domenica 28 dicembre 2014

Ogni fine inizia ancora - 28 dicembre 2014

Si avvicina la boa del capo dell’anno, e questa sarà dunque l’ultima trama del 2014 (la sua fine). Si è scritto di meno, anche se si è letto di più, che nei frequenti viaggi di quest’anno si riuscì a leggere, ma non a scrivere. E chiudiamo con tre scrittrici, le due di lingua inglese spesso presenti nella mia libreria, con risultati mediamente accettabili. E la mia amata Vargas, ancora in uno dei suoi migliori e da me amati libri, dove si cavalca con bellezza e partecipazione, insieme all’altrettanto amato commissario Adamsberg.
Anne Perry “Assassinio sul molo” Mondadori euro 4,90
[A: 15/07/2013– I: 10/07/2014 – T: 12/07/2014] - &&&
[tit. or.: Execution Dock; ling. or.: inglese; pagine: 270; anno 2009]
Nell’ultimo anno, i Gialli Mondadori stanno sfornando a ruota libera i libri della scrittrice inglese. Che ben sappiamo prolifica ai limiti dell’eccesso (dal 1979 ad oggi ha pubblicato circa 80 libri). E che ben conosciamo per le sue due serie di polizieschi, ambientate entrambe nella Londra vittoriana, che l’autrice ben conosce (per studio) e ben rappresenta (per maestria). Ricordo inoltre, per chi si fosse dimenticato delle precedenti trame, che le due serie sono in qualche modo complementari. Quella di Thomas Pitt ambientata più sul lato borghese, e giunta al trentesimo episodio. E quella di William Monk, quella del lato proletario, di cui quest’anno è uscito in Inghilterra il ventesimo romanzo. Qui, come si intuisce dal titolo, siamo sul lato Monk, e precisamente all’episodio 16. Mi riferivo al titolo, perché, se qualcuno ricorda, Monk dopo un inizio da investigatore privato, è da poco tempo approdato alla guida della Polizia Fluviale (ecco quindi il molo del titolo). Indicato a questa carica dal commissario Durban prima che questi morisse nell’esercizio delle sue funzioni. In questo episodio, Monk cerca di chiudere una delle inchieste di Durban, relativa ad un sordido figuro procacciatore di minorenne per adulti pedofili, nonché assassino di ragazzi recalcitranti. La storia in sostanza si divide in due parti. Nella prima, Monk arresta Jericho e si svolge il processo contro di questi, accusato dell’uccisione di un ragazzo. Peccato che la difesa del cattivo sia assunta da sir Oliver, uno dei grandi avvocati del foro londinese, nonché ex-spasimante di Hester la moglie di Monk. Difesa che gli è stata commissionata dal suocero cui non può dire di no. L’avvocato è bravo, e Monk ha solo prove indiziarie. Per cui Jericho si salva dalla forca. Qui comincia la seconda e lunga parte in cui assistiamo: alle indagini di Monk per trovare prove consistenti verso Jericho, alle analoghe indagini di Hester, che utilizza i canali della sua clinica per prostitute in difficoltà, l’aiuto che ai due dà il ragazzo Scuff, alla crisi morale di sir Oliver che ha fatto trionfare la legge nel processo (e si badi bene, la legge non la giustizia) mettendo in difficoltà i suoi due amici e sapendo che il suo assistito era sicuramente colpevole. Non è difficile intuire che Jericho nei suoi sordidi traffici deve avere le spalle ben coperte. Ed i loschi figuri hanno buon gioco nel mettere in difficoltà Monk ed i suoi, nonché cominciare ad infangare anche la memoria di Durban. Potere della corruzione ed auto-alimentazione del potere tramite cooptazione dei malvagi. Ma i nostri tre, ognuno seguendo sue idee e contatti, proseguono nel cammino verso lo svelamento dei misteri. Helen riesce a ricostruire tutta la storia di Durban, da ragazzo abbandonato all’orfanotrofio, alle cattive compagnie giovanili, la svolta nella polizia, ed il lavoro sempre con uno sguardo di riguardo verso i più sfortunati. Monk, con l’aiuto del piccolo Scuff, mette vari tasselli sui giovani che cadono nelle grinfie di Jericho. Ma è Oliver, nonostante tutto a fare i passi da gigante, quando si ribella al suocero, e con uno stratagemma capisce chi sia almeno una persona che tira le fila dietro ai pedofili. L’altro passo da gigante lo fa una delle aiutanti di Hester all’ospedale, una signora che per far del bene lavora alle cucine. Ma che si mette in testa di aiutare i nostri, e trova il modo di arrivare ad uno dei posti dove si vendono le foto dei festini con i ragazzi (anche se con dagherrotipi le foto ci sono già nella seconda metà dell’Ottocento), e scoprire che uno dei clienti è… Non vi dico che sia, ma questo fa precipitare la situazione. Jericho rapisce Scuff per ucciderlo. I nostri tre uniscono le forze, fanno irruzione sul barcone del cattivo e salvano il ragazzo. Il finale, al solito nella Perry, è sempre un po’ veloce, ma alla fine i più cattivi la pagano. Ripeto quello che ho scritto altre volte. Dal punto di vista giallo, gli spunti non sono “eccelsi”, solo passabili. È invece degna di nota la ricostruzione ambientale. Ed anche qui, esce con forza il dipinto della vita intorno e sopra il Tamigi che si svolgeva all’epoca. Un quadro ben realizzato, e che porta un libricino di gradimento in più per un libro altrimenti direi classificabile solo come discreto.
“Nessun uomo onesto fa solo ciò che lo mette a suo agio.” (65)
“Non volevo parlare del mio passato e non mi interessava parlare del suo. Per chiunque di noi, ciò che conta è chi si è oggi.” (81)
Fred Vargas « L’armée furieuse » J’ai lu euro 8,70
[A: 19/06/2013– I: 25/07/2014 – T: 29/07/2014] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 440; anno 2011]
Finalmente e con soddisfazione leggo l’ultimo capitolo uscito della saga del commissario Adamsberg, uno dei più riusciti personaggi noir degli ultimi anni. Grazie alla maestria della penna della scrittrice francese Vargas, che i miei lettori sanno quanto ami e che per questo ho nella mia libreria tutte le sue apparizioni. C’è voluto del tempo perché uscisse in economica, dovuto in parte alla sovraesposizione dell’autrice nel “caso Battisti”. Ma di quello lasciamo ad altre cronache e passiamo a goderci il pensiero svagato del nostro commissario e della sua “brigade” di poliziotti sempre fuori dall’ordinario. Ritroviamo l’erudito Danglard, l’attento Vyrenc, la forza della natura Violette Retancourt, ma anche i loro comprimari, il bulimico, il narcolettico e il “cretino” (etimologicamente parlando) che fa il miglior caffè di tutta la polizia. Essendo passato del tempo dall’ultima uscita, l’autrice impiega il primo capitolo per introdurre i neofiti ai modi investigativi di Adamsberg, che nel primo capitolo risolve alla sua maniera l’uccisione di un’anziana signora per mano del marito, ottuagenario stufo di reprimenda e voglioso di dedicarsi alle sue parole crociate. Poi iniziano le vere danze. In quel di Bonneval, la formosa Lina sogna i cavalieri dell’Armata Furiosa che prendono nella loro morsa mortale alcune persone malviste della cittadina di Ordebec. L’Armata Furiosa, come poi ci spiegherà Danglard, è una leggenda che risale a poco dopo l’anno mille, e narra di una banda di morti a cavallo, comandata da tal Hellequin (guarda i casi della vita, un nome che si metamorforizzerà nel tempo trasformandosi nella maschera della commedia dell’arte Arlecchino), che scorrazza per le valli normanne, prendendo con sé, e quindi uccidendo, i cattivi della zona. Lina sogna che la Masnada Hellequin prenda quattro suoi concittadini, di cui tre riconosce il viso ma non il quarto. La madre della giovane, per vie traverse, chiede aiuto ad Adamsberg che viene sempre tentato da queste situazioni ai margini. Anche se in Parigi avrebbe da seguire un caso serio, la morte di un potente affarista bruciato nella sua macchina. Tutto incolperebbe un tunisino incendiario, Momo-miccia-corta. Ma le cose ovvie non piacciono ad Adamsberg, che, in base al modo di allacciarsi le scarpe da ginnastica di Momo, lo ritiene innocente. Però deve discolparlo. E la famiglia del morto è potente ed intoccabile. Il nostro attua allora un piano audace, fa fuggire Momo portandolo con sé ad Ordebec, lasciando la brigata al comando di Violette per indagare sui potenti affaristi. E lui, con Momo e Zerk (il figlio che ritrovò nell’ultimo romanzo, ormai quasi trentenne, che, pur non essendosi incrociati per tutta la vita, agisce come il padre, tutto merito del DNA), nonché Danglard e Vyrenc indaga sui misteri di Ordebec. Scontrandosi con Èmeri il commissario locale, discendente di un gran maresciallo napoleonico. Ed alleandosi con l’anziana Léone, uno dei pilastri della cittadina, insieme al potente locale, il visconte d’Ordebec. Senza premere su nessun acceleratore (non è il suo stile) ma parlando e collegando fatti, mentre ad Ordebec avanza un’ordalia, ricostruisce una sua storia di alcuni personaggi locali, tutti ruotanti intorno a Lina ed alla sua famiglia. Cioè ai suoi tre fratelli: Hyppolite, nato con 6 dita per mano che il padre in un accesso di rabbia troncò con un’accetta e che ogni tanto parla invertendo le lettere delle parole (dicendo Oaic invece di Ciao per esempio), Martin, che fa fantasiose ricette con coleotteri ed altre insetti, e Antoine, gettato dal padre giù dalle scale in tenera età, con tante fratture e la paura di rompersi ad ogni momento. E scoprendo che il padre fu ucciso da un colpo di accetta trenta anni prima, con Lina di cinque anni che vide chi era stato, ma nascose il ricordo utilizzando l’Armata furiosa. Armata che appunto ora ritorna. Con tutti i sospetti che si annidano sul truculento Hyppolite, che da piccolo lanciava anatemi su tutti i suoi compagni di scuola, compreso il futuro commissario Èmeri. Si diceva dell’ordalia. I tre visti da Lina ad uno ad uno muoiono. Léone, che ha capito il colpevole, viene quasi uccisa ed entra in coma. Ci sono tante situazioni che convergono e che rischiano di far saltare tutto: Adamsberg sembra essere messo sotto inchiesta per la fuga di Momo, riesce, con l’aiuto di Vyrenc, a far rifugiare il ricercato in Spagna, Violette scopre le menzogne dei figli del morto incendiato, e tramite un colpo di genio audace di Adamsberg, ne trova le prove, Danglard rischia di finire sotto un treno ed è salvato da Vyrenc, un ergastolano medico amico di Adamsberg fa uscire Léone dal coma, ma questa non riesce ancora a parlare, e finalmente Adamsberg scopre che Hyppolite e Lina sono figli del visconte, che li ha nominati eredi, a scapito del figlio di seconde nozze, su cui a questo punto si puntano tutti sospetti. Soprattutto dopo il suicidio di quest’ultimo. Ma il nostro commissario non si da pace, non trova l’incastro di tutto. Sarà soltanto ripensando al ritrovamento di alcuni involucri di zollette di zucchero accanto al luogo del primo assassinio che scoprirà il vero colpevole. Ed aiutato dall’intera brigata, ne assicurerà l’arresto. Belli sono tutti questi piani su cui gioca la nostra scrittrice, forse abusando del termine “giocare” perché sembra quasi faccia di proposito di tutto per presentare ogni tanto una possibile soluzione, solo per poi smontarla. Ma questo è il bello di chi sa costruire storie. Poi io rimango sempre affascinato dalle capacità mentali del commissario, che si fissa su dei particolari insignificanti (molliche di pane, lacci di scarpe, zollette di zucchero), li tiene lì nella testa, li agita ben bene. Ed alla fine ecco la soluzione. E sono anche curioso di vedere se avrà un seguito il personaggio del figlio, simpatico sin dalle prime battute. In conclusione, un bel libro, cui forse non fa giustizia questa trama che cerca di razionalizzarne il contenuto, quando è meglio averlo sulla carta, sregolato sin dalla prima riga. Grazie Vargas per avermi regalato alcuni momenti per far funzionare anche i miei ormai arrugginiti neuroni.
Elizabeth George “Un castello di inganni” TEA euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,18 euro)
[A: 02/04/2014– I: 03/08/2014 – T: 07/08/2014] - &&&
[tit. or.: Believing the Lie; ling. or.: inglese; pagine: 582; anno 2012]
E mettiamo in archivio anche questo sedicesimo romanzo della scrittrice americana, non eccelso ma che comunque ha due innegabili meriti. Riesce ad ambientare i suoi scritti in un’Inghilterra reale, pur scrivendo dall’altra parte dell’Oceano. E riesce anche a tirar fuori trame non convenzionali. Come questo lungo (questa è forse la pecca) romanzo basato sull’indagine di un omicidio che poi omicidio non è. L’altra caratteristica peculiare dei suoi scritti, poi, è l’intrecciarsi della trama principale con le vicende dei personaggi ricorrenti (lo stesso protagonista Thomas Linley, ma anche Deborah, Simon e il sergente Havers) che fanno da sfondo alla vicenda criminale. Qui anzi, a tratti, lo sfondo diventa addirittura preponderante, s’intreccia strettamente all’indagine e quasi la sopravanza. Sono passati, nella cronologia della saga, circa otto mesi (e due romanzi) dalla morte della moglie Helen e Thomas Linley sta faticosamente cercando di tirare avanti. Ha una relazione problematica con Isabelle Ardery, il suo superiore, ed ovviamente non ha ancora superato il grande dolore. Le cose non sono destinate a migliorare quando Linley viene coinvolto dal sovrintendente Hilliard in un’indagine ufficiosa di cui nessuno deve sapere niente: anche Isabelle dovrà essere tenuta all’oscuro, e non ne sarà molto soddisfatta. Bernard Fairclough, ricco baronetto titolare di una florida impresa, si è rivolto ad Hilliard per risolvere un problema famigliare ed il sovraintendente non ha esitato a scaricare la faccenda sulle spalle di Linley, particolarmente adatto a valersi di acume quanto di discrezione. Linley vorrebbe evitare di venir trascinato in un’indagine i cui risultati potrebbero poi essere occultati (perché questo è in fondo il nocciolo della questione), però non può rifiutare un ordine diretto. Parte così per la Cumbria e la Regione dei Laghi, dove vivono i Fairclough; lo accompagnano gli amici Deborah e Simon St. James: in mancanza di aiuti ufficiali, saranno loro ad affiancarlo nell’indagine, e in ogni caso l’abilità di Simon come esperto forense potrebbe essere preziosa. Il problema su cui indagare è un presunto omicidio: Ian Cresswell, nipote di Bernard e amministratore della sua industria, è morto battendo la testa sul molo della rimessa per le barche, al ritorno da un’escursione sul lago. Pare che l’uomo sia scivolato su di una pietra malferma, e l’inchiesta ha stabilito che si è trattato di un incidente. Bernard Fairclough però vuole accertarsi se sia davvero così, o se si debba invece cercare un responsabile. Teme possa trattarsi di un membro della famiglia, e più precisamente di suo figlio Nicholas, un ex drogato sulla via della redenzione, sospetto a causa del turbolento passato e della probabile rivalità con Ian. In famiglia quasi tutti avrebbero avuto un movente per la morte di Ian: la vendicativa moglie Niamh, da lui abbandonata per un uomo, il bellissimo Kaveh, di origine irachena; lo stesso Kaveh, che eredita la fattoria in cui entrambi vivevano e che ora è libero di farsi una vita “normale” che soddisfi i suoi tradizionalisti genitori; la figlia minore di Bernard Fairclough, Mignon, finta disabile e vera ricattatrice, alla quale Ian intendeva tagliare i viveri; l’altra figlia Manette, che continua ad abitare sotto lo stesso tetto con il marito Freddie dal quale ha divorziato e che vorrebbe affiancare il padre in maniera più diretta; e poi Valerie, la moglie di Bernard: ufficialmente è stata lei a trovare il cadavere, ma nella sua deposizione ci sono alcune incongruenze. Persino Tim, il figlio di Ian, un quattordicenne infelice e disturbato, non sarebbe impossibile come colpevole, se si considera il rapporto conflittuale che aveva sviluppato con il padre a causa della sua sessualità. Insomma, le possibilità non mancano, però l’indagine di Linley non fa che rafforzare la tesi dell’incidente: la morte di Ian è conveniente per molte persone, ma nessuna di esse l’ha provocata. Mentre Deborah trova una dolorosa affinità con Alatea, la moglie di Nicholas, che come lei non può avere figli e sta cercando modi alternativi per diventare madre, l’indagine di Linley porta comunque allo scoperto tutti i segreti della famiglia Fairclough, nonché dei veri motivi per cui è stato richiesto l’intervento di Scotland Yard (di cui ovviamente taccio). Siamo come al solito nella migliore tradizione dello stile caro ad Elizabeth George, alla quale non dispiace certo rimestare nel torbido e riesce a tirar fuori una corposa accozzaglia di misfatti assortiti. Insomma, al solito, secondo me i suoi romanzi sono a volte un po’ lunghi, forse ingiustificatamente. Certo, lei si lascia andare seguendo la vicenda principale e poi tutte le secondarie (Tommy e Isabelle, Deborah e Simon, Barbara ed il simpatico vicino di casa), facendoci sentire quasi a casa. Però si perde di vista lo scopo principale dello scrivere. Ed alla fine si aspettano le ultime pagine (o forse le prime del romanzo successivo).
Anne Perry “Congiura a Buckingham Palace” Mondadori euro 4,90
[A: 08/11/2013– I: 28/10/2014 – T: 31/10/2014] - &&&
[tit. or.: Buckingham Palace Gardens; ling. or.: inglese; pagine: 270; anno 2008]
Passiamo all’altra e più lunga serie scritta dalla strana scrittrice inglese di cui ho già parlato a lungo. Quella “borghese”, di cui questo è il 25° episodio. Ed anzi, qualcosa in più di borghese, visto che ci aggiriamo non in un posto qualsiasi, bensì nei Giardini Reali del Palazzo di Buckingham, residenza ufficiale dei reali inglesi. Piccolo inciso, il titolo inglese, come spesso nella Perry, si riferisce ad un luogo, in genere teatro degli avvenimenti (giardini, ma anche dentro il Palazzo stesso). I nostri esimi traduttori devono far colpo, devono vendere, ed aggiungono quel “congiura” che serve da specchietto per le allodole, ma serve soprattutto a svelare molto del libro stesso, in un certo senso anticipandone gli esiti finali. I quali, come spesso ho detto tramando i libri della Perry, sono spesso un po’ affrettati (ricordo che spesso ho ipotizzato, a torto, che fossero addirittura tagliati dagli editor italiani), mentre a volte avrebbero diritto ad un respiro più ampio. Ed anche questa volta, mi rimane un piccolo dubbio latente, ma andiamo con ordine. L’ispettore Pitt, questa volta, è chiamato, insieme alla Sicurezza Nazionale, poiché c’è una ragazza morta a… Palazzo Reale. C’era una riunione d’alto livello, organizzata per convincere il Principe di Galles, futuro re Giorgio V, ad appoggiare il progetto di una ferrovia da Città del Capo al Cairo. Progetto spinto dal sig. Dunkeld, ed appoggiato dal genero, dal fratellastro del genero e da un ingegnere tra i migliori del regno. Dopo una cena con le mogli, i quattro ed il principe fanno venire tre escort (si direbbe ora), una delle quali non esce vive dal palazzo. Poiché è in gioco l’onorabilità dell’Impero, Pitt per indagare si trasferisce a Palazzo, dove introduce come aiuto la sua domestica Gracie. L’abilità della Perry è trasformare questa sorta di “delitto in una stanza chiusa”, in un romanzo che tocca quasi le 300 pagine, riuscendo ogni volta ad introdurre elementi di disturbo che rendono sempre più difficile arrivare alla soluzione. Innanzi tutto, è il luogo stesso che rende difficili le indagini, essendo impossibile, per ragioni di etichetta, interrogare il principe ereditario. Poi, i quattro sono accompagnati dalle mogli, ed anche qui la Perry ci presenta notevoli problemi di etichetta. Riuscendo tuttavia ad intrecciare una complicata rete di rapporti. La moglie di Dunkeld è stufa del marito (che mira solo ad un titolo nobiliare ed alla ferrovia), e sembra presa da Julius, il genero. Minnie, la figlia di Dunkeld, poco più giovane della seconda moglie, è molto farfallona, e pare abbia un debole per il fratellastro del marito. Solo l’ingegnere con la moglie sembrano fuori da giochi, ma sembrano anche aver paura di tutto, anche perché Liliane è figlia di un grande esploratore, messo fuori gioco da Dunkeld, perché si occupava di navi e non di treni. Il delitto è inoltre avvenuto in un’ala del palazzo dove potevano accedere solo loro otto. Gracie, muovendosi tra la servitù e con più libertà di Pitt, riesce a tirare fuori interrogativi strani: nella stanza dove è rinvenuto il corpo c’erano lenzuola macchiate di sangue con lo stemma reale, nella cantina trova delle bottiglie di Porto che invece di vino avevano contenuto sangue, e c’è un piatto di Limoges misteriosamente distrutto, ed altrettanto misteriosamente ricomparso. Infine Dunkeld aveva ricevuto una cassa probabilmente contente libri durante la notte fatale, portata da un misterioso vetturino, che la porta poi rapidamente via e scompare. Poiché i sospettati sono solo gli ospiti di cui sopra, ovviamente sale la tensione, e anche piccoli accadimenti acuiscono l’atmosfera. Dunkeld, mai convinto di Julius, sembra far di tutto per incolparlo, e Minnie si muove per trovare prove contrarie. Le avrà sicuramente trovate, che anche lei viene uccisa, con le stesse modalità della escort. Tutto converge su Julius, ma Elsa Dunkeld confida a Pitt che un piatto simile a quello rotto era nel bagaglio del marito. Dopo pagine e pagine di elucubrazioni, di sensazioni, di pranzi ufficiali, di etichette rispettate o violate, ci si avvia rapidamente verso la conclusione. Dunkeld, come sospettavamo dall’inizio, è l’artefice del tutto. Volendo legare il principe al progetto, lo fa ubriacare e, una volta svenuto, fa fuggire la escort, sostituendola con un cadavere procuratogli dal vetturino. Poi fa di tutto per incolpare Julius al posto del principe che pensa essere stato lui ad operare il misfatto. Quando Minnie lo affronta, lui, violento, la sbatte a terra, e questa, cadendo male, purtroppo muore. Tutto però potrebbe essere messo a tacere, non potendo imbastire un processo che coinvolgerebbe il principe. Pitt ha il colpo di genio, però, di incolpare Dunkeld non di assassinio, ma di alto tradimento, dove sarà giudicato e condannato a porte chiuse. Tutto sembra finito, ma Pitt non si capacita del vetturino, ed in una veloce indagine, scopre non essere altri che l’esploratore di cui sopra, che faceva di tutto per sabotare il progetto. Queste sono le veloci pagine finali, dove si arriva ad arrestare tutti i colpevoli, e tutto finisce in gloria per Pitt. Ma la Perry non ci spiega come mai Dunkeld abbia chiesto aiuto per il ricatto ad una persona che sapeva essere sia contro il progetto sia contro di lui. Nonostante questa piccola flessione nella costruzione del racconto, il testo fila. E fila la descrizione del mondo alto borghese londinese che si muove intorno al 1880 (datazione che desumiamo dalla vedovanza della regina Vittoria e da altre letture che sto facendo sulle tradizioni inglesi dell’Ottocento e di cui prima o poi vi parlerò).
Come detto è una fine, ma prelude ad un altro inizio. Un 2015 che inizierà con qualche lettore in  più, e con un viaggio immediato, un ritorno in India di “fosteriana” memoria, e, si spera, di altrettanta lucida bellezza. Ora tutti accomunati in un grande abbraccio, ed in una grande e fattiva attesa ai festi indubitati che ci porterà il Nuovo Anno, noi, come diceva il buon Dalla, ci stiamo già preparando. 

giovedì 25 dicembre 2014

Noël - 25 dicembre 14

Perché per Natale vi porto un quartetto francese, con due dei miei autori culto, Schmitt e Orsenna, e due “outsider”: Guenassia di cui avevo letto in libreria e che finalmente ho preso e letto, ed una nuova autrice presa a scatola chiusa, che ha fatto una buona riuscita. Anche se il libro sugli incorreggibili ottimisti, benché un filo lungo, si colloca ben sopra gli altri.
Jean-Michel Guenassia « Le club des incorrigibles optimistes » Livre de Poche euro 9,50
[A: 19/06/2013– I: 30/07/2014 – T: 05/08/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 731; anno 2009]
Un altro dei libroni estivi, molto pieno di avvenimenti, molto pieno di idee, ma, d’altra parte, con una linea di scrittura facile da seguire. Non conoscevo l’autore, ne avevo visto il libro nelle librerie italiane da diversi anni reclamizzato. E preso per festeggiare i 60 anni delle edizioni “Livre de Poche”, nella bellissima libreria francese dietro Piazza Navona. Ho solo faticato a decidermi alla lettura, un po’ spaventato dal numero di pagine. Alla fine, devo dire che è un libro che mi ha preso, per quell’aria di ottimismo e pessimismo che ha l’autore (e che rispecchia i miei sentimenti paralleli alle stesse età del protagonista). Per quel mescolare storie e Storia. I critici ben pensanti parlano di libro sui tradimenti. Ed è vero che molti sono i tradimenti incrociati delle storie che si dipanano lungo le pagine. A volte, però, c’è solo una difficoltà di vivere ed anche di capire i propri obiettivi. All’inizio mi aveva anche frenato lo stesso protagonista, che seguiamo dal 1959, quando ha 12 anni, sino al 1964, quando ne avrà 17 ed avrà passato l’esame di maturità al Liceo Henry IV, una delle istituzioni liceali parigine. Mi sembrava di non poter entrare in sintonia con lui. Errore. Perché ben presto ci si scorda dell’età, se non quando commette qualche stupidaggine forte. Michel è un tipo isolato, appassionato di lettura (e già lo amo) e di biliardino (che ho scoperto, in francese, chiamarsi “baby-foot”). Passa le sue giornate leggendo mentre cammina (e lo capisco, soprattutto quando divide gli autori tra quelli che ti fanno arrivare in tempo e quelli che ti fanno arrivare in ritardo, che sei troppo preso dalla lettura). E quando non cammina, le passa in un ritrovo, il Balto, dalle parti di Denfert-Rocherau. Dove è anche pronto a sentire le accese discussioni del fratello maggiore Franck e del suo amico Pierre. Che decideranno di partire per l’Algeria, dove comincia la famosa guerra (una di quella che ha lasciato il segno alla Francia intera), pronti ad impegnarsi in prima persona per fare la Rivoluzione. Un mito che Michel scopre presto nel retro bottega del Balto, dove, per giocare a scacchi, si riuniscono fuorusciti di tutti i paesi. Ma soprattutto dell’Est, dalla Russia, dalla Polonia, ed altre zone oltre cortine. Tutti avevano lasciato le famiglie e il loro paese in circostanze drammatiche e incredibili. Ma, non hanno mai parlato e ci vorrà del tempo per Michel per ricostruire i pezzi del puzzle della loro vita. Qui l’autore immette anche un po’ di storia incrociata, facendo frequentare gli scacchi anche a Sartre e Kassel. Perché questo è il “Club degli Inguaribili Ottimisti”, cioè dei comunisti duri e puri, che, benché scacciati e schiacciati, pensano sia sempre possibile una fine rivoluzionaria positiva. Ma anche lo specchio del mondo, che quando scopriremo le loro storie, appunto scopriremo la vita ed i suoi tradimenti quotidiani. E Michel si troverà ora, e sempre, di fronte al dilemma del rovescio della medaglia del tradimento: il perdono. Dramma insormontabile, che Michel affronta con le armi in suo possesso: libri, macchina fotografica, e poi l’amore. Ma solo due su tre sopravvivranno alla fine di tutte le storie. Che coinvolgono poi Cecilie, la sorella di Pierre, che ama Franck. Pierre che muore in Algeria. Franck che sposa una donna algerina, diserta l’esercito e vivrà per tanti anni alla macchia. C’è anche la famiglia di Michel, i Marini, da parte di padre, comunisti fuggiti dal fascismo, e i Delaunay, da parte di madre, proprietari dell’azienda che sostiene la famiglia. La madre è un’arpia che frequenta solo seminari di gestione aziendale, mentre il padre, un bravo ragazzo che non avrebbe mai dovuto sposare la figlia del boss, è solo capace di imitare Jean Gabin. Anche questo scontro sarà interessante, tra i comunisti ed i gollisti separati in casa. Alla fine, o meglio all’inizio perché il libro è un lungo flash-back, troviamo Michel che partecipa ai funerali di Sartre (e siamo quindi nel 1980). Dove si domanda se si avesse ragione ad essere ottimisti. Dove fa ancora delle bellissime foto, che poi sono quelle che gli danno da vivere. E dove ripensa a tutta la sua giovinezza, che poi ripercorreremo anno dopo anno. Ci sono tante altre cose, nelle più di 700 pagine, che tuttavia tralascio, ma che vi invito a leggere. Non che sia tutto eccelso, non che sia tutto indimenticabile. Ma  pone la domanda cardine dei nostri anni che passano. Fare quello che abbiamo fatto era giusto? Potevamo fare altro? Saremmo ora diversi se lo avessimo fatto? Io sono conscio, e questo libro me lo conferma, di aver fatto delle stupidaggini. Ma sono contento di averle fatte e di essere quello che sono.
« Lire et aimer le roman d’un salaud n’est pas lui donner une quelconque absolution, partager ses convictions ou devenir son complice, c’est reconnaître son talent, pas sa moralité ou son idéal. » [Leggere e amare il romanzo di un autore bastardo non è dargli una qualche assoluzione, condividere le sue convinzioni o diventare suo complice, è solo riconoscere il suo talento, non la sua moralità o i suoi ideali.] (52)
« Aujourd’hui, on se parle et on ne se dit plus rien. » [Oggi ci si parla e non ci si dice più nulla.] (63)
« Tu n’as pas besoin d’être aimé pour aimer. » [Tu non hai bisogno di essere amato per amare.] (433)
« Quand on a fait une connerie, on ne la rattrape jamais. Il faut aller jusqu’au bout en espérant qu’on aura un peu de chance pour s’en sortir. Sinon, tu payes deux fois. Pour la connerie et pour avoir essayé de t’en sortir. » [Quando abbiamo fatto una cazzata, non si rimedia mai. Bisogna andare fino in fondo, sperando di avere un po’ di fortuna per uscirne. In caso contrario, si paga due volte. Per la cazzata e per aver cercato di rimediare.] (474)
Éric -Emmanuel Schmitt « Le sumo qui ne pouvait pas grossir » Livre de poche euro 4,90
[A: 17/08/2014– I: 18/08/2014 – T: 18/08/2014] - &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 82; anno 2009]
Éric-Emmanuel Schmitt è un altro dei miei autori – culto, dopo che lo scoprì anni fa in quel delizioso pezzo teatrale di « Piccoli crimini coniugali ». L’ho quindi seguito nella scrittura, e soprattutto in questa costruzione strana, libro dopo libro, dell’universo dedicato alla religione ed alla riflessione. Universo che lui racchiude con il grande sovra-titolo “Il ciclo dell’invisibile”, dove, prima di questo libretto, sono usciti, ho letto, e tramato “Milarepa” (sulla filosofia tibetana), “Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran” (l’slam, e ricordate tutti il bel film con Omar Sharif), “Oscar et la dame rose” (il cattolicesimo) et “L'Enfant de Noè” (l’ebraismo). Con questo ennesimo, ma non ultimo,  libricino, l’autore ci porta nel cuore del buddismo zen. E lo fa sempre con lo stesso stile degli altri. Mettendo in scena un ragazzo di fronte a problemi della vita. Che affronterà e risolverà utilizzando gli strumenti che gli mette a disposizione la religione, la filosofia di vita di cui si sta narrando. Qui abbiamo il quindicenne Jun che scappa da casa, dove il padre si era suicidato per il troppo stress lavorativo, e la madre, un angelo, tratta tutti dolcemente ma a lui sembra non pensarlo. Si ritrova a Tokyo a fare il venditore di bambole para-pornografiche, vivendo alla giornata. La svolta è l’incontro-scontro con un maestro di sumo che lo blandisce dicendo di vedere in lui un lottatore, benché sia scheletrico. Dopo una serie di vicissitudini poco importanti, Jun si convince ad interessarsi al sumo. Ho avuto a questo punto un avvicinamento anche mio personale a questo mondo che pensavo fosse solo frequentato da ciccioni ultra-centenari (di peso). Ed ho scoperto che, in realtà, è proprio un mondo completo. Ed alla fine non mi ha più meravigliato che il sumo sia in realtà LO sport giapponese. Pieno di ritualità, come tutte le cose nipponiche, ma anche, e soprattutto, di filosofia. Certo, il sumo classico è intrinsecamente scintoista, religione madre colà, ma il maestro di Jun è invece un buddista zen. Ed utilizza questo modo di vivere per avvicinarsi a Jun, e per portarlo, passo dopo passo, a ragionare. A ragionare sulla sua impossibilità di ingrassare (in effetti, non si è mai visto un sumotori magro), in gran parte dipendente dalla non accettazione di sé da parte di Jun, in particolare rispetto alle vicende paterne. Paura di assumersi responsabilità che, se troppe, rischiano di schiantare una persona. Comincia quindi per Jun il periodo di acquisizione di massa muscolare, più che di grasso. E di affrontare le tecniche di combattimento (anche qui, un ulteriore grazie a Schmitt per la sua chiarezza nel semplificare e rendere accessibile questo modo di lottare). Passa qualche anno, Jun, inserito nella squadra di allievi, cresce in tecnica e capacità. Si innamora anche della sorella di un grande campione. Ma non riesce a dare una svolta positiva a tutto questo lavoro. Saranno le belle pagine, inserite in un colloquio con il maestro mentre si medita in un giardino zen, a dare a Jun gli ultimi elementi della filosofia e la capacità di affrontare tutto. Ed in particolare sé stesso. Per riappropriarsi dell’affetto materno che è sì un angelo, ma solo perché affetta dalla sindrome di Williams, una malattia cromosomica che rende la persona molto aperta agli altri, ma con dei grossi deficit di apprendimento (tanto che la madre di Jun è analfabeta, e per comunicare con il figlio invia delle lettere piene di oggetti significanti). Essendo una favola, fortunatamente, tutto finisce in modo positivo. Jun sale sul dojo, combatte e vince. Ma non farà il sumotori a vita. Anzi lascerà la scuola del maestro ed accetterà la vita con Reiko, decidendo con lei anche di fare figli, cosa che aveva sempre negato proprio per la storia genitoriale avuta alle spalle. Allora, è certo una favola (quante volte l’ho detto), ma Schmitt ha la capacità, come in quasi tutte le altre storie degli Invisibili (a parte la prima di Milarepa, che mi ha lasciato un po’ sconcertato, e che non ho capito fino in fondo) di semplificare e rendere accessibile l’Invisibile di cui sta trattando. Come in questo caso il buddismo zen, l’aspettazione verso la vita, ma soprattutto la ricerca verso di sé intrinseca in questo modello di vita. Manca forse una certa tensione nel racconto, scorrendo probabilmente in modo troppo lineare, ma si legge con piacere. E, come gli altri Invisibili, pone domande. Alle quali la vita che ognuno di noi vive risponde, secondo le proprie capacità ed il proprio modo di vivere.
“Tu penses trop car tu interposes de la pensée antre le monde et toi … tu projettes des idées préconçues davantage que tu ne saisis les phénomènes.” [Tu pensi troppo, metti troppi pensieri tra te e il mondo … tu ti prefiguri idee precostituite prima di cogliere i fenomeni che accadono.] (46)
“J’ai dit que c’était possible, pas que c’était facile.” [Ti ho detto che era possibile, non che era facile.]  (59)
“Le but, ce n’est pas le bout du chemin, c’est le cheminement.” [Lo scopo non è la fine del cammino ma il percorso effettuato.] (77)
Érik Orsenna « La Chanson de Charles Quint » Livre de Poche s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 17/08/2014– I: 21/08/2014 – T: 23/08/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 185; anno 2008]
Ho sempre un debito con Orsenna per le sue bellissime favole sulla grammatica francese (“La Grammaire est une chanson douce”, “Les Chevaliers du Subjonctif” e “La Révolte des accents”). In attesa di trovare quella sulle virgole, sono quindi passato a farmi regalare uno dei libri del versante “più serio” (e lo metto virgolettato, perché a me sembrano tutti i suoi libri seri e degni di lettura). Di questo, poi, mi era rimasto nell’orecchio un eco di qualche anno fa, relativo alla voglia, necessità, o altra urgenza dedicata al muoversi, allo spostarsi. Quanto mai appropriata per una persona irrequieta come me. E c’è questa eco, ma compare chiaramente solo verso la fine, dopo un libro dedicato a molto altro. Un libro anche molto personale (credo ci siano spunti notevoli di mémoir, anche se non ho interesse ad approfondirli in tal senso), dolente spesso, con spunti di notevole riflessione. Intanto, nonostante il titolo parzialmente fuorviante, non è un libro storico dedicato alla figura di Carlo V (o Carlo I o uno dei tanti nomi reali che questo sovrano europeo indossò nei suoi cinquant’anni di vita). Se non anche qui come spunto: per il fatto che il sovrano passò più di metà della sua vita in giro per l’Europa, e per quei versi, poi messi in musica (ecco la canzone), intitolati “Mille rimpianti” e che sotto riporto. Ma la storia, il nodo del romanzo è appunto ancora un altro, e bifronte: il rapporto tra due fratelli e quello tra due innamorati. Sul filo di queste due lame scorre la memoria di Érik: due fratelli completamente diversi, fortemente complementari, ed “invidiosi” l’un l’altro della tipologia di vita che perseguono. Il maggiore, vagabondo, giramondo, dedito alla scrittura (e soprattutto di storia e storie), sempre alla ricerca del “grande amore”; che trova per un istante, per un mese, mai per sempre. Come invece trova il minore, legatosi alla donna che ama di un amore totale, unico, definitivo; ed anche lui legato alla parola, avendo scelto di fare lo psicologo. Ed ognuno invidia qualcosa dell’altro: il maggiore, appunto, l’amore unico, il minore quel girare ovunque, quel non fermarsi mai, sempre affamato di nuove storie da sentire, da pensare, da rimandare. Il maggiore, poi, ha anche il lato “amore” che anche se non definitivamente unico, lo lega ad una persona meravigliosa per quattro anni, alla fine dei quali l’amata muore di cancro. Qui c’è appunto l’altro filone di scrittura. La ricerca, fuori di sé prima, e dentro di sé, poi, dell’amore morto. Con quella domanda, definitivamente laica, su dove sia la sua donna morta ora che è morta. Certo questa parte, pur interessante, e piena (e si sente) di tanto amore, è forse quella che mi ha coinvolto meno, con tutto quell’andare di paese in paese, per cercare gli usi e costumi verso le persone che ci lasciano. Egizi, cinesi, maya, tibetani. Tanti modi di ricordare, di pensare i nostri cari che vanno. Orsenna tralascia, volutamente credo, modalità occidentali, o comunque monoteiste verso questa problematica. Noi (io) lo recuperiamo quando comprende (ed io lo so) la vicinanza interiore con i partenti (e con color che son partiti). Chi ci lascia un segno indelebile, lo ritroveremo sempre dentro la nostra memoria, pronto a dialogare silenziosamente con noi. E dove la nostra onestà ci porterà sempre a non barare con loro. Rimangono due ultimi punti da toccare prima di chiudere la trama. Il rapporto dei fratelli con i genitori, che riempivano di musica la loro infanzia (e qui si chiude il cerchio con la canzone del titolo), forse perché incapaci di dialogare tra loro. Ma questa musica rimane come un sottofondo ai nostri eroi, che di converso, saranno sempre pronti a parlare, istituzionalizzando queste chiacchiere in una cena mensile nella quale sempre confrontano le loro esistenze. E poi quello spostarsi che citavo all’inizio. Con una difficoltà a rinchiuderlo in una parola. Errance, come si dice in francese, ne peggiora la sensazione, così come l’italiano vagabondare. Orsenna prova, e noi proveremo con lui, ad utilizzare lo spagnolo “andanza”, che ha sempre lo stesso significato di muoversi da un posto all’altro, ma contiene quell’inciso di “danza” che ne mitiga e forse rallegra il senso. Tanto che anch’io, ora, vorrei riprendere “las andanzas” che mi hanno portato in giro per il mondo. Un ultimo accenno di gratitudine poi all’uso del francese di Orsenna, sempre pulito, sempre perfetto, sempre utile a tirar fuori il meglio della frase (come là dove cita e contrappone “fantasme” e “fantôme”, facendoci riflettere sui falsi amici linguistici).
“L’amour juge, tandis que l’amitié absout.” [L’amore giudica mentre l’amicizia assolve.] (163)
“L’andanza est … la seule manière possible de vivre.” [L’andanza … è il solo modo possibile di vivere.] (178)
« Ce sont amis que vent emporte / et il ventait devant ma porte / les emporta. » [Sono amici che il vento si porta / c’era vento di fronte alla mia porta / e li portò via.] (182) [Una piccola appendice musical-storica: questa, appunta, la canzone che piaceva a Carlo V, sui versi del poeta duecentesco Rutbeuf, ascoltata dall’autore cantata da Cora Vaucaire, detta “La Dame Blanche de Saint-Germain-des-Prés", grande interprete delle canzoni di Jacques Prévert, di cui, per prima, incise nel 1947, “Les feuilles mortes”. E potrei continuare con citazioni e ricordi ma mi fermo qui.]
Julie Bonnie “Chambre 2” Pocket euro 6,20
[A: 17/08/2014– I: 23/08/2014 – T: 25/08/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 178; anno 2013]
Ecco qui, cotto e mangiato, uno dei tre libri reduci della Francia agostana. Ultima scelta, per completare il trittico, preso senza conoscere l’autrice, solo perché, girando per il FNAC de Les Halles di Parigi, ne avevo visto la pubblicità come opera avente ricevuto il premio FNAC per il romanzo nel 2013. E l’ho affrontato non spendo altro dell’autrice, né del contesto del libro stesso. Alla fine, pur non essendo un libro di riuscita eccelsa, è risultata una lettura interessante, con alcune punte di piacere letterario, ed alcuni punti interrogativi finali, su cui torneremo. E solo a posteriori, ho scoperto che a) Julie nasce come cantante e musicista (violinista in particolare) e b) dopo 15 anni di carriera Julie si era presa una pausa lavorando come puericultrice in un reparto maternità. Questi due elementi sono poi ben presenti nel libro, ingigantiti, travisati, sognati e rivissuti, così come deve essere in un romanzo che, partendo dal personale, cerca, prova una descrizione del reale, instillando domande nel lettore. Sulla maternità, certo, che è un punto nodale del romanzo, ma anche sulla musica, sulla vita errabonda, sul rapporto tra gli amanti, e su quello con i figli, modificantesi negli anni, come ognuno di noi ben sa (siamo noi stessi genitori, quando capita, ma sicuramente perché siamo figli). Julie narra la sua storia per salti temporali, andando avanti ed indietro nel tempo, come spesso accade nei romanzi moderni, così che scopriamo la personalità e la persona stessa della protagonista, Béatrice, poco alla volta. Ma qui si trama, ed allora ne tracciamo un filo meno contorto. Béa fugge da casa sedicenne alla ricerca “della vita”. Che trova, dopo qualche falsa partenza, aggregandosi ad uno strano gruppo musicale, composto da Gabor al violino e Paulo alla batteria. Il sogno di Béa è la danza, e la musica dei due scatena la sua capacità di calcare le scene. E con loro comincia a girare la Francia e l’Europa, comunicando con la danza le sue sensazioni, spesso danzando nuda o quasi. Ed aggregando al gruppo stesso, errante e sconclusionato, la coppia gay di Pierre e Pierre. Si mette con Gabor, fa una figlia che chiamerà Norma, come il vero nome di Marylin. Ci sono anche momenti neri, quando il suo secondo figlio nasce morto (e sono tutti fantasmi che ritroverà più tardi). Poi viene un terzo, Romeo. Ma i gay prendono l’AIDS, e si si tolgono la vita gettandosi con la macchina contro un albero. Questo segna la fine della vita errabonda. Il gruppo non ha ingaggi, Béa ritorna stabile a Parigi e diventa puericultrice in un ospedale. Ma Gabor non è fatto per la vita ferma, e dopo poco parte per non tornare più. Quando incontriamo Béa sono più di dieci anni che fa questo lavoro, e la seguiamo, mentre fa il giro delle camere con le puerpere, le partorienti, ed altra umanità maschile e femminile. Ed anche se fa questo mestiere per sopravvivere, non è “la sua vita”. È spesso empatica con le future o le appena mamme, soffre quando i piccoli hanno problemi. Non è organica all’ospedale, né soprattutto ingrana con le ostetriche. I piccoli racconti, di camera in camera, sono degli assaggi di momenti belli e brutti che la maternità offre: parti difficili, madri che rifiutano la maternità, madri che vorrebbero allattare e non ci riescono, madri che hanno latte ma non vogliono allattare. Fino a tutti quei momenti, di un dolore lancinante, quando c’è un aborto (spontaneo o volontario) o quando, nonostante tutte le attenzioni, il piccolo non ce la fa. Pur essendo uomo, questi momenti mi fanno ogni volta accapponare la pelle. Come la storia della camera del titolo, dove la madre deve partorire due gemelle, ma solo la prima sopravvive. E la madre entra in uno stato catatonico, da cui non uscirà per tutti e dieci gli anni che ci racconta Béa. Solo alla fine, e non vi dico perché, esce dal coma, ed abbracciata a Béa muore. La nostra viene anche accusata di omicidio (ma così non è). Però sarà la molla che la farà uscire dal purgatorio dell’ospedale, per riprendersi una qualche vita. Senza Gabor (ovviamente), con Norma che ora fa la barista in un night bar, e Romeo che suona la chitarra ed ha le tendenze vagabonde del padre. E noi non lo sapremo, ma come nei bei romanzi, ci piace immaginare e proseguire nella storia. Anche se questo è uno dei punti interrogativi di cui sopra. Gli altri sono legati alle maternità, al ruolo della madre nel parto, a quello del padre, prima, durante e dopo. Julie ce ne presenta alcuni campioni estremi (che la normalità non fa storia) ma mettere al mondo figli è sempre un argomento di grande intensità. Di grande dolore. Ma anche, spesso ed il più delle volte, di grande piacere e di grande costruttività. La scrittura non sempre tiene il passo della tensione narrativa, ma il libro ha una sua identità. E non è poco.
“Comment vivent les gens qui n’ont pas peur?” [Come vivono le persone che non hanno paura ?] (54)
“On n’est seul que dans sa propre tête” [Si è soli solo nella propria testa.] (159)
“Chaque être humain se croit plus malin que l’autre, et sa propre vie lui importe plus que toutes les autres, aussi dérisoire et minable soit-elle” [Ognuno pensa di essere più furbo dell’altro, pensando alla propria vita come più importante delle altre, per quanto possa essere ridicola e patetica in sè.] (167)
Cecando di smaltire le decine di trame accumulate, vi riempirò di scritti Natale e Capodanno. Tanto poi sapete (e se non lo sapete ve lo dico), che a gennaio si riparte per un’avventura indiana. Ed allora, per ora Buona Natale a tutti 

lunedì 22 dicembre 2014

Dall'Est al Nord - 21 dicembre 2014

Titolo semi-geografico e semi-letterario. Che da poche ore sono tornato da un bello ed appagante viaggio in Vietnam (EST) e mi accingo a condividere con voi 4 autori scandinavi (NORD). Due svedesi, con una nuova e non esaltante puntata della saga di Fjällbacka e con al contrario una decisa ed interessante riproposizione dell’ambiente del commissario Van Vetereen. L’islandese è il solo che conosco, ma qui è altalenante. Mentre sono dispiaciuto del norvegese Nesbø che mi sembra stia in calando con il suo Harry Hole.
Camilla Läckberg “L’uccello del malaugurio” Marsilio s.p. (regalo collettivo Almaviva 2013)
[A: 07/05/2013 – I: 08/06/2014 – T: 11/06/2014] - && e ½  
[tit. or.: Olycksfågeln; ling. or.: svedese; pagine: 460; anno 2006]
Dicevo più o meno un anno fa, nella trama del terzo libro della saga di Fjällbacka che nell’ultima pagina vedevo bene un “continua…”. Ed in effetti, ecco il seguito e quarto episodio. Sappiamo anche, perché giriamo in libreria, che ne sono usciti poi un quinto ed un sesto. Che non abbiamo ancora né abbiamo letto, ma se continuano su questa falsariga poco ci fanno sperare. Il primo libro fu bello e sorprendente, il secondo calò in basso di molto, e il terzo risalì un po’ la china. Questo invece continua a scendere. Certo, Camilla è brava a tenere in piedi tutti i personaggi della cittadina svedese, li riprende, li fa evolvere. Ma è altrettanto vero che la tensione verso il giallo è ridotta ai minimi termini, tanto che, salvo piccoli aggiustamenti in corso d’opera, il nucleo principale del mistero lo immaginiamo già dopo le prime 100 pagine. Ed è un po’ presto, per un libro di quasi 500! Intanto, come detto, il libro si fa sempre più corale. Non c’è solo Erica al centro della scena. Anzi, qui è molto defilata. Anche se per tutto il libro assistiamo ai preparativi (finalmente) delle nozze tra lei e Patrick. Il quale diventa il vero perno, almeno dell’indagine e del tirare le fila. Indagine che nasce dalla morte di Marit, la donna che abbiamo seguito in precedenza lasciare il marito ed andare a convivere con Kerstin, l’amica che la consola dalla dura vita avuta finora con il rozzo Ola. Sembra un banale incidente d’auto dovuto ad un alto tasso alcolico. Peccato che Marit sia astemia. Per creare un po’ di confusione nella tranquilla vita cittadina, la nostra scrittrice da un lato ci fa seguire la rinascita di Anna, la sorella di Erica, che uccise il marito per legittima difesa, ed ora, dopo un lungo periodo buio, sembra cominciare a riprendere gusto alla vita. Aiutata da Dan (un amore giovanile di Erica) che nel frattempo si è separato dall’odiosa Priscilla. Dall’altro fa irrompere nella tranquilla cittadina una banda di reality show svedese. Non è “Il grande fratello”, non è “L’isola dei famosi”, ma un sottoprodotto intitolato “Fucking qualcosa”. Dove il qualcosa è di volta in volta una cittadina svedese, e il primo termine si riferisce a catapultare nella suddetta cittadina cinque – sei ragazzi disadattati, riempirli di birra, e riprendere i casini che fanno. Romanzo nel romanzo, questo dà dei piccoli spunti interpretativi sull’attuale realtà svedese (ed è forse la parte a volte interessante del libro, almeno sociologicamente nuova, anche se non riuscita completamente). Terzo elemento di disturbo, la sostituzione del poliziotto incapace della terza puntata con una poliziotta rampante, tal Hanna, che si sposta continuamente di distretto in distretto negli ultimi anni, con al seguito un tal Lars con il quale ha uno strano rapporto. Intanto, viene uccisa uno dei personaggi del reality. E Patrick, invece di pensare alle nozze, deve seguire due inchieste. Anche perché il suo capo, che in genere delega allegramente, questa volta delega di più, essendosi innamorato di una signora (che qui lo dico e poi non ci torno, mira solo ai suoi soldi e riuscirà ad averli, con grande scorno del poliziotto). Altro elemento strano della morte di Marit è poi la presenza di una pagina di un libro per ragazzi “Hänsel e Gretel” (a proposito, ve la ricordate, la favola? E se ve la ricordate, già avete risolto molti misteri). Ricerca a tappeto in tutta la Svezia, e sbucano cinque – sei casi di morti sospette, tutte con una pagina del libro. Uno dei poliziotti del dipartimento scopre inoltre casualmente un nome in controluce su di una pagina. Da quello si risale ad una prima donna morta in un incidente stradale, dove sono coinvolti due gemelli. Che però non erano figli suoi, ma di un’ubriacona che vive poco distante da Fjällbacka. Inoltre, il primo morto risulta essere il padre della concorrente del reality uccisa. Che all’epoca aveva dieci anni, ma che vide probabilmente l’assassino. Tutto si collega. E Patrick, mettendo i vari morti sulla mappa della Svezia ha un’intuizione fulminante: è un percorso che aveva già notato leggendo… Non vi posso dire tutto, no. Leggetene un po’, visto che siete a rilento con le letture (oppure cercate di indovinare, che vi ho dato tutti o quasi gli indizi). Comunque, alla fine Patrick ed Erica finalmente si sposano. E mentre rovistano in soffitta, trovano un vecchio baule della madre di Erica ed Anna che contiene … Mi sa che se ne parlerà, nel caso, nel quinto libro.
Arnaldur Indriðason “Un doppio sospetto” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8 euro)
[A: 23/05/2013– I: 29/06/2014 – T: 02/07/2014] - &&& 
[tit. or.: Myrká; ling. or.: islandese; pagine: 316; anno 2008]
E torniamo dopo un anno ad immergerci nelle atmosfere della fredda Islanda. Dei suoi abitanti che si conoscono tutti e si chiamano per nome. Della squadra poliziesca della capitale. Avevamo lasciato il commissario Erlendur che andava verso la montagna dove scomparve il fratello quando aveva 8 anni. Forse è ancora lì, che qui, ad indagare sulla morte del turpe Runólfur è la sola Elíngbor, dato che anche l’altro ispettore Sigurður Óli, preso dalle sue vicende familiari, sta un po’ defilato (e forse è meglio). Sappiamo già, dalle altre prove di Arnaldur, che la sua forza non è tanto nella parte poliziesca, quanto nell’atmosfera generale. Anche se, nei precedenti scritti, il giallo aveva comunque un suo posto. Soprattutto dovuto alle capacità investigative del commissario Erlendur. Qui, il giallo è talmente ridotto ai minimi termini che si aspetta solo che anche l’ispettrice Elíngbor ci arrivi per chiudere il libro. Runólfur è uno spostato, quasi sembrerebbe uno psicopatico degno di una grande carriera criminale (si lava continuamente le mani, è un tecnico elettronico capace di far perdere le sue tracce “informatiche”, è sempre provvisto di Roipnol, la droga dello stupro). Ma dopo una partenza alla grande, si perde presto, e non ci meravigliamo di trovarlo ucciso. Aveva circuito una giovane, l’aveva drogata, stuprata, e ci si aspetta che questa, una volta sveglia, lo massacri ben bene. Invece lei lo trova morto, ed invece di chiamare la polizia (si sa che non è bello subire violenze sessuali, e che la polizia in genere non ci va tenera), chiama il padre e si allontana dal luogo del delitto, lasciando solo una pashmina che sa di tandoori. Ovviamente Elíngbor è appassionata di cucina (questo lo sapevamo già), e non è difficile in un piccolo paese com’è la “grande” Islanda, trovare tracce di cucina indiana. Trovata la giovane, trovato il padre (il doppio sospetto del titolo, ma quanto fuorviante! Infatti, il titolo originale parla di qualcosa tipo “oscuramento, perdita di coscienza”, esattamente come avviene dopo aver preso il Roipnol), sembra tutto facile. E pur tuttavia Elíngbor non si persuade. Capisce che bisogna scavare nel passato del violento, risale alla città natale, al padre suicida, alla madre generalessa ed incline ad una rude educazione (tanto che il figlio quando può se ne allontana). Nella piccola cittadina della grande isola anche di più è un sapere tutto di tutti. Facilmente, con l’aiuto di qualche ragazza locale che non si rassegna, Elíngbor scopre tutto il passato del cattivo, risalendo al primo stupro, al suicidio della violentata, al fratello della stessa…. Insomma, alla fine tutto si risolve, in quella direzione che già dalla bevuta al pub del terzo capitolo avevamo tutti capito e/o immaginato, lasciando aperta la porta ad un altro mistero (un caso non risolto) che magari potrà essere la base di un successivo racconto. Pur tuttavia, non è questo l’aspetto che più preme verso il piacere della lettura degli scritti di Arnaldur. Qui ci vedo due aspetti, uno di testo ed uno di contesto interessanti. Nel contesto, l’autore, dopo una serie di scritti basati su di un personaggio, si trova bloccato non riuscendo a portarlo avanti bene. Allora cosa fa? Lo fa uscire di scena (per un po’? per sempre? Vedremo), ed utilizza un personaggio di contorno per approfondirlo e farlo venire in primo piano, cercando di capire se possa diventare il centro di altre avventure. Abbiamo così Elíngbor, con la sua storia, la sua famiglia, ed il suo modo di procedere very “icelandic”. Questo ci illumina sul testo, e sul modo di vivere isolano degli isolati isolani. Chi come noi ne ha fatto un giro, ne vede tracce ad ogni pagina. Il conoscersi tutti e chiamarsi per nome, la fiducia (in principio) che si ha verso l’altro, il modo rilassato di affrontare situazioni, la piaga dell’alcool. Elíngbor l’ispettrice – mamma – cuoca, è un tipico esempio. Ha un marito che possiede un’officina meccanica, con il quale si alterna nella gestione della casa e dei figli (anche se Teddi non è che sia un fulmine in cucina). A Teddi muore una sorella, e loro ne adottano il figlio. Poi hanno loro tre figli, due maschi (scapestrati come tutti i maschi) ed una bimba, Theodóra, che è molto intelligente e sembra anche simpatica. E si vive la vita quotidiana di una tipica famiglia islandese. Il figlio adottato, ai sedici anni, decide di andarsene per cercare il padre che vive in Svezia. Il figlio più grande, Valþór, non parla in casa e scrive tutto su Facebook, dove Elíngbor, pur non volendo, ne segue le gesta e capisce che ben presto anche lui se ne andrà. Ricordano molto, come allo specchio, i personaggi di Olafsdottir e dei suoi libri, come a confermare che quando si è islandesi, lo si è fino in fondo. Ed è per questo, infine, che continuerò a leggere i libri degli scrittori del Grande Nord.
“Era lunedì; lo aspettava una serata di bridge a casa di un amico. Incontrava gli stessi compagni di gioco ogni lunedì sera… Gli anni erano trascorsi senza alcun cambiamento, tra doubleton e slam. Erano invecchiati dignitosamente davanti al tavolo di gioco, quegli uomini un tempo giovani… Erano legati da un’amicizia cortese e silenziosa, e da un profondo interesse per i segreti del bridge.” (140)
Håkan Nesser “Un corpo sulla spiaggia” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 27/08/2014 – T: 29/08/2014] - &&& e ½   
[tit. or.: Ewa Morenos fall; ling. or.: svedese; pagine: 310; anno 2000]
Ed ecco che orniamo ad uno dei punti forti della letteratura “noir”. Siamo nella grande fucina svedese, quella che dai capostipiti Sjöwall & Wahlöö, tanti buoni scrittori ha prodotto. Oltre a Nesser, ricordiamo Mankell, il compianto Stig Larsson, Liza Marklund, tanto per citare i più diffusi. Nesser ha la particolarità di aver creato un piccolo mondo in cui racchiude il suo sistema di relazioni e di indagini. Ha scritto (dal 1993 al 2003) dieci romanzi ambientati nella fittizia cittadina di Maardam, poi dal 2006 ad oggi altri cinque in quella di Kymlinge. Questo è l’ottavo della prima serie. E qui veniamo alle dolenti note rispetto all’editoria italiana. Perché questo libro (certo non il migliore della serie) esce per la prima volta in Italia una dozzina di anni dopo la sua pubblicazione, e dopo 4 libri della seconda serie. Facendoci perdere la cosmogonia di Maardam e le sue ramificazioni. Infatti, Nesser inventa questa cittadina “atipica” che ha in sé un mix di caratteri scandinavi con influenze olandesi. Vi impianta una stazione di polizia all’inizio comandata dal commissario Van Vetereen, che nel settimo libro si dimette per aprire una libreria antiquaria. Rimane comunque la sua squadra, ed in questo ottavo abbiamo appunto al centro dell’azione l’unica donna del gruppo, Ewa Moreno. E non è un caso che il libro in edizione originale si chiame “Un’indagine di Ewa Moreno”. L’ispettrice Moreno è sulla trentina, single, dedita al 100% al suo lavoro, cui si è dedicata perché “vuole assicurare i criminali alla giustizia”. Tanto dedicata che il romanzo si svolge durante le sue ferie estive. Ferie che ovviamente troverà il modo di passare in tutt’altro modo rispetto al previsto. Obliquamente alla trama “noir” c’è la sua storia con il coetaneo Mikael, iniziata sotto buoni auspici, ma che si deteriora nel corso dell’estate (e nel corso dell’indagine), ponendo ad Ewa delle domande esistenziali sul suo rapporto con gli uomini, con il lavoro, con il mondo (e sono domande che tutti ci poniamo quando ci fermiamo a riflettere sulla vita che stiamo vivendo). La vacanza si interseca con una strana storia che lega passato e presente. Nel treno che la porta al mare, Ewa incontra una ragazza diciottenne che sta andando nella stessa città di Ewa per incontrare per la prima volta il suo vero padre, di cui ignorava l’esistenza, rinchiuso in un manicomio. Rivelazione che le ha fatto la madre come regalo per il suo compleanno (!!). Il padre era andato fuori di testa sedici anni prima quando venne accusato dell’uccisione di una studentessa, lui insegnante di liceo, con la quale aveva avuto una notte d’amore e che alla morte risultava incinta. L’autore ci fa capire, con sapienti flashback che ci sono dei misteri in quella morte. Misteri che si infittiscono dato che la ragazza, dopo aver incontrato il padre, sparisce. Dopo una settimana sparisce anche il padre dal manicomio. Ed il giorno dopo si trova sotto la sabbia il cadavere di un uomo, Tim. Ora questo Tim era proprio il ragazzo di Winnie la studentessa morta. E la madre di Tim, all’epoca dei fatti, era l’amante del commissario di polizia incaricato delle indagini. Con un sapiente lavoro di piccole scoperte, di passi avanti, di caratterizzazioni di personaggi, alla fine, tutta (o gran parte) della verità viene fuori. Tim e Winnie volevano ricattare il professore con la storia del bambino, che era vera, ma era loro e non dell’unica scopata fatta dal malcapitato. Winnie vuole tirarsi indietro, ma prima denuncia il professore alla moglie. E mentre tutti si precipitano verso uno strano appuntamento notturno, qualcuno uccide Winnie. Il professore pensa sia stata la moglie, e si chiude al mondo esterno, facendosi condannare come infermo. Il commissario non porta avanti le indagini per evitare di scoprire altarini. La moglie va via con la piccola che ora, tornata, accetta l’innocenza del padre. E nel corso delle sue indagini viene aggredita dal vero assassino. C’è anche qualche altro elemento del mondo di Maardam al contorno, ed un cammeo finale del commissario con la sua ex squadra. Tanto appunto per ribadire la costruzione di Nesser di questo mondo da lui voluto come esempio dei possibili guasti della civiltà nordica e delle possibili vie per affrontarli con in mente correttezza e giustizia. Certo, preso così isolatamente, il libro risente degli anni e dell’isolamento dal contesto. Elementi che io, con questa modesta trama, cerco di restituire all’autore che continuo a ritenere tra i più validi autori seriali degli ultimi venti anni.
“Ogni occasione perduta andava recuperata il prima possibile e nel migliore dei modi. Perché si vive una volta sola, e certe volte nemmeno quella.” (190)
Jo Nesbø “Lo spettro” Einaudi euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 09/11/2013– I: 05/11/2014 – T: 09/11/2014] - && 
[tit. or.: Gjenferd; ling. or.: norvegese; pagine: 551; anno 2011]
Sono rimasto molto deluso da questo che credo sia l’ultimo o il penultimo romanzo della serie di Harry Hole, ideate dallo scrittore norvegese. Oltre ad essere particolarmente lungo, ma potrebbe non essere un difetto, è involuto, contorto ed alla fine scontato. Si vede lo sforzo di chi avendo esaurito la spinta propulsiva dell’idea da cui nasce il personaggio, tenta di chiudere in qualche modo le fila, mettendolo di fronte a situazioni che non potranno che portare alla considerazione finale di quell’intrigante film che fu “War Games” quando il computer dice “l’unica maniera di vincere è non giocare”. E dico questo dopo che anche alla fine dell’ultimo libro avevo salvato personaggio e scrittore. Hole, rifugiatosi ancora una volta in Asia, torna a precipizio, or che son passati almeno tre anni, in quanto il suo amato Oleg è accusato di omicidio. Harry in Asia si è finalmente disintossicato dall’alcool, ma torna in una Oslo devastata dalla droga. Qui ritrova due fili rimasti in sospeso da tutta la serie. Mikael, ora capo della Polizia Criminale, sempre ambiguo e forse anche qualcosa di più. E Rakel, il suo grande amore, la sua “pallottola unica” come direbbe Harry Bosch del sempre sulla breccia Connelly. Assistiamo così ad una narrazione condotta su due binari. L’agonia di Gusto, il pusher assassinato, che (fortunatamente in corsivo) narra la sua storia di emarginato, poi di drogato, di ladro, di spacciatore. La sua strana amicizia con Oleg, che porta anche il ragazzo sulla strada della droga. Il suo ambiguo rapporto con la sorellastra Irene, cui pur volendo bene non esita a servirsene per i suoi fini da drogato. Perché un drogato, e questo ben lo rende Nesbø, di fronte alle crisi di astinenza, è disposto a tutto. E quando dico tutto, è proprio tutto. A mettere a rischio se stesso, a vendere amici e conoscenti, ad uccidere anche. Tutto ciò in una Oslo dove viene immessa sul mercato una droga sintetica che crea subito dipendenza, ma che ha un bassissimo tasso di morti per overdose. Per evitare lotte interne ai vari cartelli di pusher, uno spacciatore d’origine russa, con una piccola banda di accoliti, si accorda segretamente con la bella Isabella (che sarebbe dell’antidroga, ma che fa corsa a sé), per eliminare tutti i concorrenti. Isabella era stata l’amante di Gusto, ma ora fa la scalata al potere, e si accorda (praticamente e sessualmente) con Mikael. In tutto ciò, si muove Harry che non è più poliziotto, ma che ha ancora qualche amico, soprattutto la simpatica Beate della Scientifica, che gli risolve i problemi derivanti da prove, da DNA, e da altre piste che altrimenti non potrebbe seguire. E si fa aiutare da Rakel per entrare di nuovo in contatto con Oleg. Capiamo subito però che mentre sul lato amore c’è e ci sarà sempre quella pallottola, tra Oleg e quello che era stato il padre putativo si è rotto il filo di comunanza. Nesbø ci porta anche qui a ragionare sulla realtà, sul fatto che Oleg è ormai anche lui “schiavo” della nuova droga. Benché cerchi di mantenersi al limite, si innamora di Irene, cosa che rende facile a Gusto di coinvolgerlo nei suoi turpi traffici. C’è anche Truls, uno scagnozzo di Mikael che, da bravo poliziotto corrotto, riesce anche a far sparire e comparire prove a proprio (o meglio a Mikael) piacimento. Mentre Gusto ci narra gli antefatti, dove vediamo lo sprofondare suo e di Oleg, Harry ricostruisce i fatti. In una sarabanda finale (lunga però un centinaio di pagine) veniamo portati a diverse soluzioni possibili, veniamo avvicinati ad alcuni ipotetici lieti finali. Ma tutto finisce nella negatività dello scrittore. Scopriamo che il russo è il vero padre di Gusto, e che, avendo un cancro terminale, cerca di provare se Gusto possa prendere il suo posto. Negativo. Harry scopre il rifugio del russo, inconsapevolmente aiutato da Truls, fa fuori i due guardaspalle del russo, trova il dottore malefico che aveva scoperto la nuova droga sintetica, e che aveva venduto una parte del prodotto a Gusto in cambio di Irene, libera Irene e fa in modo di neutralizzare il dottore. Così come scopre le identità nascoste del russo, ed anche lui farà una brutta fine. E mentre Rakel lo aspetta all’aeroporto per partire con lui verso Bangkok, ha una resa di conti, verbale e non solo, con Oleg. La fine però è volutamente, anche se non tanto, criptica. È vero che Oleg ha ucciso per legittima difesa o perché voleva riprendersi Irene? E come finisce il confronto tra Harry e Oleg? Ed il corretto Mikael e la corrompenda Isabella che fine faranno? Rakel partirà per l’Asia? Perché in sala d’attesa c’è anche Irene? Oleg raggiungerà la madre? O andrà in carcere? Nesbø non vuole, almeno esplicitamente, rispondere a tutte queste domande. A lui basta continuare a ripetere che tutti sono corrotti, che nessuno può salvarsi, che non c’è redenzione possibile. Che la società è marcia. Ed in particolare lo è quella norvegese. Un lucido esame, se vogliamo, ma troppo scontato, come detto all’inizio. È vero che non ci siamo mossi di un passo dal bellissimo film “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, con tutti i distinguo del caso. Però il modo di condurre il gioco da parte di Nesbø non mi piace. Non si piò portare avanti un personaggio per 6 libri, e farne venire fuori uno diverso al settimo (e parlo di Oleg e non di Harry). Non si può accennare che è possibile uscire, e poi chiudere tutte le porte. Ripeto, quindi, l’unico modo di vincere è non giocare. Oppure aspettare altre prove meno deludenti. Avevo una buona idea della presa sulla società norvegese dei suoi scritti. Ora sto pensando che ci sia qualche altro punto che non ho colto fino in fondo. O che il pessimismo di Nesbø abbia raggiunto un livello tale che non riesca neanche lui a trovare una via d’uscita (ad un certo punto, Harry dice: “Gli esseri umani sono una specie guasta e non c’è guarigione” e mi sembra che sia l’epitaffio alla filosofia di Nesbø). O che si sia rotto di Harry Hole e voglia tirarsene fuori. Scordandosi la lezione di Conan Doyle. Peccato!
“Ho bisogno di un brav’uomo, e allora perché non lo voglio un brav’uomo? Perché siamo così maledettamente irrazionali quando sappiamo benissimo che cosa è meglio per noi?” (367)
Stravolto di stanchezza (speriamo in un pronto recupero dai fusi orari), senza possibilità di respirare (un potente raffreddore mi ottunde il cervello), l’unica attività che riesco a pensare è quella di spedire questa trama in odore di Natale (dato che in Scandinavia riposa Babbo e le sue renne). Una bella dormita speriamo ci rimetta in sesto, per affrontare questa settimana che non sarà di rose e fiori. Un colpo di tosse ed un saluto nonché (ma da molto lontano se no vi ammalate pure voi),
un bacio

Giovanni