domenica 28 aprile 2013

Viaggiamondo - 28 aprile 2013


E questa settimana, in attesa di capire quando si riuscirà a partire per un nuovo viaggio, facciamo viaggiare un po’ la mente. Sperando che il corpo lo segua. In Tibet con Osborne, o in Australia con Sonego o in Senegal con Giorgi o nella Scozia di McCall Smith. I primi sono viaggi veri e propri, anche troppo nel caso di Giorgi. L’ultimo è forse più un’attesa, ma è anche il solito viaggio interiore verso la nostra etica, tanto bistrattata.
Lawrence Osborne “Shangri-La” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 08/01/2013 – T: 08/01/2013]
[tit. or.: Shangri-La; ling. or.: inglese; pagine: 52; anno 2008]
Un gradevole racconto di viaggio, pieno di spunti e di possibili approfondimenti, che magari sono solo accennati, ma che mi hanno legato alle scarse pagine con l’attenzione di chi segue una fiaba narrata per l’altrove. Non a caso, il consiglio di lettura mi arriva dalla rivista “Qui Touring” (quando si parla di viaggi… anche se troppo statici). Osborne è un inglese trapiantato a New York, che scrive un po’ di tutto, ma che ha la capacità di cogliere essenzialmente i profumi dei viaggi. In Italia è uscito un suo bel libro su Bangkok, poi ne ha scritti su Parigi, l’Italia, ed anche sul vino e l’andar per vigne. Queste scarne pagine invece (scarne per numero non per densità) ci portano in Tibet. Nel Tibet che 60 anni fa fu occupato dalla Cina (costringendo all’esilio il Dalai Lama). Nel Tibet non sulle orme di “Orizzonte perduto” di Hilton, ma degli articoli che (insieme alle narrazioni di alcuni monaci missionari cristiani) diedero ad Hilton l’idea di Shangri-La. Siamo quindi sulle tracce di uno strano botanico austro-americano, Joseph Rock, che dopo aver studiato negli anni ’10 la flora hawaiana, si trasferisce negli anni ’20 in Asia. E scrive per National Geographic e manda anche piante “nuove e rarissime” in Occidente. Le sue “innamorate” descrizioni dei mondi tibetani oltre i 5000 metri d’altezza, le foto dei locali, folcloristici e buddisti, con la loro aria di quiete e soddisfazione (sarà stata vera?), incendiano le fantasie. E fanno costruire ad Hilton un cumulo di sciocchezze, che però raggiungono un risultato affascinante: Shangri-La diviene un topos simbolico, un luogo inesistente ma reale, se non sede dell’eterna giovinezza, almeno di calma e saggezza. Ora noi non ci addentriamo negli scritti di Hilton, ma seguiamo le tracce di Rock. La sua casa a Lijiang nell’attuale Yunnan cinese ed il suo percorso attraverso i monti. Osborne lo fa con una jeep guidata dal tibetano La ed accompagnato da due interpreti cinesi: Shiny l’ortodossa e Mary la cattolica. Già nello scontro tra le tre “ideologie” si avverte lo stridore del luogo. Ed Osborne riesce a portare alla luce con brevi frasi questi contrasti epocali: il tè al burro, simbolo dell’ospitalità tibetana da un lato (e ne ricordo, io che non sono, ancora, andato in Tibet, una bevuta efficacemente disgustosa in un ristorante tibetano a Parigi), e gli hotel superlussosi e cafoni dei nuovi ricchi cinesi e dei loro sodali coreani e indonesiani. C’è tutto l’orrore, che ho ben provato, della ricerca del lusso a modo loro dei cinesi, che costruiscono case, abbattano, fanno e disfanno, ma con una capacità di creare le cose più brutte nei posti più belli. Fortunatamente, ogni tanto Osborne ci svela anche che dietro questi obbrobri ci sono mondi autentici benché arretrati. Ci sono monasteri buddisti, ci sono ruote di preghiera giganti, ma anche minuscole, che vecchine colorate fanno girare incessantemente, ci sono candele puzzolenti, ci sono palazzi grandiosi, come il mini Potlala. E soprattutto ci sono i naxi e la scrittura pittografica dongba. Sì perché in questa zona, più che tibetani puri, vive questa etnia che (purtroppo) va scomparendo. Un’etnia pre-buddista, che predica l’armonia tra l’uomo e la natura, sostenendo che questi due siano fratellastri nati da due madri diverse e da uno stesso padre. Motivo per cui pur antagonisti a volte, devono ricercare l’armonia. E la scrittura pittografica, unica al mondo. Secondo studi linguistici internazionali, ci sono soltanto 60 persone che sanno leggere e scrivere questa scrittura, e solo 3 sono sotto i 30 anni. È una scrittura che sembra derivare dai geroglifici egiziani (nell’idea) ma che si sviluppa, orientaleggiando, in modo che le frasi si generano come dei rebus sulla carta. Tanto che, secondo l’organizzazione mondiale del “Writing Systems and Languages”, a causa della sua complessità, ci vogliono più di 15 anni per diventare “abili” nello scrivere in Dongba. Non sarà nelle nostre corde, noi torniamo in Tibet con Osborne, ci meravigliamo delle ingenuità cinesi, che ribattezzano metà dei luoghi con il nome Shangri-La, o la sua trasformazione in un cinese da operetta in Xianggelila (terribile!!). Ma ci estasiamo alle bellezze naturali, ed a quanto, ottanta anni fa, vide e descrisse Rock (inviandogli un sentito grazie, a lui come a tutti i meravigliosi occidentali che ci fecero scoprire con occhi nuovi questi mondi: penso al grande Giuseppe Tucci ed al suo discepolo Fosco Maraini, sì il padre di Dacia, ma questa è tutta un’altra storia). Lo scritto è purtroppo breve, e ben presto ci lascia, mettendoci ancora una volta la voglia di partire (senza bere però quanto sotto descritto dall’autore).
“Aveva versato due tazze di vino zhang [vino di riso fatto con infusi di erbe medicinali e lasciato invecchiare] … quello di venti anni. Sapeva di sherry andato a male, con un retrogusto di arsenico. … Ho sentito una fitta al cuore e ho sputato quella che secondo me era una lingua di fuoco …  L’ultima cosa che ricordo è che … sono stramazzato al suolo … atterrando in un morbido fango … che sembrava burro calpestato da una mandria di yak.” (30)
Rodolfo Sonego “Diario australiano” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 18/01/2013 – T: 21/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 105; anno: 2007]
Anche questo è uno dei tanti suggerimenti usciti fuori dal cappello del supplemento “Libri” di Repubblica, quella “Terza” che proponeva uscite minori, ma con momenti di fascino. Come questo piccolo assaggio del diario di un grande sceneggiatore che io personalmente poco conoscevo in realtà. Certo, si dice Sonego e si pensa subito a “Il sorpasso”. Oppure a tutta la produzione degli ultimi trenta anni di Albero Sordi. Dietro c’è sempre lui, questo personaggio (oserei dire, più che sceneggiatore), nato nel ’21, partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale, grande affabulatore e ottimo disegnatore, tanto che i suoi scritti sono (pare, che io non li conosco) punteggiati da immagini. Che dopo la guerra, si trasferisce a Roma, e con le sue doti di narratore di piccoli e grandi fatti, entra nel giro “artistico” della Roma degli anni Cinquanta. Con questa sua aria strampalata, che gli fa decidere di prendere un aereo, catapultarsi in qualsiasi parte del mondo, e tirarne fuori piccole o grandi storie. Come ben apprendiamo dall’ottima (e quando ci vogliono lodi, facciamole) post-fazione di Tatti Sanguineti. Quando va in Svezia, ed imbastisce un paio di film che inaugurano il mito della scandinava dal sesso facile. Ma anche quando va a Marcinelle in Belgio a scrivere in loco il primo copione per un film sui disastri in miniera. Film che non verrà fatto, perché troppo “comunista”. Così come lo era, da sempre, Sonego. E ne faceva filtrare momenti in tutti i suoi copioni. Che poi registi alla moda interpretavano, tagliavano, rimaneggiavano. Ma Sonego era già oltre, ad altri momenti, ad altri racconti (che lui parlava, e la moglie Allegra passava alla macchina da scrivere). Era comunque ben amato dai produttori, che il massimo che chiedeva per partire era un biglietto aereo e le spese (tutto il contrario dello star system di sempre, che chiedeva sempre mirabolanti spese per andare a giro). Dodici anni fa muore, e la moglie mette a disposizione le carte, e ne sono tante, rimaste nei suoi girovagare per il mondo. Qui ne assaporiamo un piccolo esempio. Quando nel 1970 decide di andare a visitare l’Australia. Per trovare delle radici (anche il padre ne era stato un immigrato per qualche anno), e per visitare la sorella colà trasferitasi da 18 anni. Ed in queste poche pagine, a volte in modo solo accennato, il buon Rodolfo butta giù impressioni che lo colgono mentre va in giro. Prima nelle varie tappe d’avvicinamento, Bangkok e Giacarta su tutte. Poi nell’Australia e nelle sue immensità. Ricorderò sempre le cinque ore d’aereo che impiegai per farne la traversata da Nord a Sud (ed io che pensavo già di essere arrivato). Le diversità tra la caotica Sidney e l’austera Adelaide. Gli animali strani. Il lungo treno che in 36 ore lo porta sino a Perth. Ma soprattutto le storie italiane che incontra. Perché nel suo viaggio di memoria, va alla ricerca di momenti italiani, di luoghi dove sono presenti questi nostri connazionali andati laggiù in cerca di fortuna. E quasi mai trovandola. Con i siciliani chiusi ed isolati e tesi a non sprecare un centesimo. Ed i nordici che sentono nostalgia di casa, che non si integrano, che si sposano per corrispondenza con qualche (forse) bellezza rimasta in patria. Leggiamo quaranta anni dopo momenti che ora potremmo vedere applicati ai tanti immigrati qui in Italia da tanti posti poveri del mondo, come se appunto qui ci fossero soldi e lavoro per tutti. Non ce ne sono. Come non erano lì, in quei posti sconfinati, dove parlavano una lingua altra. Tante sono le piccole macchiette che schizza in pochi tratti di penna (purtroppo senza disegni, ma si nota il gusto pittorico). Il tassista, il barista, il tuttofare dell’albergo, ma anche il magnaccia, il giocatore incallito (in un gioco che viene indicato come two-up, ma che non è altro che una variante di testa o croce). Piacevole questo scorrazzare di parole, dove si sente sempre l’empatia verso i diseredati che Sonego mostra in tutta la sua vita e la sua produzione. Poi Sanguineti ci dice che queste note di viaggio diventano un copione cui dà titolo “Carmela”, dal nome della bella indotta a trasferirsi in Australia da un conterraneo che millanta soldi. E noi sappiamo che il regista Luigi Zampa prende il copione e lo trasforma, con Alberto Sordi, nel film “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata”. Grazie di avermi fatto conoscere Sonego, e grazie ancora alle belle note finali di Sanguineti.
“I giovani architetti! ... Come tutti noi pensano, sognano un mondo bello per tutti e creano poche isole di sogno per pochi. Generalmente dicono che bisogna cominciare creando delle isole di sogno per pochi e poi sarà tutta un’isola di sogno. Mah!” (67)
Carlo Giorgi “Vado in Senegal” Terre di Mezzo euro 7,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 04/02/2013 – T: 05/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 139; anno: 2008]
Una buona operazione ed una lettura discreta, anche se pensavo (o speravo) qualcosa di più. Uno dei suggerimenti di lettura di viaggio contenuti nella rivista del Touring (ultimamente purtroppo diminuiti e meno interessanti) che ho ben accolto per una serie lunga di motivi: l’editore, quel “Terre di Mezzo” che pubblica libri di culture diverse e che ne affida la distribuzione e la vendita a venditori di strada; l’autore, giornalista sì ma soprattutto conoscitore del mondo del turismo responsabile; il posto, che rimane nel retro del pensiero in quel viaggio ormai lontano nel tempo in quel del “Sunugal”. Facendo, proprio come in un certo senso “non” suggerisce Giorgi, il giro lungo, da Ziguinchor a Dakar passando per il Parco Nazionale di Niokolo Koba, scendendo per Tambacounda, lentamente fino a Thies (con il mitico incontro della stazione ferroviaria), ed arrivando al Plateau di Dakar e al grande mare. Un ricordo costellato di piccoli e grandi episodi: i tentativi linguistici di Giansimone, la gita nel parco con il camion in panne, la passeggiata (un po’ a rischio) tra serpenti e termitai, la gente alla stazione di Thies (- Cosa fate qui? chiedo, - Aspettiamo il treno per Bamako, - E a che ora arriva?, insisto, - Tra due giorni, mi risponde. Favoloso), i pesci e l’onda lunga dell’Oceano. Tutte sensazioni che ritrovo nelle parole di Giorgi. Trovandoci anche qualche cosa in più e qualche cosa in meno. Sono passati almeno 10 anni tra i nostri due viaggi (ed il mio non era responsabile, allora), ma si sente l’allegrezza piena della gente del Senegal, anche se ormai stemperata nell’avanzare della miseria e dell’emigrazione. Ma proprio questa dà anche dei tocchi magici di contatto. Con tanti senegalesi in Europa ed in Italia, e tanti emigrati di ritorno, non si parla solo wolof o altri dialetti locali, ma molte lingue europee. Capita, come a Giorgi, di passare una serata multietnica parlando in italiano. E con Giorgi ci muoviamo, a Dakar e nelle sue mille sfaccettature, passando all’Università dove ci sono classi di italiano, e dove trova la sua guida, che lo porterà in giro per il paese citando Leopardi. Poi nei taxi, nei mezzi pubblici, nel treno, a contatto con la gente, sempre pronta a raccontare la sua storia, a farsi in mezzo, a parlare. Nel parco alla ricerca dei leoni (che non trova lui come non trovammo noi). Nelle magiche spiagge di Ziguinchor, a veder tornare le barche cariche di pesci, a giocare con i bambini sulle onde lunghe del (mio, ma anche di Giorgi) primo bagno nell’Oceano. Nei contatti con le mille organizzazioni umanitarie, con le centinaia di ong, e tutte le altre strutture (radio comprese) alla ricerca appunto come dice il sottotitolo, di un turismo responsabile. A cui viene poi dedicata tutta l’ultima parte, con i 16 itinerari per capire il paese, ognuno costellato di utili indirizzi e contatti. E tuttavia mi aspettavo qualcosa in più. Forse Giorgi rimane, per quanto riesce ad esprimere, un filo al di qua di quella linea di empatia che rende una narrazione di viaggio partecipata e coinvolgente. Ecco, se dovessi dire la sensazione finale, benché si parli, si dica, si narri, e si citi una serie si persone e situazioni che sarebbe bello incontrare, sembra sempre di essere fuori dal cerchio magico della condivisione. Non so se sia la scrittura, a dare questa sensazione, ma non mi ha dato quel tocco che immaginavo. Quella voglia di dire, ma perché non prendo anch’io quell’aereo per Las Palmas per poi tornare al sole caldo di quell’Africa, ancora non toccata (fortunatamente) dal montare dell’integralismo che poco più a Sud sta sconvolgendo Mali e Mauritania. Peccato. Ah, un ultimo monito: perché mio caro viaggiatore avere la sensazione di rimpiangere la cucina di casa? Mai, sottolineo, mai andare in un ristorante italiano, che italiano si mangia a casa propria. Per le grandi terre, si mangia quello che mangiano gli abitanti, fossero scorpioni fritti in Cina o vermi degli alberi in Namibia.
Alexander McCall Smith “Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 02/03/2013 – T: 04/03/2013]
[tit. or.: The Comfort of Saturdays; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 2008]
Anche se non è un viaggio, per una serie di motivi, l’ho inserito nella quaterna dei viaggiatori. Perché l’autore è sempre in bilico tra Scozia e Botswana. Perché ogni volta che ne leggo mi ritrovo in Scozia (dove spero presto si andrà). Perché è anche un viaggio interiore, sull’orma dei pensieri filosofici che la nostra Isabella ci instilla ad ogni piè sospinto. Intanto, qualcuno mi deve spiegare come fare a mischiare “la comodità del sabato” con l’ignobile titolo italiano. Che al solito prefigura parte della trama, ma con intenti subdoli, e ben diversi da quelli dell’autore. Il nostro Alexander, infatti, cercava di ruotare intorno ad un giorno di quasi riposo per dare un tono rilassante ad uno squarcio della vita dei nostri personaggi scozzesi. Abbiamo ovviamente Isabella in prima linea, con l’approccio etico ad ogni questione del vivere, fosse anche quella di decidere se riprendere un pezzo di formaggio non gradito dal cliente. In ombra, ma in crescita, il figlio Charlie, che si avvia al primo anno di vita e comincia a dar segni di esistenza. Con loro, Jamie, il giovane controfagottista – amante – padre – quasi sposo, sul cui rapporto Isabella si interroga a pagine alterne. È amore? Ci sono troppi anni di differenza tra loro (dieci per l’esattezza)? E se Jamie la lascia? Un misto di apprensione etica generalizzata (pane quotidiano per Isabella) e gelosia. Piccolo cameo per la nipote Cat, con il suo negozio, il commesso, i rapporti sempre sfortunati con l’altro sesso, nonché la vacanza in Sri Lanka. Come dimenticare poi la “Rivista di filosofia applicata”, unica vera occupazione di Isabella insieme alla cura della famiglia Jamie & Charlie. Con l’ovvio collegamento agli scritti da pubblicare, ed in particolare al poco incisivo ma difficile da rifiutare scritto del poco simpatico professor Dove, imperniato sul dilemma del binario ferroviario. Ci si interroga sulla questione etica legata ad una locomotiva che senza freni procede per un binario dove sta per falciare cinque persone. C’è un bivio poco prima, azionando il quale la locomotiva si incanala su una diversa via uccidendo una sola persona. Da qui il dilemma filosofico: che fare? Chi salvare? E come e se prescindere dalle persone stesse? Se sappiamo che i cinque sono cattivi e l’uno buono, azionare o meno la deviazione? Ben si vede, problemi ch tutti quanti affrontiamo centinaia di volte al giorno. Ma forse più di quanto si pensi, dato che il nucleo centrale della storia è poi una variante di questo tema, imperniato sui sensi di colpa di un medico che (per errore? calcolo? sbadataggine?) ha male interpretato i risultati di una ricerca farmaceutica, permettendo ad un nuovo farmaco di entrare in commercio. Peccato che abbia causata la morte di una persona proprio per la diversa interpretazione di quei risultati. Ed il medico si è ritirato dalla vita attiva per la vergogna. Isabella, da amici comuni, viene coinvolta nell’esame del caso, trovando possibili soluzioni: un assistente nipote del medico che potrebbe aver falsificato i risultati per vendicare una zia mal trattata dal medico stesso, la casa farmaceutica che potrebbe aver fatto lo stesso per non ritardare il commercio del farmaco stesso, il medico stesso, perché no, desideroso di salvare vite umane senza curarsi di conseguenze “marginali”. Come la morte collaterale di qualcuno, cosa che ci riconduce al dilemma del binario. Pagine scritte senza tanti fronzoli, idee etiche che salgono qua e là, fino a condensarsi nel risultato di capire cosa è successo al medico ed al farmaco, ed a Jamie ed a Cat. Insomma, ricostruzione e riconciliazione delle situazioni, nel più puro stile di McCall Smith. In fondo non particolarmente eccelso, ripeto, come dissi altrove, da leggere in inglese che dà spunti linguistici interessanti. Ma in fondo, c’è sempre qualche domanda etica che compare. E non dispiace ragionarci su. Noi lo facciamo, e continueremo a farlo. Piccola nota culinaria: si parla ad un certo punto di “differenze tra astaci e aragoste”. Credo sia un refuso che astaci sono i gamberi facilmente riconoscibili dalle aragoste, e ben diverso se si trattasse di astici, invece decapodi molto simili. Bisognerebbe vedere l’originale (o chiedere all’autore).
“La vita consiste anche nel rifiutarci di fare quel che non dovremmo.” (66)
“Sappiamo sempre più cose, e al tempo stesso sempre di meno.” (160)
Finisco di scrivere queste note mentre succede confusione davanti ai Palazzi del Potere. Credo, spero siano solo sussulti di squilibrati. Che altro mi viene in mente, di anni (fortunatamente) passati, e sono convinto non ripercorribili. Pensiamo positivo

domenica 21 aprile 2013

Investigamondo - 21 aprile 2013


Come i miei bravi ed assidui lettori avranno capito, piccola crasi per investigatori da tutto il mondo. Ed, infatti, qui si spazia per molti continenti: si parte dalla Spagna, si fa un salto in Thailandia, si torna in Francia e si finisce in Messico. E devo dire che quello che più mi ha interessato è stato il detective buddista di Burdett, che illumina modi diversi di investigare. Non occidentali, almeno (ps: per i miei amati lettori, rivelo che esistono libri di Burdett tradotti in italiano).
Paul Pen “Il presagio” Newton Compton s.p. (natalino dell’arabista di Paola)
[A: 01/01/2013 – I: 16/01/2013 – T: 18/01/2013]
[tit. or.: El aviso; ling. or.: spagnolo; pagine: 373; anno 2011]
Comincio ribadendo quanto dissi non mote trame fa per Gramellini: un libro regalato non deve essere per forza, in quanto regalo, commentato senza un occhio critico. Perché non viene e non verrà mai messa in discussione l’amicizia del donatore (che anzi ne esce sempre rinforzata, per il coraggio di regalare libri ad una biblioteca ambulante come me), ma il testo e quanto è contenuto nella confezione si. Devo dire che, quindi, come ci si aspetta ormai da Newton Compton, ho trovato una confezione, un romanzo ed un contorno prima di tutto irritanti. Poi, come dirò, negativi nella trama e nella sua realizzazione. Intanto (e la casa editrice ci ha ormai assuefatto a queste cadute di editorialità), c’è un indice sbagliato che indica con un nome diverso un capitolo, cosa che non sarebbe successe se il revisore si fosse accorto che la narrazione avveniva per capitoli alternati tra il 2000 ed il 2009. Secondo punto quanto meno da discutere i lanci di copertina. Si parla di un ragazzo in coma, che però è un punto del narrato, e non è importante, tanto che questo ragazzo avrò poca parte attiva in tutta la vicenda. Ma soprattutto si parla di “tragico destino che si ripete ogni nove anni”. Ebbene questo è sbagliato e fuorviante. Non c’è una sola parola in tutto ilo libro che parla di una ripetizione novennale. Anzi il tragico destino si è fino ad ora ripetuto nel 1909, nel 1950, nel 1971 e nel 2000. Ora, anche chi di matematica non mastica neanche un’addizione ad una cifra si accorge che non c’è nessuna ripetizione ogni nove anni, se tra i primi due accadimenti ne passano … 41! Forse il poco attento editor della Newton ha letto le date dei capitoli, e visto che, come ho detto sopra, si alternano tra il 2000 ed il 2009 (e questi sono si nove anni), ha estrapolato e detto una stupidaggine colossale. Infine, seppur vero che il libro ha scalato due anni fa le classifiche spagnole, l’ha fatto per un motivo di marketing, e poi è subito sparito, che l’autore non ha nella scrittura una capacità da best-seller come altri autori spagnoli (almeno fino ad ora, chissà nel futuro). L’idea di marketing è stata di proporre (antesignani in Spagna, ma già da tempo presenti sul mercato internazionale) un “book-trailer” alla maniera dei film. Un assaggio che facesse “appetire” il lettore, e lo facesse andare all’acquisto un po’ alla cieca, prima che il passaparola di chi poi il libro lo legge, ne facesse rilevare la poca consistenza. Che il romanzo in sé è un tentativo di scrittura alla Stephen King, che cerca di mescolare della suspense con il quotidiano. Ma certo con ben altro spessore (e lo dice uno che non ama molto Stephen). Cercando, il nostro Paul, di barcamenarsi sui due piani temporali. Quello attuale, dove seguiamo il quotidiano di Leo, un bambino di nove anni, pieno di problemi, sia per sé stesso (carattere chiuso ed altro) sia per una coppia di genitori da fucilare seduta stante: una madre che non entra in sintonia una volta in 180 pagine (la metà dedicata a Leo) con il figlio, e che ogni volta che agisce non fa altro che rinforzare le difese di Leo verso il mondo esterno (un esempio su tutti, non è che sbandierando ai quattro venti che il proprio figlio ha bisogno di amici che i fetenti compagni di scuola diventeranno all’improvviso buoni). Ed un padre che non si capacita del motivo che stia lì a vegetare vicino a Madrid, invece di andare a ritrovare il suo folle amore messicano, cercando di compensare questa mancanza di affatto verso una resa incondizionata alla moglie (tanto per non pensare). Dall’altra seguiamo gli avvenimenti di nove anni prima, dove Aaròn (il protagonista di questa parte) lascia senza motivi apparenti la simpatica Andrea (in Spagna e altrove, vi ricordo, è nome di donna), coinvolge in una consegna notturna l’amico David (lui fa il farmacista), che subisce una rapina ed entra in coma. Da qui il nostro parte per cercare di capire il “mistero” del luogo della rapina, quel “posto dell’americano”, che subisce “tragici destini” con la cadenza che sopra riporto. Aaròn è sconvolto, ma lo scrittore non riesce a farci capire come, perché, l’avanzare della nevrosi, la ricerca di una soluzione. Qui purtroppo avanza il mio lato numerico, che a pagina 35 si capisce tutto. Chi, come, perché, quando. L’autore impiega altre 300 pagine ingarbugliando le parole, senza riuscire a far fare un salto di piacere a tutta la vicenda. Ed è talmente piatta la sua capacità narrativa, che finisce esattamente quando e come ci si aspettava, senza neanche un sussulto d’orgoglio. Se poi alla fine, leggendo le note biografiche, ci accorgiamo che Pen è lo sceneggiatore de ‘L’isola dei famosi’ in versione spagnola, ci finiscono di cadere le braccia, continuando a dirci che le uscite della Newton Compton andrebbero bandite dalle librerie e relegate in posti di confino. Grazie Paola, che questo regalo del nostro natalino mi ha consentito di togliermi qualche sassolino dalle scarpe e lanciarlo contro i cattivi maestri editoriali.
John Burdett “Bangkok Eight” Corgi Books euro 9,50
[A: 09/03/2012 – I: 09/01/2013 – T: 20/01/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 431; anno 2003]
Un altro libro nato dal gorgo dei miei impegni viaggianti. Stavo tornando verso l’Europa dopo il viaggio in Laos e Cambogia, e nelle lunghe ore d’attesa a Bangkok cercavo qualcosa da leggere, che ad ogni viaggio provo libri locali. Ora, trovare un libro scritto in Thai mi è sembrata un’impresa leggermente superiore alle mie forze. Ma con fortuna mi sono imbattuto in questo autore, ex avvocato, che dopo aver vissuto 12 anni ad Hong Kong, ha deciso di cominciare a scrivere. Proprio con questo romanzo, che coniuga la sua esperienza “legale” con la conoscenza del mondo asiatico, ed in particolare di Bangkok. Non a caso si intitola “Bangkok 8”, come uno dei distretti della città noto per i suoi locali diciamo osé. Ed al centro della vicenda c’è uno strano poliziotto, di nome Sonchai (il cognome è impronunciabile e lo ometto). Strano perché figlio di un’ex-prostituta che vendeva il suo corpo con raziocinio, sangue misto, probabilmente nato dall’unione con uno dei tanti soldati americani in transito durante la guerra con il Vietnam, che passa la gioventù tra droga ed altre anfetamine più o meno letali, e, ad un passo dal non ritorno, insieme ad un suo sodale (fratello nell’anima, come lo chiama), si fermano e per redimersi diventano poliziotti. Ora (e Burdett ce lo fa vedere con dovizie di esempi e digressioni) anche il mestiere di poliziotto non è tutto rosa e fiori, soprattutto in un paese come la Thailandia in cui le prime industrie del paese sono sesso e droga. I poliziotti vivono sul confine del lecito, tanto che in un paese più europeo sarebbero tacciati di corrotti e mal affidabili. Ma l’autore (e noi con lui) ci guida verso una non condiscendente contestualizzazione degli avvenimenti. Quel che è vero, per la sua storia, e per il fatto che è profondamente buddista, Sonchai è anche una pecora bianca, che non accetta “mazzette” ed altre “agevolazioni”. Proprio per questo il suo capo, il più che corrotto Colonnello Vikorn, gli affida un caso che fa perno su di un marine nero di stanza all’ambasciata. Peccato che dopo due pagine il marine (e il “soul brother” di Sonchai) muoiono per mezzo di serpenti. Da qui parte un’indagine complicata, che vede scendere in piazza anche i Servizi americani. E da qui gustiamo questo doppio binario degli avvenimenti visti con i nostri occhi occidentali (e quelli dell’agente Kimberly), decostruiti uno dopo l’altro da Sonchai nella sua ottica estremo orientale. Riusciamo a pieno ad entrare nella sua ottica orientale, dove Sonchai è dispiaciuto ma non preoccupato della morte del socio, che sa reincarnantesi a breve. E dove vede nell’aura delle persone le loro vite passate. E giustifica la vita attuale con quanto di male (o bene) fatto in altre reincarnazioni. Molto buddista. Così da un lato ci immergiamo (quasi un viaggio nel racconto) nell’atmosfera orientale e nella vita di Bangkok (anzi in Krung Thep come si dice in lingua locale, la “città degli angeli”), conosciamo la vita delle prostitute, andiamo con Sonchai a trovare il suo amico Fritz in carcere, proviamo a spostarci (pericolosamente) con i moto-taxi. Insomma, in pochi tratti mi ritrovo contornato da tutti quei momenti orientali, più o meno vissuti durante molti viaggi. Il battello-bus sul fiume, la birra, le case piene di legno, i profumi. Dall’altra seguiamo il complicarsi della vicenda poliziesca. Che Bradley (il marine morto) aveva una doppia vita, trafficava segretamente in giada preziosa, si accompagnava con Fatima, la quale scopriamo poi era un uomo operato in una clinica thailandese. Conosciamo il socio di Bradley, il ricco Warren, ben ammanicato con il potere asiatico, sia locale, sia con la mafia cinese. E Fatima, che viene dal nord del paese, ha un suo giro di guardie del corpo khmer cambogiani. Scopriamo che Warren è un “maledetto porco”, come dice Sonchai, che si diverte a giochi erotico mortali con prostitute ucraine. Un guazzabuglio senza fine, tra poteri corrotti, mafie piccole e grandi. Noi ci divertiamo però a farci guidare da Sonchai, che non potrà che trovare i bandoli di tutte le matasse, anche se deciderà, in modo molto buddista, che la sua personale vendetta sia affidata ad altre mani. C’è anche un inizio di “affair” con Kimberly che non va oltre il piano verbale. Ma serve anch’esso ad illuminare uguaglianze e diversità tra i due mondi. Alla fine è un buon compendio di vita orientale, anche se descritta con una penna inglese. Spiace solo che (anche se funzionale al testo) Burdett indulgi non poco nelle citazioni commerciali, dove si sprecano gli Armani, i Van Cleef ed altre indicazioni di mercato di alto livello. Mi ha un po’ ricordato un analogo libro dove il protagonista si affida al sapere orientale per risolvere i casi. Lì era il feng-shui, qui il buddismo più profondo. E non dispiace infine che tratti in maniera seria il problema della prostituzione orientale, che ha una sua deontologia, anche se, forse, una difficile ragion d’essere. Una piacevole scorribanda a quasi un anno dal bellissimo viaggio in Laos. Un’ultima cosa, dimenticavo, si parla anche e molto della cucina, e del suo uso smodato (ma a me gradito) di salse piccanti.
“To be frank, nothing has changed since The Quiet American” (389) [citazione del libro di Graham Greene (Ad essere sincere, niente è cambiato da “Un Americano tranquillo”)]
“How can you ever taste anything properly with your whole frigging mouth on fire?” (393) [mentre mangiano un pesce al chili (“Come si può mai assaggiare qualcosa correttamente con tutta la maledetta bocca infuocata?”]
J. M. Erre “Serie Z” Cult editore s.p. (regalo di Silvia)
[A: 01/01/2013 – I: 23/01/2013 – T: 26/01/2013]
[tit. or.: Série Z; ling. or.: francese; pagine: 302; anno 2010]
Un Interessante esperimento letterario, non tutto riuscito allo stesso livello (al solito, non è facile mantenere per 300 pagine lo stesso ritmo, soprattutto se si inizia scoppiettando), di un giovane (ha solo quaranta anni) autore francese, Jean-Marcel, che però si firma J. M., Erre. Autore di pochi romanzi sino ad ora (credo tre o quattro), tutti (almeno a leggerne in giro) con una forte dose di ironia al centro. Ha parlato di condomini in lotta per questioni di cani, di un cinese negro alla ricerca delle sue origini, e qualcosa intorno al mondo si Sherlock Holmes. Qui a me pare raggiungere un forte grado di profondità (vedremo cosa intendo) parlando di film di bassa qualità. Mentre da noi tutto ciò che non viene fatto a dovere (per bassi costi, per scarse idee, o simili) viene etichettato come film di serie B (originando da quei B-movie di hollywoodiana memoria, che erano presentati come secondo film dopo un film “serio”), in Francia si attua una sottile ulteriore distinzione, tra film di “serie B” e film di “serie Z”, dove questi ultimi sono caratterizzati anche da attori scadenti, trame inconcludenti, come nel cosiddetto peggior film mai realizzato “Piano 9 dallo Spazio Profondo” di Ed Wood. Ma su questo ci si tornerà. La storia in sé, pur carina, è in realtà un bel pretesto per citare libri, situazioni e modi dei peggiori film di serie Z. C’è il protagonista, sceneggiatore fallito, ma cultore del “cinema bis” (che accomuna tutti i film da B a Z), con convivente simpatica e volitiva, figlia unenne assolutamente incontenibile, sorella pompiere e madre preoccupata di questo trentenne che non lavora. Felix, questo il nome, ha anche un blog sul cinema (immancabile di questi tempi), per il quale intervista un attore di queste serie, e, venendo questi a mancare, gli trafuga una scenografia che cerca di piazzare presso un produttore improbabile, macellaio di suini ed amante di paté. Non pare strano che la storia sia ambientata in un ospizio per attori di serie Z in pensione, dove avvengono misteriose sparizioni. E la storia entra nel vivo quando un ispettore di polizia maniaco di “griglie criminali” si accorge che l’ospizio esiste davvero e davvero muoiono vecchi attori, che vengono trovati mascherati come in scene madri di film di serie A. Da qui si diparte tutto lo scoppiettante andamento del romanzo tra la vita di Felix e Soso in rue Mouffetard e l’ospizio, dove impariamo a conoscere queste vecchie glorie, alle prese con reumi e Alzheimer, pasticche e dispetti. Ovviamente Felix è il principale sospettato della mattanza, anche perché, almeno per buona parte del libro, si pone sempre in situazioni di difesa, che non fanno che aggravare i sospetti. Ci sarà un bel finale in stile Z-movie ed un sottofinale a sorpresa che mi ha fatto piacere trovare e che ridona luce diversa a tutto l’insieme. Ma tuttavia non è la storia quella che conta, ma il modo. Il saltabeccare da un personaggio all’altro, gli inserti inaspettati (blog, sceneggiature, citazioni), i pensieri di Felix tra ironia e stupore. I tre gemelli che inaspettatamente compaiono a sconvolgere le acque. Il figlio dell’ispettore, pedinatore fallito e bulimico a tempo pieno. E le citazioni. Tutte giuste, tutte di film che hanno visto la luce, con quei titoli improbabili e le loro trame assurde. Ricordando a caso “Amarsi? … che casino” di Patrick Schulmann, “Tempi duri per i vampiri” di Steno, “Che c’entriamo noi con la rivoluzione” di Sergio Corbucci, “L’orribile segreto del dottor Hitchcock” di Riccardo Freda, fino a “Le monache si danno alla pazza gioia o Le sexy goditrici” di Jesus Franco o “BiancaCoscia e le sette mani” di Michel Caputo. Tanto per finire ho anche trovato che esiste davvero “Comincia il giorno ed iniziano le stronzate” di Claude Mulot (del 1982, dove aveva anche una piccola parte Johnny Hallyday). Una goduria per cinefili. È tuttavia e senz’altro un libro francese, molto francese, non facilissimo da tradurre, immagino, pieno di espressioni colloquiali e di sigle. Mi sembra che Tania Spagnoli si sia data molto da fare, anche con le citazioni dei film ed il reperimento dei titoli italiani (quando diversi da quelli citati). Si poteva forse fare un piccolo sforzo per alcune parole od espressioni, come velib, lasciato lì senza commenti. Non so quanti siano in grado di decrittarlo come “vélo liberté”, il servizio di bicicletta in affitto in vigore da 5 anni a Parigi. Tuttavia termino con un plauso a Tania, che per il resto ha ben tradotto il romanzo, che ho letto sorridendo con gusto.
Paco Ignacio Taibo II “Svaniti nel nulla” Net euro 7 (in realtà, scontato 6,30 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 24/01/2013 – T: 27/01/2013]
[tit. or.: Desvanecidos disfuntos; ling. or.: spagnolo; pagine: 110; anno 1991]
Una lettura d’annata (e si sente) ma che serviva a colmare un vuoto e prendere qualche spunto. Il vuoto viene da alcune vecchie letture di Taibo II che mi avevano lasciato perplesso. Interessanti alcuni spunti sulle biografie (il bellissimo “Senza perdere la tenerezza” su Che Guevara), meno le prove romanzate (tipo “La bicicletta di Leonardo”). Volevo quindi vedere di colmare quanto mi mancava della sua scrittura con un romanzo del suo eroe tra i più amati all’epoca in Messico. Il detective Héctor Belascoarán Shayne, figlio di un basco e di un’irlandese (da qui il doppio cognome, a cui lui tiene molto), anarcoide, condivide l'ufficio con un idraulico, un tappezziere ed un ingegnere che si occupa di fogne. Ha un fratello impegnato politicamente a sinistra, una sorella reduce da un divorzio ed una fidanzata fantasma con la coda di cavallo. È brutto, orbo e claudicante. Taibo II lo utilizza con una tecnica ripresa dai modelli scandinavi di  Sjöwall & Wahlöö, per descrivere la società messicana, la sua precarietà e la corruzione diffusa, ma anche la semplicità, l'umorismo e la voglia di vivere dei messicani. Questo sui morti scomparsi, come recita il titolo spagnolo, è anche l’ultimo della serie (a parte una piccola ripresa successiva di quindici anni), che Taibo II aveva sentito esaurirsi il tempo di Héctor, e con gran dispiacere dei suoi lettori (pensate che i muri di Città del Messico, alla notizia, si riempirono di scritte come ‘Belascoarán, per favore ritorna!’). E questo abbandono si sente, che la storia è pervasa di tristezza, con il nostro detective che, spesso e volentieri, si interroga su dove stia andando il suo paese, e dove stia andando lui stesso, ormai sfiduciato verso tutto e tutti. Lo spunto è molto “politico” ed anche molto messicana. Héctor viene ingaggiato per liberare il maestro Medardo Rivera, ingiustamente incarcerato perché incolpato della morte di tale Lupe Bàrcenas. Peccato che Lupe non sia morto, e peccato che Rivera sia stato incarcerato perché a capo del sindacato degli insegnanti, ed a capo di una rivolta (benché pacifica) nella sua regione. Luogo inventato, ma non gli episodi, che ricalcano le rivolte che nascevano contro la corruzione del poter centrale negli stati di Oaxaca e del Chiapas (e che solo 4 anni più tardi sfoceranno nella rivolta degli zapatisti con a capo il subcomandante Marcos, che non ci stupiamo essere fraterno amico del nostro Paco). Héctor si scontra con il potere e la polizia, che sa benissimo il reale andamento dei fatti, ma imbastisce montature giudiziarie a colpi di cavilli legali per tenere Rivera in prigione. Sono senz’altro da ricordare le analisi della situazione locale, fatte dall’avvocatessa del maestro, nonché la storia della città di San Andreas, raccontata da uno degli alunni del maestro stesso. Taibo II riesce anche a dipingere e raccontarci in poche parole sia la strafottenza della polizia sia l’insipienza e l’ignoranza del potere, espressa magnificamente nella figura del presidente della provincia (che ci fa ricordare tanti nostri insipienti politici attuali). Ed anche da tenere in qualche lato della memoria le visite nel carcere, con la promiscuità tra politici e detenuti normali, la loro rivalità e la loro solidarietà (momenti che vanno a collocarsi da qualche parte dove si situano i ricordi nostri e dei nostri amici che ben conoscono le realtà carcerarie). Tuttavia il romanzo non è riuscito. Non ha pathos, né coinvolgimenti. Rimane tutto esterno e di testa. Si nota, come detto, la stanchezza. Si sente che è stato scritto per mettere un punto fermo ad una qualche storia che noi viviamo solo di rimando. Per cui ad un certo punto finisce, avendo risolto il problema centrale da cui si era partiti, anche se non vi dico come, ma lasciando tutto in sospensione. Come se Taibo II ci avesse comunicato la sua stanchezza e volesse condividere con noi l’impossibile fatica di andare avanti. Non si sente l’umorismo di altre sue pagine. Ma il vuoto è colmato, e sono soddisfatto.
“Si sentiva fuori luogo … Ma non era nuovo a questa sensazione. Lui era sempre fuori luogo. Non c’erano scenari che potesse considerare suoi, costruiti a sua misura, ma solo scene in prestito per un attore disperato, scaraventato al centro del palcoscenico nel bel mezzo dello spettacolo, senza un copione in mano, senza vocazione e senza la capacità di improvvisare.” (30)
Solo in finale, un po’ nascosto, confesso che forse è meglio dedicarsi agli investigatori, che questa settimana non ha portato altro che dolori pubblici, forse irrimediabili. Che pena! Non ci salveremo forse neanche ...

domenica 14 aprile 2013

Passioni - 14 aprile 2013


Le  mie, ovviamente, visto che dedichiamo questa settimana a numeri e viaggi (o libri di viaggi o viaggi con i libri). I numeri, venendo da De Luca che generalmente mi piace, mi hanno invece un po’ deluso. Mi sarei aspettato qualcosa di meglio dall’ormai onniscrivente Erri. I viaggi, beh certo, sono un poco strani. Ma il viaggio nei campionati del mondo attraverso gli anni e gli amori riconcilia con il calcio. Il viaggio balcanico di Rumiz riconcilia con la poesia. Ed il viaggio indocinese di Ruggeri riconcilia e ricuce il mio ultimo viaggio, dandone approvazione a sensazioni personali. E non è poco.
Erri De Luca “La doppia vita dei numeri” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 4,16 euro con Feltrinelli +)
[A: 01/12/2012 – I: 05/12/2012 – T: 05/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 69; anno: 2012]
La solita mania di comprare libri “a scatola chiusa” ha portato questo veloce libretto nella mia biblioteca. Una settantina di pagine, che si leggono in un battito d’ali. Soprattutto perché, e questo è il motivo di quanto detto all’inizio, non è un romanzo né un racconto, ma un breve testo teatrale. Sapevo, devo averlo letto da qualche parte, che De Luca si era dedicato anche a momenti teatrali, ma non avevo letto nulla né sulle realizzazioni né sui testi. Quindi, prima assoluta. E una prima da una doppia faccia. Dovendo dedicarsi al dialogo (una delle nervature maggiori di un certo modo di fare teatro) non può che lasciare da parte quel tratto di superiorità scritturale che infarcisce, fastidiosamente, molti suoi testi. Direi che questo è l’elemento positivo. La faccia meno convincente è la sensazione di poca completezza del tessuto narrativo. Facciamo un passo di lato per ora. Che il motivo dell’acquisto, in realtà, era la curiosità del titolo. Se si parla di numeri, eccomi in prima fila. Poi addirittura di una loro doppia vita, che a me parrebbe ne abbiano molte più di due. Numeri per contare, per elencare, per divinare, e molto altro (per me). Qui, anche numeri per narrare. Visto che il corpo centrale del testo è una tombola napoletana. Per chi ne fosse meno a conoscenza, la tombola napoletana è una tombola figurata. Anzi, figuratissima. Ogni numero ha una sua spiegazione simbolica (le carrozzelle, le gambe delle donne, il pazzo, e si potrebbe andare avanti per tutti e 90 i numeri). Tanto che, nelle tombolate di famiglia, spesso si usa solo dire la figura, che tutti sanno il numero di riferimento. E l’imbastitura della trama del testo vuole che, detti i numeri, e dette le figure, il “capogioco” (cioè chi tiene il tabellone ed estrae i numeri) tracci una storia sul filo dei numeri stessi. Inciso nell’inciso, un momento teatrale interessante potrebbe essere lasciare all’attore l’improvvisazione sulla storia che viene dai numeri. Fatto salvo il ritorno al tessuto narrato, visto che la storia che l’uomo del testo incrocia i numeri che estrae. La storia in sé è essenziale (e forse banale?). Fratello e sorella si ritrovano soli la notte di Capodanno. Di età avanzata, ma certo non anziani, sono rimasti soli. Morti i genitori, lui che sta sempre lontano da tutti, misogino e solitario. Lei che ha perso anche Italia, la domestica che ancora badava alla casa. E mentre fuori imperversano rumori e botti di Capodanno, i nostri un po’ si danno ai ricordi, un po’ alla tombola. Apparecchiando per quattro. Che alla tavola della magione avita si siederanno i fantasmi genitoriali. Invisibili a loro, ma non allo spettatore. Che gusta i controcanti tra le narrazioni dei vivi e le precisazioni dei fantasmi. Ma non c’è l’inventiva che ne tirò fuori De Filippo in alcune delle sue migliori commedie. Questi sono fantasmi veri e propri. Sono propri i genitori, con i loro ricordi e tutte le loro manie. Come sono pieni di manie la sorella, che sembra tenersi cura di tutti, ma che non trova mai niente per casa. O il fratello, solitario con vocazione all’isolamento. Che forse aspetta solo di ricongiungersi con i fantasmi. Si fa la tombola. Si dicono cose. E poi arriva mezzanotte, e tutto velocemente si scoglie. Insomma, alla fine il testo mi lascia insoddisfatto. Qualche idea qua e là, ma senza una grande prospettiva. Una storia nella storia attraverso la tombola, i ricordi (forse i rimpianti?). Ma niente di veramente avvincente, niente veramente da segnalare. Ci sono testi, anche teatrali (ricordo alcuni di Schmitt) che fin dalla lettura coinvolgono, dicono, fanno sentire. Qui, in realtà, non c’è molto sugo, non c’è molto che rimane, se non il solito attuale sentimento che De Luca ci vuole comunicare: si continua ad invecchiare e la fine è sempre più vicina dell’inizio. Se è solo questo, grazie tante, niente buoni consigli di lettura. Solo quel ricordo, ultimo, che lega i morti ai numeri della nostra vita. E che ce li fa venire in mente, come il 13 che mi ricorda mio padre. Ma non c’era bisogno di queste scarne paginette per ricordarmelo. Speriamo in meglio, Erri.
Fabio Stassi “È finito il nostro carnevale” Minimum fax euro 9 (in realtà, scontato 7,65 euro)
[A: 15/07/2012 – I: 05/12/2012 – T: 08/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 242; anno: 2011]
È il secondo libro di Stassi che leggo, avendo avuto anche sentore di un terzo che non ho ancora in libreria. Questo per dire che una componente del mondo dello scrittore è questa sorta di reality-fiction, in cui parte da momenti di realtà per costruire suoi impianti “fittizi”. Lo fu per la storia della partita a scacchi di Capablanca, lo è per questa storia dei mondiali di calcio, e penso lo sia nell’ultimo ballo di Charlot. Questa storia (come poi si raccorda bene nel post-romanzo, dove, in una conferenza che tenne due anni fa a Salvador de Bahia, Stassi parla della brasilianità della sua Sicilia) si snoda per quaranta anni, seguendo le alterne vicende dei mondiali di calcio, anzi seguendo quella che fu la “Coppa Rimet”. Che così si cominciò a chiamare dalla prima edizione uruguagia del 1930 sino alla sua conquista definitiva in quel di Messico nel 1970. Questa storia del football che potrebbe piacere anche a chi calcio poco ne capisce e poco se ne appassiona. Perché oltre le partite, che ne sono una componente interessante, ed ineludibile, c’è tutto il resto: la storia d’amore per l’inarrivabile Consuelo, iniziata a Parigi nella seconda metà degli anni Venti. Dove il nostro protagonista, il multietnico Rigoberto si aggira nel mondo degli artisti, mescolando Hemingway e Django Reinhardt, l’orafo-alchimista Valmont ed il poliziotto di carta Jules Maigret. E queste mescolanze continueranno per tutto il racconto, toccando Vinicius de Moraes e Jorge Amado, Ernesto Che Guevara e “un partigiano italiano”. Unendo i dolori per le guerre e le sconfitte, con quelle dei golpe sudamericani, imbastendo tutto con il filo del rimpianto per la perdita (inspiegata) della bella Consuelo, che cercherà in tutte le donne del mondo senza trovarla, lo scrittore ci fa seguire il sogno/follia di Rigoberto. Che Consuelo fece da modella per la vittoria alla base della Coppa dedicata ai Mondiali di Calcio da Jules Rimet nel 1928. Rigoberto, perdutamente innamorato ed avendola persa dopo la giornata di modella, da allora cercherà di rubare (o di riprendersi) la Coppa per stare per sempre con Consuelo. Nasce così il racconto parallelo dei mondiali di calcio dal 1930 in poi. L’Uruguay del capitano Nasazzi che sconfigge gli Argentini nel 1930. L’Italia fascista di Pozzo, trionfatrice nel ’34 a Roma e nel ’38 in Francia. E poi la guerra. Il dramma nazionale brasiliano della finale giocata al Maracanà nel 1950 contro gli uruguagi di Ghiggia e Schiaffino, comandati dal gigante Obdulio Varela, che misero in ginocchio una nazione (con tanto di suicidi, e di messa al bando della maglia della nazionale che verrà cambiata da bianca con colletto blu, all’attuale verde-oro di tanti successivi trionfi). La strana finale del ’54 in Svizzera tra i dopati tedeschi e gli spompati ungheresi di Puskas. La passeggiata brasiliana del ’58 in Svezia con la scoperta di un tale … Edson Arantes do Nascimento detto Pelè (ma soprattutto di quell’ala imperdibile che fu il claudicante Garrincha). Le mattanze del ’62 in Cile, con la gamba spezzata a Mora da parte dei cileni, i calcioni a Pelè, e l’uscita dal cilindro di Amarildo, che porta alla seconda vittoria. Poi nel ’64 c’è il colpo di stato in Brasile (patria ormai d’elezione di Rigoberto), e come dice Vinicius in una sua canzone “finì il nostro carnevale (accabò o nosso carnival)”. Il triste Brasile non vincerà nel ’66, anno della sconfitta coreana dell’Italia di Fabbri e dell’unico mondiale vinto dall’Inghilterra, anche se con un goal fantasma, convalidato dal guardialinee che solo lo vide. Rigoberto intanto era riuscito a trafugare la coppa, ma, sperduto nella città di Londra, la deve abbandonare tra i rifiuti dove un cane la trova. E per finire, l’apoteosi di Città del Messico, dove in semifinale sono presenti 3 squadre con almeno 2 vittorie (che, per chi non lo sapesse, la coppa sarebbe stata definitivamente vinta da chi avesse conquistato 3 allori). Da una parte Pelè trascina il Brasile sopra l’Uruguay, dall’altra l’inarrivabile 4-3 di Italia e Germania. La finale non ha storia, e la coppa andrà definitivamente in Brasile. Poi ci saranno altri Mondiali, ma Rigoberto non li segue più. Cerca e trova il modo di trafugarla, anche se i generali al potere diranno che fu rubata per questioni di droga e fusa (era d’oro). Per anni invece (e questa è la parte fiction che Stassi ci regala) sarà con Rigoberto, fino alla fine del mondo (e scoprirete anche perché). Una scrittura che concilia con il calcio anche i non appassionati, come ho detto, e che fa arditi (e simpatici) paralleli tra calcio, vita e rivoluzione (immenso il movimento calcistico brasiliano mutuato dalla guerriglia cubana). Un romanzo che dà la sua parte migliore proprio in queste narrazioni, lasciando un po’ delusi sul resto.
“Tra gli uomini c’era un rispetto, un trattarsi da pari a pari, qualunque fosse il loro stato. Dopo tanti viaggi, resta il comportamento più rivoluzionario che abbia conosciuto.” (94)
Paolo Rumiz “La cotogna di Istanbul” Feltrinelli euro 8,50
[A: 10/11/2012 – I: 18/12/2012 – T: 21/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 230; anno: 2010]
Con un po’ di difficoltà mi accingo a tramare questo libro. Difficoltà dovuta, principalmente, alla forma del testo, più che al testo stesso, che mi rende non facile parlarne, discuterne, approfondirne. Eppur il libro nasce sotto due buoni auspici. Da un lato l’autore, Paolo Rumiz, che spesso seguo dalle colonne di Repubblica, dove, di tempo in tempo, scrive di viaggi e di luoghi strampalati. Viaggi in bicicletta, viaggi in treno, paesi slavi e paesi turchi. Insomma, letture e motivi di lettura cui sapete sono sensibili. Dall’altro il suggeritore del libro stesso (vedete come in questo inizio di anno si moltiplicano gli omaggi a chi mi spinge a leggere qualcosa, mescolati qua e là a doverose critiche se la lettura non raggiunge i livelli di piacere sperati), il mio allegro amico di castello, che ringrazio per la curiosità sempre presente. Detto ciò, il libro si presenta in sottotitolo come una “Ballata per tre uomini e una donna riscritta per musica nuova”. E proprio di questo si tratta. Perché le 200 e più pagine sono una lunga, lunghissima poesia non rimata, cui serve andare spesso a capo per prendere il ritmo, per abbreviare una descrizione. Insomma per tenerci un po’ sospesi, che se lo riversassimo in romanzo, l’autore avrebbe dovuto spendere (inutili) pagine in (inutili) descrizioni. Così è tutto un po’ ellittico, ma anche un po’ favoloso. Cioè tende alla fiaba più che alla narrazione pura. E quasi come una fiaba si svolge appunto la storia del personaggio principale, quasi l’io narrante, che non è la mela cotogna, ma uno degli uomini. Seguiamo allora con la voce di Max, quello che incantava narrando, come viene a conoscere della bella Maša, la mela cotogna di Istanbul (e un giorno si ritornerà su questo frutto tanto caro alla mia mamma), come narravano i versi di una canzone d’amore dei luoghi. Luoghi difficili, per me che frequentai la vecchia Jugoslavia, ma che poco avrei voglia (ora) di ritornarvi. Che ho difficoltà a rapportarmi con gli slavi. Ma qui si parla di Maša, la bella di Sarajevo, innamorata di Vuk, che lo attende dopo che viene condannato per una stupida uccisione (ritorna la violenza del posto). Maša che sposa Duško, con cui ha due figlie, ma che, libero Vuk ritorna da lui per due settimane di passione. Poi Vuk muore nella guerra serbo-bosniaca. Ma Maša porterà sempre con sé questo suo amore. Anche quando incontrerà Max, anche quando lui se ne andrà per motivi vari (non vi sto mica narrando tutto). Anche quando si ammalerà e tornerà con Max. Mentre Duško riamane un eco sospeso nella lontana Mosca dove si è rifugiato. E Max avrà sempre Maša accanto, soprattutto nella lunga camminata di centinaia di chilometri che lo porterà dalla Bosnia ad Istanbul, sul filo dei ricordi e delle mele cotogne. Ma non sono importanti tante e solo le storie narrate. Sì anche, ma è il canto d’amore della ballata triste quello che mi ha colpito. Questo senso di appartenenza l’uno all’altra, anche e forse proprio per questo, al di là delle parole. Certo ammiro anche la capacità di Rumiz di sollevare tanti interrogativi: sulla guerra di Sarajevo, che rimane ancora una ferita dolorosa, sulle etnie locali, croati, serbi, bosniaci e bosniacchi (non è un vezzeggiativo, sono realmente due etnie diverse), kosovari e via discorrendo, ma anche sulla solidarietà, sugli interventi detti “umanitari”. E sollevando dubbi che forse un approfondimento questi posti lo meriterebbero.  Nonostante la mia difficoltà ad entrare nel modo narrativo, alla fine l’ho apprezzato, facendomi un po’ cullare. Dalle parole e dai ricordi. Alcune parti le ho trovate in calando. Non capisco Duško e le figlie. Ed a volte non capivo l’ostinazione di Maša. Capivo solo il canto d’amore intenso di Max, con o senza la presenza di Maša. Ma per essere una poesia di 230 pagine, supera ampiamente la prova della mia (scarsa) pazienza. E mi associo nel consigliarvelo, allegramente (ma non è una ballata triste? Qualcuno saprà).
“Ma dove vanno a finire le storie / che più nessuno ha tempo di narrare?” (173)
“Aveva già passato i sessant’anni / il tempo per avere dei nipoti / e in mente gli tornò che nonno Josef / … / aveva esattamente quell’età / quando gli raccontava nella sera / … / Sessanta, rifletté, certo, sessanta / dunque poteva essere nonno anche lui / forse per questo scopriva in se stesso / quell’arte del narrare che incantava / gli adulti come fossero bambini.” (178)
Corrado Ruggeri “Farfalle sul Mekong” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà scontato 6,45)
[A: 14/03/2013 – I: 16/03/2013 – T: 20/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 246; anno 1994]
E come recita il sottotiolo “Tra Thailandia e Vietnam”. Me ne aveva parlato una coordinatrice di Avventure nel Mondo, indicandolo come buon punto di partenza per capire qualcosa almeno di una parte dell’Indocina. Preparando il secondo viaggio nella regione in dodici mesi, ho pensato che valesse la pena portarlo come “libro di viaggio”. Ed, in effetti, ha avuto un suo ruolo nel farmi riflettere su questi luoghi. L’autore è giornalista, e si sente nello scrivere spigliato, accattivante e centrato su argomenti utili alla riflessione. Devo comunque dire, preliminarmente, che i venti anni trascorsi dalla prima stesura si sentono, soprattutto nella seconda parte, quella dedicata al Vietnam. Confesso (ahi che dolore) che il Vietnam ancora non è entrato nei miei girovaghi viaggi intorno al mondo, e questo è un peccato. Ma si capisce (e viene anche detto in una nota esplicita) che sia il modo di viaggiare in Vietnam che il Vietnam stesso sono cambiati e di molto in questi anni. Forse dovrei chiedere lumi a Nicoletta, mia amica massima esperta di viaggi in Vietnam. Quello che vedo, dalla scrittura di questa parte, è solo una dolenza, che di rimando mi rimbalzava quando giravo per la Cambogia, di un mondo devastato da cruenti lotte intestine. Si sente, nella presentazione dei personaggi, questa rottura tra i due mondi, tra l’ex-sud e l’ex-nord, tra i filo americani ed i filo russi. E con curiosità mi domando come sia diventato ora, a tanti anni di  distanza dalla fine delle ostilità. Ma facciamo un salto indietro, perché invece la prima parte, insomma l’inizio del viaggio di Corrado e della sua bella, ci porta in Thailandia. E la descrive con un’immutata capacità di collocarla fuori dal tempo, ma di rendercela vivace. L’autore gira per una specie di trekking tra le tribù del nord della Thailandia. Ed io lo vedo mentre vado a dorso di elefante, mentre scendo i torrenti su approssimative zattere di bambù, mentre dormo in capanne vicino ai villaggi di montagna. Poi fa un grande salto negli arcipelaghi delle Andamane. Qui è anche la parte più emozionante, quella che descrive le imprese turistiche di alcuni occidentali immigrati. Soprattutto in quelle di “Caveman”, quell’uomo delle grotte, che propugna un turismo che non colpisca la natura. E che coinvolge i nostri in un’avventura assai perigliosa con delle canoe alla ricerca di grotte incontaminate. Con un piccolo salto mentale, mi ritrovo con Federico ad addentrarmi nella grotta di Ko Lanta e, seppur senza quella sensazione di pericolo, ritrovo sensazioni di scoperta. Poi c’è il grande balzo in Vietnam, cui accennavo. Con i problemi logistici di venti anni fa, ora scomparsi. Ma con quel risonare, anche ora, dei campi di detenzione, dei sentieri nascosti, di odi e ripicche. Bisognerà andarci, prima o poi. Infine il ritorno alla città degli angeli, che questo è il nome locale di Bangkok (il nome della città fu coniato nel XVII secolo dal re Rama I, è il più lungo nome al mondo di una località, ma viene abbreviato, traslitterandolo in Krung Thep che significa appunto “Città degli angeli”). Ed anche qui mi ritrovo con Corrado a passeggiare nel caldo enorme e che toglie il fiato della grande capitale. Nel suo traffico soffocante, ma anche nel battello fluviale e nelle sue placide fermate lungo la Chao Phraya. Nella casa di Jim Thompson, l’agente della CIA che misteriosamente scompare. Negli aquiloni del parco reale (quelli che Stefano non è riuscito a trovare). Nella confusione che anima le stradine di Chinatown. Ed anche nella calma fuori del tempo dei grandi alberghi (certo non visti in questo viaggio, ma che mi rimandano a quando transitavo qui per lavoro). Meriterebbe un libro a parte tutta l’analisi del comportamento delle go-go girl e dei loro anfitrioni occidentali. Dell’uso loro del corpo e del turista. Ma meglio che in questo, ritrovo le immagini di Chiang Mai nei libri di Burdett di cui parlo altrove. Comunque chiudo il libro che sono ancora in Thailandia, e me lo porto dietro mentre proseguo il viaggio. Leggetelo, se siete andati o se pensate di andare nel Mekong!
“Viaggiare … è una scelta culturale: per questo si insiste a sottolineare la differenza tra turista e viaggiatore, due categorie di persone che difficilmente incrociano le loro rotte in giro per il mondo.” (115)
Ora ci stiamo mettendo sotto d’impegno a terminare quanto lasciato in sospeso prima di partire. Scatole, libri, CD, passaporti, foto, feste, nuovi viaggi. Quanto ci sarebbe e c’è da fare. Con la calma abituale del toro, rimbocco le maniche, e comincio. 

domenica 7 aprile 2013

Misticanza - 07 aprile 2013


Dopo la tanta e gustosa verdura assaporata in Thailandia, dedico questa settimana ad un’insalata mista con sapori eterogenei e non sempre graditi. In tanto, porgo il benvenuto ai nuovi arrivati in questa mail list, dal nome misterioso e significativo (che non spiego). A voi spiego invece che metto qui le mie recensioni, indicando una mini-scheda per libro, includendo la data di entrata nella mia libreria, e le date di inizio e fine lettura. Comunque una settimana che segna alcuni ritorni: a Coe, dopo sei mesi dall’ultima lettura, a Rushdie, dopo anni da “I figli della mezzanotte”, a Banville, dopo 4 anni dall’acquisto senza essere ancora riuscito a leggere di “The sea”. E la scoperta di uno strano autore franco-tedesco, che tutto sommato è stato piacevole.
Jonathan Coe “La pioggia prima che cada” Feltrinelli euro 7,50
[A: 13/05/2012 – I: 28/11/2012 – T: 04/12/2012]
[titolo: The rain before it falls; lingua: inglese; pagine: 222; anno: 2007]
Sono passati sei mesi dalla lettura del precedente libro di Coe, che un po’ mi aveva riconciliato con questo scrittore, pieno di alti e bassi; o meglio di bassi sì, ma più che alti, altopiani, qualcosa di piacevole, seppur non eccellentissimo. Ricordo anche che in quell’occasione uno dei miei lettori ben mi sottolineava di questo. Andiamo allora avanti con la normale ambivalenza del buon Jonathan. Sono sempre dubbioso quando la voce narrante che usa è femminile, cioè quando i suoi romanzi ruotano intorno a personaggi femminili. Che non sempre (e questa è una polemica che porto appresso da tempo) il narratore uomo riesce ad entrare nella narrazione donna. Ci sono autori e situazioni che ci riescono e/o ci vanno vicini. Ma spesso (ed è vero anche il contrario quando è la donna ad usare voci maschili) il testo mostra la corda. Qui l’idea di fondo è ben sviluppata, anche se (ogni tanto) l’autore-narratrice sembrano incartarsi. Riporto l’idea di base: una donna vicina alla fine narra la storia della vita (sua e di chi le è intorno) ad una specie di nipotina, non vedente. Lo fa registrandola su cassette, e lo fa descrivendo ad Imogen, 20 fotografie che fermano momenti della vita trascorsa. Rosamund (la narratrice) muore lasciando questi nastri ad Imogen che è scomparsa, dando incarico alla nipote Gill di trovarla. Non riuscendo, Gill decide di sentire i nastri insieme alle figlie (tutti personaggi femminili). Ci troviamo così immersi nell’atmosfera della vita di Rosamund, con una strana infanzia, con una infatuazione per la cugina maggiore Beatrix, con la quale vive momenti da dodicenne esaltanti. Poi Rosamund cresce e si innamora della bella Rebecca, con la quale va a vivere insieme. Beatrix intanto va in giro per Inghilterra e Irlanda, lasciando mariti, prendendo compagni, e gestendo (male) la piccola Thea. Al seguito di un grande amore, decide di fuggire in Canada, lasciando Thea (non volente e non volendolo) a Rosamund e Rebecca. Trascorrono così due anni meravigliosi, fino al ritorno di Beatrix che si riprende Thea, mentre il dolore farà separare per sempre Rosamund e Rebecca. Della seconda spariscono le tracce, mentre Rosamund per anni ed anni porterà avanti il proprio dolore, fino ad essere consolata dalla pittrice Ruth. Intanto Thea, che tanto aveva portato di gioia e spensieratezza nella sua vita, cresce. E ripete gli errori della madre. Sposa persone improbabili. Mette al mondo Imogen, e non la sa gestire. Rosamund cerca ogni tanto di intervenire per portare “momenti positivi”, senza riuscirci. Fino al dramma: un pianto immotivato della treenne Imogen fa andare fuori di testa Thea, che la sbatacchia con tanta irruenza, da provocarle una lesione permanente, che renderà non-vedente la bambina. Thea è condannata a diversi anni di carcere. E le viene tolta la potestà di Imogen, che viene affidata ad una famiglia che la adotta. E che la fa, giustamente, sparire. Thea per anni non sembra interessarsi all’accaduto. È solo Rosamund che cerca di mantenere i contatti con Imogen, fino a che la famiglia adottante decide che è meglio troncare tutti i legami. E sparisce anche lei in Canada. Assistiamo ai rimpianti di Rosamund, a tutte le piccole cose che si accumulano in questo gineceo londinese. Ai pensieri di Gill che ascolta, che durante un ricordo dell’Alvernia di Rosamund, ripensa alla sua gita francese con il marito, invero poco felice e funestata dall’investimento di un uccello con la macchina (che avviene a pag. 27, ma che si capisce, se uno se lo ricorda solo a pag. 220). Dopo aver accompagnato quasi tutti i suoi cari alla tomba, e soprattutto l’amata Ruth, anche Rosamund si spegne. Mancando anche l’ultimo appuntamento con Thea, che, carica d’anni e di sventure, sembra aver messo la testa a partito. Anche se non si assolverà mai di tutte le colpe commesse. E se farà brillare una possibile connessione tra i sentimenti negativi di Gill e la storia di Imogen, di cui narra pezzi a Rosamund ignoti. Ecco, sembra proprio un elenco di possibilità mancate, di felicità sfiorate e mai raggiunte, che lascia una tristezza grande addosso. Con quei piccoli elementi di sorriso e di felicità, come quello del titolo, o della musica popolare francese o del clarino di Catherine la figlia di Gill. Ma non scatta mai oltre un certo limite. Non passa mai quel guado che farebbe sentire importante il testo. Un buon testo, con buoni coinvolgimenti. Di media lettura e gradimento, con quel tocco di ingegno della vita attraverso le foto che resta e forse va ripreso.
“Mi sembra importante … non sottovalutare mai quel che si prova nel sapersi indesiderati dalla propria madre. … Rendersene conto corrode il senso del proprio valore, e distrugge le fondamenta stesse del proprio essere. È molto difficile uscire incolumi da un’esperienza simile.” (58)
“Non si può descrivere la musica a parole.” (130)
“Col tempo, diventa così difficile distinguere le tue idee da ciò che puoi aver orecchiato da qualche altra parte.” (142)
Nicolas Barreau “Gli ingredienti segreti dell’amore” Feltrinelli euro 8
[A: 30/09/2012 – I: 12/12/2012 – T: 14/12/2012]
[titolo: Das Lächeln der Frauen; lingua: tedesco; pagine: 239; anno: 2010]
Nato in Francia da madre tedesca, il nostro bilingue imbastisce una storia che fa perno su di un … inglese (anche se poi si sviluppa in molte direzioni). All’inizio, essendomi ignoto il Barreau mi aveva decisamente spiazzato il nome francese dell’autore ed il titolo originale in tedesco. Scoperto il trucco, ho trovato tuttavia simpatico il modo di “essere” in Parigi, quasi da straniero nella propria terra (un po’ come Veit Heinichen e Trieste). Anche se poi ci si domanda perché i sorrisi delle donne diventino “ingredienti dell’amore” e perfino segreti. Mistero! Comunque senza tanti battage pubblicitari, Barreau ottiene un discreto successo internazionale con una storia delicata, che quasi ci fa tornare alle atmosfere leggere e simpatiche della Parigi di Amèlie (e non a caso i protagonisti hanno nomi in A: Aurélie e André). Ed anche l’idea di base ha un suo fascino, ed è ben svolta dall’autore. Poteva venirne fuori una cosa un po’ banale, invece, pur nell’assoluta normalità si fa seguire. La storia procede su due binari paralleli, alternando i punti di vista dei due protagonisti. Aurélie gestisce un piccolo ristorante parigino (dal nome storico che rimanda a quel ristorante vicino a Place d’Italie gestito negli anni ’70 da una cooperativa di operai e che proponeva e propone una cucina francese tradizionale), sta uscendo malconcia da una storia, cerca consolazione dalla sua amica Bernadette, ma la trova leggendo un libro di un ignoto scrittore inglese, dove il britannico protagonista, a valle di una serie di ironiche situazioni scontrandosi la sua flemma d’oltre manica con la giocosità parigina, si innamora di una ragazza che gestisce un ristorante che guarda caso è quello di Aurélie. E dove anche la descrizione della protagonista si adatta alla sua. Da questo punto in poi la nostra cercherà in tutti i modi di entrare in contatto con l’inglese, fallendo (e vedremo presto il motivo) miseramente ogni suo tentativo. André invece lavora in una piccola casa editrice, come editor, e, non riuscendo a trovare autori soddisfacenti la linea editoriale, in complicità con un suo sodale inglese, scrive un libro (quello di cui sopra), facendo finta sia la traduzione da un libro inglese. Sfortunatamente il libro ha successo. Ed Andrè si troverà impelagato a far fronte alla richiesta di interviste all’autore, di viaggi promozionali, di sedute pubbliche di lettura. Nonché all’insistenza della bella Aurélie che lo contatta e non lo molla più per farsi presentare al fantomatico Robert Miller. Capirete anche voi, che si andrà avanti a forza di equivoci, di possibili smascheramenti, e soprattutto del tentativo di Andrè di creare tutto un castello di menzogne per screditare l’autore fasullo, e per farsi bello verso Aurélie. Che in realtà è proprio la persona descritta nel romanzo. In effetti, ad Andrè l’idea era venuta passando davanti al ristorante e vedendo oltre il vetro Aurélie in uno splendente vestito verde. Come detto una trama che rischierebbe di andare alla corda dopo poche battute. O di essere ripetitiva. Invece viene ben sostenuta dalla scansione di una serie di colpi di ingegno dello scrittore, per dare voce e speranza a turno ai due protagonisti. Ovviamente, quando tutto sembra andare per il meglio per Andrè, Aurélie manda all’aria tutto il castello. E … e non vi dico altro, su come andrà a finire. Ognuno faccia il tifo per chi vuole e se ne goda la lettura, rilassante (soprattutto in questa turbolenta fine di un anno bisestile). Un’ultima notazione riguarda il “Menu dell’Amore”, un menu per due che il padre di Aurélie le ha donato prima di morire, e che è una catena che legherà per sempre chi lo mangerà con spirito giusto. Barreau (come a me fa piacere che mi rimanda ad altri testi a me cari) alla fine ce ne dà anche le ricette (che consiglio di provare a chi sa ben cucinare). Io mi limito solo a riportarne i piatti (e ad invitarvi al sorriso): insalata di valeriana con avocado, champignon e noci, coscio d’agnello alla melagrana con gratin di patate, parfait all’arancio con gâteau au chocolat (che da solo vale tutta la cena!). Buona lettura!
“Gli anni non contano. Conta solo come li viviamo.” (10)
“Non riesco ad immaginare una vita senza libri.” (20)
“A volte è più facile convivere con la menzogna che con la verità.” (119)
“L’amore quando finisce è sempre triste. Chi lascia ha la coscienza sporca. Chi viene lasciato si lecca le ferite. Alla fine però ognuno è quello che è sempre stato.” (gli appunti di Aurélie)
John Banville “Dove è sempre notte” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 26/08/2012 – I: 16/12/2012 – T: 22/12/2012]
[tit. or.: Christine Falls; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2006]
Sono rimasto molto deluso da questa lettura di un nuovo romanzo della collana Noir di Repubblica, che sembra a volte buttar dentro alla rinfusa cose varie, senza pensarci troppo. Ed altrettanto deluso dall’autore. Che in realtà avrei dovuto sospettare non fosse nelle mie corde. Ricordo anni fa, alla mia (per ora) unica visita a Dublino, alla ricerca di un autore locale, presi un libro del buon Banville, libro tra l’altro vincitore di premi e riconoscimenti. Ma non riuscii ad andare avanti (ebbene sì, a volte i libri si possono abbandonare, per poi magari tornarci, se capita, seguendo i principi cui sempre mi rifaccio del decalogo di Pennac). Ora, Banville è un autore poliedrico, che scrive di tutto. E che, ad un certo punto, imbastisce storie con protagonista Quirke, un anatomopatologo di Dublino. E storie ben collocate nel tempo, che si collocano, infatti, agli inizi degli anni Cinquanta. Questa è la prima in cui compare Quirke, ed è tutto fuorché una storia noir, gialla, thriller o altro. Si salva solo l’ambientazione storica, sia nella Dublino dell’epoca, sei nella corrispettiva America, dove si svolge una parte (e non secondaria della vicenda). L’autore è di una lentezza a volte esasperante. E qui deve inquadrare i personaggi. Quirke, vedovo e sempre attaccato a qualche bottiglia (tanto che alla fine siamo alticci anche noi poveri lettori). Malachy detto Mal, suo cognato e ginecologo, sposo di Sarah, sorella della defunta signora Quirke. Sarah stessa, che da sempre era innamorata di Quirke, ma che poi sposa Mal. E su questo ipotetico triangolo amoroso, Banville spende qualche decina di pagine di troppo senza arrivare mai a spiegare i perché o i per come. Phoebe la figlia di Mal e Sarah (ma sarà vero? Che i loro comportamenti a volte sembrano mostrare altro), in crisi di crescita, molto attaccata allo zio Quirke, piena di voglie e di capricci. Insofferente insomma. Ed il grande Griffith, padre di Mal, gran commis dello stato irlandese, che prese sotto la sua ala il bimbo Quirke al tempo in orfanotrofio. Per finire con il magnate Crawford, l’irlandese emigrato in America a fare fortuna, dove tutti si ritroveranno per il redde rationem finale. E dove ci saranno delle sorprese. Ma qual è la storia supposta nera? Nasce tutto dalla morte di una giovane, Christine Falls, che dava il titolo originale al romanzo, e che, chissà per quale balzano motivo, viene tradotto con questa inutile invocazione alla notte (forse perché la notte è nera?). Quirke se la trova in anatomopatologia, ed è colpito da alcune incongruenze, che sembrano coinvolgere il cognato Mal. Ed essendo curioso di natura (un curioso strano che vuole sapere, ma che non fa domande per conoscere, che si ferma spesso, e che mi ha irritato per tutto il romanzo con questa sua ignavia di fondo) decide di capirne di più. Viene così a sapere che Christine è morta dando alla luce una bambina. Aiutata dalla mammana Dolly, che però, vista la mala parata chiama il suo vecchio datore di lavoro Mal per cavarsi dagli impicci. Ma Christine muore, la bambina sparisce. E quando Quirke scopre di Dolly e dei suoi legami con un orfanatrofio gestito dal suocero Crawford, anche Dolly muore. E Quirke viene talmente pestato a sangue da due loschi sicari che per qualche mese dovrà fare vita di ospedale, con una gamba che non si rimetterà a posto del tutto. Ma Quirke sembra non demordere, ed accompagnando Phoebe da nonno Crawford, scopre casualmente una sua ex-infermiera finita anch’essa in America. E tramite lei, risale alla storia della bambina scomparsa, della sua adozione americana, e della loro storia tribolata e poco edificante. Per arrivare alla catarsi finale di cui sopra. Tuttavia impiegare quasi 400 pagine per tutto ciò è un inutile tormento per noi poveri lettori. Che la trama nera esce sì a poco a poco, ma è del tutto sovrapposta a quello che interessa Banville, cui piacciono le atmosfere, le descrizioni, le case, i giardini. E tanto, tanto alcol. Insomma, alla fine, un nero insopportabile per una lettura che non sa né di carne né di pesce. Chissà se riuscirò mai a riprendere in mano quel primo libro… Nota finale (se qualcuno mi aiuta): Marcella Dallatorre, esimia traduttrice, ad un certo punto parla di un tal MacCoy soprannominato Maciste, e l’autore dice “che bel gioco di parole”. Io non l’ho capito e l’ottima Marcella non lo spiega. Che ci sarà da ridere?
Salman Rushdie “Joseph Anton” Mondadori s.p. (regalo di Aldo & Michela)
[A: 07/10/2012 – I: 30/12/2012 – T: 16/01/2013]
[tit. or.: Joseph Anton; ling. or.: inglese; pagine: 649; anno 2012]
Libro ben lunghetto e, purtroppo, poco scorrevole. Erano anni che non tornavo su Rushdie. Diciamo, in effetti, che, dopo “I figli della mezzanotte”, non è che ne abbia letto gran che. Troppo il clamore, troppa la scarsa simpatia del personaggio. Che questa lettura mi conferma. Intanto ringrazio i donatori che mi hanno spinto comunque a riprendere in mano “il caso Rushdie”, che giaceva un po’ lì senza un vero perché. Come detto, il libro non è eccelso. Intanto non ha (o non è stato reso in italiano) la scoppiettante inventiva dello scritto di Rushdie, che nei romanzi lavora molto di penna e di metafora. Si sente abbastanza il dolore dello scrittore per tutto quanto succede. Così imbastisce un libro di “memoir” (pare così sia ormai il termine usato, autobiografia risulta obsoleto). A partire dal giorno infausto (14 febbraio 1989) quando l’ormai fuori di testa Khomeini lanciò una fatwa mondiale sul negletto autore di un libro che, viene detto, mette alla berlina la religione islamica. Peccato mortale, visto che l’autore, anche se ateo, è di provenienza mussulmana. Ne seguiamo così la storia, con il rapido inserimento in un programma di protezione, il cambiamento di nome (e lui adotta quello del titolo, che deriva, come ci confessa, da quello di due autori a lui cari: Joseph Conrad e Anton Cechov), la vita quotidiana a contatto con le forze speciali di protezione, la ricerca di luoghi sicuri, i problemi con i suoi cari, soprattutto con il primo figlio allora di 14 anni, Zafar, che vive con la prima moglie e che lui avrà difficoltà a vedere per anni. La rottura con la moglie Marianne (a naso un po’ psicolabile), la scoperta del grande amore con Elizabeth, che condividerà con lui tutti gli anni clandestini (per poi sposarsi, farci un secondo figlio, Milan, e quindi divorziare). Vediamo, nella sua prospettiva, come tutto diventi difficile, come sia impossibile fare una passeggiata, o andare al cinema. Vediamo alti e bassi della clandestinità. Vediamo passare gli anni, crescere Zafar, morire la prima moglie, venire uccisi alcuni suoi traduttori o editori in giro per il mondo, crescere gruppi di pressione per togliere la fatwa, sentiamo l’idiozia dei politici (e quelli inglesi sembrano di buona razza “legnosa”), vediamo i differenti modi con cui le polizie del mondo lo proteggono, non meravigliandoci degli strombazzamenti americani. Poi, con il tempo, un po’ si affievolisce la pressione iraniana (non ultima la temporanea ascesa di moderati alla Katami), comincia ad avere libertà, soprattutto in America. E piene di sentori di primavera, quando tutto rinasce, sono le pagine in cui descrive le prime volte in cui esce senza protezione, le prime passeggiate in spiaggia, i primi viaggi aerei diretti, senza che le compagnie si rifiutino di tenerlo a bordo. E poi, velocemente nel finale, tutto il resto: la fine della fatwa e dell’amore con Elizabeth, l’illusione della bella vita con l’attrice indiana Padma, che sposa (ed è la quarta) e da cui poi divorzia. Nel frattempo c’è anche l’11 settembre. E non è poco. Anche se, alla fine, dopo quasi venti anni, riesce a rimettere piede nell’India natia. Seguiamo anche le difficoltà ed i successi della scrittura, l’impossibilità di scrivere romanzi, poi lo sblocco. Ma tutta la sua produzione post-versetti mi risulta poco se non del tutto ignota. Rimangono alcune questioni, ancora sul tappeto: i comportamenti degli altri scrittori rispetto alla fatwa (dalla sua prospettiva ne risultano due agli opposti atteggiamenti: sostenuto da Paul Auster e osteggiato da John le Carré), la scrittura e la filosofia di vita di Salman (le pagine sono farcite di nomi di personaggi illustri che a lui si accompagna, per aiutarlo, principalmente, come Susan Sontag ed altri, ma è il senso di inclusione in una èlite mondiale di “buoni” che esce dalla penna, di gente colta, di gente “arrivata”, descrizioni che personalmente accolgo con fastidio, che mi sanno ecco la parola giusta è snob, un particolare, ma innegabile snob), e, last but not least, la materia stessa del contendere: “I versi satanici”. E quello che implicano. Siano o meno un dileggiamento religioso (e non lo credo) io condivido fino alla fine il pensiero illuminista francese della libertà di espressione (“non condivido una parola di quello che dici, ma farò di tutto perché tu lo possa dire”). E sopratutto sono completamente, totalmente contrario a tutti quei regimi che usano la religione come metro di giudizio per accettare o bandire idee. La forza di una convinzione “sana” è quella di accettare la diversità, criticando, anche aspramente, quanto diverge da me. Ma dopo averlo, almeno, letto. Cosa che non è successa per Rushdie, bandito come idea, senza che l’80% delle persone che ne parlavano avesse idea di cosa abbia realmente scritto nel suo libro. Credo che questo sia il vero fulcro che mi ha costretto a leggere tutte queste pagine, per cercare di capirne di più. Alla fine, prima o poi, credo che leggero i versi satanici, anche se non ne sono convinto. Come non sono convinto della scrittura di Rushdie. E come non sono convinto dell’uomo-Rushdie, che, in fondo, non mi sta poi tanto simpatico, con tutti gli atteggiamenti di cui ho detto. Sono profondamente dolente che un uomo abbia perso anni ed anni della sua vita per questi motivi. E spero che possiamo arrivare a vivere in un mondo in cui questa non succeda più. Ma ho molta paura che queste mie speranze siano lungi dall’avverarsi (e fosche nubi si stagliano in orizzonti a me cari). Commento a margine: ma si possono usare termini come “odeporica” di cui tutti (meno io) sanno il significato?
“Sono sempre le donne a prendere le decisioni, e agli uomini non resta che sentirsi riconoscenti se sono abbastanza fortunati da risultare i prescelti.” (20)
“Che l’amore muoia non significa non abbia vissuto.” (127)
“Le idee forti ammettono il dissenso … Solo chi è debole e autoritario si sottrae agli avversari, li ricopre di insulti, e a volte desidera far loro del male.” (355)
“[frammento della poesia di Williams Carlos Williams ‘La corona di edera”] But we are older / I to love / and you to be loved” (533)
“Io non so distinguere un albero dall’altro, e lo stesso vale per i fiori, ma ad ogni modo ho molto apprezzato i fiori e gli alberi.” (551)
Al fine, per chi volesse recuperare tutte le recensioni arretrate, consiglio di visitare il mio blog di back-up (http://giogio53.blogspot.it/trame_e_voilà ). Per chi vuole conoscere la mia biblioteca indico il sito http://www.anobii.com/gio53/books. Intanto stiamo organizzando grandi – piccole cose e vedremo presto qualche risultato. 

mercoledì 3 aprile 2013

Da Tai a Ita - 01 aprile 2013


Con anagramma in stile “EP”, per riprendere al volo le nostre trame al ritorno da un veloce, eppur intenso, viaggio in Thailandia (che, in effetti, si scrive con l’acca…). Ed un po’ per parafrasare anche il deamicisiano dagli Appennini alle Ande… Quindi, oltre a tornare da un viaggio, torniamo ad autori italiani. E ad autori di “gialli”. Il primo, che meno di tutti mi è piaciuto, ci riporta comunque ad un onesto scrittore italiano, Giuseppe Pederiali, che ci ha lasciato il mese scorso. Non mancano quindi due Camilleri doc, ma non ancora ai livelli abituali, anche se con punte di apprezzamento. Inframmezzati dall’ultima avventura del commissario Ricciardi, che, purtroppo, da quando ha lasciato Fandango per Einaudi, mi lascia viepiù perplesso.
Giuseppe Pederiali “Camilla e i vizi apparenti” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato 7,92 euro)
[A: 24/06/2012 – I: 28/12/2012 – T: 30/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 246; anno: 2004]
Devo dire che a volte il pensiero rimane nella testa al di là dei ricordi reali, e degli avvenimenti connessi. Questa frase sibillina serve ad introdurre un libro che ho comprato e letto per colmare un vuoto, ma che, essendomi piaciuto veramente a bassi livelli, mi sono chiesto perché lo avessi incluso nei libri da leggere. Ricordavo soltanto che era il secondo episodio dedicato all’ispettrice Camilla Cagliostro, di cui avevo letto il primo ed il terzo. Quindi questo per il vuoto da colmare. Ma ricordavo (fallacemente) che mi avevano incuriosito i due episodi. Rileggo le trame andate (la prima del 2008, la seconda del 2010, quasi un appuntamento biennale) e trovo che non ne avevo parlato bene. Trame deboline, qualche idea, certo scrittura scorrevole (tanto che anche questo l’ho letto in un giorno e mezzo). Ma la stessa tesi di fondo: romanzi banalotti. Questo ricalca e ribadisce questo giudizio, facendomi pensare che il quarto libro (che c’è) magari lo leggerà tra due anni. All’inizio sembra promettere, inserendoci nelle storie di una famiglia della Ferrara bene, dove casualmente il padrone di casa è amico della nostra Camilla, avendone frequentato la casa quando la futura ispettrice era un’adolescente. Ci sono attriti forti tra moglie e figlia, la piacente Andrea e l’immatura Fosca. Si inizia con una vacanza in Sardegna, dove tragicamente muore un amichetto della dodicenne Fosca, forse per colpa, sicuramente per distrazione, della mamma Andrea. Salto temporale, e l’amico Riccardo chiede a Camilla di passare giorni con la famiglia per che vede acuirsi le crisi. Ci sarà anche, come in Sardegna, la coetanea Matilde, presenza presente ma poco spiegante. Com’è e come non è, fatto sta che Andrea muore, e si scopre che (ma questo era ovvio fin dalle prime pagine) a premere il grilletto è stata proprio la piccola Fosca. E dopo quindi una buona metà di libro sopportabile, cadiamo in pieno in situazioni “angosciose”. La quasi totalità dei drammi avvengono nella famiglia (e basta rileggersi le cronache dello scorso anno per verificarlo). Ma Riccardo ha soldi, ingaggia luminari, ed in breve riporta a casa Fosca che inizia una terapia psichiatrica familiare. Ma Camilla è inquieta, non capisce qualcosa. Ed anche se i superiori le chiedono di non indagare, come può tirarsi indietro? E comincia dal punto debole della vicenda, l’ombrosa Matilde. Che ben presto cede e si confida e spiega la sua presenza sempre intorno senza motivi (apparenti). Quando lei era dodicenne il (falso) buon Riccardo l’aveva presa (con un po’ di violenza e molti soldini). Erano stati amanti fino al suo maturare adolescente. Poi Riccardo l’aveva sistemata, prima con lavoretti, poi facendola sposare da un suo sottoposto. Ed a questo punto si spalanco le porte degli inferi. Si comincia la discesa nella Geenna. Scopronsi gli altarini, ed un mondo che sembrava privo di vizi apparenti, risulterà poi pieno di vizi veri. Che la bella Andrea (e questo si poteva immaginare) aveva avuto coorti di amanti, e nella fattispecie un lungo amore, finito con la gravidanza di Fosca, che a questo punto non si sa se sia figlia di Riccardo o meno. Ma il resto lo avete già capito. Come capirete che ad un certo punto Fosca andrà anche lei veramente fuori di testa, e probabilmente anche Riccardo troverà una resa dei conti. Non si sa se reale, presunta, immanente o differita. Scopritelo leggendolo. Come scoprirete l’evoluzione della storia di Camilla con l’ispettore Donato. E cosa successe veramente tra Camilla e Matilde. Ed i sentimenti di Lolli, la cameriera filippina. Ed altri minimi misteri minori. Non so perché ho continuato a leggerne, di Pederiali. Sicuramente incuriosito dall’evolversi della storia di Camilla, qui il dito sulla piaga vira verso le perversioni a danno dell’infanzia. Uno dei temi più difficili, scabrosi, e che, sinceramente, non so affrontare. Al solito, la non eccelsa mira dello scrittore emiliano, colpisce un bersaglio e spalanca porte. Ma la sua visione del resto della vita non mi coinvolge, ed il ritmo diventa un blando quartetto campagnolo. Chissà cosa leggerò tra due anni?
Andrea Camilleri “Una lama di luce” Sellerio euro 14
[A: 13/06/2012 – I: 01/01/2013 – T: 05/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 244; anno: 2012]
Gradevole ritorno del nostro buon Camilleri ai fasti e nefasti del commissario nazionale (che ormai Montalbano è diventato quasi un’istituzione). Gradevole ma non ai livelli abituali, che la storia, pur non facendo acqua come altre prove di altri esimi scrittori italici di gesta poliziesche, non riesce a prendere fino in fondo. Ho avuto anche la (s)fortuna di leggere l’ultima intervista rilasciata da Camilleri, che spaziava su molti argomenti, ma uno mi è rimasto in fondo al cervello, come un tarlo che mi rode da un po’. Il nostro agrigentino riafferma l’inesistenza di negri aiutanti alle sue scritture, ma l’affermazione (un po’ excusatio non petita) mi ribadisce la possibilità di questo “aiutino”. E non che non sia utile, se vogliamo pensare ad una persona che, andando verso i novanta, continua a scrivere e sfornare episodi e romanzi con ritmi giovanili. Ma torniamo alla lama di luce di questo romanzo. Che al solito gioca su di una serie di registri tipici del plot di Montalbano. Un’indagine che tiene banco come asse portante. Una o più storie laterali. Nonché, l’alternarsi di attrazione e repulsione tra il nostro cinquantino e la lontana Livia, in genere dovuto anche (e qui non ne è da meno) alla comparsa di una qualche bella “fimmina”. E proprio da questa storia laterale (ma fino ad un certo punto) vorrei cominciare a tessere la nostra trama. Che ormai da diversi romanzi il rapporto con Livia si è andato viepiù sfilacciando. Qui, inoltre, compare la bella Marian, che fa breccia non solo nel corpo, ma anche nella testa del nostro commissario. Tanto che sembra ben deciso a porre fine all’amore a distanza con la genovese (ultimamente un po’ bistrattata). Marian che risulta coinvolta in un caso di quadri rubati, che ci aspettiamo ne sia travolta, e che, Salvo aiutando, ne esce bene (e non me lo aspettavo). Ma una vicenda trasversale, che lega questa tarda vicenda ad uno dei primi casi (il bel “Ladro di merendine”), fa prendere a Montalbano una decisione (anche se, al solito, bisogna vedere cosa ne pensano gli altri) e ne vedremo nei prossimi romanzi le conseguenze. Mentre la storia portante è un po’ banalotta. Una rapina che non si rivela esserlo. Una storia fra un attempato gestore di un supermercato e la sua più che giovane commessa. Dove la giovane esce da una storia con un picciotto mafiosetto. Dove si invaghisce di un altro giovane di mafia, per di più fratellastro della sua migliore amica. E tra questi triangoli e quadrati (che non mi si leva dalla testa che l’amica Valeria voglia un bene un po’ più intenso dell’amicizia verso la giovane Loredana) si spiegano le rapine di cui sopra, ci si coinvolge in un’ammazzatina, e, tra una mangiata da Enzo ed una delle melanzane di Adelina, comprese le passeggiate al molo, le chiacchierate con i granchi ed altri “topos” montalbanici, il commissario elabora una teoria convincente. La applica. E trova colpevole e mandanti. C’è anche un piccolo lavoro in fior di parole con l’esimio Gottaduro avvocato della mafia, che fa camminare Salvo pericolosamente sul crinale di qualche possibile (ma non fattibile) cedimento. Per il resto, e fino alla conclusione (o alle conclusioni), tutto è nei binari del più trito ossequio ai canoni di cui sopra. Fazio con le sue trovate. Mimì con le sue femmine. Catarella con i suoi strafalcioni. Ma anche Salvo con i suoi sogni, che ormai stanno un po’ rompendo i cabbasisi. Risulta sempre più ovvia la corrispondenza del sogno premonitore con qualche cosa che avverrà. Qui non se ne fa a meno, anche se, tra sogno e realtà, passano 200 pagine. Tralascio qualcosa, per il gusto di chi lo vuole leggere (e tuttavia devo dire ne vale comunque la pena), anche se poteva illuminare passi di romanzo. Ma preferisco qualche ombra alla troppa luce. Rimarco solo, in finale, che Camilleri avanza sempre più faticosamente nelle storie di Montalbano, quasi che sentisse il bisogno di finirla, ma che non ne abbia il coraggio (tanto per non finire come Conan Doyle e la prima morte di Sherlock Holmes). E questa stanchezza pervade tutto il romanzo, facendo prendere punti di vantaggio alle altre storie di Vigata, che sono più agili, ma che sembrano più fresche delle avventure del commissario: perché, caro Andrea, non fai andare in pensione il nostro Salvo, e, lasciandoci i suoi sottoposti, provi a mettere un nuovo capo al commissariato di Scicli? Sarebbe una prova rischiosa, ma degna sfida per una penna di vigore.
Maurizio de Giovanni “Vipera” Einaudi s.p. (Natalino dell’arabista di Nico)
[A: 01/01/2013 – I: 19/01/2013 – T: 22/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 304; anno: 2012]
Premesso che sono un fan della prima ora del commissario Ricciardi, e che seguo gli scritti de Giovanni con attenzione (anche se non mi discosto da questa sua saga), devo dire che questo sesto episodio conferma il trend al ribasso delle ultime uscite. Come altri hanno rilevato, intanto, il passaggio dalla Fandango ad Einaudi non ha giovato molto alla resa editoriale dei testi. I titoli, che avevano una logica ed una consequenzialità, stanno diventando banalotti. Come questo che, pur evocando la bella canzone di E.A. Mario (inciso dedicato a questo grande della canzone: di Vipera scrisse, infatti, parole e musica, come per la sua canzone più famosa “La leggenda del Piave”, composta solo un anno prima di questa, proprio nel 1918), non è altro che il nome della povera vittima, Maria Rosaria detta Vipera di professione prostituta nel bordello “Il Paradiso”. Poi anche i sentimenti delle festività: i primi quattro romanzi, quelli di Fandango, erano dedicati alle stagioni, mentre ora siamo passati alla santificazione delle feste. Prima il Natale, ora la Pasqua (con quella inutile didascalia su “Nessuna resurrezione”, che l’editor di Einaudi poteva risparmiarsi). Anche l’intreccio diciamo nella parte dedicata al mistero è ben misero. Viene uccisa una bella ragazza per sua sfortuna prostituta, in quanto bella sì ma povera. E molti potrebbero averne voluto la morte: il figlio del commendator Vincenzo dato che il padre per lei si stava rovinando, la bella Lucy, altra prostituta, cui Vipera aveva tolto il posto d’onore, Peppe a’ frusta, suo antico spasimante che l’aveva ritrovata e chiesta in sposa, Madama Yvonne, la famiglia di Peppe o la famiglia di Maria Rosaria stessa, se Vipera avesse detto si a Peppe. Né in aiuto al commissario vengono le parole della vittima che lui risente nell’aria (sappiamo che questo è il grande punto d’attacco di tutta la serie, ma anche la maledizione del commissario che continua a vedere per alcuni giorni i morti di morte violenta che ripetono l’ultima frase prima di spirare). Si fa un po’ d’indagine, aiutato dal fido brigadiere Maione. Ma solo casualmente, ripensando ad una barzelletta dell’amico dottore al nostro scattano le meningi e trova il pur facile bandolo. Perché, a prescindere da tutti i moventi, già da tempo si capiva dove sarebbero arrivate le indagini, nell’unico modo plausibile per spiegare come possa aver fatto l’assassino ad entrare ed uscire senza essere disturbato. E Ricciardi sembra particolarmente “intontito” che solo nelle ultime pagine si risolve a chiedere conferma della sua deduzione al finto cieco che sta fisso davanti al bordello. Lui sapeva da giorni che era finto, avrebbe potuto pensare prima a chiedere cosa avesse visto. Ma tutto è diluito perché seguiamo l’altro versante della storia, che fa perno sul momento storico della vicenda. Siamo ben nel 1932, ed il fascismo comincia a consolidare le sue forze dopo quasi dieci anni di governo. Questa parte, pur con qualche titubanza, è forse meglio sviluppata. I pochi che resistono, e che vengono ben presto isolati e mandati al confino (quando va bene), come sta per succedere al dottor Modo, il patologo di riferimento del commissario, nonché medico benvoluto da tutti, nonché amico di Ricciardi, nonché antifascista nell’animo che non sopporta la deriva italica. Ed il dottore fa un passo falso e rischia di essere mandato a Ventotene (dove avrebbe trovato compagnie illustri da Pertini ad Altiero Spinelli e Camilla Ravera). Per salvare l’amico entriamo nella terza trama del testo, quella che più mi fa dolere, che de Giovanni non sembra avere intenzione di sciogliere i nodi amorosi del nostro commissario. Che il cuore di Ricciardi, pur con le titubanze della sua natura) batte per la simpatica e timida Enrica. Ma il corpo del nostro commissario è irretito dalla bella ed estroversa Livia, quella che è amica di Edda Ciano. E mentre facciamo tutti il tifo per un pranzo pasquale ordito da Enrica su consiglio della tata Rosa, Ricciardi è ripreso all’amo della bella per sdebitarsi della liberazione del dottore. Questa è la parte emozionalmente più debole (per me), mentre nella scrittura debbo rilevare che de Giovanni continua ad infarcire di tanto in tanto dei capitoli che vogliono essere lirici, che spaziano, che sembrano dire e non dire, ma che non sono funzionali a nulla, se non ad aumentare il numero delle pagine. Io li taglierei decisamente. Chissà che in questo modo possa il nostro scrittore risalire la china in attesa della prossima festività (domanda: sarà il Corpus Domini o l’Assunta?).
“Gli uomini non sanno mai quello che vogliono … perché si pensano che il mondo finisce domani, e allora si occupano solo di quello che succede oggi. Siamo noi donne che vediamo chiaro come il sole quello che succederà, e ce ne dobbiamo fare carico. E un poco alla volta … li dobbiamo portare a fare quello che vogliamo noi, facendogli credere che lo hanno deciso loro.” (47)
Andrea Camilleri “Una voce di notte” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato 11,90 euro)
[A: 18/09/2012 – I: 22/01/2013 – T: 24/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 267; anno: 2012]
Letto quasi d’un fiato, e finalmente! Un Camilleri non dico ritornato ai massimi livelli, ma di sicuro al di sopra dei livelli di guardia cui era sceso ultimamente nelle vicende del commissario Montalbano. E si capisce meglio alla luce della nota finale, che il nostro scrittore appone alla fine. Perché (e questo era stato scritto tra le righe in alcune sue interviste) ha dato alla Sellerio un numero consistente di storie di Montalbano, che la casa editrice decide (a suo buon cuore) di dare alle stampe in ordine sparso (fatto salvo l’ultima, quella che sarà pubblicata postuma per suggellare la fine sia di Camilleri che del nostro amico Salvo). Questa, quindi, risulterebbe precedente (come scrittura) alla di sopra tramata, a parte i necessari aggiustamenti temporali e di riferimento a vicende trascorse. E sebbene Salvo nel corso della vicenda festeggi (anzi, compia, che di festeggiare non se la sente) i suoi cinquantotto anni, non è infarcito da quelle dosi di pencolamento verso l’universo femminile, che mi avevano un po’ stranito nell’ultima uscita. Certo, rimane il continuo battibeccare a distanza con Livia, ma risulta quasi uno scontato scandire dei giorni di lontananza. Purtroppo la Marian della puntata precedente non può comparire (essendo questa stata scritta prima, quindi avrebbe necessitato una riscrittura completa). E Livia dalla sua Genova sta stressando anche i nostri cabbasisi. Inoltre, questa volta la vicenda è nuovamente (e con più forza) politica. Che il direttore di un supermercato, strettamente legato alla mafia locale in quanto contabile della stessa, subisce un misterioso furto durante l’orario di chiusura. Misterioso fino ad un certo punto, che ne provoca la morte. La mafia vuole farlo passare per lo scorno di essere stato accusato o di essere realmente complice del furto stesso. Montalbano, gira che ti rigira, sempre aiutato dai pizzini del suo aiutante Fazio e dalle capacità informatiche dell’ottimo Catarella, troverà a seguire una pista che, pur nell’oscurità mafiosa delle soluzioni complesse, renderà giustizia al povero direttore, e farà in modo che uno degli autori della manovra ci rimetta le penne. Questo è il motivo conduttore, che tramite telefonate notturne mascherate (e grazie ad altro che non vi dico) Montalbano induce i colpevoli allo scoperto. Stesse manovre che utilizza nell’altro caso che segue in parallelo, questa volta con l’ottimo Mimì (che però sempre più in minore sta) della morte di una giovane trovata nuda e trucidamente pugnalata nella villa dove conviveva con il giovane Strangio, figlio (e succube) del professore presidente della Provincia. Anche qui tutto sembra accusare il ragazzo. Ma il parallelismo tra i casi, consente al commissario di trovare anche qui il bandolo, anzi il filo di spugna della matassa (ed accontentatevi di questo indizio). Il resto è tutto frutto del sacco di memoria del nostro autore (quello che lo collega al commissario Beck o al commissario Charistos). Sogni premonitori in cui si vede nella parte di un intoccabile alla De Palma alla ricerca di incastrare Al Capone. Discussioni solitarie sulla deriva che porta l’Italia sempre più vicina a quella Chicago più letta che vissuta. Il malaffare delle televisioni (sempre nel contraltare tra TeleVigata e Retelibera) che dove sono asservite al potere servono a distorcere le notizie più che ad informare lo spettatore. Insomma, pur non scadendo nel solito sdilinquimento dell’incensatore di professione dei risvolti di copertina, il pur bravo Nigro (che a me risulta tuttavia sempre meno simpatico), sicuramente un Camilleri più tonico. Ed anche più in linea con i soliti standard i comprimari (Augello, Fazio e Catarella) e gli antagonisti (il signore e questore, il dottor Pasquano). Anche i coinvolti nelle vicende hanno un normale spessore che fa piacere rilevare. Nonché le grandi mangiate di Montalbano, sia quelle in trattoria da Ezio sia nelle cenette che gli prepara la fida Adelina (ma io continuo a domandarmi come si fa a mangiare spaghetti e triglie a pranzo, e poi sbafarsi un polipo intero a cena; sarà la giovinezza di Salvo che gli consente tali performance?). Si sente, e con piacere, tutta la penna di Camilleri in questo romanzo. Speriamo che ne abbia già spediti altri con la stessa verve. E speriamo di leggere il più tardi possibile la puntata conclusiva delle storie del commissariato di Vigata.
Inizio mese, quindi cominciamo gli elenchi delle letture di questo 2013, che, liberatomi da ritmi di lavoro molto vincolanti, pensavo più leggente, ma che si sta rivelando più lento dello scorso anno (e forse è un bene, per chi mi segue). Purtroppo un anno iniziato con una sola lettura coinvolgente (l’agile libricino di Osborne) e molte letture sotto la media.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Andrea Camilleri
Una lama di luce
Sellerio
14
3
2
Dolores Prato
Scottature
Quodlibet
7
3
3
Lawrence Osborne
Shangri-La
Adelphi
5,50
4
4
Michael Connelly
Il buio oltre la notte
Piemme
11
3
5
Simone Weil
Manifesto per la soppressione dei partiti politici 
Castelvecchi
6
3
6
Irene Dische
Le lettere del sabato
Feltrinelli
5,50
3
7
Salman Rushdie
Joseph Anton
Mondadori
s.p.
2
8
Elvira Seminara
I racconti del parrucchiere
Gaffi editore
7,50
2
9
Paul Pen
 Il presagio
Newton Compton
s.p.
1
10
John Burdett
Bangkok Eight
Corgi Books
9,50
3
11
Rodolfo Sonego
Diario australiano
Adelphi
5,50
3
12
Maurizio de Giovanni 
 Vipera
Einaudi
s.p.
3
13
Carl Schmitt
La tirannia dei valori
Adelphi
5,50
3
14
Andrea Camilleri
Una voce di notte
Sellerio
14
3
15
J. M. Erre
 Serie Z
Cult editore
s.p.
3
16
Paco Ignacio Taibo II
Svaniti nel nulla
Net
7
3
17
Elizabeth Peters
L’enigma della piramide nera
TEA
8,60
2

Comunque, e ci si tornerà, il viaggio è stato interessante, con un bel gruppo che ha lavorato all’unisono per renderlo piacevole. Ora comincia Aprile, ma più che altro… Beh, non diciamo nulla per ora, solo
Un bacio
Giovanni