderare (i testi delle canzoni anni ’70, ovvio). Allora parliamo di due più o meno gialli, e di un libro di avventura, che lascio per ultimo perché meno di tutti mi è piaciuto.

Cominciamo con l’americana

Sandra Scopettone “Cattivo sangue” edizioni E/O euro 9,50 (in realtà, scontato 7,70)

Un giallo è un giallo, ma la Scopettone non è (più) quella della detective Laurano. Il mistero è chiaro dopo circa 30 pagine su 410, la fine si immagina. Rimane qualche dubbio sullo scioglimento finale, ma si conserva solo per lunghe serate autunnali intorno ad un camino a Soriano. Lo scenario è quello della cittadina americana di Jefferson, in Virginia, stato del sud in cui divisioni di classe e di razza sono ancora radicate. A Jefferson è sparita una ragazzina: Julie, sedici anni. Si occupa del caso Lucia Dove, che in quanto donna è costretta ad affermare e difendere quotidianamente le proprie capacità di fronte allo scetticismo e alle critiche di un mondo profondamente maschilista. Ma come detto, non c’è più quell’aria scanzonata della serie con la detective lesbica e bassina, che afferma sì se stessa nel lavoro maschile, ma con un sorriso in fondo alla punta della penna.

Poche le notizie bio: Sandra Scopettone, italo americana, vive a Long Island con la scrittrice Linda Crawford. Le Edizioni e/o hanno pubblicato la serie che ha per protagonista Lauren Laurano, una giovane donna carina, capricciosa, lesbica, femminista, piena di fobie per insetti, computer e soprattutto verso il sangue, fobie che non l'aiutano certo con il suo lavoro di detective. Sandra Scopettone ha vinto il premio Shamus per il miglior romanzo d'investigazione ed è stata candidata due volte al premio Edgar Allan Poe per il miglior romanzo giallo.

Proseguiamo con l’italiano

Gianluca Durante “Altravita” Giallo Mondadori euro 3,90

Vincitore del premio Giallo opera prima 2007. Così così. L’impianto (l’idea) non sarebbe poi neanche tanto male. Una specie di serial killer che viaggia su SecondLife. Così come gradevole è l’innesto di situazioni “informatiche” da parte di qualcuno che ne sa. Però poi si lascia prendere la mano. E' possibile provare l'esperienza del sogno lucido, cioè di un sogno in cui si sa che si sta sognando? Ed è possibile che la ricerca di questa possa scatenare la follia omicida di un serial killer? Sarà Stefano Mombelli, un giornalista d'assalto, a cercare di scoprire quale è la chiave che porterà alla soluzione del caso. Accanto a Stefano la bella Sara e il doloroso ricordo di una storia finita. Un viaggio tra sogno e realtà, tra le stanze di una chat e i meandri della mente umana, dove il sogno è una componente fondamentale. Il mistero per sé stesso lascia il tempo che trova. Rimane la voglia di “stupire”. Il tutto verso una soluzione che non si capisce e se si capisce si vorrebbe non capire.

Gianluca Durante è nato a Salerno il 25 ottobre 1980. E’ dal 2000 giornalista pubblicista. Ha lavorato per quotidiani locali, agenzie di stampa e radio nazionali, occupandosi di cronaca, arte e spettacolo, sport. Windsurfer, appassionato di regia cinematografica e scrittura narrativa, attualmente è coordinatore del palinsesto e conduttore di trasmissioni radiofoniche di unis@und, la webradio dell’Università degli Studi di Salerno, dove è iscritto al corso di laurea in Scienze della Comunicazione.

E finiamo con la svizzera

Corinne Hofmann “La Masai bianca” BUR euro 8 (in realtà 5,60 scontato)

Mi ha fatto infuriare: certo vedere una persona (di colore per di più) e cadere in deliquio amoroso è possibile, succede. E succede di buttare il cuore oltre l’ostacolo, abbandonare la sicurezza svizzera ed andare a vivere nelle praterie Masai, unica bianca nel raggio di chilometri.  Corinne infatti è una giovane donna con una boutique avviata, dei progetti e un fidanzato. Con lui decide di trascorrere una vacanza in Kenya. Ma l'incontro con Lketinga, un guerriero masai, cambierà la sua vita per sempre. I due non hanno nulla in comune, si capiscono a stento. Eppure, senza esitare, Corinne abbandona tutto e si trasferisce in quella che per quattro anni sarà la sua nuova patria. Lascia il suo fidanzato, la sua casa, i suoi soldi, per inseguire il suo amore, per vivere in una manyatta (capanna di sterco di vacca), senza acqua, senza cibo, senza letto, alla mercé delle malattie che inevitabilmente si prende, la malaria su tutte. Ma nemmeno l’amore più puro, nemmeno questo sentimento forte che la porta ad abbandonare tutto può vincere l’enorme divario che c’è tra due mondi troppo lontani. Quello che mi storce è che, passato il momento di follia, Corinne non fa mai (se non forse verso la fine) un bagno di realtà. Non si chiede mai quali prospettive ci siano. E soprattutto, non vede mai tutti i segnali che dovrebbero portare a dire: lo scontro tra due civiltà si può superare se c’è una volta comune di farlo. Altrimenti, si ritarda solo il momento della resa dei conti, in cui uno dei due si deve arrendere all’altro. E questo arrendersi non potrà mai essere perdonato. In fondo sembra non interrogarsi mai sulla cultura Masai. E sembra che in quattro anni non impari manco mezza parola. Come fare a vivere in una cultura diversa se non ci si sforza di entrarvi? Se siamo diversi ci sarà un perché! Spacciato per romanzo etnico, alla fine mi sono trovato una storia d’amore squilibrata. Boh!

La bio, è ovvio quella del libro. Corinne Hofmann nasce il 4 giugno 1960 da padre tedesco e madre francese. Studia nel cantone di Glarus ed all’età di 21 anni apre un negozio di abbigliamento. A 26 anni intraprende un viaggio in Kenya con il suo fidanzato Marco. E da lì parte la storia narrata nel libro. Dopo lunghe peripezie (che rimandano al libro di cui sopra), torna a casa dopo circa 6 anni e scrive il libro sulle sue avventure. Solo dopo altri 10 anni torna in Kenya per salutare Lketinga e la sua famiglia Masai. Oggi Corinne Hoffmann vive in Svizzera con Napirai, la figlia che ha avuto la Lketinga.

 

Spero che abbiate riflettuto e ponderato il voto di oggi, così come ho fatto io.

E che ognuno abbia il meglio

Gio.

domenica 6 aprile 2008

Ottocento e Novecento: viva gli anziani


Saranno le letture del momento, sarà l’avvicinarsi di altri giri di boa, ma questa settimana si fa di nuovo (e capita più spesso, ultimamente) un salto di cento, anche duecento anni all’indietro. Si torna a parlare di autori ormai belli e sepolti, ma che da una parte avevo (ho) letto male, e dall’altra (ri-)leggendoli ne scopri lati interessanti. E gradevoli per me. Non sono assolutista, non tutto quello che è classico è bello. Non tutto quello che scrivono i grandi è grande. Ho le mie opinioni, e ne verranno fuori. Allora, cominciamo questo percorso dal punto più lontano, dal maggio del 1799 (anche se era un gemello e non un toro, e andremmo a finire con un toro, passando per uno scorpione) che vide i natali di un grande (ah, si torna a parlare di russi…) di cui ho letto:

Aleksander S. Puskin "Umili prose" Feltrinelli 9,50 (in realtà, scontato 7,12) 

Le prose del grande russo. A 200 anni di distanza mantengono la forza delle idee e la freschezza del narrato. Infatti, oltre che per le opere di poesia e di teatro, Puskin è considerato un classico anche per i suoi racconti. "I racconti di Belkin", che furono tradotti in francese da Mérimée, rappresentano semplici figure, dai sentimenti autentici, in una narrazione lineare e con splendide scene di sfondo. Sono cinque racconti che l'autore attribuisce a un certo Ivan Petrovic Belkin, che li avrebbe uditi raccontare e poi trascritti: sono la storia di un duello rimandato e di un rancore covato nel tempo, quella di un amore contrastato tra una ricca fanciulla e un semplice fante, quella di un fabbricante di bare e del suo invito ai morti ad andarlo a trovare, quella di un padre vedovo lasciato solo dall'unica figlia, e quella di una nobile di provincia che inganna in amore il povero vicino. "La dama di picche" è uno dei racconti più caratteristici di Puskin: mescolando alla narrazione realistica elementi fantastici, narra dell'ossessione, fino alla follia, di un giovane per il segreto di una contessa che vince sempre alle carte. "La figlia del capitano" è un romanzo storico ispirato alla rivolta di Pugacev. Certo a volte si sente quella patina ombrata che fa la vecchia teiera su di un tavolo da cucina amish. Ma “La figlia del Capitano” rimane un esempio gradevole, scorrevole e coinvolgente di prosa finto-autobiografica. Da sceneggiare quanto prima.

“il mio amore bruciava in solitudine e ora dopo ora diveniva per me più penoso. Persi la voglia di leggere…”

Forse è nota ai dotti la storia della breve vita di Puskin, ma ne ripercorriamo alcuni tratti: Aleksander Sergeevic Puskin nasce a Mosca il 26 maggio 1799. La famiglia del padre era di piccola ma antichissima nobiltà, mentre sua madre era la nipote del famoso ingegnere di Pietro il Grande, l'etiope Abraham Gannibal, a cui Puskin dedicherà un'opera. Nonostante i rapporti con i genitori fossero piuttosto freddi, Puskin andrà sempre orgoglioso della sua nobiltà "vecchia di 600 anni" e del suo sangue africano. Venne educato non dai genitori, assidui frequentatori di salotti mondani, ma dalla nonna materna, dallo zio materno Vasilij, che apparteneva a un circolo letterario d'avanguardia chiamato Arzamas, e dalla balia Arina Rodionovna, il cui nome fu reso celebre dalle liriche che l'autore compose nell'ultimo periodo della sua vita. La sua infanzia fu sempre caratterizzata dalla presenza di libri e da un ambiente che stimolava la curiosità per la lettura. Lettore accanito, formò la sua prima cultura nella ricca biblioteca paterna sui classici francesi di Boileau, Racine, Molière, Parny, Chénier. Comincia a scrivere versi fin dal liceo, dove entra a 12 anni. A 18, diplomato senza eccellenza, diventa funzionario al Ministero degli Esteri, e da allora, con la piccola rendita, comincia a condurre una vita dedicata al piacere soprattutto per le donne. Sempre sul filo del rasoio, tra l'attività letteraria e l'attività politica, più volte mandato in confino od esiliato, con l'avvento di Nicola I torna a Pietroburgo, dove sposa la bella Natalija Goncarova. Ma proprio la bellezza di questa e la sua irruenza lo portarono alla fine. Geloso del cognato, lo sfida a duello e ne viene ferito mortalmente il 27 gennaio. Due giorni dopo il 29 gennaio 1837, muore.

E rimaniamo in Russia, facendo un salto di ventanni, ad incontrare due racconti del prolifico Fedor:

Fedor Dostoevskij “La mite” Mondadori euro 7,40

Anche qui un gradito viaggio avanti e indietro. La gioventù lasciata dietro ai Raskolnikov, ai delitti ed ai castighi, letti più per dovere che per piacere, ora lascia il passo a letture più meditate. Come questo doppio racconto. Da un lato “La mite”, che mi ha colpito ed intrigato, dall’altro “Il sogno di un uomo ridicolo” che mi ha lasciato freddo come un inverno siberiano. Qui Fedor cerca di rappresentare una società utopica, una nuova età dell'oro resa possibile dalla bontà e dalla fraternità, regalandoci un messaggio di speranza innocente. Ma pur apprezzando la scioltezza e la sicurezza del linguaggio e dell’idea, mi resta poco. Un senso di “volemose bene che tutto andrà meglio”? Accenni di “con la buona volontà si può”? Ma poco altro. Il primo invece è potente, tutto in controluce. Fedor Dostoevskij tratta in modo completamente nuovo il tema del suicidio, facendo narrare una dolorosa vicenda familiare da un marito meschino e grossolano che tuttavia, a poco a poco, riesce a riconoscere le sue colpe nei motivi che hanno spinto la giovane moglie a togliersi la vita. La mite appare infatti solo nelle parole del marito che (inconsapevolmente?) l’ha portata al suicidio. Ed è questo doppio registro che affascina. Un uomo che si confessa al pubblico, cercando di spiegare la trama della sua vita, pensando che, in fondo, ha agito per il suo meglio. In controluce, tutti i guasti delle sue azioni, che portano l’infelice moglie prima a domandarsi perché e poi, non trovando soluzioni, a scegliere quella estrema. Rimanda ad altre letture, dove si parla di “eterogenesi dei fini”, ma che, per mia semplicità traduco in non riuscire a fare del bene, anche agendo nella sua direzione. In ogni caso, buono il primo pezzo!

“oh, sono un maestro nel parlare con il silenzio. Per tutta la mia vita avevo parlato tacendo, avevo vissuto con me stesso…”

“ama gli altri come te stesso, ecco cosa è importante”

Anche qui alcuni tratti bio: Fedor (Fiodor) Mikhailovitch Dostoevskij nasce anche lui a Mosca il 30 ottobre 1821 (essendo il calendario ancora quello giuliano, in realtà bisogna spostarsi in avanti di una dozzina di giorni e portarci all’11 novembre – una data che ricorre). Il padre Mikahil era medico militare ma ritiratosi in campagna, diventa scontroso alcolizzato e viene ucciso da alcuni sue servi. La madre Maria Fedorovna moriva di tisi due anni prima nel 1837. A ventanni entra nel genio militare, ma a 23 chiede di andarsene per dedicarsi alla scrittura per due anni, fino a pubblicare nel 1846 il primo romanzo “Povera Gente” che gli porta successo. L’anno successivo ha la sua prima crisi di epilessia. Men che trentenne, in seguito a frequentazioni estremiste, viene esiliato per 4 anni in Siberia. Riammesso come ufficiale, nel 1857 sposa Maria Dimitrievna Isaeva. Nel 1861 torna a Pietroburgo. L'anno dopo fa il primo viaggio in Europa, dove incontra Apollinaria (cui chiederà la mano e che gliela rifiuterà). Ma poi muore Maria, il fratello, lui è pieno di debiti. Continua a viaggiare, tentando di mantenersi con la fortuna alla roulette. Per essere più veloce assume Anna Grigorievna come segretaria, poi la sposa nel 1867. Comincia allora il periodo dei grandi romanzi: Delitto e castigo, L'Idiota, fino ai fratelli Karamazov che pubblica a 60 anni. Muore di un emorragia il 27 gennaio (cioè il 9 febbraio) del 1881.

E facendo un salto di altri quaranta anni, e passando dalla Russia all'Austria, ho (re-)incontrato

Arthur Schnitzler “Novelle” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)

Mi sa, mi sa che non lo avevo mai realmente letto. Credo di ricordare qualcosa in gioventù sul “Doppio sogno”, ma sfuma nella nebbia. Allora, affrontiamo questo bagno dell’Austria a cavallo del secolo scorso, con questi suoi personaggi che vanno correndo verso un mondo che non capiranno e che li travolgere. Una serie di racconti che ho letto volentieri, anche per un come me che non sempre ci si ritrova. Gustando il variare della scrittura: la prima persona, la terza, il flusso di pensieri. Alcune prove sono dignitose. Altre le ho trovate sublimi: “Il sottotenente Gustl” mi ha preso con la sua tronfia ignoranza ed “Il destino del barone” mi ha travolto di risate per quel finale insospettato, anche se non è un testo comico. Anche il “diario di Redegonda” ha il suo fascino, forse tagliando le ultime due pagine. Dopo la domanda: e lei lo ha colpito? E la risposta: No, ma la sua pallottola mi ha preso in pieno petto e mi ha ucciso, avrei salutato tutti e chiuso il libro. La scrittura ha uno svolgimento rapido e lineare, va dritta al suo punto culminante senza distrarsi in episodi o personaggi marginali; benché lo scioglimento sia spesso anticipato in apertura, la tensione non ne è diminuita perché il racconto si concentra tutto sulla dinamica che deve portare al punto preannunciato. Non sono certo io a dover parlare del grande austriaco. Ma sono contento di averlo letto ora, apprezzandolo meglio di quanto avrei fatto decenni addietro. Forse le mie bioenergetiche frequentazioni mi hanno aiutato.

“ci si può riconciliare senza perdonare e si può perdonare senza dimenticare”

Il nostro amico toro, Arthur Schnitzler nasce a Vienna il 15 maggio del 1862, dove frequenta le scuole superiori dal 1871 al 1879. Successivamente si iscrive alla facoltà di medicina e consegue la laurea nel 1885. Già durante gli studi universitari emerge la sua inclinazione letteraria, ma la sua prima opera è del 1888: l'atto unico “L'avventura della sua vita”. In essa compare per la prima volta il personaggio di Anatol che darà il nome ad un ciclo di atti unici. Alla morte del padre, nel 1893, lascia l'impiego ospedaliero e apre uno studio medico privato. Nel 1895 viene rappresentato al Burgtheater di Vienna, “Amoretto” che dà subito notorietà e successo all'autore. Nel 1900 pubblica “Sottotenente Gustl” che provoca la sua radiazione da tenente medico dell'esercito, a seguito della impietosa rappresentazione della vita militare fatta nel romanzo. Nel 1902 nasce il figlio Heinrich, avuto dalla cantante Olga Gussmann, con cui si sposa nel 1903. Nello stesso anno va in scena a Monaco di Baviera “Girotondo”, scritto tre anni prima e mai pubblicato, provocando un notevole scandalo per il presunto cinismo con cui vengono rappresentati i rapporti tra cinque uomini e altrettante donne che sono uniti da un filo comune. Il testo teatrale viene pubblicato dopo pochi mesi dalla rappresentazione, riportando un successo di vendite strepitoso. Nel 1905 debutta “Intermezzo” con cui otterrà il Premio Grillparzer per la commedia. Nel 1909 nasce la figlia Lili. Nel 1913 pubblica “Beate e suo figlio”. Nel 1917 pubblica “Il dottor Gräsler medico termale” e nel 1918 “Il ritorno di Casanova”. Schnitzler era molto attratto dalla vita dell'avventuriero veneziano e ne fece il protagonista di opere di pura invenzione che riuscivano però a rendere con grande precisione introspettiva il carattere del personaggio. Nel 1924 pubblica “La signorina Else”. Tra il 1925 e il 1926 esce, pubblicato su una rivista, “Doppio sogno”. Il 26 luglio del 1928 la figlia Lili si suicida. È un atto inspiegabile e per il padre un durissimo colpo dal quale non si riprenderà più. Tre anni dopo, il 21 ottobre 1931, Schnitzler muore, a Vienna, per un ictus.

 

Essendo la prima domenica del mese, ed essendo stato febbraio un mese un po’ complicato, ecco i non tanti libri letti.

 







































































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Autore


Titolo


Editore


1


Simona Vinci


Rovina


VerdeNero


2


Gianluca Durante


Altravita


Giallo Mondadori


3


Soren Kierkegaard


Diario del seduttore


BUR


4


Francesco Piccolo


Allegro occidentale


Feltrinelli


5


Andrea Canobbio


Presentimento


Nottetempo


6


Joshua Ferris


E poi siamo arrivati alla fine


Neri Pozza


7


Marguerite Duras


Occhi blu, capelli neri


Feltrinelli


8


Pino Roveredo


Capriole in salita


Bompiani


9


Maeve Brennan


Il principio dell’amore


BUR


10


Amos Oz


La scatola nera


Feltrinelli


 

 Buona meditazione a tutti in questa settimana pre-elettorale