domenica 25 ottobre 2015

Maigret 1 - 25 ottobre 2015

Come avevo annunciato la settimana scorsa, ecco che, dopo la Signora del Giallo, mi accingo ad affrontare la lunga serie di scritti di Georges Simenon dedicati al commissario Maigret. Che è una figura, che insieme alla mia genitrice – lettrice, abbiamo sempre amato. Credo che in campagna ci siano ancora volumi e volumi delle vecchie edizioni mondadoriane. Ma ora è Adelphi che fa l’opera meritoria di ripubblicare “TUTTO” Maigret. Ed io faccio lo sforzo (ed il piacere) di leggerne e parlarne. Utilizzando i volumi riassuntivi, quelli che portano ognuno 5 romanzi del nostro commissario. E qui, appunto, cominciamo dal primo volume, dal primo apparire di Jules – Gino Cervi (perché per me sarà sempre e comunque Gino ad impersonarne i tratti). Quindi si trama un volume solo, ma con 5 romanzi. Avanti allora!
Georges Simenon “I Maigret – volume 1” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 16/02/2014– I: 16/05/2015 – T: 22/05/2015] - &&&&--  
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 719; anno 2013]
Con questo volume inizia una muova collaborazione in famiglia: io e mia madre abbiamo sempre avuto una passione, forse immotivata, di certo duratura, per le avventure del commissario Maigret. Tant’è che, ancora in casa, si comprarono decine di volumi tascabili delle sue inchieste. Passati tempi e spazi, oramai grandicelli (per non dire anziani, che sembra una brutta parola), eccoci che ci si ritrova quegli stessi libretti pubblicati da una casa editrice che più seria non si può. Da anni Adelphi ha deciso di pubblicare l’opera omnia del grande scrittore belga (che per inciso nasce un lontano 13 febbraio, come la mia amica Rosa, anche se di anni ben diversi). Non solo, ma, dal 2013, l’Adelphi decide di riunire, in cinquine, i volumi dedicati al Commissario (ed oltre a Gino Cervi, come dimenticare la musica in sottofondo di Luigi Tenco). Allora, io e la mia dolce genitrice decidiamo di riprendere la vecchia abitudine, e di acquistare questi volumi. Forse un po’ pesanti per la gracilità genitoriale, ma utili per ripercorrere uno dei miti dello scrivere del Novecento. Con una piccola griglia inziale in cui riporto i dati salienti di composizione dei romanzi (data e luogo di scrittura, data di prima pubblicazione).

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Pietro il Lettone
Settembre 1929 – Maggio 1930
Scritto a Nandy vicino a Morsang-sur-Seine (Seine-et-Marne) e a bordo de l'Ostrogoth, Delfzijl (Olanda)
Maggio 1931
Il cavallante della ‘Provvidenza’
Estate 1930
Scritto a bordo de l'Ostrogoth, Nandy vicino a Morsang-sur-Seine (Seine-et-Marne)
Marzo 1931
Il defunto signor Gallet
Estate 1930
Scritto a bordo de l'Ostrogoth, Nandy vicino a Morsang-sur-Seine (Seine-et-Marne)
Febbraio 1931
L’impiccato di Saint-Pholien
Dicembre 1930
Scritto a Beuzec-Conq vicino a Concarneau (Finistère)
Febbraio 1931
Una testa in gioco
Settembre 1930 – Marzo 1931
Scritto a Hôtel L'Aiglon, boulevard Raspail, Paris
Settembre 1931

“Pietro il Lettone”
[tit. or.: Pietr-le-Letton; ling. or.: francese; pagine: 11-163 (153); anno 1931]
È unanimemente considerato il primo romanzo in cui compare ufficialmente il commissario Maigret. Primo come scrittura (fu infatti scritto nell’inverno del 1929, a bordo dell’Ostrogoth, la barca su cui soleva vivere in quel periodo, in navigazione intorno a Stavoren in Olanda) anche se non primo come pubblicazione (uscì infatti solo nel maggio 1931, preceduto da altri 4 romanzi con protagonista Maigret). La scrittura risente molto dell’urgenza (della fretta, anche) con cui l’allora ventiseienne scrittore buttava giù i suoi romanzi. E del fatto che ancora non riusciva ad avere una vita che si fondasse “solo” sulla scrittura. Direi quindi, un romanzo acerbo, con alcune buone idee, ed alcune buone caratterizzazioni. Ma anche con salti di discorso e di trama, che solo alla fine, in quelle che poi diventeranno quasi dei classici del commissario, si ricostruisce e si completa. Anche Maigret è ancora discretamente lontano dal commissario maturo cui siamo abituati. Intanto ha solo 42 anni, è da poco insediato al Quai des Orfèvres, il luogo deputato della polizia parigina. Inoltre, si sposta continuamente, effettua di persona appostamenti e pedinamenti, affronta criminali a viso aperto, tanto che sarà anche ferito da un colpo d’arma da fuoco. Nel fisico, ha già qualcosa del futuro commissario, massiccio, quasi corpulento. Ma senza baffi (che per me sono il “tutto Cervi”). Si fa spesso mandare (quasi anticipazioni di futuro) da mangiare e bere dalla brasserie Dauphine (soprattutto birra). Inoltre, non ha ancora un contorno fisso e stabile di collaboratori. Presenti come “nomi” ma non ancora inserite nel racconto come squadra. C’è già un Torrence, che però viene ucciso a metà romanzo. C’è un pignolo Lucas, ma non interviene nelle indagini. C’è come aiutante un ispettore Dufour, che tuttavia non ricordo in future avventure. Infine, nell’ombra per quasi tutto il libro, c’è anche la signora Maigret. Che si sa saper cucinare, che si sa aspetta il marito a casa senza far troppe domande, e che compare nelle ultime due pagine, per curare il commissario ferito, e per mettere, con le sue domande, gli ultimi puntini ad una storia un po’ slabbrata. Intanto, non si capisce il perché i quel “Lettone” del titolo, laddove i personaggi principali, pur venendo dalle Repubbliche Baltiche, sono di Vilnius (in Lituania) o di Tartu (in Estonia). La storia inizia con una segnalazione dell’Interpol che avverte Maigret dell’arrivo a Parigi del pericoloso “Pietro il Lettone”. Maigret va alla Gare du Nord, individua il Lettone, ma si scopre subito che, dentro lo stesso treno, c’è un morto, con alcune caratteristiche simili al malfattore. Maigret rintraccia il bandito (anzi, il truffatore, perché di quello si occupa Pietro) all’hotel Majestic, mentre si intrattiene con il magnate americano Mortimer e la di lui consorte. Maigret, come in altre future occasioni, si piazza al centro della scena, osserva e non fa apparentemente nulla, mentre le azioni si evolvono. Prima scompare Pietro. Poi anche Mortimer. Maigret piazza Torrence a controllare l’albergo, rintraccia elementi di Pietro in un sordido albergo del quartiere ebreo (parentesi: come non godere di Parigi, quando si passeggia tra rue Rosier e rue du Roi-de-Sicilie?) dove pare sia accudito da Anna, una prostituta baltica. Poi fuori Parigi, in un luogo chiamato Fécamp, dove sembrerebbe che un uomo simile a Pietro abbia sposato una signorina del luogo, ma sia sempre in giro (tipo marinaio). Tornato a Parigi, scopre il ritorno di Mortimer, e si mette a seguirlo tra teatri e ristoranti con ballo. È qui che, inopinatamente, viene preso a rivoltellate e ferito. Ma il nostro è d’acciaio. Torna in taxi al Majestic, dove scopre che invece Torrence è stato ucciso. Si imbufalisce e va alla ricerca di Anna, la trova, gli mette l’ispettore Dufour alle calcagna, e cerca di scoprire chi sia il sicario che ha attentato alla sua vita. In un precipitarsi di avvenimenti, Anna uccide Mortimer e viene arrestata, la moglie di Mortimer fugge a Berlino, Maigret scopre delle foto interessanti a casa di Anna, torna a Fécamp dove trova un uomo di molto simile a Pietro. Qui si svolge l’agnizione: dalle foto Maigret (e noi con lui) aveva capito l’esistenza di due gemelli: Pietro il cattivo e Hans il succube. Hans che si rovina la vita con il bere, ma che è un abilissimo falsario, utilizzato da Pietro per le sue truffe. Anche ora che sta mettendo in moto un piano assai articolato: riunire molti truffatori sotto una regia comune, legata dai soldi del perfido Mortimer. Pietro ruba anche il primo amore di Hans, la bella Blanche che sposa in quel di Fécamp. Ma non Anna, che si innamora di Hans, che cerca di salvarlo. E quando Hans, stufo di essere succube di Pietro, lo uccide sul treno e ne “usurpa” l’identità, è Anna che cerca di convincerlo a desistere. Ma, avendo Mortimer subodorato l’intrigo, è Anna che decide di uccidere l’americano. Hans confessa tutto a Maigret, e si spara una pallottola in testa. Anna aiuta Maigret a trovare Pepito, il sicario che ha ucciso Torrence (e che verrà condannato alla pena capitale). Mentre Maigret fa capire nell’ultima scena alla signora Maigret, che, in qualche modo, ha dato dei suggerimenti ad Anna per evitarle la pena capitale. Come vedete, un inizio movimentato, con qualche caratteristica del Maigret matura, ma tuttavia ancora acerbo nella trama e nello svolgimento. Vedremo più avanti.
“Il cavallante della ‘Provvidenza’”
[tit. or.: Le charretier de "La Providence"; ling. or.: francese; pagine: 165-293 (129); anno 1931]
Siamo al secondo romanzo scritto con protagonista il nostro commissario. Scritto durante l’estate del 1930, sempre a bordo dell'Ostrogoth presso Morsang-sur-Seine, una cittadina ad una cinquantina di chilometri a sud di Parigi., è anche il terzo ad essere pubblicato, nel marzo del 1931. Il primo fatto che salta agli occhi è proprio l’ambientazione. Simenon sta viaggiando lungo la Senna, utilizzando canali ed altre vie d’acqua. E questo è tutto un racconto (o romanzo breve) che si svolge lungo gli argini e le chiuse che costellano la navigazione acquatica francese. Anche se l’azione viene ambientata nei dintorni di Épernay, che si trova sulla Marne e non sulla Senna, e sta a 150 chilometri ad Est di Parigi, più vicina a Reims che alla capitale. Maigret continua ad essere caratterizzato dall’azione sul posto, piuttosto che dalle riflessioni e dalle discussioni. Tant’è che lo troviamo spesso a percorrere chilometri in bicicletta (memore dei suoi inizi di flic à vélo, come direbbe uno ben informato). Secondo elemento da notare, è la presenza di quello che diventerà uno degli aiutanti fissi del commissario. Uno dei suoi moschettieri, come argutamente scrive una maigrettiana in un interessante sito “Tutto Maigret”: infatti si introduce nella trama, anche se marginalmente, l’ispettore Lucas. Qui si dice solo che è un bravo poliziotto che lavora quasi solo per Maigret, e che lo aiuta in alcune ricerche, e ce ne vorrà prima che ne diventi il più stretto collaboratore. Ma torniamo al romanzo, forse uno dei più scarni di questo primo periodo, ed apparentemente con poca suspense. Mentre una serie di chiatte ed uno yacht attraversano le chiuse del fiume Marne, viene scoperto il cadavere di una donna, nascosto sotto la biada della stalla dei cavalli della chiusa numero 14. Cavalli che sono importanti, in quanto, durante  l’attraversamento delle chiuse sono loro che trainano le diverse barche. Così come sono importanti le persone che guidano i cavalli (“charretier” in francese, che, giustamente, non va tradotto in italiano con “carrettiere”, che sarebbe colui che guida i carri, ma con “cavallante”, generico termine per chi ha a che fare con gli equini). Chiamato Maigret per affrontare il caso, nella prima parte, quasi a voler creare l’atmosfera, si parla solo di chiuse, barche e simili, senza scoprire chi sia la donna. Poi la svolta, arriva lo yacht ed il suo padrone, sir Walter Lampson, riconosce nella morta la sua terza moglie, Marie Dupin. Così come fa l’altro uomo della barca, un truffatore di piccolo calibro, Willy Marco. Maigret è molto contrariato sia dall’alterigia di sir Walter, sia dal suo poco coinvolgimento emotivo. Cose che si chiariscono, scoprendo che nella barca è presenta tal Gloria Negretti, amante del lord. E Marie lo era di Willy. Mentre le barche vanno su e giù, e così Maigret (a piedi, in bici, in taxi), poco succede. Qualche agnizione, un cappello, e poco altro. Sempre senza capire come mai Marie sia scomparsa per tre giorni prima di essere uccisa, perché aveva affidato a Willy una collana da vendere a Parigi e come mai non si trova di lei traccia presso nessun comune francese. Finché non viene ucciso anche Willy. Solo a questo punto sembra mettersi in moto il cervello del nostro, che ricostruisce il percorso delle varie barche, scoprendo che spesso vicino allo yacht c’era la “Providence”. Che cerca. Dove trova il cavallante Jean, apparentemente muto. Maigret comincia a fare domande insidiose. Ed il giorno dopo Jean cade o si butta o viene spinto in una chiusa al passaggio di una chiatta. Non muore ma è ferito a morte. Con le impronte digitali, Maigret riceve da Parigi la storia di Jean. Dottore squattrinato si innamora e sposa la bella Céline Mornet, insieme alla quale affretta la morte di una zia ricca. Scoperto viene mandato per 15 anni al bagno penale in Guyana, dove si abbrutisce diventando muto e solingo. Al ritorno Céline è scomparsa, e Jean inizia a fare il cavallante. Ma il caso vuole che lo yacht affianchi la Providence, e Jean scopra che Marie non è altro che la sua Céline. Tenta di convincerla a tornare con lui, ma dopo tre giorni capisce che il vecchio amore era tutto un inganno e la uccide. Così come poi si vede costretto ad uccidere Willy che ne aveva subodorato le mosse. Poi, quando Maigret gli fa capire di essere sulle sue tracce, non avendo altre risorse, è lui che si butta in acqua per morire. E morirà, ma solo dopo che Maigret avrà ricostruito la storia. In queste due prime avventure, già vediamo alcune costanti, ed una ripetizione. È sempre Maigret che, verso la fine, in qualche modo, ripercorre le varie tappe dell’inchiesta chiarendo (o cercando di chiarire) i punti oscuri. Per ora gli assassini sono anche loro delle vittime delle circostanze, facendo intravedere i “lati umani” che tanto caratterizzeranno le opere di Simenon. Infine, in entrambi i casi, per non finire nella giustizia umana, gli assassini pongono fine alla loro vita.
“Il defunto signor Gallet”
[tit. or.: Monsieur Gallet, décédé; ling. or.: francese; pagine: 295-443 (149); anno 1931]
Anche questo romanzo viene scritto a bordo dell’Ostrogoth che navigava sempre verso Morsang-sur-Seine, intorno all’estate del 1930. Eppur tuttavia, a parte il racconto in sé, la sua importanza storica risiede nel fatto di essere il primo romanzo del commissario ad essere pubblicato nel febbraio del 1931. Si comprende inoltre, dalla trama e dalla struttura, come abbia avuto subito un discreto successo, consentendo a Simenon di gestirne l’onda, pubblicare i due già scritti ed avviarsi verso il “corpus” generale delle avventure del commissario. Che qui agisce da solo, e nuovamente in trasferta, come spesso in questi primi libri. Pur essendo di stanza al Quai, è spesso i giro, come in questo caso, dove, essendoci una concomitanza di avvenimenti che impegnano le forze di polizia, alla morte del signor Gallet, è proprio Maigret che deve recarsi sul posto a Sancerre, per svolgere le indagini. Intanto si reca dalla vedova, e comincia ad avere una strana impressione. La vedova è dolente ma non distrutta dal dolore. Anche perché il signor Gallet doveva essere a Reims e non a Sancerre. Abbiamo anche un bel contrasto tra la vedova, di alto lignaggio, e Gallet, misero rappresentante di articoli da regalo. Ancora più strana la morte, dovuta ad un colpo di pistola, che ha distrutto una parte del viso di Gallet, ed una pugnalata al cuore. Tanti sono i misteri cui ci si trova di fronte. Anche perché Maigret scopre subito che sono 18 anni che Gallet si è licenziato dalla ditta pe cui lavorava, pur continuando a girare la provincia francese. Inoltre, negli alberghi dove alloggia, si fa chiamare Clèment. Gli unici due agganci sono un signorotto locale, Tiburce de Saint-Hilaire che sembra frequenti, pur saltuariamente il signor Gallet, ed un fantomatico Jacob che aleggia misteriosamente nell’ombra. Anche l’incontro con il figlio è di poco aiuto. Un figlio che ha la prosopopea della madre, che ha un’amante da diversi anni, con la quale cerca di mettere da parte dei soldi per andare a vivere nel Sud della Francia, lontano da tutta la famiglia Gallet. Figlio che casualmente era anche lui a Sancerre, proprio con la sua amante. Simenon ha un facile gioco, anche se troppo scoperto per noi smaliziati, cercando di indirizzare i sospetti proprio sull’amante. E forse sul figlio, quando si scopre che Gallet aveva fatto un’assicurazione sulla vita, lasciando un bel gruzzolo alla vedova. Ma dove trovava i soldi, il senza lavoro Gallet? Ricordo che siamo alla fine degli anni Venti, ancora sull’onda della fine della Prima Guerra Mondiale, e non ancora sopiti sono in Francia i sentimenti monarchici. E su questi, da anni lavora Gallet, spillando soldi ai cosiddetti “legittimisti”, e con questi assicurandosi un po’ di tranquilla vita, anche se non proprio onesta. Maigret scopre, con i suoi metodi di indagine, la natura di Jacob, che poi non è che un tramite di denaro tra Gallet ed una persona che lo ricatta (anche se non in modo pesante), e che si scopre essere proprio l’amante del figlio. Mentre prosegue l’indagine, un suo collaboratore viene preso di mira da due colpi di pistola, proprio nella stanza d’albergo dove è morto Gallet. La cui natura non convince Maigret. Non riesce a risalirne il passato, e questo in genere è un modo classico del nostro commissario per risolvere le indagini. Finché, proprio scavando nei passati di tutti, arriva alla catarsi finale. Gallet in Indocina aveva scoperto la possibilità di fare denaro nel caso ritrovasse un erede della famiglia Saint-Hilaire. Cosa che fa e con 30.000 franchi si scambia con il derelitto Tiburce, divenendo lui il marchese ed erede della fortuna. Tiburce diventa Gallet, si innamora della signora altolocata, e con i soldi del vero Gallet aiuta il suocero nella pubblicazione di un giornale monarchico. Alla morte del suocero, con gli indirizzi dei monarchici, comincia la sua vita di piccolo truffatore. Ma è anche malato di fegato, per cui fa l’assicurazione di cui sopra, ed usa la truffa per pagare. E per pagare il ricatto, fino a che non gli viene chiesta una somma che non ha. Allora usa l’unica sua abilità, quella di riparare orologi, per mettere su un meccanismo che fa sparare una pistola come fosse una suoneria d’orologio. Ma a metà il meccanismo si inceppa, e per finire il suicidio, prende un pugnale e se lo spinge a forza nel cuore. Peccato che una settimana dopo il meccanismo riprenda e spari quei due colpi casuali, che però metteranno Maigret sulla strada giusta. Il tutto spiegato al vero Gallet che continua la sua vita di nobiluomo campagnolo. A questo punto, ed è un altro dei motivi del successo di questa prima uscita, Maigret è di fronte ad un dilemma: svelare il suicidio e la truffa, facendo perdere i soldi alla vedova o insabbiare tutto? Beh, questo non ve lo dico. Ma in questa prima pubblicazione c’è tutto del Maigret maturo (forse solo un po’ troppa azione, ma ci può stare, che il nostro ha ancora “solo” 45 anni) il ragionamento, l’empatia, l’accumulazione di indizi, il disvelamento finale. E sono d’accordo con il pubblico, e quindi con il raffinamento dell’opera. Nei primi due romanzi la scrittura è ancora alla ricerca di una strada. Qui sembra averla ben imboccata.
“L’impiccato di Saint-Pholien”
[tit. or.: Le pendu de Saint-Pholien; ling. or.: francese; pagine: 445-577 (133); anno 1931]
Con la scrittura di questo quarto romanzo, Simenon finalmente dopo mesi, scende dalla sua barca, e si avvia a scrivere in quel di Bretagna, e precisamente a Concarneau, che si affaccia sull’Oceano, nella villa Gloaguen (nome bretone per noi viaggiatori legato a Philippe il fondatore della “Guide du Routard”). E con fortuna, subito dopo il precedente Gallet, è questo impiccato che vede le stampe. Un romanzo in cui l’inchiesta, il poliziesco c’è e non c’è. Tutto nasce dalla curiosità di Maigret, che vede uno strano tipo alla stazione, male in arnese e con una strana valigia, benché dozzinale. Lo segue incuriosito, che il tipo avvolge trentamila franchi in un pezzo di carta e li spedisce. Compra allora una valigia analoga, opera una sostituzione tra le due, e poi con il malandato prende un treno con il quale si recano a Brema. Dopo il poveraccio, scoperta la sua non-valigia, pensa bene di spararsi un colpo in testa. Maigret, allora, è preso da sensi di colpa, e comincia una sua non autorizzata indagine per capire chi sia il tipo ed il perché del suo gesto. A Brema viene avvicinato dal ricco Van Damme, un belga chiacchierone e scarsamente simpatico, che sembra avere a che fare con il morto. Ritornato a Parigi, si fa viva la moglie del morto, che dice si chiami Louis, che si sono sposati sei anni prima, hanno un figlio, ma che Louis è sempre stato strano. Male in arnese, ma colto e capace di scrivere bene. Dedito a umili lavori di meccanica, con periodiche crisi di alcolismo. Tanto che due anni prima, a valle di una crisi, e dell’incauta apertura da parte della moglie della famosa valigia, Louis va via e non si fa più vedere. Gli indizi portano Maigret a Reims, dove era stato visto Louis bere da svenire e poi allontanarsi con il ricco Belloir. Che Maigret va a trovare, trovandolo insieme ad uno squattrinato incisore belga, Jef, ed all’esimio Van Damme. Nulla si chiarisce, se non che, tornando verso Parigi, Van Damme cerca di far annegare in un ruscello Maigret, che però si salva. Continuando le indagini, sempre sommerse, Maigret scopre un altro tassello: si fa vivo il fratello del morto, che dice chiamarsi Lecocq d’Arneville, che il morto si chiama Jean e che sono di origine belga, in particolare di Liegi. Qui Simenon fa un omaggio alla sua città natale, spostando ben presto l’azione nella cittadina belga, dove si trova sempre tra i piedi l’esimio Van Damme. Dove scopre che Jef, oltre alle incisioni, ha una stanza piena di disegni di impiccati, quasi ne fosse ossessionato. Prova, il nostro commissario, a trovare traccia di qualche fatto oscuro, ma al giornale dove si rivolge è appena passato Van Damme. Che commette l’errore di strappare il giornale del febbraio di nove anni prima (quasi dieci, visto che l’azione si svolge a novembre). Errore fatale, che consente a Maigret di trovare le tracce di un suicidio, avvenuto proprio in quel febbraio: un impiccato nella cattedrale di Saint-Pholien. Piccolo inciso, la chiesa, storica per Liegi e costruita nel 1100, è dedicata al monaco irlandese Foillano di Fosses, che nel VII secolo partì dalla terra natia per cristianizzare la piana belga. Chiesa che venne poi rasa al suolo nel 1910 per permettere una migliore urbanizzazione della città, e ricostruita in stile neo-gotico pochi anni dopo (e Simenon da buon ligeois ne sa e ne parla). Ma l’impiccato, il piccolo Klein, era alto poco più di 1,50, e certo non poteva portare i vestiti della famosa valigia scambiata. L’ultimo colpo di genio di Maigret è seguire le tracce di Klein, trovare un atelier dove Klein, studente d’arte, aveva vissuto. E dove ritrova Van Damme, Belloir e lo spaurito Jef. Sarà quest’ultimo a cedere, e raccontare la storia di loro tre, di Klein, di Jean, e del ricco Mortier. Del loro ardore giovanile, delle follie che si facevano, anche contrapponendo i tre di buona famiglia (Van Damme, Belloir e Mortier) ai tre squattrinati. Giovani, ventenni, esaltati, del tipo “quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo”. Fino al dramma, dove in un Natale alcolico, Jef uccide quasi per gioco Mortier. Da qui i drammi: Van Damme e Belloir si ritirano nel loro mondo, facendo fortuna. Klein non resiste alla tensione e si impicca. Jef si rintana nel suo ruolo di incisore, mette su famiglia, e sforna figli a getto continuo. Jean cambia vita e nome, non mancando però di chiedere soldi ai ricchi sodali, non per usarli, ma per tener viva la fiamma del loro peccato. Tanto che poi i soldi, quando li ha, li brucia. E Jean ha buon gioco finché ha il vestito del morto a memento. Perdutolo, o meglio sottrattolo da Maigret, non vede più prospettive e si spara. E manca solo un mese al decennale, momento in cui, per le allora leggi francesi, il delitto va in prescrizione. Qui, Maigret è di nuovo posto davanti ad un dilemma: denunciare i colpevoli, con conseguenti arresti e rovine di molte vite, o passare tutto nel silenzio, ora che i superstiti hanno nuove vite e soprattutto figli? Lascio sospeso l’interrogativo, cui ognuno risponderà come meglio crede. Vorrei solo sottolineare che nei due primi romanzi pubblicati, Maigret è sempre alle prese con dilemmi che possono cambiare la vita ad altre persone. Forse è questo, piuttosto che l’acume poliziesco, la prima spinta al successo. Il pubblico si trova di fronte ad un commissario che non solo e non tanto risolve intricate situazioni. Ma che si trova, sempre, di fronte a problemi morali. Un ultimo inciso, compare velocemente, ma senza troppa presenza, il fido Lucas, che impareremo a conoscere in futuro. E come scrivevo alla fine della trama precedente, la strada che sta imboccando Maigret è di sicuro interesse per il successo del personaggio.
“Una testa in gioco”
[tit. or.: La tete d’un homme; ling. or.: francese; pagine: 579-719 (141); anno 1931]
Finalmente, dopo tanto girovagare, Simenon si ferma un po’ a Parigi, dove, mentre risiede all’Hotel “L’Aiglon” in boulevard Raspail (tra il settembre ’30 ed il marzo ’31) scrive la quinta avventura del commissario. Un’avventura tutta parigina questa volta, in cui compaiono tutti i primi aiutanti di Maigret: il fido Lucas, Janvier il pedinatore e Dufour, quello che sembra più vicino al commissario in questa fase, ma che presto andrà per altri lidi (anzi, dopo queste prime apparizione, scompare per circa 20 anni). E tuttavia questo è un testo più difficile degli altri, meno agevole. Tutto giocato sui nervi dei contendenti, come spesso nell’epoca del Maigret maturo. Non è un caso, quindi, che sarà solo il nono libro ad uscire (sappiamo tutti che Simenon era uno scrittore a getto continuo, capace di scrivere un libro in meno di un mese, ma questo, scritto in febbraio, proprio per la difficoltà dell’intreccio, non vedrà le stampe prima del settembre dello stesso anno). Dov’è comunque tutta questa difficoltà che ritarda l’uscita del libro? C’è un efferato assassinio di una signora americana e della sua dama di compagnia. Ci sono indizi che portano ben presto all’arresto di un aiutante giardiniere, il disadattato Joseph Heurtin. Che Maigret arresta e che un rapido processo viene condannato al patibolo. Ma il nostro commissario è dubbioso: perché Joseph uccide quelle sconosciute? Se a scopo di rapina, perché non ruba nulla? E come fa in meno di due ore a tornare apparentemente a piedi da Saint-Cloud al suo appartamento parigino (ho controllato su Google Maps, ci vogliono almeno 3 ore seguendo le indicazioni di Simenon)? Maigret non è convinto, anche perché Joseph non parla, non dice nulla. Come sbotta ad un certo punto il nostro, “Heurtin … o è un pazzo o è innocente”. Allora Maigret rischia il tutto per tutto. Convince un giudice a far “evadere” Joseph ed a seguirlo con i suoi fidi, per appunto provarne l’innocenza, di cui è convinto. Manovra pericolosa, che, per accidenti vari, Joseph sfugge a Dufour, e Maigret è sull’orlo delle dimissioni. Unico debole indizio, una lettera manoscritta inviata ad un giornale, che il fido Moers (quello ferito durante il romanzo del signor Gallet) decifra come proveniente dal bar “La Coupole” (e chi sa di Parigi, sa quanto sia storico questo bar). E lì si installa Maigret, vedendo passare, là sul boulevard Montparnasse, il “tout-Paris” degli anni Trenta. È soprattutto attratto dallo straniero Radek, che in un angolo beve solo cappuccini. E si meraviglia quando il fuggiasco Joseph si installa davanti al bar, come ad aspettare qualcuno. Maigret pensa sia la famiglia Crosby, nipoti ed eredi della defunta, anche loro al bar con la vamp Edna. Ma non è così. Anzi, sembra proprio Radek l’obiettivo. Una volta comunque ritrovato il bandolo di Joseph (che non verrà più mollato da Janvier) e quindi evitate le dimissioni, si instaura una lotta di nervi tra Maigret e Radek. Perché il cecoslovacco stuzzica il commissario, dicendo e non dicendo. Lo invia su false piste, cui Maigret non abbocca. Scopriamo anche che Radek ora fa la bella vita, spendendo e spandendo soldi che una ricerca in banca fanno provenire dai Crosby. Dimenticavo: anche l’arma del delitto non si trova. E cercandola di nuovo sul luogo del delitto, nella casa ormai vuota, Maigret si imbatte in Crosby che, credendosi perduto (e non si sa perché) si toglie la vita. Maigret allora si mette alle costole di Radek, non lo lascia più, intercetta lettere in cui Radek convoca la signora Crosby ed Edna (che poi era l’amante del suicida) nella “casa della morte”. E proprio in questa occasione Maigret scombina i piani di Radek, evitando (non vi dico come) venga commesso un nuovo delitto. Dicevo difficile per il pubblico, perché tutta questa lotta di nervi finisce con la confessione finale di Radek, che, sentendosi uomo superiore (tipo superuomo di Nietzsche) e vedendosi surclassato da Maigret confessa tutti i suoi percorsi delittuosi. E sono istruttivi, per il modo in cui Maigret arriva alla soluzione e per le modalità di vita e di azione di Radek. Un piacere che lascio a voi esimi lettori, e, spero, estimatori di questo scrittore la cui maggiore abilità è proprio questa: inventare storie a tamburo battente. Vedremo cosa ci riserveranno i prossimi volumi.
Un ottobre che finisce in crescendo, sperando che i guai fisici di tutti siano passati, e che tutti si torni in gamba come prima. Si sta finendo anche l’organizzazione del prossimo viaggio in India, per cui, con questa trama vi lascerò “soli” per qualche settimana.

domenica 18 ottobre 2015

La Signora del Giallo 1 - 18 ottobre 2015

Comincia con questa lunga trama una lunga visitazione dei fondamenti del giallo. Ho fatto un percorso vario e, personalmente, approfondito su due dei tanti “maestri” (o “maestre”) del genere: Agatha Christie e Georges Simenon. In questa prima trama prendiamo in esame la grande scrittrice britannica, dalla giovinezza avventurosa e poi dalla facile penne e dalla grande inventiva. Ho cercato anche di mantenermi il più cronologico possibile, proprio per evidenziare l’evoluzione della scrittura e della resa degli scrittori. Non è un caso quindi che questi primi cinque scritti (data la massa di volumi che i nostri hanno scritto, per non tenervi occupati per anni, prendo in esame cinque libri per volta) hanno tutti una più o meno buona sufficienza, meno (e come non aspettarselo) l’unico libro di racconti.
Agatha Christie “Poirot a Styles Court” Mondadori s.p. (biblioteca di Tolemaide)
[A: 07/05/1996 – I: 30/04/2015 – T: 02/05/2015] - &&&
[tit. or.: The Mysterious Affair at Styles; ling. or.: inglese; pagine: 224; anno 1920]
Sfruttando una duplice occasione ho ripreso in mano e letto a tamburo battente il primo libro della grande giallista inglese. Le due occasioni sono la necessità di svuotare la libreria di Tolemaide, ad altre destinazioni avviata, recuperando libri per me e per la mia genitrice-lettrice. Il secondo e più prosaico avvenimento è l’inizio di una lunga sequela di libri dedicati ad Agatha Christie, in quasi totalità provenienti dall’esimia collana pubblicata dal Corriere della Sera. Ma come privarsi del piacere di ripercorrere almeno le tappe salienti della grande signora del giallo, capostipite e progenitrice ideale di una lunghissima schiera di scrittori e scrittrici. E non è un caso che in parallelo vada spulciando nell’enorme produzione del padre di Maigret, che, casualmente, vede muovere i primi passi un po’ dopo Poirot, ma parallelamente a Miss Marple, come vedremo in seguito. Pur se edito solo nel 1920, questo romanzo viene scritto quattro anni prima, a seguito di una scommessa di Agatha con la sorella, se fosse stata capace di scrivere un libro pubblicabile. E gli echi del 1916, si sentono, anche se indirettamente. Poirot infatti è belga, e fugge dalla patria durante l’invasione tedesca dell’inizio della prima guerra mondiale. Ispettore in patria, si trova qui a far da spalla alla polizia inglese, per poi, a valle di questa prima uscita, a fare per una serie di anni da investigatore privato. In questa prima uscita viene tirato in ballo dal suo amico, il capitano Arthur Hastings che soggiorna a Styles Court (maniero realmente esistente che riprende il nome della prima casa in cui visse la scrittrice con il suo primo marito) invitato dal suo amico John Cavendish. Una notte la matrigna di John, Emily Inglethorp muore avvelenata e Hastings chiede aiuto a Poirot. Le indagini di Poirot restringono ben presto il campo tra il marito fedifrago, Alfred, ed il figliastro John. E soprattutto sul primo si accentrano i sospetti: viene accusato da Evelyn, la dama di compagnia di Emily, ed inoltra si scopre che potrebbe aver acquistato della stricnina nel villaggio. Ma non avrebbe avuto modo di somministrarlo alla moglie, come argutamente dimostra Poirot. La polizia allora appunta i sospetti su John, il maggior beneficiario del testamento. Alla fine del romanzo Poirot dimostra, rovesciando le premesse, l’innocenza di John e la colpevolezza di Alfred. Questi ha organizzato il tutto con l’aiuto di Evelyn, sua cugina nonché sua amante, quindi solo in apparenza la sua nemica giurata. La coppia ha utilizzato uno stratagemma chimico mescolando bromuro e stricnina, il tutto risultante in una miscela letale, ma a scoppio ritardato. Il piano della coppia prevedeva che Alfred fosse incriminato con delle false prove, che potevano essere facilmente confutate in tribunale. Una volta assolto, grazie ad un cavillo della legislazione inglese, non avrebbe potuto essere processato per lo stesso reato una seconda volta, anche se fossero state trovate delle vere prove contro di lui. Come spesso nelle prime novelle da lei scritte, la storia è narrata in prima persona. Questa volta dal capitano Hastings, che per anni collaborerà con Poirot. Inoltre è piena di elementi che diventeranno archetipi della letteratura gialla: l’azione si svolge in un luogo grande ed isolato, ci sono almeno sei o sette possibili sospetti, ognuno che nasconde elementi che potrebbero far pendere la bilancia della giustizia da una parte e dall’altra, ci sono false piste e colpi di scena a sorpresa. Pur se ancora con scrittura acerba, dovuta all’età (ha 26 anni quando lo scrive) ed imbevuto di modi tipici dell’epoca ma forse ormai superati, mantiene a quasi cento anni di distanza la capacità di tenerci vicini alla pagina, aspettando il prossimo colpo di scena. O lo scioglimento della vicenda, che arriva proprio in ultimo, e che, per come viene posto, prende un po’ in contropiede. Che dire, un degno inizio di una luminosa carriera.
Agatha Christie “Il mistero del Treno Azzurro” Corriere della Sera 10 euro 6,90
[A: 07/10/2014– I: 01/05/2015 – T: 03/05/2015] - &&& e ½
[tit. or.: The Mystery of the Blue Train; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 1928]
Dato che Mrs. Christie ha scritto 66 romanzi ed un numero imprecisato di racconti, non ne andremo a spulciare tutti, ma solo la trentina della collana. Quindi, dopo il doveroso omaggio al debutto su carta di Hercule Poirot, saltiamo qualche episodio, tra cui il magistrale “L’assassinio di Roger Ackroyd”, che fortunatamente ho letto prima della nascita delle trame. Altrimenti sarebbe forse l’unico di cui non spenderei più di una parola: leggetelo (che io non ve ne parlerò mai)! E ci ritroviamo sul treno blu che collega Parigi alla Costa Azzurra, ed a tutti i suoi misteri. Qui per la prima volta ci troviamo ad un narrato in terza persona, ed anche la storia, così rappresentata, scorre meglio. Ci vengono presentati gli attori: un miliardario americano che compra un favoloso rubino che regalerà alla figlia, figlia sposata ad un arrivista (forse poi non tanto malvagio, certo scapestrato), il di lei marito, appunto, con tanto di amante senza scrupoli, un ladro internazionale che si aggira per rubare il rubino, un “gagà” che ruba lo stolto cuore della di sopra citata figlia, il segretario del miliardario, sempre un po’ troppo presente, una trentenne ereditiera poco adusa ai soldi (che guarda caso viene da St. Mary Meads, che sarà teatro delle gesta di Miss Marple). Per fortuite coincidenze (Rufus il miliardario convince la figlia Ruth a divorziare dallo scapestrato Derek Kettering, questa decide di raggiungere Armand l’amante, il marito li segue), quasi tutti gli attori, inclusa l’ereditiera Katherine ed un “pensionato” Hercule Poirot si ritrovano sul “Treno Azzurro” che da Parigi li porta in Costa Azzurra. Dove arrivano tutti, meno Ruth, che viene trovata uccisa, ed il rubino, che viene rubato. Come al solito, la scrittrice si dilunga in descrizioni e digressioni, che sembrano talvolta servire ad allungare il brodo del racconto, mentre, a ben vedere, sono utilizzati per disseminare di indizi la narrazione. Così che il lettore attento può cercare di stare al passo con Poirot, e magari provarsi a bruciarlo nel finale. Io avevo ipotizzato il possibile colpevole, ma non ne avevo prove valide, così ho proseguito imperterrito a seguire i ragionamenti di Poirot. E della polizia, che è convinta della colpevolezza di Derek, che non sa spiegare i suoi movimenti sul treno, dove viene però visto da Katherine entrare nello scompartimento della morta, e dove viene trovata una sigaretta marcata con una “K”. C’è poi un misterioso uomo, che la cameriera di Ruth dice aver visto con lei a Parigi, ma che poi scompare. Una volta esaurite le possibilità di ragionamento, Poirot convince tutti, anche Rufus ed il segretario Knighton, a riprendere il treno e ripercorrere il viaggio da Parigi a Nizza. Una volta arrivati a Lione, tuttavia, su ordine di Poirot, la polizia, nascosta in uno scompartimento comunicante con il suo, arresta Knighton. L’investigatore rivela, dunque al miliardario la reale versione dei fatti: ad aver assassinato Ruth non era stato altri che Knighton con la complicità della cameriera, il cui vero nome è, infatti, Katy Kidd, ex attrice e Knighton è, in realtà, un efferato criminale noto con lo pseudonimo di “marchese”. Desideroso di appropriarsi dei rubini, Knighton, aveva progettato l’assassinio di Ruth. Durante il viaggio era, dunque, salito sul treno in una delle numerose fermate che precedono Parigi, aveva ucciso Ruth e aveva prelevato i rubini, per poi scendere. Successivamente, la finta cameriera, vestita come la signora Kettering, aveva fatto credere che Ruth fosse ancora viva. Giunta, poi, a Lione, vestita da uomo, era scesa dal treno e ne aveva preso un altro per arrivare a Parigi. Interrogata dalla polizia, la donna, aveva poi, inventato numerosi dettagli sullo svolgimento dei fatti e il complice aveva, successivamente, confermato il suo alibi. Peccato che la “K” della sigaretta si riferisca a quelle fumate da Knighton. Non particolarmente danneggiato da una lunghezza forse non giustificata, la scrittura è qui più scorrevole, più coinvolgente. E l’idea di fare tutta una descrizione, e poi ripercorrerla, con Poirot che spiega passo dopo passo gli avvenimenti è degna delle migliori regole del giallo. Alla fine una lettura onesta, un po’ sopra la media, anche se comincio a pensare che questi primi romanzi siano un po’ troppo datati. Vedremo.
Agatha Christie “I Sette Quadranti” Corriere della Sera 27 euro 6,90
[A: 05/02/2015– I: 07/05/2015 – T: 11/05/2015] - &&& -
[tit. or.: The Seven Dials Mystery; ling. or.: inglese; pagine: 286; anno 1929]
Dopo la lettura di due libri con Poirot, ed in attesa di leggere il primo libro con Miss Marple, ecco un nuovo giallo con dei protagonisti diversi. Il personaggio investigativo, che compare qui ed in alcuni altri scritti, è il sovraintendente Battle, anche se poi in questo libro la parte centrale di ricerche e scoperte è affidata a Lady Eileen Brent detta “Bundle” (fagotto, nel senso che non bada troppo al vestire). La trama, quando non ci sono i due eroi, sembra abbastanza complicata, forse per tener desti i lettori. Ma la complicazione invece va un po’ a scapito della chiarezza, anche se, ed in questo Agatha è maestra, alla fine la trama si svela nella sua pienezza. Qui siamo di fronte ad un mistero di spionaggio e di furto di informazioni, che coinvolge il Ministero degli Esteri, e tutta una serie di personaggi che vi ruotano intorno. C’è Bundle appunto. Poi c’è il giovane attaché Bill, due altri giovani a loro vicini, Gerry e Ronny; la sorellastra di Gerry, Loraine, ed il giovane sfaccendato ma pieno di risorse Jimmy. Ma prima di arrivare al nocciolo del problema si dovranno affrontare molte pagine. Durante un lungo week-end nel maniero di Chemnys, il giovane Gerry, che si alza sempre tardi, è vittima dello scherzo degli orologi: gli vengono posti dagli otto amici, otto sveglie puntate alla mattina presto. Questo delle sveglie è il motivo che da origine al titolo, in quanto “dials” significa anche quadrante dell’orologio, ed in seguito vedremo che è anche il nome di una strana confraternita. Peccato che al mattino Gerry non si svegli affatto, in quanto deceduto per un eccesso di un sonnifero (il cloralio, che per gli amanti della storicità, era la droga cui si era assuefatto Dante Gabriele Rossetti). Tornata nella sua magione, Bundle scopre una strana lettera di Gerry alla sorella dove si parla di “Sette Orologi”. Vuole parlarne all’amico Bill, ma per strada si imbatte in Ronny, moribondo per un colpo di fucile, che spirando parla anche lui di sette orologi e di Jimmy. Bundle allora si reca a Londra per parlarne con Jimmy, dove incontra anche Loraine. I tre decidono di indagare sulle morti misteriose, e Bundle inizia parlandone con Bill, che le rivela i “Sette Orologi” siano un covo malfamato londinese. Bundle ne parla anche con il poliziotto Battle, che non le è d’aiuto. Andando nel night-club, Bundle riconosce il portiere come uno dei camerieri presenti al party, poi scomparso, e ricattandolo si fa nascondere nella stanza dove si riuniscono strani individui, guidati, pare, dal magante russo Mosgorovsky. Dove ascolta i presenti concertare qualcosa di losco, ma, nascosta, non li può vedere. Quelli che si capisce è l’interesse di tutti per un party organizzato dal Ministero degli Esteri, dove un tale Eberhard dovrebbe mostrare i progetti di una mirabile invenzione innovativa in campo bellico, per rendere meno costosi e più affidabili gli aeroplani. Bundle e Jimmy pianificano quindi il loro intervento, non invitati alla presentazione. Dove ci sono tutti, compressa una misteriosa contessa ungherese, Bill, nonché il Sovrintendente Battle mascherato da cameriere. Jimmy e Bill, intuendo che il ladro ha solo una notte per agire, decidono di fare guardia a turno. Mentre Bill dorme, Jimmy sente un rumore e va nella salone dove dovrebbero stare i piani segreti. All’esterno del salone Bundle che cerca anche lei di fare la guardia, si imbatte in Battle, che la convince a ritirarsi. Ma tornando in stanza, lei scopre che Jimmy è scomparso. Si mette alla ricerca di Bill, e si accorge che anche la contessa è scomparsa. A quel punto si odono degli spari. Anche Loraine si stava avvicinando alla magione, sempre nell’intento di aiutare nell’indagine. Ed udendo i colpi si china e scopre un pacco misterioso. Lo prende e scappa, ma si imbatte in Battle, e tutti insieme accorrono nella biblioteca, dove trovano Jimmy colpito da un colpo di pistola al braccio. Nella stanza c’è anche la contessa svenuta. La formula scomparsa, ma è ritrovata da Loraine nel misterioso pacco del giardino. Dopo alterne vicende, in un altro party, la formula viene finalmente rubata, ma Bundle sembra vicina a qualche scoperta. Bill allora va da Jimmy svelando misteriosi indizi inviatigli da Ronny prima di morire. decidono allora di andare tutti, con Loraine e Bundle, ai “Sette Quadranti”. Dove prima sviene Bill, poi, mentre Bundle cerca di rianimarlo, anche lei viene colpita e perde i sensi. Ma siamo nel finale, e quando si risveglia, Bundle si trova attorniata da Battle, Mosgorovsky ed altri individui che le svelano il mistero. Sono loro la confraternita, e sono loro che combattono i cattivi, laddove non riesce a farlo la polizia. Per questo hanno messo in moto tutta questa messinscena per stanare ed arrestare … Certo non vi dirò l’ultimo tassello. Ma solo che finisce tutto in gloria, con la richiesta, da parte di Battle, che Bundle entri anche lei a far parte dei “Sette”. Come vedete la trama è ben complicata, ma gradevole e scorrevole. Non mette molto sull’avviso il lettore, che altrove la nostra scrittrice sfida per vedere se si riesca a risolvere gli enigmi prima dell’investigatore. Bisognerà però aspettare ben dieci anni per vedere Battle tornare sulla scena, perché sta per irrompere Miss Marple, e Poirot sta per avere una serie lunghissima di avventure da protagonista. Alla fine, una lettura buona anche se al limite della sufficienza.
Agatha Christie “La morte nel villaggio” Corriere della Sera 22 euro 6,90
[A: 27/12/2014– I: 02/06/2015 – T: 04/06/2015] - &&& +
[tit. or.: Murder at Vicarage; ling. or.: inglese; pagine: 294; anno 1930]
Ed eccoci finalmente alla prima uscita in un romanzo della fantomatica Miss Marple che tanta fama darà alla nostra scrittrice. Erano già usciti alcuni racconti, che saranno solo successivamente raccolti in volume e ne parlerò a suo tempo. Qui, abbiamo tutto un libro incentrato sulla signora, sui suoi metodi di ragionamento, nonché sulla piccola cittadina di S. Mary Mead. Un microcosmo, come lo definirà Miss Jane Marple (che questo è il suo nome completo, come impareremo dal nipote Raymond), un universo in cui i piccoli avvenimenti tra le diverse tipologie di abitanti prefigurano i grandi avvenimenti anche delle città. C’è la parte religiosa, costituita in genere da un prete protestante sposato, a volte con figli. C’è la polizia locale, normalmente inetta come quasi tutta Scotland Yard, almeno nella maggior parte degli scritti di Agatha. C’è il circolo delle “allegre comari”, signorotte locali dedite al pettegolezzo ed al cucito. A volte c’è anche un lord con magione avita. Spesso ci sono coppie di passaggio, in genere male assortite, artisti ed altra varia umanità. Intanto, tiriamo un po’ le orecchie ai traduttori che non si capisce perché abbiano tradotto “Vicarage” con villaggio e non con canonica. Dato anche che l’assassinio avviene proprio nella canonica. E che tutto il libro è narrato in prima persona proprio dal canonico Clement. Nella cui casa viene infatti trovato, ucciso da un colpo di pistola, il burbero colonnello Proterhoe, che nessuno, neanche Clement, poteva sopportare. Molte sono le trame che si annodano intorno alla morte. C’è un pittore, Lawrence Redding, a lungo in litigio con il colonnello per un ritratto osé della figlia di questi, ma che in realtà è l’amante di Anna la moglie del colonnello. C’è ovviamente Anna. C’è Lettice, la figlia del colonnello, che questi tratta sempre rudemente. C’è Archer, un bracconiere che il colonnello aveva condannato in qualità di giudice locale, e che è appena uscito di prigione. E la di lui fidanzata Mary, nonché domestica del canonico. C’è la signora Lestrange, una misteriosa donna da poco trasferitasi nella cittadina. C’è il curato Hawes, che probabilmente è coinvolto nel furto di alcuni fondi della chiesa. C’è il dr. Stone, un archeologo che scava resti antichi nella campagna del colonnello. E la di lui segretaria, la giovane Gladys. C’è infine ilo dr. Haydock, il medico del villaggio, che sembra, unico, conoscere i misteri di Mrs. Lestrange. La nostra Miss Marple sta nell’ombra, guarda e collega i fatti. All’inizio è proprio Lawrence che si autoaccusa dell’omicidio, tra l’altro effettuato con la sua pistola. Ma il gesto, complice anche un possibile alibi del giovane, non convince. Anche perché è seguito dalla confessione dell’amante Anna, fatta per salvare il pittore. Ed anche qui, le descrizioni che i due danno, ed il fatto che la bella Anna andasse in giro senza borsa, quindi non potendo nascondere una pistola, fanno sì che Miss Marple convinca la polizia a cercare altrove. Anche perché il colonnello stava per fare il nome del ladro dei soldi ecclesiastici. Che ovviamente è il curato Hawes, che cerca di uccidersi (o forse si cerca di uccidere), elemento che fa spostare su di lui il mirino poliziesco. Ma non ne avrebbe avuto il tempo. Tempo che invece si scopre poteva avere il dr. Stone, che non è un archeologo, ma un ladro che tenta di rubare l’argenteria del colonnello. Ma fugge prima di essere arrestato. Potrebbe allora essere proprio Mrs. Lestrange, che il dottore confessa essere la prima moglie del colonnello, venuta per rivedere la figlia Lettice, cosa che il colonnello le nega. Ha ragione quindi Miss Marple ad elencare sette possibili sospetti, tutti con motivi validi, ma con difficoltà di conciliarli con i tempi dell’uccisione. Sarà la casuale scoperta di un vaso di fiori non innaffiato che farà emergere la diabolica trama ordita dagli amanti, e debellata alla fine dalla nostra investigatrice. La trama è sicuramente ben congeniata, ed avvolgente, come spesso accade in Agatha Christie che fa nascere colpi di scena, che svia l’attenzione, per poi riportarla su particolari minimi, ma illuminanti. Peccato che il meccanismo ricalchi leggermente quello del primo romanzo della nostra, poco sopra tramato. Quel meccanismo di “ne bis in idem” che anche qui, seppur velatamente, gli amanti cercano di sfruttare. Sembra come che Agatha voglia fare un parallelo, pur molto lontano, tra Poirot e Miss Marple, mettendoli in situazioni di consimile fattura. Per la mia sensibilità di lettore, tuttavia, il belga, per ora, mi è più simpatico dell’arzilla vecchietta. Che rimane molto, forse troppo, legata agli stereotipi della letteratura ottocentesca anglosassone della descrizioni campagnole e delle vicende in punta di tombolo. Poco sopra la sufficienza, quindi.
Agatha Christie “Miss Marple e i tredici problemi” Corriere della Sera 16 euro 6,90
[A: 15/11/2014– I: 02/06/2015 – T: 05/06/2015] - &&
[tit. or.: The Thirteen Problems; ling. or.: inglese; pagine: 232; anno 1932]
Nel 1932 vengono riuniti in volume una serie di racconti pubblicati tra il 1926 ed il 1931, in cui la nostra Miss Marple la fa da padrona. In questo modo la nostra scrittrice comincia a delinearne i caratteri definitivi. Ambienti di provincia, racconti a chiave, descrizioni. Miss Marple così si impone sulla scena, anche se bisognerà aspettare altri dieci anni per avere un romanzo interamente dedicato a lei (che poi in totale avremo 12 romanzi e 20 racconti in cui l’arzilla vecchietta sviluppa le sue capacità deduttive). Questi 13 problemi sono poi divisi in tre tronconi. I primi 6 andarono sotto il titolo di “Club del Martedì” dove sei personaggi si riuniscono per proporre a turno un mistero da risolvere. I secondi sei si svolgono un anno dopo con le stesse modalità, ma con personaggi diversi, a parte Miss Marple e l’ex-commissario di Scotland Yard sir Henry Clithering. L’ultimo è invece un avventura con solo Miss Marple e Sir Clithering. Quindi, Miss Marple è sempre presente, perché sarà lei che risolverà i tredici “Misteri”. Così come presente è sir Henry Clithering, in funzione di io narrante. Curiosa la composizione dei due quartetti: nel primo ci sono Raymond, scrittore e nipote di Miss Marple, il canonico dr. Pender, l’avvocato Petherick ed una donna giovane, quasi fuori luogo, l’attrice Joyce Lemprière. Nel secondo ci sono invece il colonnello Bantry e signora, il medico dr. Lloyd ed anche qui, una giovane donna anche lei un po’ smarrita, l’attrice Jane Helier. Tuttavia non è particolarmente importante l’analisi di ogni singolo racconto, altrimenti dovrei ripetervi tutto il libro (che come avete visto non è che mi sia piaciuto gran che). Meglio sarebbe addentrarsi negli schemi narrativi di questi racconti, tutti con un che ti legato alla persona che ne narra (come detto sopra). Una morte per avvelenamento d’aragosta in scatola, che poi invece era il dolce al cianuro. Un uomo pugnalato senza aver nessuno vicino. Un rapimento senza scopo di riscatto, forse simulato. Una coppia diabolica che uccide per ereditare. Un testamento scritto con l’inchiostro simpatico. E per finire la prima sestina, un nuovo avvelenamento forse da pesce, ma poi risolto dalla nostra collegando una parola inglese alla malattia mentale di uno dei protagonisti. Come vedete in questi primi sei ricorre, come spesso in Miss Marple, l’elemento “inusitato”. Come può l’aragosta essere stata avvelenata? Come può il tizio avere un pugnale nel costato? Ed ogni volta, mentre tutti brancolano nel buio, Miss Marple collega un pezzo qui ed uno là, ricostruisce, interpreta e spesso (ma non sempre) spiega. Come invece spiega il mistero dei gerani dipinti al muro, cui i fumi del potassio avvelenato fanno virare al color blu. Ed anche se in ritardo, spiega la morte di una signorina come vendetta venuta da lontano, ricalcando però il motivo narrativo della coppia diabolica (qualcuno che si fa passare per altro, giocando sulle scarse conoscenze delle persone intorno). Più intrigante la storia di Sir Clithering, che non può che essere legata allo spionaggio, in cui un messaggio cifrato viene inviato attraverso un catalogo di giardinaggio. E quando Agatha si appassiona ad un elemento, ecco che te lo ripropone in tutte le salse. Qui siamo al terzo “travestimento”, in cui l’amante dell’assassino si traveste da “morta” per dargli un alibi, ed è smascherata da un piccolo particolare (che ovviamente non vi dico). Nel successivo ritornano invece i temi dell’avvelenamento da digitale, con un anziano geloso che compie le sue malefatte mitridatizzandosi. L’ultimo racconto è molto confuso nella descrizione (non a caso proviene dalla frivola attricetta) che imbastisce una complicata storia di amanti, furti e gioielli. Storia che Miss Marple facilmente smonta: non è realtà, ma un’idea dell’attrice per punire un suo ex-marito. Arriviamo così al tredicesimo problema, e questa volta in stile completamente diverso: c’è una morta, un presunto assassino, Miss Marple è convinta di sapere chi sia il reale colpevole, ma non ha le prove, quindi scrive la soluzione su di un biglietto e lo da a Sir Henry. Sarà lui ad indagare sulla morte di Rose, sul suo amante Rex, sul suo spasimante Joe e sulla vedova Bartlett. Miss Marple non compare, ma alla fine il nome del colpevole è quello sul suo “pizzino”. Insomma come vedete, molte piccole vicende, ma tutte abbastanza sterili (alcune inutili come quella dell’attrice). Una prova in minore, sperando in meglio per la nostra investigatrice (anche se non è che ci stia simpaticissima, come ho già avuto modo di dire).  
Come promesso la settimana scorsa, con una settimana di ritardo, vi allego anche una piccola medicina sulle modalità di convivere (o di sbarazzarsi) dei fantasmi.
Mentre mando gli auguri alla mia cara mamma, assidua lettrice dei miei gialli, per i suoi oltre novanta, mi accingo a porre armi e bagagli al servizio del prossimo viaggio. Che si parte a fine mese, di nuovo India, anche se verso Mumbai e non verso Kolkata (e prima o poi, perché non il Kerala?). 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2015
Ottobre, cominciano i primi freddi e quella festa insopportabile di Halloween si avvicina. Allora come resistere ad uno scritto che cerca di spiegarci come sopravvivere con i fantasmi?

FANTASMI, ESSERE TORMENTATI DAI

Susan Hill “La donna in nero”
Toni Morrison “Amatissima”
Se pensate di essere tormentati dai fantasmi, il primo problema potrebbe essere convincere gli altri a prendere sul serio la vostra situazione. Se questo è il caso, fate leggere a tutti “La donna in nero” di Susan Hill. Ambientato a Eel Marsh House, una dimora solitaria che due volte al giorno la marea isola dal resto del mondo, il romanzo racconta di come un fantasma molto amareggiato tormenti Arthur Kipps, l’avvocato chiamato a risolvere la questione dell’eredità della proprietaria della tenuta, recentemente scomparsa. Questo libro vi farà scendere più di un brivido lungo la spina dorsale, e se non farà nulla per curare voi, di sicuro convincerà i vostri amici ad ascoltare la vostra storia, con gli occhi sbarrati.
Per voi, invece, raccomandiamo “Amatissima”, il romanzo per cui Toni Morrison ha vinto il Nobel. Sethe è un ex schiava che vive con Denver - la figlia adolescente – e il fantasma di un’altra figlia morta. Sethe si è ormai abituata alla presenza di questo spirito dispettoso che manda in frantumi gli specchi, lascia impronte di mani di bambina sulla glassa delle torte ai compleanni e chiazze rosse sulla soglia che i visitatori devono attraversare per entrare In casa. La maggior parte delle persone, in realtà, si tiene alla larga dalla casa e dai suoi occupanti. Quando Paul D, un vecchio amico di Sethe, ricompare dopo diciotto anni, il fantasma sembra trovare pace, almeno finché non si ripresenta in forma umana.
Amatissima viene fuori dal fiume come un’adulta completamente vestita e passa qualche giorno a raccogliere le forze per aprire gli occhi, mentre il suo vestito si asciuga e la sua pelle perfettamente liscia si abitua al sole. Ha una voce particolarmente bassa, è sempre assetata e sembra possedere una forza sovrumana, che le fa sollevare la sorella maggiore con una sola mano. Amatissima, tuttavia, non è una forza positiva: si nutre dell’amore di sua madre come del latte, che per lei non era mai abbastanza. Allontana Paul da Sethe, e nel frattempo lo costringe, contro i suoi desideri e contro ogni buonsenso, a «toccarla sulla parte interna». Si nutre di vita come una mosca della carne. Sappiamo che non può durare. Sethe ha in sé quello che serve affinché Amatissima trovi davvero la pace – ma prima deve ammettere con se stessa una scomoda verità.
Fatevi coraggio, voi che siete tormentati dai fantasmi. Non solo è possibile affrontarli, con loro si può anche parlare, discutere, si possono addirittura amare. Se il vostro fantasma vuole venire a vivere con voi per un po’, spendere tutti i vostri soldi e allontanare i vostri cari così sia. Quando si sarà sfogato, potrete rimetterlo al suo posto.

Bugiardino

Non ho letto, né conosco (non sono mica onnileggente) Susan Hill, che salto a piè pari. Mentre ho letto e ne ho scritto un anno fa di Toni Morrison e del suo più famoso libro, che mi è piaciuto, anche se non tanto quanto mi aspettavo.
Toni Morrison “Amatissima” Pickwick euro 10,90
[pubblicato il 2 agosto 2015]
Saranno più di venti anni che la mia amica Cristina cerca di convincermi a leggere gli scritti del Premio Nobel 1993, l’americana Toni Morrison. E per una somma di motivi (stanchezza, casualità ed altro) avevo fino ad ora tralasciato questa potente scrittura nero americana. Preso ora da voglie di recupero di tanti testi passati (ma non invano) ho preso e letto questo scritto, tra l’altro Premio Pulitzer nel 1988. Che dire? Non è un testo facile, né una lettura che lascia indifferenti. Anche se, appunto, è pieno di citazioni e rimandi alla storia americana, non sempre decifrabili da noi poveri d’oltreoceano (e ringrazio per le esaurienti note al testo). Ed è, soprattutto, una scrittura personalmente ostica, che rimanda molto (pur con i dovuti distinguo) ad alcune belle prose sudamericane, con voli nello spazio e nel tempo, con sogni, son invenzioni ed irrealtà difficili da comprendere. Una specie di “flusso di coscienza” collettivo, che ci porta in pieno Ottocento americano, e per la precisione, nel pieno della metà del Secolo. Con tutte le lotte tra neri e bianchi, e tra bianchi e bianchi, che quell’epoca provocò la schiavitù. La Morrison, dobbiamo senz’altro dargliene atto, dà voce, e che voce, ai neri, tirando fuori, ad una ad una tutti i soprusi, gli abusi, le negazioni dell’individuo che l’epoca schiavista portò alla luce. Lo fa attraverso la storia di Sethe (tra l’altro lo spunto è una storia vera, qui romanzata e portata ad epigono di un momento storico), dei momenti della sua schiavitù, della fuga, del carcere, della libertà, dell’angoscia, e di un finale forse non allegro, ma forse speranzoso e non più disperato. La difficoltà, dicevo, è che il racconto non è lineare, ma va a balzi, passa da un personaggio all’altro, il quale ci porta i suoi pensieri, i suoi ricordi, di modo che, certo, alla fine, si potrà avere una pittura completa, ma bisogna prestare attenzione a tutti i passaggi (e non è un caso che ho impiegato più tempo a leggerlo e capirlo). Quindi da una parte c’è la storia come la possiamo ricostruire: Sethe è schiava in una piantagione dove non conosce sua madre, dove deve scegliersi un compagno nero che possa dare figli schiavi al padrone (sempre indecisa tra due, Halle e Paul D), nelle grazie dei padroni (più umani di loro simili negrieri) finché uno muore e la signora si ammala e cerca aiuto in un nuovo gestore della piantagione. Questo sarà come la quasi totalità degli schiavisti, pieno di rancore verso i neri (ma perché non si capisce), consentirà lo stupro di Sethe da parte del nipote, metterà ferri e catene ai neri validi per età. Tanto che un gruppo cerca di fuggire. Halle sembra scomparire. Paul D viene ripreso, messo alla catena, e solo dopo mille traversie riuscirà ad arrivare a Cincinnati. Sethe ed i suoi tre figli più la piccola che ha in pancia arrivano per primi a casa della madre di Halle (che questi aveva riscattato). Ma il cattivo padrone li ritrova e mentre sta per prenderli, per non essere di nuovo ridotta in schiavitù, Sethe uccide la figlia piccola. Tutto si ferma allora. La prendono, la processano, la giudicano pazza. Poi tornerà dalla nonna, in una casa piena dei fantasmi della figlia uccisa (che lei chiamerà solo e soltanto “Beloved”, Amatissima, come dice il titolo italiano, ma anche Adorata o Diletta, che avrebbe rispettato le 7 lettere dell’inglese). I maschi partiranno presto, e lei rimarrà con la piccola Denver. Dopo la morte della nonna li raggiungerà Paul D che per un po’ scaccerà i fantasmi, fino a che Diletta (così la chiamerò io) non compare di nuovo, come fantasma tangibile, intossicando la vita ai presenti, facendoli piombare nei rimorsi. Paul D viene subito emarginato. Denver pensa di aver ritrovato una sorella, la cerca, le sta vicino, ma si accorge ben presto che Diletta è tornata per tormentare la madre. Sethe proverà a spiegarle e spiegarci che stava uccidendo i suoi figli per non farli tornare schiavi. Ma Diletta non la comprende. E quel che è peggio, neanche Sethe, pur capendosi, si assolve. Fino a che, grazie alla costanza ed all’amore sia di Denver che di Paul D, Diletta scompare e rimarranno i vivi a cercare di portare avanti una vita non certo facile. La forza e la potenza del libro sono quegli squarci quasi giornalistici sulla crudeltà subita dai neri durante la schiavitù (e non a caso, il libro è dedicato ai milioni di persone morte durante la traversata atlantica nelle navi-prigione). La difficoltà (mia) è nel seguire le vicende di Diletta come se fosse vera, come se il fantasma potesse muoversi tra noi, agire fisicamente e non solo nella mente e nella coscienza delle persone. Ma il libro, che nonostante tutto consiglio di leggere, pone tante domande forti, oltre a quelle sul rapporto tra le due razze, tuttora irrisolto (lì e altrove). Pone domande sull’amore e sul rapporto tra Sethe e Paul D. Pone soprattutto domande sul rapporto genitori – figli e sui sensi di colpa che i genitori potranno avere (avranno) per tutta la loro vita, perché “un figlio è sempre un figlio”. Al solito, ora che ne scrivo, lucidamente dopo la lettura, trovo punti e spunti migliori, che durante le pagine mi lasciavano perplesso, e mi mettevano fatica. Chissà forse questo ci insegnerà qualcosa.
“Grande non significa niente per una mamma. Un figlio è sempre un figlio. È chiaro, crescano, invecchiano. Grande, però, cosa vuol dire? … Io la proteggerò quando sarò viva e la proteggerò anche quando non ci sarò più.” (64)
“Quello che è giusto non è detto che vada bene per forza.” (357)
“Io e te messi assieme abbiamo più passato di tutti quanti. Ora abbiamo bisogno di un po’ di futuro.” (382)

Conclusioni

Quando penso ai fantasmi, penso ai film si serie B (almeno così si chiamavano) e da tutto quel recupero favoloso che ne faceva il mio caro cugino Paolo, che ci ha lasciato da poco ed a cui dedico alcune trame filmiche del futuro. Invece questi fantasmi libropeutici mi convincono poco. Di più mi sembrano valere quelli di Edoardo De Filippo o altri più fantasmi che reali. Perché la Morrison, come ho detto nel finale, mi ha fatto venire in mente i rapporti genitori – figli, e per chi vuole approfondire l’argomento questo è da leggere (come “Angel” delle Taylor, ad esempio). Insomma, chi pensa a Demi Moore meglio legga altro.

domenica 11 ottobre 2015

Se non ci fosse la Svizzera - 11 ottobre 2015

E già, se non ci fosse la Svizzera, quella italiana, che almeno sale sopra la sufficienza, sarebbe una settimana moscetta. Di scrittori italiani (e ben vengano). Di scrittori di genere (ed anche qui siamo sul plauso, almeno in generale). Ma di scrittori che, pur nella normale bravura della penna, non hanno slanci che altrove, loro o loro emuli, hanno. Così scivolano via Paolo Foschi e Valerio Varesi. Così non si erge in modo significativo la prima lettura di Gianni Farinetti. Rimane il ticinese Andrea Fazioli, che continua a rimanere su livelli di assoluta leggibilità.
Andrea Fazioli “Il giudice e la rondine” Guanda euro 8 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 01/11/2014– I: 09/04/2015 – T: 11/04/2015] - &&& +  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2014]
Visto che recentemente la Svizzera è un po’ più vicina, torno di nuovo sull’unico scrittore svizzero di lingua italiana che conosco (e di cui si è letto praticamente di tutto). Siamo di nuovo con Andre Fazioli, nel fondovalle del fiume Ticino, aggirandoci per la cittadina di Giornico. ovviamente, seguendo le orme e le vicende di Elia Contini, il nostro investigatore poco comune, solitario, neanche tanto fortunato, ma con un suo fascino proprio dovuto a questi momenti di isolamento. Dove si pensa, si guarda la natura, e magari si ripensa a cosa succede intorno, sbrogliando le matasse intricate. Certo, non ho ancora capito il suo rapporto di tira e molla con la simpatica Francesca. In un romanzo si lasciano, in quello dopo si riavvicinano. Potrebbero assurgere a simboli di quel fenomeno di vita singolar-plurale di cui si parla molto sui giornali ultimamente (quelli che in Francia sono soprannominati “Célibataires à deux”, cioè stiamo insieme ognuno a casa sua). Invece continuano a prendersi e lasciarsi, come anche in questo ultimo direi racconto lungo, più che romanzo, uscito in questa sotto collana di Guanda che si chiama “Microcosmi”, di cui se ne riparlerà per l’altra lettura giallo-viaggiante di Biondillo. Ma non è sulla loro vicenda che ruota la storia, bensì intorno all’ex-giudice Mario Madocchi. Allontanato dalla professione per “sfruttamento della conoscenza di fatti confidenziali”, Madocchi si è lasciato alle spalle il passato, ha una nuova moglie e ha aperto un ristorante nella tranquilla provincia svizzera. Ed è proprio Alice, quella per cui ha buttato a mare tanti anni, che è preoccupata da strane telefonate e da altrettanto strani comportamenti del marito. Sospettando che questi abbia un’amante, ingaggia il nostro Elia nel suo ruolo principe di investigatore. E se da un lato Elia indaga, dall’altro Alice vuole sapere di più su Elia stesso, per sapere se fa bene a fidarsi di lui. Ne chiede informazioni quindi alla sua amica Francesca Besson. Per questo Elia e Francesca riprendono i contatti che si erano allentati. Elia è anche oscillante tra una possibile nascita di nuove intese verso la pur avvenente Alice, ed il ritorno di fiamma con la mai sopita alleanza verso Francesca. Nelle more del dibattito amoroso, che si svolge sempre nella mia testa piuttosto che sulle pagine di Fazioli, va avanti l’intrigo. Un mafioso di bassa tacca viene malmenato. Un probabile usuraio viene ucciso proprio nella villa dei Madocchi, mentre Elia ne controllava le mosse. Si instaura il solito teatrino di rimandi tra Contini ed il commissario De Marchi. Ma non se ne viene fuori. Il morto, Rota, aveva un messaggio minatorio in macchina dove viene trovato, lontano dalla villa del giudice. Questi ed Alice avevano preso un sonnifero il giorno del delitto. Contini gira, scava, pensa, cammina per i monti, cerca le sue amati volpi, costruisce barchette di carta che lascia andare nel ruscello dietro casa. Segue la pista di alcuni ciondoli a forma di quadrifoglio. Ed alla fine tira fuori la storia, ma non ha prove. Rota presta soldi e ricatta, il messaggio era da lui scritto per Madocchi, che non aveva preso il sonnifero e forse è stato lui a commettere il delitto. Certo non ci sono altre donne. Di questo convince Alice che probabilmente non lascerà l’anziano ex-giudice, anche se per un po’ è attratta da Elia. Ed Elia non denuncerà il giudice, non avendo prove. E continuerà ad avere questo strano rapporto di prendimi e lasciami con Francesca. Intanto, tornano le rondini nella primavera ticinese. Non è un grande giallo, ma ci sono belle atmosfere. Vorrei che Francesca tornasse da Elia, ma capisco che lo svizzero è un po’ difficile da frequentare. Una trama corta per un libro breve, difficile da raccontare che poco succede. E mentre ne leggo di questo Guanda che mi riporta tra le mie Alpi, sono qui che passeggio per le Ande. Casi della vita.
“Doveva accettare il fatto che a volte il vero cambiamento è restare dove si è.” (109)
Paolo Foschi “Vendetta ai Mondiali” E/O euro 14,50 (in realtà, scontato a 9,14 euro)
[A: 05/08/2014– I: 21/04/2015 – T: 24/04/2015] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 186; anno 2014]
Mi domandavo, alla fine del precedente romanzo di Foschi, come avrebbe fatto a proseguire la serie, e soprattutto se la voleva proseguire. Infatti, vi ricordo, nel finale de “Il killer delle maratone”, il nostro commissario Igor Attila, ex-pugile, e responsabile della Sezione Crimini Sportivi della Polizia ha un tremendo incidente di moto. E noi lo avevamo lasciato in fin di vita, in ospedale, senza sapere se, appunto, ce l’avrebbe fatta. Non sappiamo i motivi del nostro autore, ma ha deciso di trovare il modo di portare avanti la serie. Lo fa, purtroppo, con qualche espediente che a me è piaciuto poco. Prima, dopo qualche tempo comatoso e mesi di cure, lo fa uscire con l’arto amputato, dove possiamo assistere ad uno scimmiottamento della vicenda Pistorius (ovviamente per la parte sportiva soltanto). Così Igor acquista un arto artificiale, prova di nuovo a correre, e poi si imbarca nell’impresa della hand-bike cercando di emulare lo sfortunato Alex Zanardi. In tutto ciò, richiamato in servizio dove deve risolvere due belle grane: le successive morti, alla vigilia dei Mondiali di calcio in Brasile, del capitano e del portiere della Nazionale, fatti saltare in aria con delle autobombe. Come se non bastasse, si imbarca in una vicenda simil-privata, dove, avendo rotto (e finalmente, che mi stava un po’ sugli zebedei) con Titta, si ritrova solo e comincia a ruotare verso Martyn, un atleta di colore che aveva chiesto il suo aiuto. Ovviamente, vi ricordate tutti che Igor, oltre ad essere ex-pugile è anche gay. Ma Martyn lo coinvolge perché vuole uscire da un pasticcio di droga che aveva combinato con degli atleti giamaicani. Igor, fuori di testa, non ci capisce nulla. Fortuna che il suo vice, la sempre più simpatica Chiara Merlo, usando l’analisi dei linguaggi corporei, smaschera il malcapitato Martyn. In tutto ciò, Igor mette invece le sue energie, la testa, e gli uomini della squadra sulle tracce delle autobombe. Dopo una serie di vicissitudini e scoperte (uso dei computer, segnali inviati da chissà dove, web-cam nascoste), arriva ad incriminare Bellini, un grande industriale, sponsor della Nazionale, che aveva fatto investire i soldi dei due calciatori nelle sue industrie portatrici di tumori. Così come i soldi dell’allenatore. Ma quando questi cercano di tirarsi fuori (anche se con i soldi erano riusciti a rientrare nel giro della Nazionale) saltano letteralmente in aria. Indagando però sull’industria di Bellini, scopre un nuovo sito internet molto particolare, e seguendone le tracce, arriva al bandolo finale della matassa. È il figlio di uno dei morti di tumore dipendente dell’industria inquinante, che, genio dell’informatica, ha escogitato il tutto. Anche perché pure lui ormai è ad uno stadio terminale della malattia. Ma una volta capito il come ed il perché (in una vicenda che, Nazionale a parte, ricalca motivi e schemi degli inquinamenti ambientali dell’Ilva ed altre aberrazioni analoghe), di fronte al dilemma su chi incriminare, il nostro paladino decide che il giovane ingegnere in fin di vita può morire in pace, e lascia andare in prigione il cattivo Bellini. E se tutto questo non fosse sufficiente a riempire le quasi duecento pagine del libro, il nostro scrittore si inventa un colpo di scena finale, e forse anche due. Perché un poliziotto che decide da sé quale sia la giustizia non è politicamente corretto. Ed allora ecco che Igor si sveglia, e si accorge che è stato tutto un sogno. Si, è stato male, ma la gamba ce l’ha ancora. E purtroppo, c’è ancora Titta, che invece si sperava fosse definitivamente scomparso. Il sogno consente di sorvolare su tutto il racconto, che, appunto nel sogno, si può decidere di derogare alla giustizia. Ovviamente, abbiamo l’altro colpo di scena. Che il romanzo finisce con una telefonata del questore che avverte Igor che il centravanti della Nazionale è saltato per aria con la sua macchina a causa di una autobomba. Su questo circolo alla finto-Schnitzler si chiude il libro. Che ho trovato proprio sotto media, per queste invenzioni poco credibile, e per gli accenni su esposti agli atleti che subiscono menomazioni (mancavano soltanto il fuoco di Lauda e la mano di Nannini). Che si riscattava solo eliminando Titta e facendo crescere il peso di Chiara. Insomma, caro Foschi, potevi “inventare” qualcosa di meno strampalato, e ti avrei seguito con maggior gusto. Ora penso che dovremmo aspettare anche il quinto volume della serie. Speriamo bene.
“Magari avesse avuto una vita divertente come quella del commissario Montalbano o movimentata come quella dell’ispettore Harry Hole. No, lui non era stato così fortunato: lo sceneggiatore della sua vita gli aveva riservato solo delusioni, amarezze e rimpianti.” (133)
“Quando la battaglia è persa, è più coraggioso chi si arrende di chi continua a combattere solo per orgoglio.” (170)
Valerio Varesi “È solo l’inizio, commissario Soneri” Pickwick euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,41 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 29/04/2015 – T: 30/04/2015] - && e ½     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 276; anno 2010]
Siamo alla decima inchiesta ormai del commissario Soneri, ed abbiamo ben appreso il modo di scrivere del buon Varesi. Scrittura intrigante, piena di riferimenti, ma anche intrisa dell’anima de “La Repubblica” giornale di cui non a caso fa parte il nostro nella redazione bolognese. Dove si cerca sempre una qualche equidistanza, almeno nel grosso della scuderia (abbiamo sempre cavalli che dirazzano, come l’interessante scrittura di Colaprico). Il meglio Varesi lo da pur sempre nell’ambientazione. Parma, sempre e comunque, le trattorie della bassa, con gli anolini in brodo, la trippa con tanto parmigiano, del buon rosso. E ultimamente anche un su e giù con La Spezia, che sta poco di là dell’Appennino, quasi uno sfogo a mare per i sentimenti padani. Come al solito d’inverno a Parma piove, e sotto la pioggia escono fuori due morti: un impiccato ed un accoltellato. Che sembrano non aver nulla in comune, ma che noi si sospetta che qualcosa ci sia. L’impiccato è un rumeno, Giorgio Oliescu, emigrato a La Spezia, lavoratore probo, ma non integrato, che per passioni strane si lega agli ultras calcistici della squadra locale. Ultras molto facinorosi, ed abbastanza sodali con elementi estremisti di destra. Con fatica, al solito, e saltando da una storia all’altra, si arriva a delineare la figura di Giorgio. Emarginato, sia al lavoro che poi dagli ultras, a parte l’amico Filippo. Che perde il lavoro, che perde il permesso di soggiorno, ed allora decide il gesto estremo. Fin qui tutto bene (anche no, magari). Ma perché a Parma? Soneri intanto è ben più preso dall’altra morte, che sicuramente è un omicidio. E non di una persona qualunque, ma di Elmo Boselli, leader del Sessantotto parmense, a suo tempo dotato di una grande lingua e di un grande fascino verso le donne. Allora si indaga negli ambienti che sono colati via negli anni da quel Sessantotto. Soneri trova reduci di tutte le risme per entrare nella personalità di Boselli. Parla con il vecchio collega in pensione, fascista duro e puro, che rimpiange i tempi delle manganellate ai cortei. Parla con chi ha rinnegato quegli ideali, dicendo che erano solo cazzate da studenti universitari fuori dalla realtà. Parla con chi non si è mai tirato indietro, un irriducibile vetero-comunista che per evitare compromessi si fa eremita tra i monti. Qui esce fuori tutto il “leggero” della finta trama impegnata di Varesi. Quasi che volesse fare (anche lui?) un piccolo pamphlet utilizzando il noir per ripercorrere anni che sarà sempre difficile ripercorrere, in qualsiasi modo si cerchi di farlo. Grandi ideali, anni di piombo, e chi più ne ha più ne metta. Intanto si scopre che Boselli all’epoca aveva un suo grande amore, la Motti. E con lei, come molti, al tramonto delle grandi lotte, pensa di “salvarsi” con una fuga in India. Ma la Motti, dura e pura, ci starebbe per sempre. Boselli no. E se ne ritorna, e comincia a vivacchiare. Una casetta in Liguria ereditata dal padre, affittata (forse) ma non si sa a chi. Qualche amore. Piccoli commerci. Ora quasi stabile nella precarietà di chi si è piegato, ma non tanto. Solo che Boselli è malato, e vuole chiudere qualche conto aperto. Soprattutto perché con la Motti un figlio lo aveva fatto. Anche se poi lei si sposa con il più mite Cassinari, mai dicendo la verità al figlio. Boselli lo cerca , lo trova, gli dice la (sua) verità. E chi è questo ragazzo se non il Filippo amico del rumeno Giorgio. Anche lui negli ultras spezzini, anche lui di destra. Sconvolto ed arrabbiato verso questo padre tardivo, organizza un piccolo ricatto insieme a Giorgio e per questo vengono a Parma. Ma Giorgio sa che dovrà lasciare l’Italia, e per questo si uccide. E Filippo, quando rivede Elmo e ne sente l’egoismo duro e puro, perde il lume della ragione e lo uccide. Quindi, niente piste politiche dietro i morti, ma solo miserie umane. Sfortunatamente intrise dallo scrittore Varesi in questo marasma di considerazioni che risultano molto superficiali. Non è vero, come dice Soneri, che noi “siamo qui a raccogliere i cocci”. Altro potremmo e dovremmo fare. Purtroppo qui non ci si è riusciti. Ed alla fine il libro, pur nella scorrevolezza della scrittura di Varesi, non può raggiungere la piena sufficienza. Anche perché, come ha scritto qualcuno più capaci di me, il nostro buon Soneri ha una sola corda interpretativa, quasi fosse il Raul Bova degli inizi. Raul imitava un ramo d’albero senza espressione. Soneri è sempre incazzato, con solo qualche sfumatura: un po’ incazzato, molto incazzato, incazzato che non mi parlate se no mordo. E neanche la sua compagna avvocato riesce a smuoverlo da questo stato. Forse solo gli anolini di cui sopra. E speriamo che altre prove migliori esano dall’arco di Varesi. Un piccolo inciso sull’India di cui sopra, unico momento in cui ho avuto un po’ di tremore nella memoria, ripensando al mio amico Wolf, il tedesco con cui studiavo a Parigi, e a quel suo passaggio a Roma, nel ’73, quando mi disse “Addio, parto per l’India”. E non l’ho più sentito.
Gianni Farinetti “Un delitto fatto in casa” Marsilio euro 12,50
[A: 14/03/2014– I: 04/05/2015 – T: 06/05/2015] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 423; anno 1996]
L’amica Margherita me ne aveva parlato, allorché di un viaggio, e me n’era rimasta vaghezza. Anche per quel nome che pur rimandando ad Eataly, non di Eataly è parente. Almeno credo, perché Gianni è di Bra, ed Oscar di Alba. E poi Gianni è del 1953, e non dico altro. Secondo elemento, è appunto la piemontesità dell’autore e della storia. Che pur ormai ventennale, solo ora riesco a far entrare nelle mie letture. E comunque non sfugge, non può sfuggire il confronto con l’altro grande romanzo della Torino bene, il capolavoro giallo – ironico di Fruttero e Lucentini “La donna della domenica”. Per togliere subito le castagne dal fuoco, dico che sono due prodotti diversi, pur venendo dalla stessa terra. E Farinetti perde alla grande. Un po’ perché la storia è meno solida, un po’ perché è molto annacquata nelle oltre 400 pagine (d’altra parte pare che Marsilio pubblichi romanzi gialli solo oltre questa soglia), con rimandi, giravolte ed altri trucchi letterari che dopo un po’ sono discretamente stufanti. C’è forse qualcuno che sia riuscito a sopravvivere alle sei (6) pagine introduttive che elencano nomi, personaggi, rapporti, nonché modi di dire piemontesi? L’altra trovatella di scrittura è quel rivolgersi al lettore come se lui, Farinetti, e tu, lettore, foste seduti davanti allo spettacolo, e lui te ne spiegasse modi ed attività. Ti dice, attento a questo, di questo te ne parlo dopo, guarda che quello ha fatto, ha detto. Troppo furbetto per i miei gusti. Che poi la trama, ridotta all’essenziale, poteva anche essere divertente. Tutto ruota intorno alla famiglia Guarienti, costruttori ed imprenditori ben in vista nella Torino bene, guidata con pugno duo dal capo-famiglia Cesare. Abbiamo la moglie, Anna Remondelli di Lauriano (che già si vede nobile nel titolo, che rimanda, malamente, ad Anna Carla Dosio, che voi sapete chi fosse), una che tiene molto alla forma, e che non permetterà al marito di lasciarla, anche se Cesare gli piazza l’amante nel castello accanto. Ci sono i due figli: il gay Sebastiano, con una lunga e tormentata storia con il bel Duccio, dove si prendono e si lasciano, ma non lasciano il nuovo acquisto di Seb, il buon pastore maremmano Dromos (forse il più simpatico del lotto) e la mal maritata Silvia, il cui marito fotografo fortunatamente ritorna in Francia con la prima moglie, e lei può iniziare una nuova storia con il simpatico Alberto (in questo anche spinta dalla di lui undicenne figlioletta Mariolina). C’è Adriana la concubina ufficiale di Cesare, vedova di Gioacchino, fratello di Cesare, scomparso nel crollo di una diga in Africa, e il di lei figlio Edoardo, numero due della ditta di famiglia, ma con poco propensione agli affari onesti. E c’è Adelaide Testa Simonis, la prima ad essere introdotta sulla scena con quell’incipit molto F&L (“Dato che non le restano più di diciannove ore di vita prima di essere assassinata…”), amante del gioco, per cui decide di vivere sulla Costa Azzurra. È lei la prima morta, cui casualmente assiste Duccio, che si trova casualmente a Nizza, per dei problemi idraulici, e perché ha litigato con Seb. Da questo punto si dipana tutta la storia, entrano ed escono i personaggi. I Guarienti organizzano anche un grande ricevimento per Natale, con tanto di orchestra condotta dal loro amico e grande direttore John Southworth. Ed in concomitanza del Natale, muore anche Cesare. Sembrano tutti incidenti, che Adelaide cade dal balcone e Cesare ha uno scontro con la macchina. Ma… ma non è così. Seb è sospettoso, e tra un litigio e l’altro con Duccio, ed una passeggiata con Dromos, ripercorrendo tutte le strutture genealogiche familiari, scopre che anche Adelaide era stata un’amante del padre, con tanto di nascita di un figlio della colpa. Insomma, un guazzabuglio di personaggi, un saltabeccare da una scena all’altra, sempre con un ironico sorriso sulle labbra. Mi ricorda, in noir, la scrittura di Gaetano Cappelli. E neanche quella mi piaceva molto. Fortunatamente, l’ultima parte del romanzo si libera un po’ di queste meta-finzioni narrative. Ci si aspetta il colpo di scena finale. Che arriva e da parte inaspettata. D’altra parte, o si ha una mente enciclopedia, altrimenti era difficile seguire le vicende e le storie di tutti. Ma questo, almeno, è un punto a favore dell’autore e del romanzo. Vedremo se ne capiteranno altri. Per ora, no.
Sebbene sia la seconda settimana del mese, una serie i congiunture positive (lavoro, compleanno e una sempre più concreta possibilità di patire a Novembre per l’India) mi hanno impedito di elaborare la cura mensile, che rimandiamo alla prossima settimana. Ora godiamoci quello che c’è, appunto. Lavoro, compleanno e viaggio.