domenica 26 gennaio 2014

Bānānā - 26 gennaio 2014

Così si traslittera il suo nome, anzi il suo pseudonimo che dice di aver scelto perché le piacevano i fiori del frutto. Ed è una settimana tutta giapponese, tutta dedicata a questa scrittrice non sempre di mio gradimento (ha i suoi alti e bassi, come tutti). Tuttavia è una scrittura che mi rimanda il senso del bel viaggio novembrino. Non è un caso, poi, che quello che più mi è piaciuto di questi scritti riguardi i viaggi. Suoi, ma che faccio anche miei.
Banana Yoshimoto “High & Dry Primo Amore” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato a 5,52 euro)
[A: 19/06/2013– I: 23/06/2013 – T: 25/06/2013] - &&&
[tit. or.: High and Dry (Hatsukoi); ling. or.: giapponese; pagine: 108; anno 2011]
Dopo un inizio, molti anni fa, che mi lasciò perplesso nei confronti della scrittrice giapponese, da qualche anno, ogni tanto ne prendo in mano un libro, e devo dire ne apprezzo meglio i pregi, pur notandone ancora difetti (ovviamente per il mio modo di interpretare la scrittura). Banana scrive sempre in punta di penna, con quelle pennellate che mi riportano ad acquerelli visti anni fa ad una mostra a Roma: tocchi delicati di sensazioni fuggevoli. Questo pregio a volte si tramuta in difetto, nel corso della stessa scrittura, quando mi aspetterei un movimento, un’azione, qualcosa, insomma, che ogni tanto tocchi la terra. E spesso, non succedendo, come in questo che non direi essere né romanzo né racconto, uno scritto forse, un flusso di parole, un tentativo di descrizione di uno dei tanti riti di passaggio. Qui il passaggio attraverso l’adolescenza, di Yuko una ragazza quattordicenne, molto sensibile, molto attenta anche ai colori delle cose che la circondano, con un padre lontano, in America, a cercare oggetti antiquari da vendere nella sua bottega di Tokyo, ed una madre che lavora in libreria, che si appassiona di momenti ecologici, che mangerebbe solo gelato, e che se si mette a leggere un libro, è capace di scordarsi tutto, anche di portare la figlia a scuola. E Yuko esterna questa sensibilità disegnando (e già qui ricordi si affastellano), e trova una scintilla di comprensione verso Kyu il maestro di disegno, che capisce al volo i suoi stati d’animo, che corregge i suoi colori interpretandoli e che, insieme a lei, vede starni fenomeni visivi. Ma Kyu ha il doppio degli anni di Yuko, è già un artista, e già ha avuto donne e fidanzate. Potrà nascere qualcosa? Banana ci porta a vedere che la sensibilità non ha età, che le affinità elettive vanno oltre ed al di là di momenti temporali. E poi anche il “grande” Kyu ha (o ha avuto) i suoi problemi, il padre è morto, anche la madre è un’artista, anzi una scultrice, e Kyu soffre ancora di un abbandono infantile che non si è mai spiegato. Yuko e Kyu parlando di tutto e scambiandosi sensazioni attraversano le non molte pagine del libro, dandomi, in ogni caso, sensazioni fresche. E sempre, proprio per quei tocchi lievi, pieno anche di frasi, elementi di scrittura che facilmente rimangono nel fondo dell’occhio, per poi penetrare a poco a poco nei labirinti cerebrali, e lì germogliare in pensieri, spesso e volentieri fecondi. Non è importante se la loro storia andrà avanti, non è questo il nocciolo. Il cuore di questo primo amore, di una delicatezza che quasi non si può ri-raccontare sta nella presa di coscienza dei personaggi. In Yuko che si accorge di poter sopravvivere anche se i genitori possono avere problemi, che rinsalda il forte legame con la madre, che capisce le potenzialità del rapporto con Kyu, ma ne capisce tutti i possibili limiti, che verranno a breve, ma che saranno oggetto di secondi, terzi, altri amori. E Kyu cresce, con la forza di Yuko affronta i suoi lati oscuri, e finalmente e con soddisfazione si chiarisce con la madre. A volte mi aspettavo uno scatto. A volte un colore in più. Ma non sarebbe Banana se fosse così. Rimane una piacevole lettura, che forse sarebbe indicata a qualche giovane in crescita. E che mi fa ribadire un concetto che espressi alla lettura di un libro di Colette, ripetendo con lei, più che un primo amore, mi piacerebbe essere l’ultimo di qualcuno, per andare avanti da ora fino a …
“Non sapevo che quando ci si innamora di qualcuno si versano così tante lacrime, un po’ per la tristezza e un po’ per la felicità.” (25)
“Come tutti i maschi, una volta che bacio … finisco per pensare a cosa verrà dopo.” (36)
“In fondo credo che sia una mamma normale. Del tutto normale. Così tanto da sembrare speciale.” (37)
“Se questa è la vita, bisogna stare attenti a non sprecarne neanche un po’, in mezzo alla desolazione ed alla fretta.” (50)
“A questa distanza tu e la mamma mi sembrate ancora più belle che nella realtà.” (64)
“Quando si è direttamente coinvolti, è difficile accorgersi di qualcosa.” (70)
“Ho la sensazione che ci siano cose che a parlarne svaniscono, e altre che invece crescono. Quello che c’era tra noi apparteneva alla prima categoria.” (75)
“Il tempo passa… Lo si percepisce con estrema precisione quando si torna dopo tanto in un luogo rimasto uguale a com’era.” (87)
Banana Yoshimoto “Lucertola” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato a 5,52 euro)
[A: 08/10/2013– I: 29/10/2013 – T: 30/10/2013] - && e ½
[tit. or.: Tokage; ling. or.: giapponese; pagine: 117; anno 1993]
Avevo deciso che il mio primo viaggio giapponese (oltre le immancabili guide) avrebbe toccato un altro po’ di letteratura giapponese. Per questo (ma anche per non caricare troppo il bagaglio) ho optato di portarmi dietro due libretti di Banana Yoshimoto. In quanto la sua scrittura mi sa molto di Tōkyō (lo scrivo qui, per l’unica volta, come andrebbe scritto in traslitterazione, con le due vocali lunghe, e con le due sillabe distinte ed accentate; in fondo una settimana in Giappone sarà servita a qualcosa) ed i suoi romanzi e racconti sono brevi e poco ingombranti. Delle due letture, questa (affrontata per prima, all’arrivo) è quella che mi ha preso di meno. Soprattutto che si tratta di racconti (genere che come tutti sanno, io non sempre apprezzo). E quando Banana scrive racconti, il suo periodare etereo si fa ancora più rarefatto. Dove si arriva al romanzo, la scrittura a poco a poco, prende colore; qui si ferma un passo prima. Si dice qualcosa, si narra, ma tutto rimane lì, un po’ sospeso. Forse un po’ troppo sospeso per i miei gusti. D’altra parte, sono comunque racconti delle prime scritture di Banana, composti prima dei suoi 30 anni. Lei stessa confessa di trovarli in parte immaturi. Ma fatte salve queste critiche un po’ formali, seppur non compiuti, affrontano tutti una variazione sullo stesso tema: la formazione dell’io, la costruzione della propria personalità, il riconoscere del proprio agire inseriti nel mondo. I protagonisti di queste sei pennellate sono messi di fronte ad un problema, di fronte a qualcosa che li deve mettere in moto. E quando questo accade, c’è sempre e prima di tutto il disagio (di non saper fare, di essere inadeguati, di sbagliare) e poi il sollievo (di aver fatto, di aver affrontato, spesso non risolto, ma…). Banana ci fa capire che questo è uno dei modi in cui si costruisce la nostra personalità. Non il carattere (che ben sappiamo viene da lontano), ma il modo di usare il proprio carattere nella vita. È la paura del marito di Atsuko ad affrontare la quotidianità del matrimonio. È la storia di Lucertola (il miglior racconto) e del suo amore per il medico che la portano a rivivere (e superare) traumi adolescenziali (con quella bellissima immagine del mattino al tempio scintoista di Narita). È il rapporto tra i due innamorati, nell’attesa che lei affronti un percorso psicologico difficile (ma quant’è bella l’immagine che lui ci dà del suo amore, quando questo chiude gli occhi per trovare una parola che le sfugge). È la storia di una relazione extraconiugale che si trasforma poi in un matrimonio, e delle paure di lei di poter (dover?) rivivere momenti simili a quelli che lei ha fatto vivere alla prima moglie del marito. È la storia della ragazza i cui genitori decidono di aderire ad una setta New Age, e del suo difficile recupero di un rapporto con loro (difficile ma non impossibile). È la storia della escort che esce dal giro, che trova l’amore, e che riesce a ripercorrere tutta la propria infanzia guardando il fiume della sua giovinezza, ed affrontando sia gli ex-clienti che le vorrebbero male, sia lo strano rapporto che aveva con la madre nei suoi primi anni di vita (quando il padre si era allontanato con un'altra donna, anche se poi era tornato). Pur tuttavia, se le intenzioni della scrittrice sono intuizioni interessanti, la resa finale è un po’ sottotono. I racconti scorrono, infatti, come l’acqua di un ruscello in pianura. Non impetuosa, ma placida, avvolgente, spesso quasi ferma. E ciò nonostante, continuo a ritenere la lettura dei libri di Banana un buon viatico per comprendere il Giappone. Finisco con un pensiero “laterale”: ho da poco letto anche un racconto di De Silva (del 2013) dove compare un’immagine assolutamente omologa ad una di questo racconto di venti anni prima. La comprensione della fine di un amore collegata ad un preciso istante temporale: le dieci e un quarto. Potenza della narrativa.
Banana Yoshimoto “Sly” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato a 4,88 euro)
[A: 03/08/2013– I: 31/10/2013 – T: 04/11/2013] - &&&&
[tit. or.: Sly Sekai no tabi; ling. or.: giapponese; pagine: 129; anno 1996]
Come trasformare un bel reportage di viaggio in un buon libro, ecco l’impegno che si è assunta Banana con questo romanzo. E vi è riuscita. Intanto, il titolo giapponese (Sekai no tabi) vuol dire “In giro per il mondo”. Già questo mi piace di più che quello “Sly” (furbo? scaltro?) appiccicato lì. Poi, la scoperta che in giro significa Egitto, paese a me sempre e comunque caro, ha aumentato l’empatia verso questo testo veloce. Che in realtà, nasce proprio come reportage. Banana si reca in Egitto con degli amici, e vede e scopre cose di una travolgente bellezza. Le città (Il Cairo, Assuan, Luxor), le atmosfere (i mercati, Khan el-Khalili) e soprattutto i monumenti (le piramidi, la Valle dei Re, e tanti altri). Leggendo poi queste descrizioni, le sensazioni che prova, mi sono sentito proiettato immediatamente negli stessi luoghi, che tante volte ho visto e tante rivedrei. La bellezza della scoperta delle pitture murali nella Valle dei Re. L’incanto delle isolette sul Nilo. La maestosità della diga Nasser. La crociera sul Nilo, con i suoi tempi, il modo di contrattare dalla nave alla riva, il cibo, il karkadè. Le strade affollate di Muski. Le strette stradine del suq. Le piramidi di Giza, soprattutto da quella prospettiva unica e straniante che ho avuto dalla piscina dell’Hotel Oberoi. La discesa, faticosa, improba, dentro la piramide di Cheope. Il quartiere copto. Il Museo Egizio e la sua piazza. Il traffico della città. Il caffè con i giocatori di scacchi. La pizza egiziana. In definitiva, la somma di tutte quelle cose che fanno unico l’Egitto per ognuno in generale, e per me in particolare. Ma sto divagando. Perché Banana vede tutte queste cose, ma le restituisce in un quadro mutato, suo, diverso anch’esso da tutto il resto. Costruendovi intorno la storia di Kiyose e dei suoi due amici, Takashi e Hideo. Amici, compagni, amanti direbbe la Munro. Kiyose è stata la prima donna di Takashi, più omo che etero. E quando si lasceranno, Takashi si mette con Hideo, aiutandolo con la sua sensibilità a mettere in piedi uno studio. Per poi lasciarsi anche loro, con Hideo che diventa l’amico del cuore di Kiyose, e Takashi che si mette con Mimi. Anche Kiyose ha una sua strana sensibilità verso le cose, gli oggetti inanimati. Tanto che diventerà una disegnatrice di gioielli, utilizzando le pietre come veicolo di comunicazione. Ed avrà tanto di ritorno di sensazioni dalle pietre egiziane (ed anche dal deserto, che non ci si può dimenticare delle oasi sahariane). La storia ha il suo punto di svolta quando Takashi scopre di essere sieropositivo. Ecco che chiede agli amici di fare anche loro i test. Ecco che passiamo per tutti i loro stati d’animo, di attesa, di paura, di immaginazione. Ecco allora che partono per quella vacanza in Egitto di cui avevano sempre favoleggiato senza realizzarla. Così che la finzione si raccorda alla realtà, e Banana ce la racconta, con gli occhi, le sensazioni e le paure di Kiyose. Con gli incontri che i tre avranno nel paese arabo. Con l’altalenarsi delle condizioni di salute di Takashi, con il suo modo di pensare (non direi affrontare) la malattia. Ed i discorsi dei due omosessuali intorno agli amici che muoiono o sono morti. Una complessa attesa. Di quello che vedono. Di quello che succede ai loro corpi ed alle loro menti, inserite in una così estrema situazione. Non risolve nulla Banana, non serve. Non importa sapere se e quando Takashi muore, se Kiyose è positiva o meno. L’esperienza della malattia, e la condivisione del viaggio, portano ad accettare quello che viene, incasellandolo nei momenti di felicità che ognuno di noi prova, ha provato e proverà. Un ultimo tocco di lettura straniante: ho letto della partenza di Kiyose per l’Egitto dall’aeroporto di Narita, quando anch’io stavo a Narita, aspettando l’aereo per tornare in Italia. Ed è stato magico.
“Al mondo ci sono un’infinità di cose che si capiscono solo se si provano sulla propria pelle.” (46)
“In un modo o nell’altro, le cose che creiamo parlano di noi con più precisione di ogni altra.” (58)
“A volte penso a quanto era bello guardare il mercato mangiando pancake egiziano e bevendo il tè con dentro le foglie di menta fresca.” (126)
Banana Yoshimoto “Un viaggio chiamato vita” Feltrinelli euro 7
[A: 09/11/2013 – I: 26/12/2013 – T: 28/12/2013] - &&& e ½  
[tit. or.: Jinsei no tabi wo yuku; ling. or.: giapponese; pagine: 181; anno 2006]
Diciamo un saggio, piuttosto che un romanzo, o una raccolta di mini racconti. In realtà, prendendo spunto da viaggi (e da situazioni varie), Banana ci racconta un po’ di se stessa. Di quel viaggio intrapreso ormai son cinquanta anni, e che l’ha portata ad essere quello che è. Non un’autobiografia ma l’utilizzo di spunti personali, per dirci qualcosa. Per darci qualche sensazione, al solito con la leggerezza che contraddistingue l’autrice sia in quanto scrittrice sia in quanto giapponese. E molto, dell’essenza di questo lontano popolo traspare delle sue righe. Tanto che, al solito, piena di citazioni e rimandi è il fondo di questa trama. E prendo spunto proprio dall’ultimo, quel viaggio che ci accompagna ogni giorno, per seguire i viaggi, fisici e mentali di Banana. La prima parte ci porta con lei verso alcuni luoghi altri. Torniamo all’Egitto del libro precedentemente tramato. Ma ci spostiamo poi verso una fattoria a Brisbane, o in Argentina a bere mate. Fino ai frequenti e pieni di sensazioni viaggi in Italia. Con quel potente profumo di rosmarino che ci rimanda la Sicilia. E con tutte quelle micro-sensazioni che accompagnano Banana in vari luoghi italiani (la stessa Sicilia, le città, Saturnia e le sue terme). Chiosate con elementi di discussione da dove si potrebbe partire per un dibattito. A volte, le cose che colpiscono in positivo Banana sono proprio quelle che a me fanno della mia terra un luogo di dolente stare. E quando lei le contrappone al suo Giappone, trovando fascinoso l’arrangiarsi italico rispetto all’ordine di casa sua, a me viene di contrapporle il contrario. Come io trovi intrigante proprio quell’ordine che lei neglige. Ritengo non tanto che “l’erba del vicino è sempre più verde” (frase troppo banale), ma che la quotidianità del luogo in cui stiamo, a volte, ne esalta le qualità negative, per cui vediamo meglio e con piacere l’altrove. Dove però non staremo a lungo, tanto da vederne la decadenza. E dai “grandi” viaggi, Banana poi torna ai piccoli (si fa per dire), ma solo in senso di spostamento fisico. Che grande (e ben lo sappiamo) è il viaggio di avere e di crescere un figlio. Ma altrettanto grande è il rivedere i luoghi del sé passati gli anni. Quando lei faceva la cameriera, o altri mestieri, o girava con le amiche, o trovava fuori luogo i comodi sandali della sorella. Sensazioni che, facendone la tara, risento camminando e vivendo nei miei luoghi. Se ripasso per Piazza dei Sanniti, se passo vicino a via degli Anamari, quando mi affaccio al Bar Olivetti di via Salaria, fermandomi davanti all’ex-Teatro delle Arti, girando per luoghi ove un dì c’erano librerie (l’Asterisco di via Silla, tanto per dirne una), anche solo ricordando (ed è uno dei ricordi più recenti) le frappe di Frabotta. Ma qui non si parla di me, e si ritorna al libro. Anche alle parti dolenti dell’andare via. Sia solo come amici che si perdono di vista, ma sia, e con più forza, di chi ci lascia per sempre. Anche la morte del cane è di una delicatezza unica, riuscendo a trasmettere dalla pagina la sensazione di carezzarne il pelo. O la morte solitaria ma non triste dell’amico barista. Ma tutti questi viaggi, ci dice Banana, finiscono e ne rimane il ricordo. E tutti, rovesciandone la percorrenza visto che ho citato per prima l’ultima pagina, ritornano ad essere meravigliosi, come ci consiglia di pensare nella prima. Sono in perfetto accordo, come nel ricordo del terribile ritorno in treno da Parigi, senza soldi e senza dormire. Sono sicuro che allora ne soffrii in modo mirabile (oltre al fatto di aver lasciato un mio giovanile amore). Ed ora che ne ripenso e quando ne racconto, me ne rivengono solo le sensazioni positive. Come se il cervello facesse un’opera di filtro, per cui, seppur ricordiamo momenti brutti, le cose che ne vengono a galla, sono gli aspetti (piccoli, insignificanti, marginali) che ne permettono la fruizione anche ora. Altrimenti li avremmo sepolti sotto montagne di sassi e lì dimenticati. Grazie per questo nuovo viaggio Banana. Non sempre mi piace la tua scrittura, non sempre gradisco il tuo tocco troppo lieve (a volte servirebbe più grinta, penso). Ma sempre mi culla il pensiero di chi riesce a guardare intorno a se. E ad emozionarsi.
“Un viaggio, per quanto terribile possa essere, nel ricordo si trasforma in qualcosa di meraviglioso.” (9)
“Penso che siano molte le persone che, studiando all’estero, sono ingrassate senza più riuscire a tornare come prima.” (16)
“Le cose sono più buone quando si bevono nel luogo da cui provengono … però il fatto che i sapori restino legati al corpo come ricordi ha dell’incredibile.” (23)
“[L’Italia] è un paese in cui niente va come deve andare, e si deve spesso cedere a qualche compromesso, ma è proprio questo che mi piace.” (41)
“Però è difficile che, indolente come sono, riesca … a concentrarmi su qualcosa e portarla avanti.” (44)
“La tavola [del pranzo, con i cibi] è come una tela dipinta che ci insegna che ‘oggi’ è una volta sola.” (93)
“I libri non servono a niente se poi si manca di spirito di osservazione.” (102)
“Sono certa che tutti hanno qualcosa … per la quale le altre persone pensano ‘per fortuna che ci sei’.” (116)
“Grazie di cuore per essere stato sempre gentile con me.” (171)
“Ogni giorno è un viaggio.” (179)
Di altri viaggi non si vede una grande prospettiva, anche se, forse, qualcosa par si muova. E prima di attendere altre avventure, io penso ai viaggi in prima persona. Si sta procedendo a ritmo serrato allo studio della possibile Transiberiana. Ma anche ai miei voli agostani.

domenica 19 gennaio 2014

Gialli dopo Marrakech - 19 gennaio 2014

Nel senso di polizieschi che tramo dopo la bella settimana trascorsa in Marocco (con un mini-gruppo simpatico che saluto). Ed allora dopo l’Africa, torniamo in Italia con un ampio spettro di valori: dal poco avvincente giallo-storico di ambiente antica romana di Danila Comastri Montanari, pur con un altrove simpatico Publio Aurelio Stazio “detective”, salendo alla terza puntata del commissario Igor Attila di Paolo Foschi, fermandosi un attimo nella Liguria di Nadia Morbelli, e finendo con un libro bello e pieno di ritmo dell’ottimo Massimo Carlotto (aspettando sempre il ritorno dell’Alligatore…).
Paolo Foschi “Il killer delle maratone” E/O euro 15 (in realtà, scontato a 12 euro)
[A: 23/05/2013– I: 25/09/2013 – T: 27/09/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2013]
Terza prova di scrittura del buon Foschi, al solito gradevole, anche se un po’ altalenante. Diciamo che sulla struttura poliziesca si torna un po’ dietro, verso il primo libro, mentre il contesto rimane di un buon livello, forse anche migliore del secondo. Qui, infatti, il giallo è molto pretesto per parlare di altro, tanto che, se i poliziotti fossero meno “ottusi” potrebbero risolverlo ben presto. Non c’è gran che di misterioso in questo serial killer che uccide maratoneti quando passano vicino a significativi monumenti risorgimentali. Senza mettere in mezzo tutto quello sproloquio di ricerche, di psicologia, di balestre, di Afghanistan, di servizi segreti. E via talmente incasinando che quando tutto si risolve (come io avevo previsto già al secondo morto) ci si domanda: ma c’era bisogno di scrivere tanto per tutto ciò? Mentre le vicende umane e politiche sono più importanti e meglio tratteggiate e descritte. L’angoscia di Igor per il coma (forse irreversibile) di Titta, in attesa che il comitato etico dell’ospedale decida quali decisioni prendere, se staccare la spina – rischiando l’eutanasia – o continuare con le cure – rischiando l’accanimento terapeutico. Il rapporto tra il poliziotto Attila ed il potere costituito (tra questore e procuratore) dove appunto Igor ha tutte le ragioni, ma il potere riesce sempre a metterlo in un angolo, ed a premiare quelli che a lui sono asserviti. La domanda che ci pone Foschi con questa parte di racconto è quanto sia più forte l’amore della fedeltà. C’è, infatti, un triangolo di iniziative e schermaglie che coinvolge da un lato Igor ed il suo sottoposto Palmiro nella ricerca della verità, dall’altra Palmiro e Chiara, agenti fidanzati ma su due opposte sponde di potere. Igor Attila è senz’altro un personaggio scomodo, poco benvoluto dai suoi superiori, simpatico come un sassolino nella scarpa, tanto che gli vogliono togliere il caso, visto che brancola nel buio fra tanti indizi, tutti poco utili. Ma mentre lo vorrebbero relegare all’indagine sul furto di alcune magliette (che lui risolve con la mano sinistra), con la sua caparbietà e l’assenza di rispetto delle regole, riesce a condurre un’indagine parallela che lo porterà a scoprire la verità.  Abbiamo di nuovo in campo la strana squadra di Igor della Sezione Crimini Sportivi, con tutti quei pur simpatici poliziotti che hanno dirazzato dallo sport “per bene” e che ora cercano il riscatto se non nell’onestà, quanto meno nella giustizia (e non è un ossimoro). Poi c’è il cattivo camorrista che abbiamo conosciuto nel precedente romanzo e le sue vendette che qui proseguono e raggiungono un loro punto di non ritorno. Ci sono gli immigrati del furto di magliette, dove seguiamo la semplice e simpatica storia del giovane Boris. Ma sempre e soprattutto c’è Igor vs. il mondo: Titta, la tristezza, le chitarre, Capracotta, la moto. Ed una fine tanto aperta da essere chiusa. Questi finali sono ormai una cifra dello stile di Foschi, che sulla fine ci lascia con quella domanda: finisce qui o ci sono le premesse per una nuova avventura? Altri e più prolifici autori, ci facevano balenare le stesse domande ad ogni fine di capitolo (e non parlo di giganti alla Hugo o alla Dickens, ma anche di buoni carneadi alla Kathy Reichs). Vedremo cosa deciderà l’autore, se si è stancato delle sue storie oppure no. Intanto, pur rimanendo sotto tono per la parte poliziesca, qui Foschi ha messo il dito sulla piaga della Sanità italiana, dove regolamenti monchi ed una società di facciata retrograda e puritana, impediscono a chi è vicino ai malati di avere notizie, consentendo al fratello di Titta, con cui non aveva rapporti da oltre dieci anni, di assurgere a giudice della contesa. Quand’è che riusciremo a consentire di avere il giusto peso alle giuste persone? Dibattito aperto.
Danila Comastri Montanari “Tabula Rasa” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 15/07/2013– I: 03/10/2013 – T: 04/10/2013] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 322; anno 2011]
Mi ricordo che lessi tanti e tanti anni fa, uno dei primi libri di Danila, credo sia stato “Cui prodest?”, incuriosito dall’idea della trama e della sua collocazione. Un mistery storico, come si etichetterebbe ora questo tipo di scrittura. Cioè un giallo ambientato in altra epoca. E Danila ha inventato tutta una cosmogonia per la sua scrittura, collocando le vicende di cui narra nel I secolo d.c., durante il regno dell’imperatore Claudio. E ponendo al centro della sua scrittura l’eccentrico  senatore romano Publio Aurelio Stazio, amante delle belle donne e coinvolto (spesso suo malgrado, ma a volte no) in morti misteriose e ricerche altrettanto misteriose di soluzioni. Una scrittura con qualche interesse, ma non tale da convincermi poi a seguire le peripezie di Stazio durante gli anni (e credo siano usciti ormai 17 libri su di lui). Ora, l’esimia collana di Repubblica ne pubblica l’ultimo reperibile (anche in vista di nuove uscite) convincendomi a ritentare la lettura, soprattutto perché la collana si rifà a “Noir nella Storia”, vicende investigative sparse nel tempo passato. Devo dire però, che seppur la collana ha elementi di interesse, per la scrittura di Danila gli anni passano ma il giudizio resta immutato: leggibile, ma con scarso godimento. Questa volta, tra l’altro, dall’amata Roma (che ben si conosceva) Danila sposta l’azione nell’altrettanto amata Alessandria, che c’è da risolvere (per Claudio) il problema dei rapporti con i Parti. Quindi, cosa di meglio che inviare colà il nostro Stazio (e così magari ce lo togliamo di torno per un po’). E Stazio va ad Alessandria sotto copertura, come un nobile romano convertitosi al culto del dio Sobek, tanto da costruirsi una villa con tanto di coccodrillo. L’accompagnano la sua solita coorte (il furbo segretario Castore, che essendo di Alessandria, va alla ricerca delle sue radici, l’abile massaggiatrice Nefer), cui si aggiunge un nuovo segretario, l'ebreo Efraim Ben Baruk, che si rivelerà prezioso nel fornirgli puntuali informazioni (anche se pure lui farà una brutta fine). Ma Stazio non sa stare lontano dai misteri, e ben due cadaveri di donne vengono trovati nel giardino, entrambe devote alla dea Bast, la dea gatta (anche se dai libri della Peters, mi sembrava si chiamasse Bastet). Mentre indaga su queste morti, il nostro deve anche adempiere la sua missione, omaggiando il viceprefetto Caio Greganio Merenda, dove conosce la sua eccentrica moglie Candida. Devota alla dea gatta, con la quale Stazio incomincia una possibile relazione, presto troncata dalla morte della stessa Candida. Inoltre, durante le manovre militari per il funzionamento di una macchina da guerra progettata dal militare Nicomaco, questa rischia di fare una strage, se non fosse per l’intervento dello stesso Stazio. È ovvio che una spia si aggira in Alessandria, facendo aumentare l’entropia della trama. Arriva anche una delegazione dei Parti, ma non è con il codardo principe Orote che Stazio dovrà trattare, ma con la sua vecchia conoscenza Arsace. Alla fine, sarà con Arsace che Stazio stabilirà una tregua onorevole, tesa al risanamento delle relazioni commerciali nel Mediterraneo (obiettivo principe). Rimane il problema della spia, che continua ad uccidere, visto che muore anche Antef, uno schiavo di Greganio, e la bella etera Crisotemi rischia anch’essa una brutta fine. Chi sarà il cattivo? Il progettista Nicomaco? Il capo militare messo in secondo piano dagli avvenimenti? Lo stesso viceprefetto Greganio? In un finale convulso, Stazio, con l’aiuto di Crisotemi, attira il malvagio nella sua villa, dove questi muore divorato dal coccodrillo (giusta fine del cattivo, che si scopre essere l’autore di tutti i delitti). Unico slancio di intrattenimento, il sottile gioco con il termine del titolo. Il cattivo cerca di fare “tabula rasa” di chi potrebbe incriminarlo (nel senso moderno di uccidere tutti quelli che di lui sanno). Ma anche si gioca sul termine originario della locuzione, quelle tavolette di cera riusabili, dove si scrivono messaggi, e poi si cancellano, facendo appunto “tabula rasa”. E questo servirà a scoprire dei codici di comunicazione tra la spia ed i Parti. Ma è tutto molto ingarbugliato, con pochi slanci ironici. Di cui alcuni veramente stonati, come la frase sotto riportata, che Castore pronuncia nelle prime pagine, senza che l’autrice abbia tema di confrontarsi con il Totò di quasi duemila anni dopo. Insomma, un plot ben inserito nella storia, ma debole sia sull’intreccio che sul versante mistery. Meglio senz’altro sono le ricerche storiche e filosofiche del detective Aristotele della canadese Doody.
“La civiltà si respira nell’aria: greci si nasce e, modestamente, io vi nacqui!” [cioè citare Totò poco meno di duemila anni prima della sua nascita!!!] (13)
Massimo Carlotto “Respiro corto” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 15/07/2013– I: 12/10/2013 – T: 15/10/2013] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 201; anno 2012]
Ogni volta che riapro un libro di Massimo Carlotto mi aspetto che, prima o poi, sbuchi  l’Alligatore. E purtroppo non è così. Anche qui. Ma in compenso esce fuori un noir di buon ritmo, confermerei (come dice De Cataldo) quasi alla Tarantino (almeno in termini di morti e schizzi di sangue per quasi tutte le pagine). Ed invece decisamente “alla Carlotto” la mancanza di eroi positivi. Forse c’è qualcuno meno cattivo di altri, ma certo non c’è nessuno con cui identificarsi, per cui fare il tifo. La maestria dello scrittore si svolge per le duecento pagine, portandoci per mano da diversi angoli del mondo, fino ad una convergenza nel crocevia di Marsiglia,  città ormai eponimo di (quasi) tutte le male attività mondiali. Città dove arriva la droga dal Sud America o dal Nord Africa, dove si precipitano mafiosi italiani e russi, dove circolano prostitute provenienti da tutto il mondo e dove la polizia si divide anch’essa tra cattivi e cattivissimi. Carlotto fa precipitare in questo crogiolo le attività di quattro giovanotti (tre uomini e una donna) conosciutisi studenti in quel di Leeds, e decisi a sfruttare al meglio le loro doti criminali per … Questo è uno dei misteri che non ho decifrato. Fare soldi, ottenere potere per poi fare cosa? Rimanere nel crimine è una sfida dal respiro molto corto, uscirne te lo toglie del tutto. Intanto ci sono questi quattro: il russo, l’indiano, la svizzera e l’italiano. Zosim è affiliato ad una banda della mafia russa, ma si è anche venduto all’ex-KGB per ottenere una sua libertà d’azione. La banda russa viene distrutta e lui inviato a Marsiglia per una nuova operazione sotto copertura. Sunil gestisce per il padre lavori al nero di indiani e sub-asiatici vari, soprattutto nello smantellamento di navi depredate. Dove questi si ammalano, e con tutta la famiglia diventano (non-)volontari donatori di organi. Giuseppe si laurea in medicina e metterà a disposizione una clinica per le operazioni che arrivano dall’India. E la bella Inez sfrutta il suo genio finanziario per far girare i loro soldi, e creare quel deposito sicuro che permetterà loro… Su questa vicenda si innesta la perturbazione del colombiano Josè che dopo aver venduto il suo capo in patria, si trova abbandonato da amici e nemici, riesce a fuggire come corriere della droga verso Marsiglia. Dove però viene intercettato e costretto a collaborare dall’ispettrice Bourdet che gestisce il lato nero della polizia marsigliese. Quello che è in contatto con i corsi vecchio stampo che gestiscono la città da decine e decine di anni. Che non tollerano intrusioni. E che quindi preferiscono piccole collusioni con il potere per cercare di sopravvivere. Tutte queste vicende convergono su di un traffico di armi dal Marocco verso la Cecenia. Traffico gestito da una coppia della Transnistria (regione in lotta di indipendenza con tutti, russi, rumeni, moldavi) protetti dai corsi di cui sopra. Il KGB, che controlla Zosim, intercetta il traffico e trucida tutti. Bourdet, aiutato dai corsi, intercetta il comando del KGB trucidandolo a sua volta. Il gruppo di Zosim, che per affrancarsi dai russi, aveva cercato di colludere con dei potenti politici locali viene intercettato da Bourdet che da anni cerca di incastrarli. Ma il colombiano José che aveva fornito le indicazioni dei vari punti di smistamento, si allea con Zosim e quindi viene mollato da Bourdet e rispedito in patria dove verrà a sua volta trucidato. Tra un morto e l’altro, i nostri salvano la pelle, ma sono ormai fuori gioco dal grande giro che avevano messo in piedi. Ed anche l’amore tra Inez e Zosim arriva ad un punto di non ritorno: o si mettono insieme o si lasciano. Non dico la fine o le fini o i fini o … Ecco che rimetto i puntini, non perché manchino le parole ma perché qui, come sopra, vorrei lasciare delle zone d’ombra, che i lettori attenti degli scritti di Carlotto riempiranno con le loro considerazioni e deduzioni. Io termino qui la trama, dando appuntamento a Massimo ai prossimi romanzi. Per ora non leggerò (non sono convinto) la serie delle Vendicatrici che sta pubblicando con Videtta. Aspetterò sperando il passaggio di un nuovo alligatore…
Nadia Morbelli “Hanno ammazzato la Marinin” Giunti euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,87 euro)
[A: 01/07/2013– I: 18/10/2013 – T: 22/10/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 216; anno 2012]
Un giallo discretamente intelligente, scritto con cura, umoristicheggiante ma non troppo. Sicuramente, con una pittura intrigante di Genova e dell’entroterra liguro-piemontese. Certo, non parliamo né di capolavori, né di opera imperdibile. Parliamo di una degna lettura e di un’autrice che sembra promettere successivi godibili libri. Intanto, non ci stupiremo certo che la Morbelli sia una lettrice e, da buona paleografa, anche con capacità di razionalizzare le letture degli stilemi del giallo classico. Che qui, appunto, applica con diligenza la scrittura “alla Ellery Queen”, mettendo in campo in soggettiva il sé stesso narrante. Nadia che lavora in una casa editrice (idem), piccola e sempre sull’orlo di (idem), che ha una famiglia alle spalle di genitori pensionati e ritiratisi nelle campagne avite, che ha un’amica del cuore (Carla) con la quale passa la maggior parte del tempo libero, che ha una specie di fidanzato lontano che non compare in tutto il libro ma di cui sappiamo l’esistente incombenza. Su questo plot, si instaura la morte della madre di una coinquilina di Nadia, la Marinin appunto. Morte che sembra essere avvenuta a seguito di un tentativo di rapina, quando Nadia era sola nel palazzo (stiamo intorno a Pasqua). Ma parte anche tutto un susseguirsi di mini-racconti che allargano a poco a poco l’orizzonte dell’uccisione, coinvolgendo nella mente della nostra Nadia-Ellery persone e cose del “natio borgo selvaggio”. Dato che la famiglia della morta era per l’appunto degli stessi lidi natii. E ben conosciuta dalla madre, da Carla e da tutte le persone amiche e frequentate da Nadia. Così scopriamo che pochi mesi prima anche il marito della Marinin, lo Scianca era morto, dubbiosamente travolto dal suo trattore. Scianca che si era comperato la cascina campagnola con dei soldi probabilmente provenienti da un risarcimento avuto dall’avvocato Bruzzo al posto del quale si era fatto un po’ di carcere per un traffico d’armi. Un traffico d’armi che l’avvocato fascistone intratteneva con i croati di Tuzla. Croati che, discretamente ma con flusso costante, da un certo anno in poi (e sicuramente alla fine delle ostilità) cominciano a comparire nelle campagne dell’avvocato. Ma tutto sembrava essersi messo nei solchi della quasi normalità, se non che la morte del marito della Rosina e l’insopportabilità della Marinin, non avessero fatto presagire un ritorno nelle campagne della suddetta. Tutto questo, Nadia lo tira fuori tra discussioni, visite a casa, scatenamento della madre pettegola, cena con Carla e i suoi amici. Ed anche chiacchiere vivaci ed un po’ complici con il vice-questore Prini, “brutto”, secondo la stessa Nadia, ma anche affascinante di conversazioni su film e libri. Per vie traverse Prini e Nadia arrivano ad individuare il colpevole della morte, … (e mica ve lo posso dire chi è!!). Quello su cui divergono sono i modi e le motivazioni del reato. Noi ovviamente, siamo dalla parte di Nadia. Che però non le illustra al “celerino”, dopo che alcune sue avances erano state bloccate dal Prini stesso con motivazioni che fanno supporre la presenza di una più o meno fidanzata anche per lui (e qui scopriamo l’esistenza del lontano Valerio). Su questo impasse si blocca la vicenda quasi amorosa della storia. Lasciandoci il giallo, la sua risoluzione, nonché una serie di cene ed aperitivi in giro tra Genova e la campagna. Un mangiare da far venire acquolina in bocca, e voglia di esplorare ancora queste terre a me poco note. Magari mangiando un piatto di funghi crudi tagliati sottili conditi con scaglie di grana ed olio appena uscito dal frantoio. Il tutto bagnato da uno Sciacchetrà originale del contadino. Certo queste sono le parti migliori (secondo me), con anche tutto il contorno delle frequentazioni cittadine e campagnole di Nadia. La parte gialla rimane un po’ un pretesto, e, come detto, non tanto complicata da prenderci. Tuttavia la lettura è risultata piacevole e foriera di pensieri viaggianti.
“Quante volte nella vita va tutto a carte quarantotto esattamente quando ogni cosa sembra prendere la giusta piega e risolversi per il meglio.” (189)

Accenno brevemente per i nuovi ed i dimentichi che ogni libro riporta titolo, prezzo reale, prezzo pagato, data di acquisto (A), data di inizio (I) e fine (T) lettura, numeri di gradimento (tra 1 e 6), eventuale titolo originale, pagine e anno di scrittura. Per il resto, come detto, una bella settimana marocchina, rovinata solo da una mezza giornata di pioggia a Marrakech, una ricerca di nuovi viaggi, e di (speriamo finalmente) sistemazione definitiva della casa e delle sue carte.

domenica 5 gennaio 2014

Lugano e signore - 05 gennaio 2014

Eccoci allora alla prima trama piena del 2014, con quelle piccole novità che avevo accennato. La prima, e ben visibile, è la presenza di un simbolo & accanto al libro. È il mio personale grado di gradimento (da 1 a 6) del libro, così che potete subito collocarlo in un’ideale graduatoria di lettura. La seconda sta nel file allegato, che sarà presente (possibilmente) alla seconda trama del mese, e di cui spiegherò meglio in coda. Intanto dedichiamoci a belle signore e autori d’oltralpe. Da un lato, infatti, abbiamo la bella che viene dall’Argentina dove indaga il nostro amato Carvalho e dall’altra le belle signorine di Shangai, dove invece il protagonista è l’ispettore Chen. Da Lugano, invece, ecco due storie con al centro Elia Contini, non si sa se come detective o come persona interessata ai fatti. Comunque delle buone letture.
Manuel Vazquez Montalban “La bella di Buenos Aires” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 06/02/2013– I: 30/06/2013 – T: 02/07/2013] - &&& e ½
[tit. or.: La muchacha que pudo ser Emmanuelle; ling. or.: spagnolo; pagine: 156; anno 1997]
Sono passati dieci anni dalla morte di Vazquez Montalban. E sono dieci anni che non riesco a leggere nulla di lui. È stato uno di quei dolori strani, che ti lascia stordito, anche perché non mi aspettavo di averne così grande contraccolpo. Non è poi neanche una persona che ho frequentato, se non nelle letture appassionate di Pepe Carvalho, un detective che mi fece innamorare di un modo diverso di affrontare il poliziesco. E che non mi ha più abbandonato. Il fatto è che avevo incontrato lo scrittore, non molto tempo prima della sua morte, all’appena nato Festival delle Letterature alla Basilica di Massenzio (sarà stato il 2002 o il 2003). Si era in pochi allora. Ed alla fine della serata, io mi avvicinai con la copia originale (che conservo ancora) del primo libro di Pepe, quello strambo e sperimentale “Yo maté a Kennedy”. Mi fece un autografo, e parlai con lui, che si meravigliò che qualcuno conoscesse questo libro veramente inusuale, anche nella sua produzione. Certo, da lì nasce il Pepe che conosciamo. Ma è ancora in nuce. Scambiammo parole, piccole divagazioni. Ma lui parlava con tutti, con quel grande cuore che affronta tutte le cose, e che di lì a non molto, l’avrebbe tradito. Ora, passati anni e tanta acqua sotto i ponti della vita, escono in Italia alcune opere della serie, al tempo no tradotte. Mi sono fatto forse, glielo dovevo in fondo, che nelle trame non era mai entrato. Ed eccoci qui, quasi a sfogliare un diario di un amico che ci ha lasciato. E seppur nel breve romanzo ci sono tutti gli elementi tipici dello scrittore, la resa finale, saranno gli anni, sarà la voglia di aspettarsi di più, non è elevatissima. Un buon libro, con alcuni spunti, anche se la storia, anch’essa breve, tocca i classici dell’autore. C’è una bellissima ragazza argentina, che doveva girare la versione locale di Emmanuelle, che, probabilmente anche per cause politiche, fugge in Spagna, dove anni e anni dopo verrà trovata, morta in veste di barbona. La sua ricerca viene commissionata a Pepe ed al suo oramai socio Biscuter (a proposito, questo è il soprannome dell’aiutante – segretario – cuoco – tuttofare, che gli è rimasto da quando faceva il ladro di auto nella Barcellona degli anni Cinquanta, rubando appunto le utilitarie chiamate Biscuter) dall’anziana Dorotea. Veniamo così a sapere la storia della ragazza, gli intrecci con i militari, matrimoni, tradimenti. Pepe capisce abbastanza presto che è un crimine altro, che sono coinvolte strutture che qualcuno vuole rimangano nascoste. Sì, lo sapremo chi ha ucciso la bella di Buenos Aires, sia chi l’ha fatto materialmente, sia il vero colpevole che ha voluto che la sua morte chiudesse un capitolo della Storia. Compromessi, muti accordi, rassegnate scuse faranno sì che la giustizia non trovi né spazio né voce, il prefetto accetta, la polizia dispone, Carvalho osserva dolorosamente consapevole  e le ultime parole saranno concesse all’assassino, all’unico che avrà parole di tenerezza e di rispetto per la sfortunata Palita, vittima predestinata, innocente tra assassini. Come hanno osservato critici più sagaci di me, è una specie di prologo per il seguente “Quintetto di Buenos Aires”, anche se il titolo originale (ahi quanto più calzante; ma lasciamo stare le tiritere contro questo malcostume) era di altro tenore. Troviamo come detto il Pepe di sempre, quello che non si tira indietro davanti ad una cena, che sta a suo agio nel Barrio Chino, e che continua a bruciare libri. Ma troviamo anche il nostro Manolo, che riempie anche di altro le pagine, che cita scrittori e solo con sagacia se ne ritrovano le tracce. Come quando dice “il passato si aggiorna, invade il presente, il presente come inquisizione” (da Sciascia), o “apparteniamo al paese della nostra infanzia” (da Saint-Exupery), o una poesia di Wordsworth, o un tango dolente come lo sono i tanghi migliori. È stata una lettura della memoria, forse poco classificabile per questo. Un giorno tornerò su Pepe. Per finire, una menzione: sapete che Camilleri ha chiamato così il suo commissario proprio in onore dell’amico spagnolo?
"Chi è l'assassino? La Storia, la guerra sporca. Il passato. Il passato è il luogo dove si trovano le cause, vale a dire, i colpevoli. Per questo i colpevoli insistono tanto sull’inutilità del passato. Vogliono un mondo senza colpevoli ma quando questo diventa impossibile, quando il passato risuscita la colpa, i colpevoli uccidono di nuovo, ridiventano quello che erano sempre stati. Assassini". (150)
Andrea Fazioli “Come rapinare una banca svizzera” TEA euro 9
[A: 10/11/2012– I: 28/07/2013 – T: 29/07/2013] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 341; anno 2009]
Ecco un libro interessante, con alcune caratteristiche di gradimento, e qualche suggerimento di lettura. Intanto non è un libro italiano, anche se è in italiano. In effetti, l’autore è svizzero. Di lingua italiana, ma pur sempre svizzero. E per questo lo consiglierei ai miei amici italiani che lavorano di là dal confine. Vero Andrea e Alessia? Molta parte del gradimento viene, infatti, da quel narrare e descrivere Bellinzona ed altre zone e vallate (tipo Vignanello o la Val Bavona) che non conosco, ma che Fazioli rende discretamente. Secondo punto, discretamente favorevole, è il seguirsi dei personaggi. Che questa è una nuova puntata delle gesta dell’investigatore Elia Contini, che abbiamo imparato a conoscere nel precedente “L’uomo senza casa”. Elia, investigatore triste, che ama seguire le volpi nei boschi, che ha una fidanzata milanese, la bella Francesca. E come molti investigatori conosce personaggi di qua e di là della legge. Il titolo accattivante, poi, ci fa immediatamente entrare in un plot narrativo interessante. Che ben sappiamo la rigida sicurezza che gli svizzeri pongono al sistema bancario. Eppure bisognerà imbastire una rapina. E sarà proprio Contini, insieme ad altri, che darà mano all’impresa. Elia ne viene coinvolto da Jean Salviati, ladro ormai a riposo e riciclatosi come giardiniere in Provenza. Ma che deve riprendere i ferri del mestiere per salvare la figlia in pericolo. Inguaribile giocatrice d’azzardo, infatti, la figlia è scivolata nella rete di un losco avventuriero che ha messo gli occhi su una favolosa transazione di denaro, aiutato da un ex-bancario esperto d’informatica. Da qui si dipana tutta la prima, e forse un po’ lunga, parte del libro. La preparazione della rapina, che, vedendo coinvolti persone insospettabili (Elia, la fidanzata, due suoi amici borghesi un po’ annoiati, i coniugi Corti), richiede lunghi momenti di scrittura. Che non è facile, andare oltre la legge, anche se per salvare un amico. Salviati, tra l’altro, non ha mai fatto uso di armi, nelle rapine di gioventù. Ovviamente le cose sono complicate dalla polizia, che subodora qualcosa, dalla figlia di Salvati che (forse) è connivente con l’ex-bancario, dalle debolezze di Filippo ed Anna Corti, nonché (e non è poco) dalla dubbia provenienza dei soldi che devono essere trafugati. Poi il ritmo accelera, ed in poco meno di quaranta pagine, si svolge, con successo, la rapina. Per poi dedicarsi, nell’ultima parte del romanzo, ad escogitare una serie di sottofinali in cascata, come tutti i classici gialli che si rispettino. Qui, al fine, ci sono le migliori invenzioni narrative, che riscattano l’andamento a volte piatto del resto (o forse, più che piatto, scontato). Fazioli riesce a sorprenderci con qualche tradimento inaspettato, e con un triplo piano di salvataggio, escogitato da Contini per permettere ai buoni che hanno varcato il confine della legge di tornarne al di qua senza pagarne conseguenze. Almeno giudiziarie, che le conseguenze morali infergono ferite che sono più difficili da rimarginare. E, sebbene un po’ arzigogolate, queste soluzioni intrecciate permettono a quasi tutti di uscirne. Anche ai loschi figuri ed ai trafficanti. La debolezza sta a volte nel dilungarsi troppo su alcuni aspetti, nel tirar tardi guardando volpi o parlando a gatti. Ma Elia, nonostante tutto, mi sta simpatico. Così come la bella Francesca (e speriamo che i due riescano ad avvicinarsi sempre più). Magistrale il personaggio di Salviati, il ladro gentiluomo uscito dal giro (un po’ Cary Grant, no?). Meno la figlia, che un po’ antipatichella mi sta. Il puzzle riesce bene, e forse sarà per la scarsa circolazione fuori dai monti ticinesi, la provenienza svizzera mi stuzzica (e se ne prenderanno altri di Fazioli).
“Pur essendo un tecnico informatico … si considerava soprattutto un creativo. Un poeta, quasi. Quasi, perché i poeti, come i matematici, amano le cose inutili.” (99)
Qiu Xiaolong “Di seta e di sangue” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 16/07/2012– I: 09/10/2013 – T: 11/10/2013] - &&&
[tit. or.: Red Mandarin Dress; ling. or.: inglese; pagine: 349; anno 2007]
Ed eccoci ad un altro capitolo della storia cinese rivista con uso di giallo da Qiu Xiaolong. È ormai il quinto caso dell’ispettore Chen Cao che seguiamo, e siamo già ben abituati alle sue storie di andamento parallelo. C’è la parte da “procedural thriller” americano, dove seguiamo le indagini su qualche morte misteriosa al seguito della polizia di Shangai. C’è la figura dell’ispettore poeta, che sappiamo Chen (come l’autore) studioso di inglese, che finisce a fare il poliziotto in quanto all’epoca la professione veniva imposta e non scelta (come non era possibile avere relazioni amorose, e neppure innamorarsi o parlare di matrimonio d’amore – e questo lo impariamo in corso di lettura). Al solito, come già ho rilevato, ci sono un po’ troppe citazioni poetiche per noi misteriose (viste che sono anche poco spiegate). Intanto mentre indaga, finisce anche una tesi sulla figura femminile in letteratura, che gli serve anche per risolvere il caso. Ma soprattutto, dentro ed intorno c’è la Cina di oggi, come ben introdotta nella prima parte, prima che si arrivi alla scoperta della prima donna uccisa. E c’è stata la Rivoluzione Culturale (errore in buona fede, come disse Deng Xiaoping), che permea di sé tutto il romanzo, anche se in Cina rimane un argomento tabù. Qiu ne scrive, perché ormai vive in America (e questo, l’ho già detto, un po’ si sente), anche se riesce a darci sensazioni di Cina senza troppi filtri di occhiali occidentali. Infatti, e scusate se mi dilungo, ma è forse uno dei momenti migliori del romanzo, la scrittura inizia mentre seguiamo il Maestro Operaio Huang che fa jogging in un’invernale alba di Shanghai. Tutto cambia, sparite le biciclette simbolo dell’uguaglianza, si alzano alte nel cielo le gru che costruiscono gli ennesimi complessi residenziali. Huang ha appena lasciato la sua vecchia casa in stile shikumen, ora da radere al suolo per far posto a grattacieli. Sono gli anni Novanta, tempi trasformazione, nei chioschi si vendono bibite dai nomi stranieri Coca cola, Pepsi cola, Sprite. C’è forse bisogno di sottolineare la crescita capitalistica in Cina? E Huang ormai settantenne anche se ancora in buona salute è un rudere, un sopravvissuto. Non è più, non si può più vantare di essere un Lavoratore Modello, o un membro autorevole di una Squadra di Propaganda del Pensiero di Mao Zedong durante la Rivoluzione Culturale. Ora è soltanto un pensionato di un’acciaieria statale in rovina. Mentre assistiamo alla corsa di Huang (e giriamo intorno ai suoi e ai nostri pensieri), scopriamo insieme il cadavere abbandonato di una ragazza che indossa un abito in stile mandarino: un qipao rosso simbolo un tempo di borghese decadenza e ora di gran moda tra i ricchi della città (come sottolinea argutamente anche il titolo originale). Huang non ha dubbi non può che essere l’opera di un maniaco sessuale. Il primo indizio sarà proprio nella stranezza del tessuto di seta rossa del qipao indossato dalle donne assassinate e ritrovate, una dopo l’altra, puntualmente, una settimana dopo l’altra, abbandonate in strada. Così come del fatto che le spaccature laterali del vestito siano stracciate, i bottoncini slacciati, che le donne non indossino biancheria intima e abbiano i piedi nudi. E tuttavia non hanno subito violenza. Il caso sarà affidato, anche se contro voglia, al nostro ispettore, l’unico in grado di ricostruire la psicologia di un serial killer. Ed indagando in un crimine che ha le sue radici proprio nella Rivoluzione Culturale, l’autore ha modo di affrontare alcuni nodi irrisolti di quel periodo, e di dimostrare come la Cina stessa si avvii a grandi passi anzi sia già dentro il mondo occidentalizzato (e corrotto). Ne è la prova il processo in corso contro il Riccone Numero Uno di Shanghai, un ex venditore ambulante che si è arricchito con le speculazioni immobiliari. Aveva appoggi al governo, naturalmente - il caso scotta, anche i servizi segreti sono all’opera. Nel tumultuoso finale, Chen mette in fila tutte le possibilità e trova il colpevole, collegando anche fatti in apparenza distanti. Ma, come al solito, non è questo quello che maggiormente interessa Qiu. La suspense non è di sua pertinenza. Ed il caso, dal punto di vista giallo, è, come detto, labile. Meglio le immagini della Cina, anche con tutti i distinguo già detti. Ed ancor meglio era il libro precedente che parlava molto anche di emigrazione, argomento caldo da noi in salsa pratese, ma forse meno 6 anni fa. Meno poesie e più ritmo farebbero uscire un prodotto migliore.
Andrea Fazioli “La sparizione” TEA euro 9
[A: 10/11/2012– I: 29/12/2013 – T: 02/01/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 347; anno 2010]
Se non fosse per un finale un po’ monco, stava volando verso stelle interessanti. Alla fine rimane un libro medio, anche se con tendenze verso l’alto. Nuova prova del nostro amico narratore svizzero (per questo lo metto tra gli autori stranieri, anche se è Ticinese), e nuovo (forse ultimo) capitolo della vita e delle opere di Elia Contini. Perché Elia, dopo varie e deludenti prove personali, ha abbandonato (ufficialmente) la professione di investigatore. Si ricicla tipografo, ma si troverà alla fine anche senza lavoro. E con un sempre più tormentato rapporto con Francesca. Lei vuole di più dal rapporto, lui è sempre indolente, si trascina a parlare con i gatti, a scrivere lettere che non si sa a che spedisce, a fotografare volpi nella notte. Solitario e solipsista, lo troveremo alla fine davanti alla porta di Francesca, ma non sapremo (almeno non sapremo qui) come andrà a finire. Peccato. Ma sappiamo come è progredita e come finirà la storia principale, quella che vede al centro la giovane Natalia Rocchi. Il padre medico muore d’infarto. La madre riprende le ricerche che il marito stava facendo negli ambienti della prostituzione e dei maltrattamenti sulle donne. E filo dopo filo, risale all’origine dei pensieri del marito. Che gravitano intorno al night-club Tucano, dove c’è un bel giro di donnine allegre (tra l’altro legale in Svizzera). Ed intorno al suo proprietario Luciano, figura un po’ losca “sul limitar della malavita”. Dopo una colluttazione con Luciano, la madre muore. Natalia assiste alla scena, e fugge nei boschi. Dove vaga per giorni, ed una volta trovata, dal giovane Giovanni, suo coetaneo, si trova completamente afasica. Shock post-traumatico, decretano i medici. Contini abita lì vicino, e viene coinvolto quasi involontariamente nella trama. Perché è un buono, e i buoni si sentono tra loro. Natalia riesce a comunicare (forse) solo con lui. Non certo con la polizia, che non sa che pesci pigliare. Contini, nolente, si trova a portare avanti indagini, che ben presto lo riportano al Tucano, ed allo studio medico che certifica la salute delle donnine. Che guarda caso è quello di Rocchi. Noi onniscienti lettori, sappiamo molto della trama ormai. Vediamo il Savi complottare con il Muller (il socio di Rocchi). E vediamo Natalia riprendere le parole ad una ad una (alcune delle pagine migliori sono proprio quelle in cui la giovane riporta a galla parole e sensazioni perdute). Ma mentre Muller è da Natalia, la quale sta parlando con Contini aspettando tutti il Bonetti, il giudice della tutela minorile, Muller, dicevo, viene ucciso con un colpo di pistola. E benché siano tutti lì, dell’assassino non c’è traccia. Foglietti ed ammissioni stringono il cerchio intorno a Savi, che tutti (e noi con loro) vediamo al centro di ogni morte. Contini, nonostante il parere contrario della polizia, vuole un confronto con lui. Ma prima di trovarlo, muore anche Savi. Suicidio? Sembra, ma né Contini né l’ispettore sono convinti. Il nostro Elia allora si ritira in buon ordine a pensare, a parlare con il suo amico montanaro, a guardare le volpi. Una catena di intuizioni che lo porta a vedere chiaro il quadro. C’è sempre qualcun altro, un passo prima o un passo dopo, che organizza le morti, che sfrutta abilmente le situazioni. Non è facile trovare le prove, ma inconsapevolmente Contini spinge Natalia e Giovanni a fare da cavie. In una scena che è tra le meno riuscite del libro quindi, l’assassino viene allo scoperto, ed un po’ ne siamo meravigliati anche noi. Ma il contro-schock riporta le parole alla giovane. Certo come detto questo finale è un po’ in sospensione. Speriamo che Natalia e Giovanni si riavvicinino (e questo è probabile). Sappiamo che il cattivo pagherà le colpe. Cerchiamo di immaginare come andrà a finire tra Elia e Francesca. Fazioli costruisce una bella trama per il 75% del libro, mostrando di aver appreso bene e di saper usare “i ferri del mestiere”. Con uno sguardo, e forse più di uno, al maestro svizzero dell’altra valle. C’è molto, infatti, delle atmosfere e delle maestrie di Dürrenmatt in queste pagine, anche se (ed è ovvio) “La promessa” si colloca su versanti inarrivabili. Ma ripeto è sempre piacevole leggere di Fazioli (e ripensare ai miei amici luganesi).
“Ho lasciato che … se ne andasse, ho rifiutato la pace che avevo costruito … forse una vita senza drammi è già un dramma.” (270)
Si diceva dell’allegato. Quest’anno, tra i doni natalizi, è comparso (per opera di Otto ed Alessandra) un libro dal titolo accattivante “Come curarsi con i libri”. Non ne farò la trama (è forse più un libro da consultazione che da lettura), ma è pieno di piccoli capitoli ove, a fronte di malattie fisiche o morali o stati d’animo vari, vengono proposti libri da leggere per curarsi o alleviare i “dolori”. Sono citati circa 800 libri, di cui un quarto (più o meno) è transitato nella mia biblioteca. Allora, cercherò, rovistando con pazienza certosina, di fare un collegamento tra quanto viene detto, e quanto e come ne parlai io (o quanto ne pensai, visto che molti son libri letti prima delle trame). Insomma, una nuova sfida. Ovviamente cerchiamo poi insieme di aggiustarne il tiro, sperando di avere un vostro ritorno sul suo gradimento. Intanto si avvicina la possibile partenza marocchina. Vedremo anche questa nuova avventura come si svolgerà. Intanto Buona Epifania a tutti .
ALLEGATO
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GENNAIO 2014
Affrontiamo queste cure, così come ci vengono proposte, in ordine alfabetico. Mettendo le cure “ufficiali” derivanti dal libro in evidenza, e ponendo in coda le mie personale considerazioni sui libri che ho letto e tramato.

ADOLESCENTI, ESSERE

Gli ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio …
Ecco allora una cura omeopatica
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER ADOLESCENTI
Italo Calvino                   Il sentiero dei nidi di ragno
Paolo Giordano              La solitudine dei numeri primi
Elsa Morante                  L'isola di Arturo
Robert Musil                  I turbamenti del giovane Törless
Raymond Queneau         Il diario intimo di Sally Mara
Joào Guimaraes Rosa     Miguilim
J. D. Salinger                  Il giovane Holden
Robert Louis Stevenson  L'isola del tesoro
Boris Vian                      La schiuma dei giorni
Alice Walker                  Il colore viola

Bugiardino

Sull’essere adolescente, ovvio, c’è poca “cura”, ma solo qualche aiuto. È un argomento grande, tanto che ci si tornerà su anche il prossimo mese.
Intanto, di questi dieci libri, ne ho letti 6 (una buona media, direi).
Il più antico è ovviamente “Il giovane Holden”, letto più volte tra gli anni Settanta ed Ottanta, che è talmente connesso con la problematica, che ne riparleremo più ampiamente la prossima volta. Sparsi invece tra i primi anni Novanta ed i primi anni di questo secolo vengono i seguenti. Calvino, prima di tutti, di cui ricordo il sentimento di comunità che mi faceva riavvicinare alle vicende della guerra nella narrazione di mio padre. Analogamente Stevenson, sulla cui Isola del tesoro, e sulle vicende dei pirati, cercai sfogo nelle mie ore liceali, ma che poi ho riletto (e con altrettanto piacere) una decina di anni fa. Tanto che ancora sento con un misto di piacere e di paura, il ticchettio della gamba di legno sul ponte della nave.
Musil è sempre stato ostico, ma anche qui, cercando in rete notizie varie sull’uomo senza qualità, mi sono imbattuto sul giovane Törless. Incuriosito dallo strano rapporto tra lo scrittore e la matematica (esplicito nel grande romanzo, e qui reso dal rapporto tra Törless, il Principe H ed i numeri immaginari), ne ho letto. Ma non mi ha preso, rimanendo distante dalle pulsioni omosessuali, e restandomi solo quel rapporto intellettuale sul discernimento tra il bene ed il male, che forse solo in tarda età si riesce ad approfondire.
Ma veniamo invece, e con più profusione, ai due libri presenti nelle mie trame. Scoprite così come funziona la parte diagnostica del bugiardino. Laddove presente, riporto la mia trama. Così potrete giudicare se, anche nelle mie parole, la cura è adatta. Oppure trovarne le contro-indicazioni.
Boris Vian “La schiuma dei giorni” Marcos Y Marcos
[trama pubblicata il 18 aprile 2010]
Troppo di testa. Non ha la serietà del Disertore o la spensieratezza di Fammi Male Johnny. Pieno di invenzioni, giochi di parole (tradotti benissimo ma a volte intraducibili). E come tutte le cose di testa, a volte rischia di stancare. Ci si può stancare anche di un idolo come Vian, benché prefato da Fossati e postfato da Pennac. Il libro è un fuoco di fila di invenzioni, sulla scia un po’ dei dadaisti degli anni Venti, cercando da un lato di tirar fuori il paradosso della vita, dall’altro (cadendo in pieno nel tormento esistenzialista) sostenendo a spada tratta la bruttezza ed inutilità del vivere odierno. La prima parte poi è quanto mai solare, c’è un cuoco che inventa e reinventa piatti favolosi sulla scia di ricettari ottocenteschi. E c’è il protagonista che si circonda di invenzioni favolose, come quella di un piano che suonando mescola gli ingredienti alcolici e produce alla fine del pezzo una bevanda non solo favolosa ma adatta allo spirito della sonata (e qui non mancano i rilanci all’esperienza jazz di Vian). E come detto giuochi di parole, come quella sul protagonista Colin che mangia merluzzo (per i meno adusi, Colin, oltre al essere diminutivo di Nicole, significa nasello). Come se si traslasse dalle nostre parti con quel diminutivo paesano di Cola e dei suoi collegamenti pescatori, di cui mi insegnava la mia amica Rosa. Fino all’apice dei grandi innamoramenti: Colin e Chloé, Chick e Alise, Nicolas e Isis. Poi si va giù per la china dell’imbarbarimento. Chloé si ammala e nessuno riesce a trovare soluzioni al suo male. Chick diventa sempre più maniaco del suo idolo (Jean-Sol Partre, vi dice qualcosa?) fino a cercare i suoi vestiti smessi dai più improbabili antiquari. Solo Nicolas sembra “salvarsi” dalla barbarie, ma solo perché si tira fuori dalla mischia e se ne va altrove. Dove non sarà felice come prima ma forse sarà. E via distruggendo, pezzo dopo pezzo, il bel castello della nostra vita, con tocchi di una cattiveria bellissima, come il suicidio del topo che chiede al gatto di tagliarli la testa! Ma sì, certo, grande opera, forse capolavoro nel suo genere. Ma anche no, perché Vian sarebbe il primo a rivoltarsi di questo incensamento. Lui appunto che era l’epigono e l’esaltatore dell’effimero e del momento, ma con la sagacia che ogni momento, se ben vissuto, porta sapienza e quindi, alla fine gioia. Come con gli altri suoi libri, a volte di una brutalità sessuale ma che servivano a far saltare in aria sepolcri imbiancati. Come il suo disertore che rifiuta di andare alla guerra. Come la ragazza che cerca l’amore forte, ma quando lo trova si spaventa. Come le sue serate pazze, nelle cantine parigine dando fiato alla tromba (fisicamente) e sfiancandosi di alcool e sigarette. Fino all’infarto che lo prende a soli 39 anni, durante la prima del film tratto dal suo “Sputerò sulle vostre tombe”. Infarto che gli prese appunto vedendo il film fatto dagli americani e sussultando dalla prima all’’ultima battuta. “Non avete capito niente” e se ne andò, dal cinema e dalla vita. Amo e amerò sempre Vian, anche dopo questo libro. Ma non per questo libro.
Paolo Giordano “La solitudine dei numeri primi” Mondadori
[trama pubblicata il 25 dicembre 2011]
Ecco un altro premiato dove lo Strega lo vince il 26enne Giordano con questo libro d’esordio, che solo ora, lasciatolo decantare come un bel vino di corpo, ho letto e, devo dire, discretamente gustato. Ci sono degli spunti interessanti. C’è una scrittura sapiente ed accattivante. C‘è tanta tristezza (leggendolo mi veniva in mente il titolo di uno dei libri di Peter Handke “Infelicità senza desideri”). Ci sono anche situazioni irrisolte ed una visione globalmente funerea della vita adulta che un po’ mo lascia perplesso. Lo spunto interessante è quello che fa da filo conduttore e materia prima della nascita del libro. Giordano è un fisico, e quindi sa maneggiare anche i numeri (non come un matematico, certo) e ci presenta le storie dei due protagonisti come fossero numeri primi gemelli. Ora, penso (spero) che tutti sappiano cosa siano i numeri primi. Quelli gemelli sono i numeri primi separati solo da un numero (tipo 5 e 7, 11 e 13 o che so 1997 e 1999). Numeri primi già di per sé singolari, perché isolati, come Mattia e Alice. I gemelli poi sono vicini, ma non si toccano mai. E Mattia ed Alice sono singolari. Lei, vittima di un incidente di sci a 7 anni, rimane un po’ claudicante, e quel suo passo mancante la fa rimanere sempre un po’ in ritardo. Con le compagne di scuola sicure di sé e ben tronfie. Con le decisioni della vita, il lavoro, lo studio, l’amore. Sarà sempre in cerca di non pesare mai sulla terra, tanto da viverla anoressicamente (e non solo in senso metaforico). Lui che vede scomparire la sorella gemella nel nulla. Morta? Rapita? Chissà? Ma il suo interno senso di colpa di averla lasciata sola non lo abbandonerà. E dovrà rivolgersi alle cose materiali, ferme, della vita stessa, per continuare a vivere. Per questo studia (i libri non tradiscono, dice). Per questo si dedica ai numeri, e farà il matematico in un’Università del Nord Europa. Giordano segue le loro vite parallele dai sette ai trentadue anni. Che si incrociano, si mescolano, forse trovano dei sensi. Ma sono loro stessi gemelli e non usciranno mai dalle loro singolarità in questo scarsamente aiutati dagli adulti. In primo luogo, dai genitori che non li capiscono, che non li aiutano, che rimangono figure sterili come a dire che si possono avere sprazzi di lucidità e di gioia da adolescenti, ma arrivati all’età adulta non si può far altro che mettersi in un angolo, magari leggere il giornale e guardare la tv. Ecco, questa visione della vita è quella che meno mi convince, che meno mi prende. Possibile che non ci sia nessuno che si rimbocchi le maniche e si sporchi le mani in questa storia che sta sempre lì lì per diventare altro, per svoltare verso altipiani sereni. E non lo fa mai. Anche quando sembra che Alice ritrovi la Michela scomparsa. Sarà vero? Non lo sapremo mai, che Alice stessa si tira indietro. E Mattia non trova la forza di uscire dal suo bozzolo per fare una domanda cruciale. La domanda che ci aspettiamo dalle prime pagine. E quindi tutto scorre, con una dolenza di fondo che lascia molti amari in bocca. Ma la scrittura è buona, coinvolgente, tanto che dopo le prime cinquanta pagine un po’ direi normali, mi ha preso nella morsa di seguire le loro vicende. E sono andato avanti tutta la notte, senza riuscire a staccarmi. Ecco, questo è senz’altro un merito dell’autore. E chiuso il libro, mi frullano ancora nella testa loro due, e quello che faranno poi. Anche questo, un merito dei buoni libri. Non so, vedremo poi, se Giordano riuscirà a produrre nuove cose, o rimarrà chiuso nel limbo degli autori “primi” e premiati, come Piperno per capirci. Aspettiamo fiduciosi.

Conclusioni

Non sono convinto che tutti suggerimenti siano “coerenti” non tanto con la malattia (che essere adolescenti, fortunatamente, non lo è) ma anche con lo stato d’animo. Musil è troppo orientato a problemi omosessuali, e Vian è troppo onirico. Ed anche Stevenson forse, è per persone leggermente pre-adolescenziali. Mi manca, per dare un impulso verso l’accettazione del passaggio esistenziale, qualcosa di più vicino ad una pulsione sentimentale, ad un’educazione sentimentale. Forse avrei visto anche qualcosa in più sul rapporto genitori – figli, del tipo del primo libro di Di Paolo. Usciamo certo dall’adolescenza (tutti lo abbiamo fatto, arrivando alla mia età), ma non proprio ancora in forma. 

mercoledì 1 gennaio 2014

Buon 2014 - 01 gennaio 2014

Come sta diventando tradizione per la prima scrittura dell’anno, oltre l’augurio a tutti di un anno buono e pieno di ogni cosa che ognuno vuole (per sé e per gli altri, con un po’ di sano senso etico che forse è spesso venuto meno), faccio un po’ le somme dell’anno di letture passato.
Intanto, dopo un 2012 lavorativo, per me è stato un 2013 viaggiante. Si è ripreso a grande andatura l’andamento viaggiatore con Avventure, e non sono mancate incursioni di viaggi personali, in luoghi noti ed in luoghi da scoprire (com’è stato, e mi ripeto, il fascino giapponese).
Questo ha portato di conseguenza un calo, anche se non enorme, al tasso di letture.
Veniamo allora a questi numeri: nel 2013 ho letto 173 libri per un totale (contato dai blog letterari) di 52028 pagine. Con dei rapidi calcoli, quindi, sono stati letti circa 14,5 libri al mese. Ogni libri è stato di circa 300 pagine, ed ogni giorno ho letto, mediamente, 143 pagine. Il mese con più libri letti è stato dicembre (20 libri). Il mese con più pagine lette è stato maggio (6163 pagine).
Tra l’altro, come sapete, non sono numeri “stratosferici” (seppur grandi), dato che ho quattro tornate di letture giornaliere (i tre pasti e la sera), nonché (quest’anno) i lunghi voli aerei.
Visto che non è una trama di trame, sunteggio che storicamente, dall’inizio delle scritture, ho recensito 1296 libri, facendo salire a 120 il numero di editori coinvolti. Quest’anno ho recensito 24 libri avuti in regalo, facendo salire a 114 i libri “senza prezzo di copertina”. Gli altri sono saliti un po’ di prezzo (l’inflazione…) passando da 8 a 8,20 euro. Mentre costante è l’incidenza degli sconti (intorno al 15%). Il 52% dei libri è stato letto in lingua originale (di cui 570 scritti in origine in italiano). Il 75% sono romanzi ed il 40% sono “gialli, thriller e polizieschi vari”.
Veniamo all’immancabile “TOP OF THE YEAR 2013”, cioè i miei 30 migliori libri. Ricordo che lo “smile” è un mio voto che va dal 5 (imperdibile) all’1 (si può evitare di leggerlo). Quest’anno il gradimento è stato un po’ al ribasso, ed abbiamo un solo libro che si eleva sopra tutti gli altri.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Julian Barnes
Il senso di una fine
Einaudi
10
5
In ordine sparso, i 24 libri di “alto gradimento”:
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Lawrence Osborne
Shangri-La
Adelphi
5,50
4
2
Emanuele Trevi
 Musica distante
Ponte alle Grazie
s.p.
4
3
Giovanni Ricciardi
Le indagini del commissario Ponzetti
Fazi
14,90
4
4
Sergio Atzeni
Passavamo sulla terra leggeri
Ilisso
7
4
5
Savyon Liebrecht
Prove d’amore
E/O
7,75
4
6
Enrico Pandiani
Les Italiens
Instar
9
4
7
Paolo Di Paolo
Dove eravate tutti
Feltrinelli
8
4
8
Cicerone
La vecchiaia
Feltrinelli
s.p.
4
9
Chiara Gamberale
Le luci nelle case degli altri
Mondadori
13
4
10
Penelope Lively
Un posto perfetto
TEA
9
4
11
Jo Nesbø
La stella del diavolo
Piemme
s.p.
4
12
Michel Onfray
Filosofia del viaggio
Ponte alle Grazie
12,50
4
13
Auður Ava Ólafsdóttir
Rosa candida
Einaudi
11,50
4
14
Andrea Fazioli
Come rapinare una banca svizzera
TEA
9
4
15
Ian Rankin
Indagini incrociate
TEA
10
4
16
Francesco Forlani
Parigi, senza passare dal via
Laterza
12
4
17
Milena Agus
Mentre dorme il pescecane
Nottetempo
s.p.
4
18
Enrique Vila-Matas
Bartleby e compagnia
Feltrinelli
8
4
19
Massimo Carlotto
Respiro corto
Einaudi
13
4
20
Diego De Silva
Mancarsi
Einaudi
10
4
21
Banana Yoshimoto
Sly
Feltrinelli
6,50
4
22
Michael Connelly
Avvocato di difesa
Piemme
11,50
4
23
Antonio Tabucchi
Viaggi e altri viaggi
Feltrinelli
s.p.
4
24
Stefan Zweig
Viaggio nel passato
Ibis
8
4
Ed infine 5 libri che, seppur con un gradimento “medio” meritano comunque una citazione.
#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Fernando Savater
La vita eterna
Laterza
6,90
3
2
Simonetta Agnello Hornby
Un filo d’olio
Sellerio
14
3
3
Enzo Bianchi
Fede e fiducia
Einaudi
s.p.
3
4
Haruki Murakami
Kafka on the shore
Vintage Books
9
3
5
Michele Serra
Gli sdraiati
Feltrinelli
12
3

Inoltre, essendo oltre che inizio anno, anche inizio mese, ecco le 14 letture del mese di ottobre. Anch’esso di medio gradimento, con i libri di Vila-Matas per i romanzi-saggi, quello di Carlotto per i gialli e l’ultimo di De Silva per i romanzi che si staccano un po’ dalla massa.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Danila Comastri Montanari
Tabula Rasa
Repubblica – Noir
7,90
2
2
John Burdett
Bangkok Tattoo
Corgi Books
10
2
3
Qiu Xiaolong
Di seta e di sangue
Repubblica – Noir
7,90
3
4
Enrique Vila-Matas
Bartleby e compagnia
Feltrinelli
8
4
5
Massimo Carlotto
Respiro corto
Einaudi
13
4
6
Clive Cussler & Paul Kemprecos
Medusa
TEA
8,90
2
7
Jean-Claude Lalumière
Le front russe
Livre de poche
6,47
3
8
Liza Marklund
Finché morte non ci separi
Marsilio
12,50
3
9
Clive Cussler
Il cacciatore
TEA
9
3
10
Nadia Morbelli
Hanno ammazzato la Marinin
Giunti
6,90
3
11
Elizabeth Peters
Il fulmine di Sethos
TEA
9
3
12
Cormac McCarthy
La strada
Einaudi
12
2
13
Diego De Silva
Mancarsi
Einaudi
10
4
14
Banana Yoshimoto
Lucertola
Feltrinelli
6,50
2

E ricordando come dall’ultima trama, che sempre di numeri trattiamo, questo 2014 è senza dubbio un anno esimio, visto che la somma dei numeri da 7, ricordo essere il mio numero totemico. E si scompone facilmente nel prodotto di 2 (elemento base dei rapporti umani), di 53 (altro numero del mio pantheon numerico, e sapete perché) e 19 (che visto stiamo sotto le feste, ricordo nella tombola figurata essere il simbolo della risata; quale migliore augurio allora per questo anno?). Facciamo allora largo all’ingresso di Tommaso, salutandolo con il 19° asteroide della fascia principale degli asteroidi, che guarda caso si chiama “Fortuna”.
Un appuntamento alla prossima trama ed a tutti un grande abbraccio.