domenica 30 gennaio 2022

In giro per il mondo - 30 gennaio 2022

Scrittura al femminile, questa settimana, spaziando in lungo e in largo per le terre emerse. Due buone scrittrici, che vengono dai due estremi, la turca Selek e la brasiliana Torres. E tre che invece sempre estreme, ma che mi hanno convinto di meno: la sudafricana Gordimer, la canadese Humphrys e la saudita Badrya Al-Bishr. Certo che sono comunque scritture interessanti, visto che spaziano per il mappamondo, mentre io aspetto di prendere un nuovo aereo…

Pınar Selek “La casa sul Bosforo” Repubblica Mondo 4 euro 9,90

[A: 15/12/2018 – I: 17/06/2021 – T: 21/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: La maison du Bosphore; ling. or.: francese; pagine: 295; anno 2013]

Anche se con qualche riserva, un libro interessante della collana “La biblioteca del Mondo”, dedicato alla Turchia. Ma non scritto in turco, che Selek è rifugiata in Francia e dal 2017 ne ha preso la cittadinanza. Anzi, spenderei qualche parola in più proprio sull’autrice, che in questo libro, in qualche modo, ripercorre, attraverso alcuni personaggi, anche le sue vicende storiche.

Pınar viene da una famiglia da sempre schierata nella Turchia dell’ultimo secolo. Il nonno, Haki Selek, fu tra i fondatori del “Partito turco dei lavoratori”, una formazione nazionalista di sinistra. Il padre, Alp Selek, avvocato, passò quasi cinque anni in prigione a seguito del colpo di stato militare del 12 settembre 1980.  Laureatasi in sociologia, ha sempre studiato i diritti delle minoranze. In particolare, quelle curde. Motivo per cui, oltre ad essere tenuta in osservazione, viene incolpata di un presunto attentato avvenuto il 9 luglio 1998 al Bazar delle spezie, che provocò 7 morti e centinaia di feriti. Si dimostrò che lo scoppio fu dovuto ad una fuga di gas. Tuttavia, Pınar fu incolpata insieme ad esponenti del Partito Curdo. Passa tre anni in prigione. Dal 2000 al 2008 è un susseguirsi di processi, assoluzioni, false condanne. Tanto che nel 2008 Pınar decide di rifugiarsi in Francia. Malgrado le prove inesistenti nel 2017 viene condannata all’ergastolo in contumacia. Intanto, è riuscita da ottenere la cittadinanza francese, motivo per cui non può essere arrestata o estradata.

Da tutto ciò, si capisce come un libro ambientato ad Istanbul, e che si svolge per più di venti anni dal 1980 a dopo il 2000, non possa non essere anche politico. Ma Pınar vuole anche innalzare un inno d’amore alla sua patria “bella e perduta”. Per cui, alle vicende politiche, intreccia avvenimenti “personali”, di povertà, di quotidianità, d’amore.

Una delle difficoltà (personali) è stata il proliferare di nomi, che a volte mi hanno fatto perdere il filo del discorso. Nomi simili, che fanno cose diverse, e che non ritrovo, e che mi perdo. I personaggi centrali su due coppie di giovani, che incontriamo poco più che quindicenni all’inizio del romanzo. C’è Hasan, che studia musica e desidera diventare musicista di professione, e la sua ragazza Elif, studentessa libertaria tentata dagli aneliti rivoluzionari che serpeggiano nella sinistra turca. Tra l’altro, Elif è figlia di Jemal, farmacista incarcerato per quattro anni dopo il golpe del 1980. Inciso: Jemal ripercorre un po’ i genitori di Pınar, che il padre, come detto, fu realmente in carcere e la madre era farmacista. Poi ci sono Salih, apprendista falegname che non riesce mai a staccarsi dalla sua terra, anche perché mantiene tutte le donne della sua famiglia, e Sema, ragazza inquieta che troverà una sua dimensione prima come commessa nella farmacia che Jemal riapre, poi nel suo girovagare per l’Europa insieme a Elif e Hasan, quando i due si rifugeranno all’estero per motivi politici.

Ma il vero protagonista è il quartiere di Yedikule, dove vivono i quattro, dove Jemal apre la sua farmacia. Che diventa punto di ritrovo delle varie anime del quartiere. Le madri, l’artigiano armeno per il quale lavora Salih, i giovani curdi che passeggiano per via, la prostituta che la madre di Sema aiuterà a cambiare vita, la professoressa in pensione, la signora Zabel, Belguin la donna che legge i fondi del caffè, la signora Nahidé e i suoi gemelli, Kemal che è innamorato segretamente della signora Nahidé.

Yedikule, pur essendo un quartiere storico, è decentrato dal “cuore” di Istanbul, si trova fuori dal Corno d’Oro, lontano da Sultanahmet e da Galata. Ma è turco nell’animo, con la presenza di quel mix di anime che costituisce il fondo della popolazione turca, che non è solo autoctona, ma piena (anche) di greci, armeni, curdi, zingari, ebrei. E la brava Selek riesce a darci una fotografia della convivenza pacifica che le minoranze possono avere in un mondo dove il fondamento dei rapporti umani è il rispetto.

I nostri giovani sono però inquieti. Hasan va in Francia per seguire il suo sogno di musicista. Elif si lancia nella clandestinità per poi uscirne e raggiungere Hasan. Sema studia per entrare all’Università. Salih crea oggetti meravigliosi con il legno. Molta strada dovranno attraversare prima che i loro destini potranno ricongiungersi. In quel 2001, l’anno prima della presa del potere da parte di Erdogan. Ma dopo sarà un’altra storia, un altro libro.

Per ora seguiamo solo le storie minute, anche perché Selek non ci accompagna molto nelle spiegazioni extra-domestiche. Si parla si politica e di altro, ma in maniera un po’ trasversale, quasi a non voler irritare ulteriormente un potere che da decenni l’ha messa nel mirino.

Comunque, un buon libro, che mi riporta in una città che da sempre ha lasciato tracce nel mio cuore.

Nadine Gordimer “Ora o mai più” Repubblica Mondo 7 euro 9,90

[A: 05/01/2019 – I: 18/07/2021 – T: 20/07/2021] - &&

[tit. or.: No time like the present; ling. or.: inglese; pagine: 431; anno 2012]

L’ultimo romanzo pubblicato in vita dal Premio Nobel sudafricano, ma non mi ha convinto moltissimo. Non per i temi e la trama, che possono meritare considerazioni maggiori, ma per la scrittura che ho trovato assai difficile da seguire.

Non so se riesco a riportare le mie sensazioni, ma, almeno nel testo in italiano, sembra sempre di sentire una voce che declama e narra i fatti, con un uso della costruzione delle frasi non intuitivo. Così che con difficoltà sono riuscito ad entrare nella trama. O meglio nei sentimenti che la trama suggerisce. Certo, Nadine Gordimer era di testa eccellente, e le idee che sottendono gli avvenimenti, comunque, arrivano. Non arriva il senso di comunanza con gli attori del romanzo, e questo me lo ha reso un po’ distante.

Il tema, comunque, è forte. Lei, e molti come lei, hanno vissuto capovolgimenti epocali, passando da un regime razzista e autoritario dominato dai bianchi, ad una democrazia fragile, dove si è cercato, e si cerca, di fornire mezzi uguali a tutti, a prescindere dalla razza o dalla religione. Per chi ha visitato il Sudafrica in questi anni ritrova i due elementi forti che lì si vivono: una sorta di razzismo rovesciato (anche se razzismo è una parola forte) dove, per rivalsa, si tende a privilegiare il colore scuro (nero se non fosse politically uncorrect), e dall’altra una chiusura di chi, bianco, avendo tolti privilegi ma non denaro, si arrocca e si chiude in enclave che non lasciano spazio alla convivenza.

La storia, primo colpo forte, segue le vicende della famiglia Reed, composta, all’inizio delle vicende, quando li incontriamo da Steve, anglofono e bianco, di madre ebrea e padre cristiano. E da Jabulile, maestra, poi avvocato, dalla pelle scura, e dalla famiglia in parte ancora tribale. Nonostante il colore della pelle, si sono sposati, dopo essersi conosciuti nello Swaziland, ai tempi della Lotta. Lei per studiare, che non poteva farlo in patria. Lui per fuggire che aveva preso parte a rivolte clandestine. Ora però c’è la “Costituzione”, possono uscire allo scoperto.

E nasce la nuova vita. Nasce una bambina, Sindisiwa. Poi una casa nuova in un quartiere residenziale, dove vivono altri compagni di Steve nella Lotta, spesso di colore. E dove c’è anche allo scoperto una comunità gay. Poi viene anche il maschio, Gary Elias. Steve diventa professore all’Università. Jabu lavora ad un Centro di Assistenza Legale.

La loro vita trascorre in questa famiglia allargata, con i pochi sopravvissuti alla Lotta. E con il grande dibattito di come vivere questa nuova vita. Una speranza? Forse. Ma Steve e Jabu vedono anche la deriva che attraversa il paese. Zuma, sodale di Mandela, è più volte accusato di corruzione. Molti ex della Lotta, ora in posizione di potere, sono più tesi alla posizione ed al denaro, di quanto non fossero al sovvertimento di un sistema ingiusto. Anche l’onesto padre di Jabu è preso tra il rispetto dei capi che hanno lottato e le rivelazioni di quello che avviene.

Steve e Jabu, ognuno per la propria parte, attraversano grossi momenti di crisi. Soprattutto Steve si sente sfiduciato, tanto che vede come unica possibile soluzione l’emigrazione definitiva verso un nuovo paese, l’Australia. Tutta l’ultima parte è incentrata proprio sulla discussione tra i vari attori del romanzo su questa possibilità. È giusto abbandonare tutto se niente va al posto giusto? O bisogna continuare? Ritorna sempre nelle orecchie il motto del padre di Jabu, quello del titolo “Ora o mai più”. Anche se in inglese, il libro si intitola: Non c’è un tempo come quello attuale. Simile, ma con diverse sfumature.

Perché tanti sono i problemi, personali e privati, che la famiglia Reed affronta: Gary aggressivo, Steve infedele ma pentito, il rapporto complicato tra Steve e Sindi. Ma soprattutto la difficoltà di comunicare tra chi, dalla nascita, parla lingue diverse. Lui l’inglese, lei l’isiZulu. I figli entrambi. Intorno, come detto, anche la Storia del paese: la criminalità che aumenta, il commercio delle armi, gli scandali sessuali dei potenti, le accuse di corruzione.

I protagonisti della Lotta, ci dice Nadine, devono fare i conti con una realtà a volte molto diversa dal loro sogno, valutando decisioni che si sarebbe preferito non affrontare: perché affrontarle dimostra che, forse, siamo stati sconfitti. Mi suonano in testa i discorsi di mio padre e dei miei zii, quando parlavano delle loro decisioni dopo la fine della Guerra.

Ripeto, e si capisce da quello che ho detto, i temi sono belli e potenti. La scrittura me ne ha reso difficile riavvolgerli ed applicarli al mio mondo, così come dovrebbe essere per un testo che colpisce nel profondo.

Per chi vuole qualcosa che colpisce come un pugno, consiglio di leggere “La polvere dei sogni” di André Brink.

Fernanda Torres “Fine” Repubblica Mondo 9 euro 9,90

[A: 21/01/2019 – I: 24/07/2021 – T: 25/07/2021] - &&& 

[tit. or.: Fim; ling. or.: portoghese; pagine: 189; anno 2013]

A volte passa tanto tempo senza leggere nulla di scritto in portoghese, ed ecco che dopo il portoghese Peixoto, affronto la brasiliana Torres, che sempre in portoghese scrive. Questa poi, è la sua opera prima, scritta sulla soglia dei cinquant’anni, dato che prima (e anche dopo) prosegue il suo principale mestiere: l’attrice. Ed anche assai nota in patria (e da qualche cinefilo). È infatti figlia di Fernanda Montenegro (prima latino-americana ad essere candidata al Premio Oscar come miglior attrice), e lei stessa vinse nel 1986 il premio per la migliore attrice protagonista al Festival di Cannes con il film “Eu Sei que Vou Te Amar” (“Io sì che ti amerò”, dal titolo della canzone di Ornella Vanoni).

Ma noi ci sbarazziamo presto del contesto, e ci buttiamo a testa bassa in un testo che mi ha personalmente preso molto. Ben scritto, ben orchestrato, forse alla fine con un meccanismo un po’ ripetitivo sulle situazioni descritte. Ma mai ridondante, mai che torni su binari semplici, dato che l’argomento, i sé, non è dei più facile.

È la storia di cinque uomini, Álvaro, Sílvio, Ribeiro, Neto, Ciro, colti negli ultimi istanti delle loro rispettive vite, “mentre muoiono”, parafrasando Faulkner. Ed è forse questo girare intorno alla morte, in noi che, anche non volendo, stiamo crescendo negli anni, che prende, ed a me coinvolge. E già dal titolo, che fa presagire non come accadrà, ma di sicuro quello che accadrà.

Torres costruisce una sorta di walzer schnitzleriano, senza tornare sui propri passi, ma svolgendo la fine di ognuno dei cinque uomini, dal soggettivo ai contorni di persone coinvolte nel giro d’amicizia. Cambiando spesso punto di vista, rivoltando oggettività in soggettività. Passando sempre, ognuno dei cinque, per la “mitica” orgia organizzata alla fine degli anni Ottanta da Sílvio, che ciascuno ricorda in modo diverso, quasi fosse una cartina di tornasole dei rispettivi caratteri.

I cinque sono quasi coetanei, essendo Álvaro e Neto del ‘29, Sílvio e Ribeiro del ‘33, con il solo Ciro del ’40. Ma la loro frequentazione iniziando negli anni ’60, sono tutti tra i venti ed i trent’anni, che si può stare insieme. In quegli anni dove nasce il mito di Copacabana, del Brasile facile di sesso e droga, con uno strascico di soldi facili da spendere e spandere. Il mito di una città edonista, dove esplode la bossanova e la vita trascorre come fosse un’ininterrotta festa in spiaggia.

Ciro è il bello del gruppo, e dopo vari amorazzi, si invaghisce e sposa la bella Ruth. Anche lei presissima da Ciro, senza mai accorgersi dell’amore da lontano che le riserva Ribeiro. Neto è mulatto e riservato, e si sposerà con la quasi mulatta Candy. Mentre Álvaro, indolente e ipocondriaco, si sposerà, senza realmente volerlo, con Irene, l’amica del cuore di Ruth. C’è solo Sílvio che rimane a fare il farfallone, che si riempie di eccitanti ed altro, e che dopo pochi anni lascerà Norma per mettersi con la giovanissima Suzana, che per poco era stata con Ribeiro, ma senza esserne innamorata.

La capacità di Fernanda è di farci scorrere queste vite piene di sesso e di poco o niente altro, con le crisi varie che si susseguono. Con Ciro che dopo dieci anni si satura di Ruth e passa di nuovo “di fiore in fiore”. Fino alla scoperta del tumore ed alla morte a cinquant’anni in solitaria ospedalizzazione. Una morte che poi vedremo raccontata e molto bene dall’infermiera Maria Clara. L’anno dopo, senza segni apparenti, anche Candy muore e Neto ne avrà il cuore spezzato, seguendola ben presto nella tomba.

Seguiamo, nelle parole trasverse, le vicende degli altri. Con Sílvio che finirà i suoi giorni avvicinandosi agli ottanta, in un mix di sesso, alcool e droghe. Ottanta fatali anche a Ribeiro, unico rimasto single, che si consola con donne a pagamento, e perisce per un’overdose di Viagra. Rimane il solo Álvaro, solo anche di fatto, che lascia la poco amata Irene, invecchia ed a ottantacinque anni viene portato via da un infarto.

Una storia piena di gente che lascia o che viene lasciata, che tradisce o viene tradita. Un triste universo maschile, sgradevole ed esilarante. Un ritratto spietato di una generazione che fallisce descritta con le parole di cinque “carioca”, avendo sullo sfondo il sesto protagonista, la città di Rio de Janeiro.

Non so se mi ha coinvolto per il senso di sconfitta, ma credo che sia più corretto pensare che la fine, prima o poi, arriva. E qui, è ben descritta, in alcuni dei suoi aspetti peggiori.

“Quanti anni hai? Ventiquattro. … Passano. Approfittane, che passano in fretta.” (176)

Helen Humphreys “Cani selvaggi” Repubblica Mondo 26 euro 9,90

[A: 21/05/2019 – I: 10/09/2021 – T: 11/09/2021] - &&

[tit. or.: Wild dogs; ling. or.: inglese; pagine: 173; anno 2004]

Facciamo un salto in un panorama letterario non molto presente nelle mie librerie: parliamo di autori canadesi (anche se ci sono Alice Munro e Margaret Atwood, tanto per citare), che spesso sono mescolati ai nordamericani. Poi ce ne sono alcuni che hanno valenze specifiche, e questa è una che appartiene grandemente a questa categoria.

Helen Humphreys, secondo le ricerche fatte, risulta più una poetessa che una scrittrice. Inoltre, e questo è un grosso punto a favore, è nata il 13 giugno, nel giorno in cui mio padre compiva 38 anni. Pur nata in Inghilterra, si trasferisce prestissimo in Ontario, diventa canadese, ed in Ontario vive con la sua cagna, Fig.

Un libro profondamente intriso di una duplice atmosfera: il Grande Nord, cioè i mondi selvaggi e freddi tra Canada e  Nord America, e la desolazione della perdita, sia essa piccola o grande, la perdita di un amore o la perdita di un lavoro. Un libro che si apprezza pienamente dopo aver letto in gioventù “Zanna Bianca” di London e dopo aver visto, quando volete voi, il film di Chloé Zhao “Nomadland”.

La vicenda, infatti, è ambientata nelle sperdute plaghe dell’America del Nord, in una cittadina canadese dove si sente con forza la crisi economica ed il conseguente desolamento, ambientale e personale. In questa lana incontriamo sei personaggi (Alice, Jamie, Lily, Walter, Malcom e Rachel), uniti da un destino parallelo: sono stati tutti abbandonati dai loro cani. Cani che si sono uniti ad un branco di lupi, vagando in modo selvaggio per la zona.

La vicenda la seguiamo dalle parole di Alice, dalla sua ottica. Ci descrive questo “club di proprietari abbandonati”, ci porta con tutti e sei al limitar del bosco, la sera, a richiamare i cani, sperando tornino indietro. Ci fa sentire come il cane sia il centro del loro mondo, anche dal modo in cui si presentano quando si incontrano. Una specie di rituale che prevede in sequenza: “il nostro nome, il nome del cane, la razza, chi ha mandato via il cane”.

Reiterando il rituale serale, poi, entriamo nel mondo di ognuno di loro, attraverso la storia che l’autrice ci fa seguire principalmente con le parole di Alice, ma anche con capitoli visti dall’ottica di ognuno degli abbandonati. Alice ha da poco troncato una tormentata storia d’amore e nella routine serale entra in contatto con Rachel. Lei se ne innamora, ma Rachel sembra sentirsi soffocare dal rapporto con l’altro e cerca di allontanarla. Conosciamo Malcom, dall’enorme fragilità emotiva che cerca di esorcizzare dedicandosi alla pittura e che offre ad Alice una casa temporanea, mentre lei cerca di sanare le sue ferite (del cane e dell’amante). Jamie, il ragazzo randagio che con la sua spavalderia cerca di contrastare l’infelicità che vive nella sua dimora abituale, terrorizzato dal suo violento patrigno. Walter, il cacciatore, che riamane sempre un po’ isolato, ma che sarà un punto di volta forte per la vicenda. Ed infine, l’innocente Lily, una ragazzina con problemi mentali, che non sa come bloccare le infinite trappole che le pone davanti la sua vita, e che deciderà di unirsi al branco di cani e lupi, con esiti disastrosi.

Tutto ruota intorno a queste perdite, che creano legami altrimenti non comprensibili. Ma l’unione porta i sei verso la speranza. Mostrando le proprie fragilità, ognuno spera che l’altro, in qualche modo, trovi la maniera di fargli percorrere una strada nuova, per ritrovare in primis i cani e poi sé stessi.

La crisi economica e personale, fa balzare il primo piano uno dei nodi fondanti della vita moderna, il difficile rapporto tra natura e cultura. Ma, come si capisce, il sotto tema, quello che diventa il “basso continuo” del libro è l’amore: l’amore tra gli umani, l’amore tra gli animali, l’amore tra gli umani e gli animali, l’amore passione, l’amore romantico, l’amore (ma soprattutto la sua mancanza) nel rapporto di coppia e nel rapporto tra genitori e figli.

Dopo tanti giri di parole, in fondo, quindi, questa storia sull’amore, è in realtà la storia della paura dell’abbandono. Anzi, la paura di essere abbandonati da chi si ama, e di conseguenza, la paura di perdere i nostri, quotidiani, placidi, punti di riferimento.

La scrittura dell’autrice è decisamente efficace, anche se, venendo dal suo retroterra poetico, a volte mi sono perso nelle descrizioni, e nei voli verbali. Tanto che alla fine non risulta così efficace come avrebbe potuto essere. Un buon testo, leggibile anche se non sempre godibile.

“E quelle due parole, ti amo, non bisognerebbe mai usarle se uno non è sincero.” (128)

Badriya Al-Bishr “Profumo di caffè e cardamomo” Repubblica Mondo 30 euro 9,90

[A: 23/06/2019 – I: 23/09/2021 – T: 24/09/2021] - &&

[tit. or.: Hind wal-askar; ling. or.: arabo; pagine: 173; anno 2008]

Sinceramente, mi aspettavo di più da questo primo libro della letteratura Saudita che mi capita di leggere. Ho discretamente letto di libri arabi, ma nessuno che provenisse dall’Arabia Saudita e, soprattutto, nessuno scritto da mano femminile. Ma prima di addentrarmi nel libro, la solita domanda agli editor della casa editrice per cui uscì in Italia (“Atmosphere”). Vorrei capire come si passa da un titolo legato alla protagonista (Hind) contrapposta, lei aspra, allo zucchero, ad uno che parla di caffè arabo al cardamomo, sempre degno e gradito. Dove, tuttavia, scompare la protagonista. Soliti misteri editoriali.

Intanto, rendiamo comunque omaggio al coraggio di Badriya, che non rifiuta tutto negando anche la religione, come c’è chi l’ha fatto. Ma cerca quasi di riflettere (e far riflettere) con le sue parole, con la storia che narra, su di un possibile “Rinascimento” del Mondo Arabo. Che è una riflessione che mi sta accompagnando da anni. Il Cattolicesimo, nel passaggio all’Età Moderna, avviò un’opera di riflessione ed aggiornamento della religione, cosa che, per i miei modesti ricordi, non è, ancora, avvenuta per l’Islam. Badriya pone domande e descrive fatti che fanno riflettere in questa direzione. Certo, in Arabia Saudita, alla fine, il suo posto era un po’ stretto, tanto che dal 2006 si è trasferita a Dubai per continuare la sua opera di giornalismo.

Tornando alla pagina scritta, Badriya prende come esempio preclaro della condizione femminile nel mondo arabo la storia della giovane Hind. La bimba vive a Riyadh, con i cinque fratelli ed i genitori. Il padre ha fatto fortuna nell’edilizia durante gli anni d’oro (che localmente vengono chiamati “Anni del Petrolio”) così che la vita di famiglia è agiata. Anche le bambine hanno potuto studiare, cosa che non è scontata. Il grosso scontro però, all’inizio, non è con il padre, che pur rappresenta il mondo maschile, ma con la madre Hila “ignorante e rocciosa”. Hila che ha dovuto subire un matrimonio combinato, che non ha mai amato il marito, e che, per rivincita, si atteggia ad essere più realista del re: Hind non si deve comportare male, che andrà dritta all’inferno; Hind non deve parlare con i maschi; Hind non deve giocare con i maschi. E quando la scopre, la segrega in una stanza a pane e acqua.

Hind, a scuola, scopre però che esistono anche storie buone, come Cenerentola. Leggendo, capisce che la scrittura può diventare un modo di uscire dall’isolamento. Ma deve scrivere con attenzione, poi deve scrivere sotto pseudonimo maschile. Hind vorrebbe avere anche una vita amorosa “normale”, ma sarà sempre Hila che ne blocca tutte le uscite. Così che la nostra ormai giovane pensa di poter fuggire alle grinfie materne, sposando, anche se in un matrimonio combinato, il cugino Mansur.

Hind resiste un po’, fino alla nascita della figlia May. Quindi, in accordo con Mansur, decide per il divorzio. Certo, non è facile la vita di una divorziata nel mondo arabo. Perché l’uomo è l’unico deputato ufficialmente a sostenere la famiglia. Quindi deve cercarsi un lavoro, che trova come assistente sociale in un ospedale.

Qui abbiamo una nuova biforcazione. In ospedale conosce un uomo diverso dai maschi-padroni finora incontrati, il dolce Walid. Tuttavia, non sa decidersi al grande passo, condizionata dal modo di vivere locale. Inoltre, c’è una grande frattura nella famiglia. Il fratello maggiore emigra in Canada per togliersi il peso di un mondo che non sente suo. Il secondo fratello, Ibrahim, invece, si radicalizza diventando, forse, un attentatore suicida. Lascio il forse alla vostra lettura. Hind non vuole fuggire da tutto ciò, ma allontanarsi per aver tempo e modo di ragionare con sé stessa, e decidere della sua strada.

Il buono del romanzo è far vedere, anche a chi poco ne conosce, alcuni aspetti del mondo arabo non sempre noti ai più. Tutti sanno che le donne, in Arabia Saudita, non possono guidare l’auto (ma qualcosa sta cambiando). Ma possono studiare e lavorare. Inoltre, possono divorziare, anche se con procedure leggermente più complesse di quelle maschili. Impariamo anche che nel ondo ristretto wahabita (che è l’ortodossia lì regnante) esiste un organismo terribile di cui capiamo subito l’importanza e la cattiveria dal nome: “Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”.

Questo ci porta ai temi forti del romanzo: la discriminazione di genere, l’oppressione maschile ma anche l’acquiescenza femminile, i matrimoni combinati, l’estremismo religioso. È un interessante manuale sulla condizione femminile in Arabia, raccontata in forma di romanzo. Con quella punta di cattiveria in meno, rispetto alla realtà, che alla fine, se ne fa un buon libro di esempi, non lo rende un efficace romanzo a tutto tondo. Le scelte ed i modi sia dei buoni (Hind, Walid) sia dei cattivi (Hila, Ibrahim) non sono portati sino in fondo, e qualcosa rimane non detto. Compreso ma non detto.

Finisco con un ricordo personal-trasversale. A pagina 63 Hind confessa di aver difficoltà a leggere un libro di Nikos Kazantzakis (nella fattispecie “Cristo di nuovo in croce”). Confessione che viene a poche settimane della mia non agevole lettura di Zorba, per cui mi sono sentito empatico con Hind.

“Forse per le persone intelligenti è sempre così, devono pagare il prezzo della propria intelligenza, mentre gli stupidi trionfano.” (94)

Quarta uscita del mese di gennaio, che come sanno i più anziani, è dedicata al riposo da allegati vari.

Non ci facciamo mancare una citazione ad hoc, proveniente da “La casa grande” di Mohammed Dib : “trovavano strano che un uomo leggesse dei libri”. Immagino una stranezza che nessuno di noi condivide.

Comunque, una buona fine di mese, piena al solito di compleanni, cui i miei amici sono stati già omaggiati, e di iniziative, tra cui un rilassante (per me) fine settimana marino. Andiamo quindi ad affrontare un nuovo mese, che già si preannuncia denso di impegni, ma anche carico di abbracci.

domenica 23 gennaio 2022

Gialli in minore - 23 gennaio 2022

Questa settimana ci dedichiamo molto ai gialli, con alcuni autori che della serialità hanno fatto il loro marchio. Settimana anche molto scandinava, che a parte Dan Brown, molto inferiore ai suoi primi tentativi, abbiamo la svedese Marklund con (forse) l’ultima puntata della sua saga e la norvegese Holt con ben tre libri, la cui gradevolezza, tuttavia, è andata purtroppo in calando. A volte capita che ci siano settimane mosce, o, per essere più aulici, settimane in minore. Questa è una di quelle.

Dan Brown “Origin” Mondadori I Miti euro 7,90 (in realtà scontato a 6,72 euro)

[A: 18/06/2018 – I: 02/05/2021 – T: 04/05/2021] - & e ½  

[tit. or.: Origin; ling. or.: inglese; pagine: 735; anno 2017]

Avevo gustato, per la novità, per alcune invenzioni e per il ritmo il “mitico” “Codice Da Vinci” (certo qualcuno più addentro di me ai misteri leonardiani storse la bocca, ma fu comunque un evento). Ho letto gli altri libri con al centro Robert Langdon senza che si riuscisse mai a rinverdire il fuoco del primo. Ora, quest’ultimo, letto con calma e con distacco dall’uscita, mi conferma l’inaridimento della vena di Brown, e la poca consistenza della trama.

Il ritmo rimane, anche se il cinema, ormai, ci ha abituato ad avere situazioni più “sulla corda” che nel ritmo narrativo Brown non riesce a trasportare. Tuttavia, è l’unica cosa che rimane. La trama principale, nonché le sottotrame, che in genere costituiscono l’ossatura dei libri di Brown, è poco consistente, cerca di tenere sul filo il lettore, ma con delle trovate assolutamente non degne di un thriller come questo pretende di essere.

A parte lo specifico, su cui entreremo più avanti, chi sia il tessitore, colui che tira le fila di tutto il gioco che si protrae per un numero anche eccessivo di pagine, è chiaro sin dalle prime pagine. Magari, dopo le prime cinquanta, tanto per essere buoni. Non c’è suspense, da questo lato. Come non c’è dai piccoli flashback ogni tanto inseriti, o dai tentativi di far intervenire i siti online (difficile con questo tipo di scrittura). Perfino i giochi criptici sono scoperti, che la gola profonda aiutante dei buoni per metterli sulla strada giusta, indicata con il nome del sito da cui scrive (monte@iglesia.org) è un gioco che farebbe arrossire di vergogna Colin Dexter. O il solo altro trucco degno di nota è fatto per chi usa molto i computer in scrittura. Laddove si  risolve un piccolo enigma affidandosi al significato etimologico latino del simbolo @, e che può essere decrittato da chi conosce il carattere tipografico “Trebouchet”, dove viene stampato “&”.

Per riprendere il filo inziale, su novità, somiglianze ed altri aspetti di questa letteratura commerciale (a parte i giochi criptici di cui ho appena detto), riamane costante la figura simbolo che unisce le scritture di Brown e che, come qualcuno ha rilevato, più che un personaggio è un alter ego dell’autore, utile solo a far pensare che i libri siano seriali. Robert Langdon, infatti, professore esperto di simboli, è sempre presente. Ma di lui non sappiamo mai molto. Poco del suo passato, poco delle sue avventure o disavventure femminili. Qui vediamo che incontra il personaggio cardine quando questo studiava ad Harvard, e tra i due nasce una frequentazione che sfocia quasi in amicizia. Per il resto, anche quando scappa, quando ragiona con la donna di turno, niente trapela. Sappiamo solo che non potrà morire, che deve tener vivo il filo dei libri di Brown. Che proprio per questo possono essere letti in qualsiasi ordine, essendo il protagonista atemporale.

Detto appunto che i codici da cifrare sono pochi, qui viene dato maggior risalto al messaggio (che Brown invia sempre) ed alla trama. Ma non essendo particolarmente bravo in ciò, risulta una trama scontata (come detto comprensibile dalle prime pagine) ed un messaggio che se vogliamo è anch’esso sul banale spinto. Tutto girando intorno al quesito: chi siamo e dove andiamo. Innescando in ciò la solita diatriba, sempre presente in Brown, tra scienza e religione. Con delle lunghe ed abbastanza poco avvincenti disquisizioni su Dio, su Darwin e su tutto il resto. Creazionismo o determinismo? Forse appassiona, ma qui risulta noioso.

Tutto parte dal mago dell’intelligenza artificiale, l’amico di Robert, Edmund Kirsch che annuncia scoperte sensazionali, viene ostacolato da chiesa e scienziati, si innesca una trama mortifera che lo porta alla morte in diretta, facendo sì che Robert e la signorina Ambra, dopo mille peripezie, riescano a trovare il messaggio e a trasmetterlo a tutto il mondo. In questo aiutati da Winston, un’intelligenza artificiale creata da Edmund. Ma vi lascio godere le rutilanti avventure che scorrono piacevolmente anche se il libro è ponderoso assai. Anche perché, alla trama principale, Brown aggancia miriadi di rivoli, che hanno interesse vicino allo zero. Tipo che Ambra è fidanzata con il futuro re di Spagna.

Interessanti rimangono le attenzioni ai particolari architettonici, che qui si istanziano in due elementi principali: il museo Guggenheim di Bilbao e le realizzazioni barcellonesi di Gaudì, in particolare la “Sagrada Familia”. E devo dire che sono contento di averli visti entrambi, e con grande piacere (e grande ricordo dei bellissimi giorni baschi).

Il resto è il dibattito se la vita sulla terra si sia potuta sviluppare a partire dal brodo primordiale, o sia stato necessario l’intervento di una creatura superiore. Brown sposa la tesi che parte dal famoso “esperimento di Miller-Urey” (cercatelo in rete), abbinandolo ad una tecnica utilizzata nei cartoni animati chiamata “tweening” (ed anche questa vi invito a trovarla). Così che, avendo uno stadio iniziale (il brodo di Miller-Urey) ed uno stadio finale (noi come siamo ora) il tweening spinto all’eccesso da super-elaboratori quantici ci dice cosa sia avvenuto e dove andremo a finire.

L’unica angoscia che viene fuori da tutta la lettura è che Brown butta lì che con questi parametri il regno futuro assorbirà l’uomo in una nuova dimensione, in un mondo di tecnologia integrata. Beh, se stiamo attenti, sembra quanto si stia accelerando in questo pazzo mondo attaccato dai virus.

Decide voi se vale la pena o meno ragionarci su. Io mi fermo qui, dopo una discreta lettura, che continua a non appassionarmi come non mi hanno appassionate le altre letture di Brown.

Liza Marklund “Ferro e sangue” Feltrinelli s.p. (Regalo de “I Floridi”; Mario, Ines e sig.ra Laura)

[A: 07/05/2020 – I: 28/06/2021 – T: 30/06/2021] - &&  

[tit. or.: Järnblod; ling. or.: svedese; pagine: 373; anno 2015]

MARKLUND 11

Ed allora eccoci qui, con l’undicesimo volume delle storie di Annika Bengtzon, diciotto anni dopo l’uscita del primo romanzo. L’ottima Marklund non torna più ai fasti delle prime storie, e termina molto in minore la saga. Dico termina che sembra essere l’ultimo volume, anche se…

Ultimo perché, come tutte storie durate a lungo, tenta di chiudere tutte (molte) parentesi aperte, poi chiuse, poi socchiuse, poi spalancate. In particolare, si fanno i conti con il primo volume cronologico della saga, anche se era il secondo in scrittura. Stranamente, il primo diventerà il quarto cronologicamente, mentre il terzo è temporalmente il secondo, ma non essendo mai stato ripubblicato, l’ho letto per decimo (e ne ho parlato a inizio giugno 2021).

Come detto, comunque, per venire al testo, qui si cerca di fare i conti con “Studio Sex”, dove la giovane Annika, stagista in un giornale, tenta di trovare l’assassino di una ragazza, essendo allo stesso tempo vessata dal suo compagno. Talmente maltrattata che alla fine, preterintenzionalmente, lo uccide. Qui, appunto, uno dei temi è fare i conti con quelle due morti. Collegandole a quelle emerse nel decimo volume, per le quali viene incriminato un cattivone dal giusto cognome (Berglund, ah ah). Che ricordo avere un gemello monozigotico, nonché i due alternarsi tra la Svezia e Marbella in Spagna (facile ricorso, che altrettanto fa Liza nella sua vita privata).

Inoltre, abbiamo, mutuati da tutti i romanzi di impianto seriale, il solito alternarsi di pubblico e privato, laddove spesso convergono. Ma anche a volte divergono. Qui, al solito, entra ed esce da alcune pagine, Thomas il secondo marito di Annika (quello col moncherino), che fa alcune cosette, senza particolare senso, e serve solo a lanciare un gancio nell’epilogo, nel caso la Marklund decidesse di scrivere qualcosa di nuovo.

Altra vicenda strisciante, quella di Anders Schyman, tartassato nel precedente volume, ora decide di abbandonare la nave che affonda, visto che la proprietà ha deciso di chiudere il giornale cartaceo, e di mantenere solo quello online. Due battute, qualche considerazione, e poi via. Un po’ più di peso lo mantiene Nina, la poliziotta sodale di Annika, cui la nostra chiede aiuto per una vicenda che vedremo più avanti, ma che soprattutto è dedita alla scoperta delle malefatte dei Berglund. È lei infatti, che, intervistando la sorella ritardata, scopre l’esistenza dei gemelli. Ne segue le tracce fino in Spagna, riuscendo (finalmente!) a trovare le prove che li incastrano in tutta una lunga serie di efferati delitti (compresi quelli irrisolti del decimo volume).

Rimane, a tutto tondo, la nostra Annika. Con la sua vita privata (due figli avuti con Thomas e due figli di Jimmy, il suo nuovo compagno), con i rapporti irrisolti con la madre, e soprattutto con la sorella. Tutti elementi che escono fuori dalle sue sedute psicanalitiche, iniziate per capire se e come potesse riuscire a vincere gli attacchi di panico. Complicate dai messaggi della sorella che sembra scomparsa. Addirittura, sempre più neri, quando lei si mette a cercare la sorella, capisce che nel rapporto con il marito di lei ci sono molte ombre e poche luci.

Per venirne a capo, deve scontrarsi (finalmente!) con la madre, dove riesce a dirlo la frase magica: “ti chiedo scusa di essere nata e di averti rovinato la vita”. Quindi, sbatte la porta e se ne va. Ma Nina le trova traccia del cellulare della sorella. Lo segue, e cade nella trappola del gemello Berglund. Che tutto andava a parare lì: i gemelli avevano escogitato un trappolone per vendicarsi di Annika e cercare di uccidere lei e tutta la sua stirpe (sorella, cognato, nipote, figli, mariti passati e presenti). Trappola che riesce solo in parte, che Annika, nei finaloni, ha sempre un po’ di fortuna dalla sua, e, pur non salvando tutti, salva sé stessa, e mette fine alla carriera dei cattivi.

La sua rinnovata fama, fa inoltre in modo che chi aveva protetto anni ed anni prima l’assassino descritto nel primo volume, venga allo scoperto. E si punisca il colpevole. Visto che ci siamo, finalmente (quanto colte l’ho detto), va a trovare i genitori di Sven (quello che lei aveva ucciso), e si chiariscono fino in fondo.

Nell’epilogo un po’ sdolcinato, vediamo Annika prendere il posto di Anders al timone della nave di carta, adottare la figlia orfana della sorella, e dichiarare di essere incinta. Maronna, quanti babà sotto il Vesuvio!

In un’intervista ad un giornale svedese Liza ribadisce essere il suo ultimo libro con Annika, anche perché, almeno secondo lei, ha affrontato tutti i nodi della storia, risolvendoli. Io, come dico, ho un sospetto, ma per ora taccio. Quello che vedo è una storia in undici puntate, che iniziò in modo interessante, almeno per una buona metà. Poi, è andata calando libro dopo libro, anche perché l’autrice, da alcuni anni, si dedica con maggior profitto alla casa editrice che ha fondato e che riscuote un buon successo.

Finisco con una diatriba, che non c’entra nulla con il libro, ma che viene sollevata pagina 36, citando la famosa frase attribuita a Voltaire (“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo”). Frase mai pronunciata né scritta dal grande. Infatti, il massimo che disse, con significato analogo, fu “non ho mai approvato … le verità banali che [lui] afferma con enfasi. Però ho preso fortemente le sue difese, quando uomini assurdi lo hanno condannato.” Frase contenuta in “Questioni sull’Enciclopedia”, sotto l’articolo “Homme”, scritto per l’appunto da Voltaire.

E con questo taccio, di Voltaire e di Liza Marklund.

Anne Holt “La paura” Corriere Profondo Nero 20 euro 7,90

[A: 26/11/2019 – I: 07/09/2021 – T: 10/09/2021] - && e ½  

[tit. or.: Pengemannen; ling. or.: norvegese; pagine: 540; anno 2009]

Non so per quale sorte del caso delle mie confuse letture, pur apprezzando la scrittrice ed avendo (quasi) tutti i suoi scritti, sono tre anni e mezzo che non torno a leggerne. Tra l’altro con un libro ben datato, scritto dodici anni fa (e ben inserito colà temporalmente, devo dire).

Ma prima di venire al testo ed ai protagonisti, spezziamo una lancia contro il petto non dico dell’ottima traduttrice Giovanna Paterniti, quanto degli editor della prima uscita italiana in quel di Einaudi che hanno pensato bene di epitetare il testo con quel titolo (che poi è anche quello di uno dei capitoli, ma tant’è), invece di avvicinarsi all’originale che (perdonate il traduttore norvegese) dovrebbe suonare come “L’uomo dei soldi” o qualcosa di simile. E non aggiungo altro, anche perché proprio uno dei personaggi è un signore assai ricco, e giuoca un suo ruolo nello svolgersi della trama.

Intanto ricordo ai meno addentro ai polizieschi scandinavi che, nei primi quindici anni di questo secolo, l’ex-ministro della Giustizia Anne Holt portò avanti due serie di gialli, l’uno basato sull’intrepida (ma assai poco fortunata) poliziotta Hanne Wilhelmsen, l’altra sulla coppia di investigatori composta da Johanne Vik e Yngvar Stubø. Lei criminologa e lui ispettore della Polizia Criminale (in norvegese chiamata Kripos). Nel 2006 le due serie convergono in un libro che li vede tutti presenti (“La porta chiusa”). Poi Hanne prosegue con un libro in solitaria (“Quota 1222”), e qui vediamo il capitolo seguente di “Vik & Stubø”, anche se ci sarà verso la fine un cameo con la nostra Hanne. Mentre dalla saga di Hanne, entra e rimane in questo testo Silije Sørensen, una bella figura di donna, poliziotta e mamma.

Come ho rilevato in altre trame, Anne Holt ha un po’ il vizio di mettere molta carne al fuoco, di inserire molti filoni che sembrano andare ognuno per conto loro, e che solo dopo pagina 300 (che fatica!) capiamo che probabilmente convergono in qualche modo.

Una trama sotterranea e parallela è la vita privata della nostra coppia, con le due figlie: Kristiane, figlia di Vik con il primo marito, con tendenze autistiche ma più da “sindrome di Asperger” che altro, e l’altra, Ragnhild, figlia di tutti e due. Una vita che la Holt ben descrive, con le routine, la scuola differenziata di Kristiane, il buon rapporto con l’ex-marito Isak, le uscite imprevedibili e divertenti di Ragnhild (tra l’altro un nome forse omaggio alla principessa Ragnhild Alessandra di Norvegia, di cui vi invito a cercare notizie), i problemi di linea di Yngvar, ed altre amenità (nonché la visita di una sua amica americana che porterà molto carne al fuoco di Vik).

Spesso, e qui non è da meno, Anne Holt, dato il suo vissuto personale, è anche attenta alle diversità. Non solo come in Kristiane, ma anche verso gli omosessuali e i drogati.

La storia, scorrendo attraverso le indagini dei nostri, ci porta man mano alla luce diverse morti. La prima è un drogato massacrato di botte in un parco frequentato da omosessuali il 19/11. Poi c’è un richiedente asilo arabo, che vende il suo corpo per trovare soldi per i documenti d’asilo, decapitato il 24/11. Nelle more si scopre un incidente (falso) di macchina in cui muore la compagna di una donna in vista nel mondo norvegese, il 27/11. Queste sono morti come dire “di passaggio” che servono a far mucchio, ma non ad imbastire storie.

Le storie arrivano con le successive. Un’altra lesbica uccisa il 19/12 durante una festa in un hotel, ma di cui si scopre solo dopo giorni e giorni il corpo. Unico indizio, pare che Kristiane (che era presente alla festa) abbia visto qualcosa, ma da autistica è difficile comprenderne il parlato. Il morto centrale è il vescovo Eva Karin, uccisa il 24/12. Non meravigliatevi del vescovado, che stiamo parlando di luterani. Il morto che infine darà la svolta sarà Niclas, altro gay ucciso con una finta overdose il 27/12.

Quello che seguiamo più a lungo, e dove più si dedica Yngvar è il vescovo, unico apparentemente fuori linea con gli altri morti. E lo seguiamo anche per una complicata storia familiare, che coinvolge Erik, il marito del vescovo, e Lukas, il figlio.

Ogni tanto, nelle pagine e pagine del libro, compare anche Markus, ricco gay affermato, con marito e figlio, che pensiamo abbia qualche nesso ma quale? Forse sarà il prossimo morto? Forse è collegato a qualche morto già trovato? Lasciamolo in sospeso, ne leggerete, se volete.

Fatto sta che Johanne, con l’amica americana, unisce le date, e dato che la somma dei numeri 19, 24 e 27 fa 25 (un tripudio per me matematico), li collegano ad una setta suprematista americana (“The 25’s”) assolutamente fuori di testa, composta da mussulmani e cristiani, legati dal 19 che si unisce al Corano ed ai versetti 24 e 27 della lettera di San Paolo ai Romani, tutte citazioni tese alla condanna di comportamenti diversi, in particolare amori gay e simili.

Alla fine, la nostra darà una stretta sulle fila dei vari “racconti” che tessono il testo. Ma è, al solito, una fine molto veloce, rispetto a quanto dispiegato fino a quel momento. Una fine che spiega molto, ma non, ad esempio, come sia stato scelto il primo da uccidere. Insomma, qualcosa viene lasciato un po’ a margine.

E pur tuttavia, una discreta lettura, con forse troppi nomi da tenere a mente, ma la famiglia “Vik & Stubø”, l’ispettrice Silije e poco altro rimangono, e spero ritornino. Vedremo.

Anne Holt “La minaccia” Repubblica Passione Noir 6 euro 7,90

[A: 23/07/2019 – I: 11/09/2021 – T: 13/09/2021] - && +  

[tit. or.: Offline. Krinminalroman; ling. or.: norvegese; pagine: 458; anno 2015]

Quando è a tordi e quando è a grilli (o viceversa). Dopo tanta lontananza, eccoci ad abbuffarci di un secondo libro di Anne Holt. Tanto per non farci mancare nulla, poi, questo è inserito nel primo e più duraturo filone, quello di Hanne Wilhelmsen. E mentre nel seriale “Vik & Stubø” spesso Hanne ha un suo piccolo cameo, qui la nostra coppia viene solo menzionata di sfuggita. Che altro abbiamo a cui pensare.

Intanto, pensiamo alla traduzione del titolo, che è facilmente traducibile, o meglio, facilmente trasportabile da una lingua all’altra. Offline è auto-esplicativo. L’autrice ci appiccica quel “Kriminalroman” (o Krimi) che è il modo tedesco di indicare il genere. Se si volesse fare una traduzione significante, si sarebbe potuto chiamare “Offline. Un giallo”. Ora, è abbastanza ovvio se avete letto o se leggerete il romanzo, che la minaccia pervade tutto il libro. Mi domando poi quale dei due termini risponde meglio al pensiero di chi scrive.

Comunque, questo è il nono titolo dedicato ad Hanne (e so che è uscito ed ho comprato, ma non letto, il decimo). Per chi si fosse perso, ritroviamo i personaggi principali della serie. In particolare, Hanne, ex ufficiale di polizia, in pensione perché costretta su di una sedia a rotelle per una lesione alla spina dorsale, provocata da una pallottola. Solitaria e scostante, non esce più di casa, lavorando a volte come consulente (come in questo caso). Una casa dove vive con la usa compagna, la bella turca Nefis, e la loro figlia Ida. Come contraltare, c’è ancora il suo vecchio partner, Billy T., personaggio con molte luci ed ombre, con sei figli avuti da sei donne diverse. Ma è il più anziano, Linus, che gli dà pensiero, in quanto sospetta sia venuto in contatto con elementi sovversivi.

Il nuovo, e simpatico, personaggio è il giovane poliziotto Henrik, nato con una testa più grande del normale, che gli rende difficile rapportarsi agli altri, sviluppando una serie infinita di tic nervosi. Ma è dotato di fine intelligenza, e capacità investigative. Essendo giovane, tuttavia, è ancora alle prime armi, e viene affidato ad Hanne, quasi come fosse un tutor, al fine di far luce su vecchi casi irrisolti.

Veniamo ora alla trama, che si innesta sulla mai sopita paura del diverso, dello straniero. La tranquilla Oslo è devastata da una serie di esplosioni, la prima delle quali avviene proprio in un centro islamico dedicato alla cooperazione. Matrice islamica? Poco dopo anche un ristorante apparentemente normale viene devastato. Su questo plot si innestano le paure di Billy T., che tema suo figlio Linus ne sia coinvolto. Per questo chiede aiuto ad Hanne. Che al momento è invece sulle tracce, con Henrik, di un delitto avvenuto sedici anni prima, coinvolgente una ragazza bianca ma che forse ha avuto origine da alcune frequentazioni della stessa con immigrati pakistani, probabilmente coinvolti in piccoli giri di droga.

Quando Henrik comincia a trovare possibili legami tra i vari personaggi, Hanne suppone, ed a ragione, che la matrice di tutto sia più legata a “follie” alla Breivik. Anne Holt riesce a questo punto ad imbastire una tramona complessa, che lega fili provenienti da lontano a sentimenti presenti nel tessuto attuale scandinavo. E tutto sembra convergere nella grande festa nazionale norvegese, quella che il 17 maggio celebra la firma della Costituzione, anche perché lo svolgimento dei fatti avviene proprio nel duecentesimo anniversario della firma stessa.

Al solito tanti sono poi i rivoli delle storie della scrittrice: l’antagonismo tra Billy T. e Hanne (anch’esso di radici lontane), i rapporti tra Hanne e Nefis, i rapporti tra Henrik e il mondo, la vita degli immigrati, la sensazione dei norvegesi bianchi di avere il lavoro sottratto dai migranti che accettano di tutto pur di sopravvivere. Un libro, quindi, che alla fine risulta complesso, e che spesso fa perdere il filo, che mi ha costretto a tronare pagine indietro per capire cosa stesse succedendo.

Poi ho deciso di lasciar correre il fiume di parole, di seguire le varie microstorie senza darmi troppo pensiero. Anche perché, alla fine, pur facendo luce su tutto quanto è successo nelle prime quattrocento pagine, non c’è una conclusione vera e propria. Sospetto che il decimo volume ci consentirà di mettere tutte le virgole al loro posto. Anche per questo, rimane in un limbo di soddisfazione che, invece, generalmente era di un gradino superiore.

Dimenticavo, anche qui compare un nesso fra le due serie, che Hanne spesso chiede aiuto a Silije, poliziotto che è ben presente anche nella seconda serie delle scritture di Anne Holt.

Anne Holt “Il presagio” Einaudi euro 12,50

[A: 15/09/2021 – I: 15/09/2021 – T: 16/09/2021] - & + 

[tit. or.: Skyggedød; ling. or.: norvegese; pagine: 330; anno 2012]

Avevo appena finite il precedente, ed un passaggio in libreria in attesa del famoso 18 settembre, mi ha portato tra le mani un nuovo libro dell’ex-ministro della Giustizia norvegese. Visto poi che era ben precedente di altri libri della stessa, ho deciso di porvi subito mano. Con scarsa fortuna, in realtà. Che fa parte della serie di Vik&Stubø, e che mi ha lasciato abbastanza deluso. Che credo sia anche al suo capolinea.

Intanto, diamo una bela tirata d’orecchi agli editor di Einaudi che inopinatamente pongono la scrittura 2010, quando tutti (nel web e fuori) concordano con il 2012. Dato anche che si parla, e non per “futuribilità”, degli avvenimenti di Utoya del luglio 2011. Un po’ di attenzione in più non guasterebbe.

La seconda tirata riguarda il titolo: non sembra esserci in tutto il libro alcun accenno di presagio di qualcosa. Più calzante il titolo originale che parla di morte e di ombra. Sicuramente pensando alle imprese dell’orrendo Breivik, la cui ombra di morte si stende per tutto il romanzo. Ma anche a tutte le ombre che possono celare delle morti che forse non ci si aspetta.

Infine, la traduzione ha qualche limite di plausibilità (a meno che non sia la stessa autrice ad aver fatto male il proprio compito). Ad esempio (e ne faccio solo uno per non tediarvi) si parla ad un certo punto di una persona “pluriottantenne”: ora se parliamo di una persona anziana, sarebbe corretto dire “ultraottantenne”, a meno che non ci riferiamo a qualche Matusalemme che ha compiuto più volte gli ottanta anni (così come un plurimedagliato ha vinto molte medaglie, ed altri esempi consimili).

Intanto, sottolineiamo che tutta la vicenda comincia venerdì 22 luglio 2011. Alle 15:22 Breivik comincia le sue stragi. Noi invece stiamo seguendo Johanne Vik, che si reca dalla sua amica Ellen Mohr al fine di aiutarla all’organizzazione della festa per il figlio Sander. Quando arriva scopre i genitori, Ellen e Jon, affranti e Sander morto. Sono le 15:28.

Importanti sono gli orari, perché la nostra criminologa cerca poliziotti a tutto spiano, a cominciare dal marito Yngvar Stubø, ma nessuno è disponibile, tutti a seguire la vicenda di Utoya. Si presenterà solo un nuovo entrato nella pattuglia poliziesca, il giovane Henrik Holme (che purtroppo abbiamo già incontrato nel precedente giallo, che ho letto prima, pur essendo stato scritto dopo, a causa dei disguidi editoriali).

Il disfunzionale Henrik (testa grossa, e vari tic nervosi) ha però sempre la capacità investigativa di un autentico “commissario”. Non mollerà mai l’osso, e la sua perseveranza, nonché le intuizioni di Johanne, porteranno alla risoluzione del giallo (se giallo si può chiamare, visto che alla terza pagina era già tutto abbastanza chiaro).

Anne Holt ha bisogno di più di centocinquanta pagine per sciorinare le complessità della trama. Scopriamo che Sander è un ADHD (cioè affetto da deficit di attenzione e da iperattività). Veniamo a sapere che è stato portato molte volte al Pronto Soccorso per cure varie. E sempre dal padre Jon.

Jon che è coinvolto in una vicenda di inside trading con la sua azienda, che gestisce con l’amico Joachim, il primo, oltre a Johanne, a trovarsi sulla scena del delitto. Vediamo apparire e sparire un computer, dove i nostri trovano immagini pedopornografiche. Lampo di attenzione: Jon è un pedofilo cattivo, che si approfitta del figlio, che ruba, che fa insomma tante cattive azioni.

Falso su tutta la linea, come si scopre anche questo abbastanza presto, sempre seguendo le tracce del PC di cui sopra. Jon stava appresso a Sander, e l’unico che avrebbe potuto toccare i computer era proprio il socio. Che cercava di incastrare Jon per coprire le sue malefatte.

A questo punto, facendo anche il primo errore di non arrestare subito Joachim per i suoi crimini, Johanne ripercorre con Henrik tutta la sequenza dei fatti, arrivando alla frase cruciale di Jon “È colpa mia. Dovevo fare più attenzione. Cerco di non spoilerare oltre, ma in un giallo in cui nella prima riga si annuncia la morte di una persona, e poco dopo sappiamo che nella casa c’erano solo i genitori, e immaginando troppo banale una morte per disgrazia, facciamo due più due, e non andiamo oltre.

Il fatto poi del mancato arresto di Joachim porterà a quelle pagine finali che avrei tagliato.

Ripeto, l’unico elemento interessante è la comparsa del giovane Henrik, qui alle prime armi, ma poi, come abbiamo visto nel precedente, ben addentro alla trama, anche se nell’altra serie della scrittrice, che mescola un po’ le carte, cosa che diverte noi attenti lettori.

Insomma, un giallo poco coinvolgente, abbastanza scontato e con uno sbocco che mi ha lasciato perplesso, se non sconcertato. E qui vi lascio, magari consigliando di leggere i primi gialli della serie Vik&Stubø. Che se Anne avesse voluto lasciarli, avrebbe potuto non scrivere nulla di questo romanzo, prodotto tre anni dopo il precedente.

L’autrice, nei commenti finali, lancia un (giusto) pippone sulle violenze sui minori. Corretto, ma questo libro non serve ad aumentare né la conoscenza né la coscienza.

La terza uscita mensile riguarda sempre vecchie citazioni che vi riporto in allegato.

Ma per chi non avesse voglia di sorbirsi quei vecchi ricordi, ne trascrive qui una, regalatami da Grazia Verasani che nel suo “Velocemente da nessuna parte” chiosava: “sono stata sempre incapace di portare a termine le cose. Mi fermo prima, come un podista che rallenta a un passo dal traguardo, oppresso da un senso di inutilità. In fondo è questa la sintesi della mia vita: cancellarmi dal menu all’ultimo momento come una portata che non fa gola a nessuno”.

Penso, spero che io, noi, tutti, possiamo riuscire a smentire la scrittrice. Certo siamo in mezzo al guado, certo non si viaggia, certo ci si incontra poco. Ma ognuno si porta qualcosa nella propria mente. 

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di gennaio

Passiamo ora, nel nuovo anno a ricordi e citazioni dei mesi di aprile e maggio del 2009. Anzi, quasi dello stesso tempismo, visto che vanno dal 26 aprile a fine maggio.

In quel fine aprile parlai molto di una scrittrice di gialli che per lungo tempo mi ha appassionato, Elisabeth George. Le prime venivano dal libro “Cercando nel buio”, la prima che fotografava uno mio stato d’animo: “sei preoccupato? Si. Preoccupato, terrorizzato, nervoso, apprensivo, impensierito e spesso incoerente”. La seconda una rimembranza di quello che si stava (o si sta?) vivendo: “com’è vero che è il passato a condizionare il presente…Anche se non ce ne accorgiamo ogni volta che arriviamo a una conclusione, emettiamo un giudizio, o prendiamo una decisione, alle nostre spalle incombe la nostra intera esistenza: gli anni … influiscono su di noi che invece non ci rendiamo neanche conto di come contribuiscano a renderci quello che siamo”.

Nel suo secondo libro, “Nessun testimone”, invece, mi veniva suggerito qualcosa che forse ora comprendo: “la vecchiaia ha i suoi onori, ma anche i suoi affanni”.

Il mese di maggio, invece, incontravo lo scrittore inglese Alan Bennett, in un libro pieno di riferimento alla lettura: “La sovrana lettrice” (e quindi a me). Verso l’inizio suggeriva: “l’attrattiva della letteratura … consisteva nella sua indifferenza… i libri se ne infischiavano di chi li leggeva, loro stavano bene lo stesso”. Alla metà, tornavo sul rapporto tra autore e lettore: “era meglio incontrare gli autori dentro le pagine dei romanzi, creature dell’immaginazione del lettore come i personaggi”. Verso la fine mi anticipava qualcosa che spero di poter dire tra qualche anno: “io guardo le cose in prospettiva, come del resto ho sempre fatto. A ottant’anni le cose non succedono, si ripetono”.

Nella stessa tornata, affrontai lo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes. In un intrigante pastiche giallo, “Addio Hemingway”, realizzava un sentimento del dubbio che condivido da sempre: “cominciò a convincersi che molte delle domande che si sarebbe posto da quel momento in poi sarebbero rimaste senza risposta, ma lo rasserenò ricordare che qualcosa del genere gli era già successo con molte altre domande che si era trascinato in lungo e in largo per tutta la vita, fino a quando non aveva accettato la perfida evidenza di dover vivere con più dubbi che certezze”. Per ricordarmi, in finale, quel senso dell’amicizia, che avevo, che ho, che avrò: “a questo servono gli amici, a ricordarsi a vicenda”.

Finii quelle trame con il tedesco Daniel Kehlmann ed il suo bellissimo “La misura del mondo”. C’erano riflessioni sui viaggi: “disse che … lui voleva viaggiare… è un desiderio che provano in tanti… e tutti se ne pentono. Perché? Perché non si ritorna mai” oppure che “chi viaggia in posti lontani, disse, apprende molte cose. Qualcuna anche su sé stesso”. C’era un bel pensiero sui ricordi: “i ricordi… non riportano una data. Le cose si conservano nella memoria e solo con la riflessione una persona riesce a sistemarle in un ordine temporale”. E c’era un cenno a quello che mai mi ha abbandonato, sin dalla giovinezza: “i numeri non sottraggono una persona dalla realtà, al contrario, gliela rendono più che mai chiara e manifesta”. Per terminare con una considerazione che mi riportava ai tempi della bioenergetica: “qualche volta bisogna accettare di non poter aiutare le persone”.

Passata la cinquantaseiesima boa, trovai una triade di scrittori italiani. Il primo, molto letterario, era Domenico Seminerio con il suo altrettanto letterario “Il manoscritto di Shakespeare”. Citazione di rimando erano quelle dalla “Cavalleria Rusticana”: “e se quando muoio me ne vado in paradiso, se non ci trovo te, neanche ci entro” e da “Molto rumore per nulla”: “quanto è meglio piangere di gioia che gioire del pianto”. Ma soprattutto mi colpì quella amorosa: “lei… gli diceva che c’è grande differenza tra amare e volere bene. L’amare è quello dei sensi, la passione che ti sconvolge; il voler bene è quello del cuore, il sentimento. Si può amare e non voler bene, e viceversa”.

Per continuare, ancora con i libri e con Francesco Recami ed il suo “Il correttore di bozze”: “coloro che sottolineano o evidenziano i libri, siano essi presi a prestito, i libri, ma io direi anche se sono di loro proprietà, dovrebbero essere arrestati, puniti severamente. E pene severe ci dovrebbero essere per quelli che i libri li spiegazzano, li scartabellano, li ungono”.

Per finire con Errico Buonanno, i libri, la scrittura e “L’accademia Pessoa”: “scrivere è brutto ma … noi non riusciamo a farne a meno, perché … l’arte è la prova che la vita non basta; perché c’è una felicità segreta nel complicarsi l’esistenza che, come tutte le felicità più pure, non vuole essere spiegata”.

La settimana successiva, un autore di hard-boiled americano Pete Dexter in “Un affare di famiglia” cominciava suggerendomi: “io credo che sia necessario aver sofferto per poter capire qualunque cosa”.

Continuando poi con la cilena Isabel Allende che nel bellissimo “Ines dell’anima mia” parlava di amore e di morte. Per il primo dava tocchi e pennellate sul rapporto con l’altro: “Juan mi faceva ridere, mi divertiva con canzoni e versi audaci, mi addolciva a baci. Gli bastava sfiorarmi per trasformare il mio pianto in sospiri e la mia collera in desiderio. Com’è accomodante l’amore, che perdona qualsiasi cosa!”; “nessuno amo Pedro più di me, nessuno lo conobbe meglio di me, ed è per questo che posso parlare con cognizione delle sue virtù, come poi sarò costretta a non tacere dei suoi difetti, che non erano lievi.”; “persino gli uomini più integerrimi e coraggiosi sono soliti deludere noi donne”. Finendo con la seguente considerazione: “sapevo che era innamorato di me, una donna lo sa sempre… probabilmente anch’io lo amavo – si possono amare due uomini contemporaneamente – ma tenevo per me questo sentimento”. Sulla morte sosteneva: “nessuno se ne va all’altro mondo prima che sia giunto il suo momento”, ma poi mestamente concludeva: “mi fa impressione constatare che ancora adesso, nonostante pensi intensamente alla morte, ho voglia di realizzare progetti… ho il sospetto che in questa vita non si vada da nessuna parte, tanto meno se si va di fretta: si cammina solamente, un passo alla volta, verso la morte”.

Termino infine con alcune citazione da “Le braci” il capolavoro di Sandor Marai. Sull’amore e i sentimenti: “il sentimento è più forte di noi, più fatale”; “un bel giorno siamo destinati a perdere la persona che amiamo. E se qualcuno non sopporterà il colpo peggio per lui: non è un uomo di carattere”; “certe passioni non si possono occultare”; “il fatto è che noi amiamo sempre i diversi da noi, e continuiamo a cercarli in tutte le circostanze… quando due esseri uguali si incontrano la si considera una fortuna, un dono della sorte”. Sul significato dell’esistenza: “l’uomo vive finché ha qualcosa da fare su questa terra”; “alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza”; “le cose non ci accadono così per caso… gli uomini contribuiscono al loro destino”.

E con lui e con una lunga citazione concludo i ricordi di questo mese: “in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo… è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà, la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi e panciuti – no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi né lodi. Dobbiamo sopportarci quali che siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i suoi difetti, il suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano contraccambiati, che le persone che amiamo on rispondano al nostro amore, o almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la superiorità intellettuale o morale di un’altra persona.”

Dove ricordo e mi ricordo quel brano sulla propria accettazione personale.