domenica 19 giugno 2022

L'altro de Giovanni - 19 giugno 2022

Nei primi anni ’60 Mondadori pubblicò una serie di romanzi di Georges Simenon dove non compariva l’ispettore Maigret, intitolandola “L’altro Simenon”. Riprendo il gioco, e mi occupo qui degli altri libri di Maurizio de Giovanni. Non il commissario Ricciardi, ormai finito, né i bastardi di Pizzofalcone, di cui si aspetta qualche nuova puntata. Ma le altre serie del nostro: quella di Gelsomina Settembre detta Mina, di buona resa, e quella di Sara Morozzi, che invece cala, puntata dopo puntata.

Maurizio de Giovanni “Dodici rose a Settembre” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)

[A: 16/09/2021 – I: 16/12/2021 – T: 19/12/2021] &&&-- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 271; anno: 2019]

In effetti, benché siano usciti racconti con al centro la signora Settembre, questo è propriamente parlando, il primo romanzo che la vede protagonista. Che leggo ora, dopo che la bella fiction televisiva si è conclusa, sia perché non mi decidevo in generale, sia per una sorta di odio-amore verso de Giovanni, cui difficilmente perdonerò l’abbandono del commissario Ricciardi, su cui, scientemente, non voglio tornare.

Sempre per rimanere tra fiction e romanzo, devo subito sottolineare che il romanzo, uscito ben prima della serie televisiva, presenta alcune peculiarità che la fiction non ha ripreso. Tre sono quelle che più mi sono saltate in mente (non agli occhi, come si direbbe, che ho visto prima la tv e poi ho letto il testo). Nel romanzo (almeno in questo primo titolo) non è presente l’ingombrante figura del padre della protagonista. Una presenza che, invece, in televisione aveva tutto un suo ruolo. Poi, le tre amiche della nostra eroina sono simili con la differenza che nessuna delle tre ha figli, come invece compare in tv. Ma è soprattutto il ruolo dell’ex marito che mi sembra sia stato snaturato. È vero, il poco simpatico Claudio è sempre ex, ma qui ha un ruolo di magistrato inquirente molto più attivo. Ed invero, anche più simpatico. Spalleggiato dal carabiniere Gargiulo, con il quale inscena duetti memorabili.

Fatte salve queste premesse, il romanzo scorre discretamente bene. Incontriamo subito, e le vogliamo subito bene, la dottoressa Gelsomina Settembre, per gli amici Mina. Viene da una buona famiglia borghese, e da un ambiente cui rimangono attaccati sia la madre Concetta, nel suo ruolo tipico di madre ingombrante e scassapalle, sia le tre amiche, che tuttavia sono pronte a lasciarsi coinvolgere nelle incoscienti uscite di Mina, sempre a fin di bene.

Vediamo anche il ginecologo del consultorio, Domenico “chiamatemi Mimmo” Gammardella, abbastanza coerente. Belloccio ed impacciato, ricercato da tutte le donne del quartiere per farsi mettere le mani addosso. Ma lui, prima rimane attaccato al suo storico amore Veronica. Poi, quando lei lo scarica, rimane fulminato dal Problema numero Due di Mina (le super tette), diventando quindi il Problema numero Tre. Ricordo che il Problema numero Uno è e sarà sempre la madre Concetta.

Come spesso nella serie dei bastardi, si intrecciano nel romanzo due filoni “gialli” o “sociali”. Metto l’accento anche sul secondo aspetto, che essendo Mina una psicologa di base, spesso i suoi problemi vertono anche sul versante sociale, in genere basati su rapporti interpersonali di varia natura. Come in questo caso, dove vediamo Mina alle prese con maltrattamenti verso una donna che non riesce a denunciare il marito. Per paura, ovvio, che lei è una immigrata peruviana di nome Ofelia (casualità, che la mia aiutante di casa è peruviana e si chiama anch’essa Ofelia), e trema per sé e per la figlia Flor. Sarà un’idea peregrina di Mina a porre tutto su di un binario di soluzione, anche se per attuare il tutto deve coinvolgere non solo “chiamatemi Mimmo”, non solo il portinaio soprannominato Rudy, che si crede bello, ma anche le sue amiche. Che uscendo dai loro ranghi daranno vita a delle sceneggiate napoletane di fine tratteggio.

A questo si intreccia il giallo del titolo, che avvengono una serie di omicidi caratterizzati dalla presenza sul luogo del crimine di dodici rose rosse. È Claudio a seguire questo giallo (anche se l’autore cerca di mescolare le acque chiamandolo sempre per cognome). La casualità che anche Mina comincia a ricevere le rose, che Claudio, essendo fidanzato con Mina ai tempi universitari, ed avendo Mina partecipato ad una messa in scena teatrale dal titolo “Le dodici rose”, si ricordi del testo, fa sì che i puntini che non si univano, all’improvviso si uniscono. Precipitando in un finale di buon movimento scenico, e di risoluzione e spiegazione. Anche se già era tutto scritto, da molte e molte pagine.

Non devo certo dar merito all’autore, che ho già detto altrove ed in tempi non sospetti, che lo ritengo un degno scrittore, nonché un fine conoscitore e ripropositore di una napoletanità non convenzionale. Tuttavia, la trama alla fine risulta assai debolucci. Ci sono momenti ironici, e finalmente che non se ne poteva più di tutta la seriosità mauriziesca. Ma ci sono anche cadute di tensione e di attenzione. Inoltre, c’è un tormentone, che ogni volta Mina vede Mimmo, questi gli sembra un Robert Redford di uno dei tanti film da lei visti. Ed ogni volta ci tormenta con la sottolineatura che è il più bel film che lei conosce. Dopo il quarto film, il gioco si fa stanco ed anche un poco inutile. Per tutto ciò, il romanzo non sale molto nelle mie considerazioni generali, pur essendo convinto e sostenendo che de Giovanni va comunque letto, almeno quando scrive gialli.

Maurizio de Giovanni “Troppo freddo per Settembre” Einaudi s.p. (Regalo di Mario e Ines)

[A: 07/05/2021 – I: 19/12/2021 – T: 22/12/2021] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2020]

Avevo voglia di togliermi questo dente in fretta, visto che faceva parte dei regali di compleanno (e che siamo quasi a Natale). Così ho preso subito in mano e letto, anche con un po’ di calma, visto che siamo sotto le feste, il secondo libro delle storie di Mina Settembre. Sempre avendo nel retropensiero lo sviluppo della serie televisiva.

Devo confermare la prima impressione. Lo scritto ha una sua valenza diversa dal girato, laddove, forse, viene fatta risaltare di più la presenza di Mina, anche per esaltare la bellezza e la bravura di Serena Rossi. Inoltre, a quanto ne so, lo scrittore ad un certo punto si è tirato fuori dal progetto televisivo, quindi, finiamola qui, dicendo comunque che Claudio, l’ex di Mina, e Domenico “chiamami Mimmo” sono all’opposto. Cioè Claudio è meglio su carta e Mimmo in tv.

Cò detto, la trama segue al solito i binari paralleli di Maurizio, dove c’è un “mistero” che segue Mina e la gente del consultorio, ed un giallo che segue Claudio con il fido Gargiulo.

L’avventura di Mina segue le tracce di una madre che le chiede aiuto per il figlio. Figlio che, dopo alcuni anni di carcere, esce perché, in quanto genero, deve diventare il capo di una parte della malavita napoletana. Obtorto collo, però, che il giovane non sembra tanto per la quale. Sì, è stato in carcere perché denunciato dal suo professore d’italiano, onde evitargli guai peggiori. Ed in carcere studia, si laurea, quasi a voler cercare uno sbocco diverso alla propria vita. Laddove poi, fuori, lo aspetta la moglie (la figlia del boss) nonché il figlio che praticamente non ha conosciuto, visto che Pasqualino ha sei anni e lui sei anni di carcere si è fatto.

Peccato che appena uscito il professore di cui sopra muore e tutto indica nel ragazzo l’esecutore della sentenza.

L’altro filone, invece, segue proprio la morte del professore. Claudio e Gargiulo sono incaricati delle indagini, e come due comici di razza, procedono sulla scena del delitto a cercare indizi, prove ed altre pensate. Che il professore viveva relegato in soffitta dalla nuora bastardina, avendo unica consolazione nella nipote, giovane ed intelligente. Soffitta dove viene trovato morto per le esalazioni della stufa, essendo il camino istruito dall’esterno. Facile per Claudio ricostruire il percorso doloso, e puntare il dito sul giovane che dovevasi vendicare, almeno per rispettare le gerarchie camorriste.

Noi sappiamo già, in quanto vecchi lettori di gialli, che le due storie non potranno che confluire in un’unica soluzione. Claudio è certo dell’innocenza del giovane, ma non riesce a provarla. Mina ha la soluzione del giallo, ma scoprirla metterebbe a repentaglio il giovane. Poiché Claudio è magistrato, non può trovare sbocchi. Mentre Mina, battitore libero, trova il modo di liberare il giovane dalle grinfie della camorra, mettendo, consenzientemente, in cattiva luce la moglie, e coinvolgendo il bel ginecologo nella trama risolutiva, anche senza che questi, veramente torsolo, capisca cosa sta succedendo.

Nella trama generale, poi, ci sono momenti diversi, alti e bassi, che ne consentono una lettura agile e gradevole. Bello il rapporto tra il professore e la nipote Fabiana, anche se il vezzo (mutuato dalle storie del commissario Ricciardi) di inserire capitoli in corsivo mi trova nuovamente freddo. Gradevoli sono le tirate di Mina verso i suoi problemi (il fisico esuberante e la madre opprimente). Molto fuori le righe le visite ginecologiche di Gammardella, che neanche nei peggiori film di Edwige Fenech avrebbero uno spazio decente.

Certo, de Giovanni continua con le sue tiratine sulla società napoletana in particolare, ma valide un po’ ovunque. Il rapporto tra i diversi strati della società. I rapporti familiari, esemplificati nella vita del professore e della sua famiglia. Dove c’è un figlio senza nerbo, una nuora assatanata di soldi, due nipoti di inutile sopravvivenza, ed una sola persona decente, Fabiana. Interessante anche il ruolo del barbone per scelta. Ex medico di grande spessore, ed ancora capace di diagnosticare ad occhi gli stati delle persone, per turbe personali decise di ritirarsi dalla vita, mantenendo pochi e duraturi affetti. Quello con il professore, ad esempio.

Insopportabile, invece il contino battere il dito sulla somiglianza di Domenico con attori famosi. Se nel primo romanzo era tutto un Robert Redford qua e là, ora è tutto un Kevin Kostner su e giù. Da saltare a piè pari. Per rimanere in tema poi, il sunnominato ginecologo sembra sempre venire da un altro pianeta. Non capisce cosa succede, non sa spiccicare una parola neanche se lo prendi a tortorate. Insomma, bello ed inutile.

Ma leggere di de Giovanni è sempre un immergersi nella sua Napoli. Forse non è quella che ci si aspetta, ma siamo lì, giriamo per i bassi, entriamo nei palazzi fatiscenti, e poi si salta al Centro Direzionale, o a Posillipo, o altrove in giro. Si legge bene, si legge facile, ma non è un giallo e non è un romanzo. È una scrittura gradevole, e si continuerà a praticarla.

Maurizio de Giovanni “Le parole di Sara” Rizzoli euro 14 (in realtà, scontato a 11,20 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 03/02/2022 – T: 05/02/2022] && e ¾   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno: 2019]

Torniamo allora ad una delle serie prodotte dalla penna di de Giovanni, quella dedicata a Sara Morozzi, investigatrice in pensione. Con questo abbiamo messo un po’ di ordine nelle vicende di Sara, che compare prima in un racconto lungo, poi in un romanzo (“Sara al tramonto”) cronologicamente successivo, ma letto prima. Tra l’altro, in questo volume, l’editore Rizzoli ha voluto inserire anche il racconto (“Sara che aspetta”) che serve a definire meglio sia Sara che gli altri personaggi ricorrenti della trama. Tant’è che in realtà, il libro è composto da 294 pagine di romanzo e 54 di racconto.

Come già rilevato, in questa serie non c’è la profondità del commissario Ricciardi, né il lavoro corale e ben orchestrato dei Bastardi di Pizzofalcone. Tuttavia, pur con qualche limite, la trama scorre, è di gradevole lettura, ed ogni tanto ha qualche uscita non banale che fanno voler bene allo scrittore. Certo, la trama “gialla” non è esaltante per complessità, ma ha degli spunti di riflessione sul comportamento umano e sulla difficoltà di fare giustizia in un mondo discretamente corrotto, dove le trame “altre” vengono da così lontano che non si riesce a fermarle.

Intanto, approfondiamo la conoscenza dei personaggi principali. Ricordo che Sara ha lavorato una vita in un’unità legata ai Servizi, impegnata a raccogliere informazioni sulle vite degli altri da intercettazioni non autorizzate. Dove si era inserita per la sua capacità di leggere i discorsi dalle labbra dell’interlocutore e di interpretarne parallelamente il comportamento. Quindi, analisi del corpo portata al più alto grado. Si era innamorata del suo capo, per lui aveva lasciato la famiglia, e con lui aveva vissuto circa 15 anni intensi, conclusi con la morte oncologica di Massimiliano.

La famiglia era costituita, morto il primo marito, dal figlio Giorgio la cui morte ed analisi della stessa compare nel racconto lungo. Dove conosciamo Viola, la donna di Giorgio, prima incinta, poi madre di un pargolo battezzato Massimiliano. Viola che viene talvolta coinvolta da “nonna” Sara nelle sue indagine, specie quando c’è bisogno di foto o di intrufolarsi in ambienti giovanili.

La squadra di Sara è poi completata da Davide Pardo, ispettore di polizia, spesso distaccato ai servizi di Sara, quando serve anche una presenza ufficiale. Corpulento e non giovane, ha due problemi: un cane, un “bovaro del bernese”, presentate ed impegnativo, ed una propensione affettiva verso Viola, che non sembra filarselo per nulla, anche se Davide ha un ottimo rapporto con il pargolo da poco nato.

Nel contorno, c’è la sua ex-amica e collega Teresa Pandolfi, che ha preso il posto di Massimiliano, e che nelle precedenti puntate, anche obtorto collo, chiede a Sara aiuti e collaborazione. Loro era conosciute, nei Servizi, come la Bionda (Teresa) e la Mora (Sara), complementari che la specialità di Teresa era predire il comportamento proprio dalla gestualità che Sara fissava nelle sue osservazioni. In questa puntata entra in scena anche Andrea, ex-ipovedente ora definitivamente cieco, anche lui parte a suo tempo della squadra, per la sua capacità di sentire tutto e capire dai rumori, cosa accade, anche se non lo “vede”.

La trama, allora, è divisa in due grandi binari: la vita quotidiana di Viola, di Sara, di Davide, con le loro macchiette comportamentali, i dispetti e le amorevoli cure. Una parte gradevole, che probabilmente vedremo evolvere nelle prossime puntate, ma che vi lascio brillantemente gustare nel corso narrativo. Narrazione che al solito viene contrappuntata da inserti corsivi, che ho già stigmatizzato altrove. Inserti sia che riportano pensieri del morto Massimiliano, poco utili allo sviluppo della trama, sia avvenimenti precedenti, questi forse interessanti, ma che personalmente trovo sempre poco fruibili per come sono inseriti. Si poteva, senza corsivarli, inserirli magari in una conversazione tra Andrea e Sara per ripercorrere tappe precedenti.

Comunque, venendo all’altro binario, vediamo Teresa che si innamora di uno stagista dei Servizi, con il quale sta avviando un’indagine su di un tale politico in odore di connivenze poco chiare. Stagista che viene prima rapito poi ucciso. Morte strana, che sembra quasi essere fortuita e non voluta. Teresa non può indagare ufficialmente, ed allora chiede aiuto a Sara.

E Sara si attiva. Con Pardo scava nel passato e nel presente del belloccio morto. Trova una fidanzata, più addolorata di quanto potrebbe essere. Trovano collegamenti tra il morto ed il politico. Ma soprattutto, tra il politico ed il padre della fidanzata. Quando Andrea, riandando con la memoria uditiva ad avvenimenti lontani nel tempo, ricostruisce il filone, scopriamo che il politico, il padre ed un imprenditore rampante a suo tempo erano legati all’eversione di destra. Staccatisi da quel filone, intraprendono carriere diversificate, ma che permettono, lavorando di concerto, a tutti e tre di avere un bel tornaconto economico.

La scoperta degli altarini, porta alla comprensione degli avvenimenti. Con alcuni dubbi di fondo. Il morto era stato rapito perché voleva cambiare bandiera o perché non forniva nuovi elementi ai “cattivi”? Il morto stava con Teresa a scapito della fidanzata o viceversa? Date le coperture che i tre hanno, e data l’impossibilità di trovare un reale collegamento che li incastri, tutto finirà in una bolla o Sara troverà un modo di uscire dall’impasse?

Non credo sia giusto che ne parli di più, che una lettura distensiva può essere di giovamento alle vostre diuturne fatiche. Anche in previsione della lettura delle prossime puntate, sperando che rimangano all’altezza.

“A volte bisogna decidere se fidarsi della mente o dell’istinto. I ragionamenti non indicano sempre l strada giusta da prendere. Il cuore, invece, sì. Le parole più sagge, alla fine, le dice proprio il cuore.” (274)

Maurizio de Giovanni “Una lettera per Sara” Rizzoli s.p. (Regalo di Mario e Ines)

[A: 07/05/2021 – I: 18/02/2022 – T: 20/02/2022] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 334; anno: 2020]

Eccoci ad un nuovo capitolo delle storie di Sara Morozzi, probabilmente la terza storia seriale per importanza nella testa del nostro autore. Anche se per me è una bella gara con le avventure di Mina Settembre, rimanendo sempre in testa il commissario Ricciardi (specie nelle prime quattro uscite), seguito, ma a distanza, dai Bastardi di Pizzofalcone.

Come si sa, gli autori che si imbarcano in opere seriali, partono da alcuni punti fermi e poi ne allargano i confini. Il punto di partenza, qui, fu Sara, ex dei Servizi, specializzata in analisi dei labiali e della postura. Sara che si innamora del suo capo (ricambiata), per lui lascia marito e figlio, con lui rimane quindici anni fino alla morte di lui. Lei quindi lascia il lavoro, rimanendo solo con servizi “su richiesta”, e spesso la richiesta viene da lei.

Il primo cerchio si allarga quando il figlio abbandonato muore, e lei si trova a confrontarsi con la nuora Viola e con il nipotino Massimiliano. Tra lei e Viola nasce una simpatia di pelle, così che Viola entra in alcune indagini. Poi viene il poliziotto in servizio Davide Pardo, sfortunato con le donne, padrone di un Bovaro del Bernese di taglia eccessiva. Davide è comunque un buon segugio, ha molti contatti, si innamora, non ricambiato, di Viola, e diventa uno zio apprensivo per Massi. Infine, nell’ultima storia, entra anche l’ipovedente gay Andrea, legatissimo al capo di Sara, anche lui pensionato, ma di memoria superiore a molti computer.

Qui, la storia entra di traverso, per mezzo di Nino, un ex-cancelliere del tribunale, in carcere per truffe varie, che si sta avviando verso un non ritorno per carcinoma maligno. Ha ancora qualche pelo sullo stomaco, e vorrebbe “mondarsi” la coscienza. Quindi manda messaggi ad un altro malato terminale, il vicecommissario in pensione Fusco, ed al nipote, mai riconosciuto, Manuel, che vuole aiutare tramite un mini-ricatto, che a Manuel servono soldi per far curare il suo grande amore Carla, ammalata di sclerosi sistemica (questo romanzo è un po’ troppo pieno di malati e malattie, tanto che alla fine scopriremo che anche il piccolo Massi avrà problemi di salute, anche se non sappiamo di quale gravità).

La vicenda inizia in una libreria, dove la commessa part-time Ada rivende ad un padre depredato dal figlio tossico, un libro che dovrebbe contenere un messaggio. Ma la lettera Ada l’ha tolta, l’ha letta, e, per incoscienza pura, la restituisce al malcapitato. Da qui, un mare di guai.

La lettera conteneva un messaggio criptato che nessuno doveva conoscere, così che gli estensori del messaggio convincono Nino a consegnargli Ada. Che ovviamente viene uccisa.

Il messaggio, però, metteva nei guai un magistrato generalmente considerato integerrimo, per cui, quando Fusco (che è il fratello di Ada) comincia ad indagare, lui chiede, in virtù di un vecchio debito di gioventù, al capo di Sara di insabbiare le indagini. Cosa che lui fa, pur soffrendo, e confidandosi solo con Andrea.

Il fatto è che queste storie (ma noi lo sapremo solo abbastanza in là) avvengono una ventina d’anni prima del tempo presente. Quindi, con i soli flashback da me odiati, saltabecchiamo nel tempo, a volte con passaggi, a volte solo con ricordi.

Si tratta però di risalire tutta la catena degli eventi. Rintracciare Manuel, che nel frattempo Nino è morto. Capire chi è il magistrato. Capire perché l’amore di Sara si è così comportato, macchiando, agli occhi di Sara, una vita altrimenti integerrima. E noi (e Sara) ci domandiamo, ma una volta ammessa una macchia, quante altre ce ne potranno stare?

Tutto poi inframezzato dalle turbe di Davide che non si sente considerato, e continua a fare svarioni per tutto il tempo. Che quando imbocchi una discesa, non è facile frenare. Dalla “monelleria” di Manuel, ma anche del suo amore per Carla. Di cui è bene leggere, più che raccontare. Dal precisarsi del carattere di tutti quanti, Viola e Andrea in particolare.

Sara è sempre sul pezzo, riesce, decodificando parole e gesti, a fare breccia nelle corazze più agguerrite, anche se tutto il tormento delle sue storie d’amore alla fine è un po’ peso e rischia di portare fuori strada. Come continuano a portare fuori strada, gli inserti in corsivo che de Giovanni continua ad inserire, e che io continuo a ritenere inutili e poco funzionali, alla trama ed alla sua comprensione.

Il nostro, alla fine, ci pone davanti al dilemma di quanto sia lecito mentire per coprire magagne passate, che, se venissero alla luce, potrebbero distruggere un roseo e promettente presente. Un presente che comunque serviva a raddrizzare torti sociali.

Torti che ad esempio, ed in ultimo, de Giovanni cerca di emendare, confessando (ed andatene a vedere le coincidenze) che la figura di Ada è modellata sulla vicenda di Graziella Campagna, vittima innocente della mafia, uccisa il 12 dicembre 1985.

Purtroppo, però, nel tornare alla scrittura, lo stile di de Giovanni, si sta incartando abbastanza, non trova più quella fluidità che caratterizzava, pur con delle trame pesanti, i primi lavori. Speriamo che il successo non abbia tolto troppo inchiostro alla sua penna.

Maurizio de Giovanni “Gli occhi di Sara” Rizzoli s.p. (regalo della sig.ra Laura)

[A: 07/05/2021 – I: 21/02/2022 – T: 22/02/2022] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 323; anno: 2021]

Purtroppo, questa nuova, e per ora ultima, puntata delle storie di Sara Morozzi è andata in calando. Già avevo dei sospetti, dal precedente libro. Ma qui, i sospetti diventano certezze. Certo, de Giovanni non delude nell’affabulazione, nell’intrecciare idee. Tuttavia, qui, la storia si incentra molto sul privato (e ci potrebbe stare), mentre quando tocca “il thriller” si perde e si annacqua in rimembranze di momenti non solo poco chiari, ma anche poco chiariti.

Di certo, si approfondiscono i caratteri sia intorno a Sara sia di Sara stessa. Viola, la nuora in pectore, fa un lungo viaggio verso di sé, riflettendo sui suoi metodi di essere verso il figlio Massimiliano, non voluto, ma ora tanto amato. Il poliziotto Davide si irrigidisce nelle sue parti poliziesche, ma si ammorbidisce nel versante intimo, sempre verso Massi, ma anche (noi lo pensiamo da un po’ ma ancora non esce allo scoperto) verso Viola.

Sara, quindi. Lei, per risolvere il caso, non solo dovrà rileggere il proprio passato lavorativo, ma anche fare un risciacquo delle proprie sensazioni verso l’universo maschile. Verso il suo grande ed assoluto amore per Massimiliano, il suo compagno di vita. Verso Nico con cui nulla ha avuto da spartire se non sguardi, ma che sguardi. Tanto, appunto, che l’autore ne fa il titolo del romanzo.

L’innesco si aggancia alla fine del precedente romanzo, che terminava con l’annuncio di una malattia nel piccolo Massi. Ora veniamo a sapere che si tratta del tumore di Wilms, malattia renale non diffusa ma neanche rarissima. Purtroppo, il piccolo sembra essere (è) ad uno stadio quasi irreversibile. Incurabile ed inoperabile, dicono i medici. Ma c’è uno spiraglio: pare che esista un misterioso chirurgo che riesce ad operare miracolosamente malati ritenuti senza speranza. Peccato che sia poco rintracciabile. Peccato che le sue origini provengono da un passato turbolento, o almeno questa è l’idea thrilling dell’autore.

Qui parte il solito su e giù temporale, altra cifra caratteristiche di queste opere. Perché Sara faceva parte di una Squadra Speciale addetta a sorveglianze di vario tipo, e dove lei era specializzata nel capire labiali e atteggiamenti posturali dei sorvegliati.

Si innesca così la seconda storia, imperniata su di un gruppo di studenti rumeni, che studiano a Napoli, poco dopo la caduta del muro di Berlino, e la disgregazione dei paesi dell’Est. Ricordo che Ceausescu fu giustiziato il giorno di Natale del 1989. Qui, il manipolo rumeno si muove nel 1990. Prima cercando di capire gli avvenimenti patri. Poi, cercando di dare sfogo al risentimento. Loro sono “comunisti duri e puri” e vorrebbero far tornare indietro le lancette della storia. Per fare questo, ipotizzano un clamoroso attentato.

Questo, frutto della fervida fantasia di de Giovanni, si dovrebbe collocare durante la visita (storica) di papa Giovanni Paolo II a Napoli, avvenuta dal 9 al 12 novembre 1990. Ora, è ovvio che cinque sbandati rumeni, pur volenterosi nella loro ira, non avrebbero né i mezzi né l’organizzazione per realizzare un simile attentato. Vengono così, a loro insaputa, coinvolti dai Servizi Segreti americani, che li sponsorizzano, e non si capisce (volutamente) se per realizzare il “grande botto” o per fermarlo prima che avvenga. Qui, l’autore si avventura in una trama “ucronica” che però non ci coinvolge tanto.

Seppur storicamente probabile (quante trame eversive sono passate per il suolo italico senza che noi se ne sappia qualcosa), tutta questa parte è risibile, come risibili sono le sparate degli esuli rumeni. Meno risibili, e più probabili, sono invece gli atteggiamenti dei Servizi segreti italiani. Vediamo la squadra di Sara all’opera alla grande. Lei la Mora, Teresa la Bionda, Andrea l’ipovedente, l’arrivista Lembo, il grande capo Massimiliano, ognuno impegnato al proprio meglio, anche se non sempre è il meglio per la verità. Ma i meccanismi potevano essere quelli.

L’aggancio è che un giovane chirurgo, Nicolae Popescu, esterno al gruppo, è coinvolto sentimentalmente con Ana, un elemento centrale nell’attentato. Sara, contro tutto e tutti, vorrebbe salvare capra e cavoli. Ma per una miriade di ragioni, anche se non ci sarà lo scoppio previsto (e questo lo sappiamo dalla storia) i cinque rumeni spariranno nel nulla. Solo Nico sparisce, ma non nel nulla. Sarà quel chirurgo che tutti cercano per salvare Massi.

Ma lui sa (o pensa di sapere) che Sara non ha mantenuto le promesse del tempo, sa che quei giorni hanno segnato per sempre il suo destino. Il loro incontro, che ci vogliono trecento pagine per organizzare, dovrà portare ad uno scioglimento. Guardandosi negli occhi, che anche Nico ha uno sguardo potente. Uno sguardo che qualcuno aveva interpretato ed aveva agito per spegnerlo, senza riuscirci.

Così, con un ritorno agli occhi finisce anche questo romanzo. Saranno occhi capaci di vedere? Saranno occhi capaci di salvare ancora qualcosa, dal passato o dal presente? Arrivate alla fine e ne saprete.

Ma arrivati alla fine, saltate, per favore, la descrizione dei personaggi, un aggiunta (spero editoriale) di scarso valore letterario, ed anche poco gradita. Sappiamo noi lettori chi sia cosa, e non c’è bisogno di spiegazioni esterne.

Inoltre, e qui chiudo, come già accennato, la parte “gialla” è debole, e la nuova squadra di Sara si sta formando ma ancora non è nel pieno delle sue funzioni. Ci si chiede, quindi, se ci sarà un seguito. Anche se, per ora, de Giovanni è distratto e si dirige verso altre mete letterarie. Dico distratto perché ad un certo punto fa dire ad Andrea che non ha mai mancato una promessa fatta al suo capo, mentre lo aveva già fatto nel libro precedente. Ahi, ahi, ahi!

“I tempi andati non sono abbastanza andati, per dimenticare.” (189)

Qui andrebbe bene quella sentenza latina d'incerta origine, che si pronuncia spesso, nell'uso corrente, quando si sta per ripetere qualche cosa che già si sia sperimentata come piacevole, ma che non riporto perché sembrerebbe io sia saccente. Tuttavia, vi consiglio di cercare i Pooh nell’allegato. Meritano.

Poiché poi c’è sempre da prendere qualcosa nei posti più impensati, vi regalo una frase del grande scrittore di noir Giorgio Scerbanenco che ci consola dicendoci “Non si sa mai perché si fanno le cose” (50) verso la metà del suo agile romanzetto “Le principesse di Acapulco”.

Un inciso, purtroppo d’attualità. Di doppia nazionalità, il nostro scrittore in realtà si chiamava Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko ed era nato a Kiev. E non dico altro.

Pare invece, che i viaggi si riescano a concludere, tanto che, con molta probabilità, salterò la prossima settimana. Se così fosse, spero che sarete contenti insieme a me, anche se dovrò rimandare di poco l’abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di giugno – secondo

Come detto la scorsa settimana, andiamo centellinando le citazioni, tanto che oggi ci focalizziamo nel solo mese di marzo del 2010. Ci sono alcune citazioni sparse di diversi autori, lungo tutto il mese. Poi ci sono alcuni lunghi estratti di un libro a me molo caro di Francesco Piccolo, di cui parlerò in finale.

Cominciamo allora con la prima settimana di marzo, occupata da due autori di ben diverso stile. Il primo è l’ex-magistrato Gianrico Carofiglio di cui dal suo “Né qui né altrove” estraggo prima una frase molto “Zelig”, che mi riporta alla festa dei miei quarant’anni: “non avendo le idee chiare su me stesso… nella vita sociale interpretavo personaggi, diversi a seconda delle circostanze confusamente ispirati a film e libri” (12). La seconda, è una considerazione che tante volte ho fatto quando, in giro per il mondo, mi imbatteva in persone che parlavano per ovvie e sbagliate frasi fatte: “viene qualcuno dall’estero e inevitabilmente si finisce a parlare del fatto che, incredibile, gli italiani (addirittura i meridionali) rispettano il divieto di fumare. Ogni volta che sento questo discorso mi viene voglia di dare una testata al responsabile. Più o meno come quando sento dire che il clima sta cambiando, che non ci sono più le stagioni intermedie, che i giovani d’oggi non hanno interessi, noi eravamo diversi” (63).

L’altro, diverso per stile e per resa, è il soprattutto poeta Valerio Magrelli di cui lessi un libro, “La vicevita”, soprattutto per il sottotitolo: “Treni e viaggi in treno”. Intanto per la definizione che dà della prima parte del titolo: “La nostra vita pullula di ... attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere… sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita” (3). Poi fa un’osservazione che mi aveva fatto mio padre viaggiando in aereo da Samarcanda a Mosca negli anni ’70: “il vecchio Tupolev … mi portò a Tbilisi: non avevo mai visto un aereo dove i passeggeri salivano a bordo con le galline in gabbia, fra panini e bottiglie… era una specie di jet agrario, una via di mezzo fra la corriera, l’aia e l’osteria” (39). Infine, mi fornisce due assist sul comportamento umano, che sottoscrivo in pieno: “Quanti amanti, quanti amici, non sprofondano nell’anonimato, allontanandosi dalla nostra orbita come navi spaziali in avaria?” (58) e “Le tragedie, come i quadri, vogliono la giusta distanza” (71).

Una settimana dopo, cosa per me non usuale, lessi invece “Una cosa piccola che sta per esplodere”, un libro di racconti di Paolo Cognetti. Quasi a ricordarmi il mio amato Seneca ed il suo “De senectute ovvero L’arte di saper invecchiare”, prima sottolinea la nostra incolmabile mancanza di saggezza: “non è vero che da vecchi si diventa più saggi... io non mi sento saggio. Ho fatto tanti sbagli e mi sa che ne farò ancora… [ma] lunga o corta, la tua sia una bella partita” (101). Poi, citando proprio Seneca, chiosa: “la maggior parte dei mortali si lamenta per la crudeltà della natura. Siamo al mondo per così poco tempo, e questo tempo a noi concesso trascorre così in fretta, che la vita sembra abbandonarci nel momento stesso in cui comincia” (134).

Nella stessa tornata, tornai a leggere un’autrice che quindici e più anni fa mi consigliò la mia amica Chiara. La torinese Paola Mastrocola in “Che animale sei?” mi fece da consolazione (perché stavo e sto vivendo quel momento): “si sentì anche molto felice, perché è molto bello quando qualcuno ci dice qualcosa di noi e di come siamo: ci sentiamo subito meglio, come dire, più… definiti, e quindi meno soli!” (23). Poi mi rimandò proprio a Chiara, laddove usò quel termine che sottolineo e che solo da Chiara avevo sentito: “il lupo e l’anatra se ne stavano sbacaliti dallo stupore” (187).

Infine, c’era Francesco Recami che ne “Il ragazzo che leggeva Maigret”, ci dà una ricetta per affrontare i momenti d’angoscia: “Quando c’è qualcosa che fa paura non bisogna tenerselo per sé. Bisogna parlarne il più possibile. E molto spesso si rivela una cosa da niente” (37).

Passa un’altra settimana e mi trovo ad affrontare la scrittura di Corrado Augias non in un suo saggio, come ci si poteva aspettare, ma in un giallo di discreta fattura: “Il fazzoletto azzurro”. Senza entrare nel giallo, in una prima parte ci sono sensazioni di vita che mi fecero riflettere, anche per il nome del protagonista: “Giovanni si considerava un uomo del tutto normale, non fosse stato per il fatto di sentire a volte che una seconda vita viveva dentro di lui, non altrimenti avvertita che nell’improvviso desiderio di essere altrove” (87); “C’era stato un tempo in cui … aveva pensato che Giovanni fosse il compagno ideale per un viaggio lungo la movimentata corrente della vita” (113). Ma più che altro le ricordanze sul tempo e sul nostro esservi immersi: “Non ci si dovrebbe permettere di esprimere giudizi se non si sono passati i quarant’anni, prima si è troppo impazienti, troppo crudeli e anche troppo ignoranti” (190) e “Il presente è il lato più doloroso dell’esistenza, ma ha il vantaggio di passare in fretta” (191).

Verso la fine, poi, fa un considerazione sul vero e sul falso che è un capolavoro di finezza: “Fate conto che manchi un minuto a mezzogiorno e che qualcuno vi chieda che ore sono. Se rispondete ‘Sono le dodici precise’, dite il falso. Se invece affermate ‘è un’ora compresa tra le undici del mattino e l’una del pomeriggio’ dite una cosa vera. Eppure, l’asserzione falsa è più vicina alla verità di quella vera, oltre ad essere certamente più utile per capire che ore sono veramente. … Non sempre le cose false sono anche sbagliate. Meglio ancora, non sempre le cose vere sono utili” (227).

Finivo quel marzo faticoso con un autore tedesco che non era (e forse non è ancora) molto noto, Daniel Kehlmann. Di lui, io, ho invece letto molto, e nel suo “Io e Kaminski” mette in bocca alla bella di turno una frase ironicamente superba: “se hai intenzione di sedurmi, dovresti farti la barba e non dovresti indossare un pigiama…” (128).

Come detto finisco ritornando su un autore che leggo sempre con piacere, per gli spunti ironici che riesce a tirar fuori dall’osservazione della realtà (e non a caso ha sceneggiato diversi film, punteggiandoli di sagaci affermazioni). Mi riferisco a Francesco Piccolo.

In un libretto dedicato ad una serie su luoghi e situazioni italiani edito da Laterza, “L’Italia spensierata”, fa due lunghe osservazioni su di una sua partecipazione televisiva, che non posso emendare e riporto integralmente.

La prima: “la Rai ha una caratteristica molto romana riguardo a qualsiasi richiesta, che nel campo lavorativo romano corrisponde non soltanto alle richieste gratuite come in questo caso, ma anche a quelle fatturabili e pagabili come per qualsiasi artigiano, commerciante eccetera. Cioè, alla prima richiesta di un posto da spettatore a Domenica In, di un elettricista per montare delle luci, di un meccanico per un problema alla moto, di un esperto per il cambio del telefonino, di un ascensorista per un preventivo di ascensore, di un tassista per essere condotti in un luogo nemmeno troppo lontano, la prima reazione è sempre fortemente scoraggiante; di solito ci si sente rispondere immediatamente: non si può fare; si vede l'ascensorista o il tassista o l'elettricista che scuotono la testa e dicono che non si può fare, oppure, quando va bene, che è molto difficile (e comunque tendono a scuotere la testa). Poi, se si riesce a superare quest'ostacolo innalzato repentinamente, si può anche procedere con normalità, ma la soglia psicologica di quest'ostacolo è alta, molto alta, abbastanza alta da costituire appunto una soglia psicologica nella quale il primo consiglio che cerca di darti chi risponde è: lascia perdere. E, ripeto, anche quando è occasione di guadagno facile e immediato. E come se a Roma ci fosse una sorta di training continuo in cui la popolazione lavorativa ti chiede in modo filosofico - mistico - agonistico di fare qualsiasi cosa solo se davvero la vuoi fare, se ne sei fortemente convinto, se senti di doverla fare e di non potervi assolutamente rinunciare. Ti chiede, insomma: davvero è necessario mettere delle lampade nuove al soffitto? Davvero la tua moto non può andare avanti così? Davvero c'è bisogno di un telefonino nuovo? Davvero non puoi salire le scale che ti farebbe anche bene? Davvero è così urgente raggiungere una strada secondaria del quartiere Prati? E davvero nella tua vita è importante andare come spettatore a Domenica in??” (12-13).

Ancor più da leggere e meditare la seconda: “La prima canzone che cantano i Pooh … è Tanta voglia di lei, la loro canzone più famosa e che ognuno di noi canta a memoria … mentre il Pooh canta la storia di quest'uomo a cui dispiace di svegliare lei e che forse un uomo non sarà, ma a un tratto sa che deve lasciarla e tra un minuto se ne andrà (la sveglia apposta per comunicarle che deve lasciare e che tra un minuto se ne sarà già andato). La cantiamo tutti in coro, come se fosse una splendida canzone d'amore e nell'immaginario è sempre passata così, ma, in effetti, quest'uomo (che forse non è un vero uomo, dice, ma forse invece è proprio il classico uomo) si scopa una e poi poco dopo, a un tratto, sente il senso di colpa, a un tratto, e non può fare a meno di confessarle che adesso ha tanta voglia di un'altra, che poi è la sua vera donna. Quella che si è appena scopato non dice una parola, tanto che uno sulle prime pensa che stia dormendo, e invece sta mordendo le lenzuola in silenzio e lui sa che non perdonerà. Ma non può farci niente: si è reso conto all'improvviso che il suo posto non è qua, è là, e nella mente c'è tanta, tanta voglia di lei. Ora, nessuno può avere nulla in contrario sul fatto che lui senta che il suo posto è là e non è qua. È legittimo. Però, secondo me, una cosa del genere si dovrebbe sentire prima di scopare, non appena dopo. Il senso di colpa - perché questa è una canzone sul senso di colpa, non sull'amore - o gli viene prima, oppure se lo può pure trattenere un po'. No, invece accade esattamente il contrario: prima non dice niente, anzi non avrà probabilmente neanche detto di avere qualcuno che lo aspetta, per carità, e se ha detto qualcosa saranno state parole gentili, seducenti e romantiche. Poi, d'un tratto, dopo, subito dopo, d'un tratto, sa che deve lasciarla e sa che il suo posto è da un'altra parte. Lo sa con certezza assoluta. E non solo. Ma deve pure andare via subito, perché il suo amore si potrebbe svegliare e chi la scalderà, che non è una cosa molto carina da dire a qualcuno con cui hai appena - appena! - scopato. Ma non può farci nulla: nella sua mente c'è tanta, tanta voglia di lei. E quel «tanta, tanta» ripetuto due volte è davvero cinico. Poi la seconda strofa è tutta dedicata alla tenerezza del suo amore (quello vero) che si gira dormendo nel letto e cerca il suo uomo che non c'è. Però la strana amica di una sera si sente uno schifo e la donna amata è stata tradita, e se apre gli occhi lo scoprirà. Noi contribuiamo alla sua esperienza cantando a squarciagola insieme al Pooh, identificandoci con chi, non ho capito - con la ragazza sconosciuta e abbandonata? Con la donna che cerca il suo uomo che non c'è? Con il senso di colpa di lui? Boh.” (52-53).

L’ultimo brano d Piccolo lo dedico a tutte le persone che ho visto in tutti questi anni, ed anche, non sono ipocrita, a me stesso: “Potrei fare un lunghissimo elenco di amici che mi chiamano immediatamente quando gli è successo qualcosa di terribile e poi rispondono a una mia telefonata allarmata, qualche tempo dopo, dicendo distratti: ah, sì, quella cosa lì, no, poi si è risolto tutto... Io mi lamento, loro dicono che ho ragione, ma poi me lo fanno di nuovo. Le persone hanno bisogno di compagnia e condivisione quando stanno male, ma poi i momenti felici vogliono viverseli tutti da soli; mentre tu sei ancora lì che ti struggi per loro, loro si sono dimenticati di avvertirti che poi si è risolto tutto” (172).

Insomma, Piccolo, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo.

domenica 12 giugno 2022

Saghe familiari - 12 giugno 2022

Dopo una settimana, dedicata ad una scrittura femminile “generica”, eccone una seconda in cui, invece, compare un’idea di fondo: la saga familiare, la storia delle vicende di una famiglia, anche attraverso generazioni e lunghi periodi. Come ci aveva abituato Stefania Auci, con una riuscita forse migliore. Qui, in realtà, si salva solo Agata Bazzi, non a caso con una storia siciliana. Mentre navigano nel limbo del vorrei avrei scritto meglio, Carla Maria Russo, Natasha Solomons e Ann-Marie Mac Donald. Decisamente inguardabile il romanzo di Romana Petri. Noi, intanto, ci si prepara a leggerne altre, di vicende lunghe anni ed anni.  

Agata Bazzi “La luce è là” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 14 euro 7,90

[A: 10/09/2020 – I: 16/01/2021 – T: 19/01/2021] - &&&     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 365; anno 2019]

Cominciamo da questo recente scritto l’analisi della collana proposta dal Corriere della Sera in unione con il settimanale “Oggi”, ed intitolata “Saghe familiari”.

Come prima lettura direi che è completamente in linea con la scelta editoriale, ed anche gradevole in lettura. Non sicuramente avvincente come il libro della Auci sui Florio, ma di certo degno di una attenta lettura. Anche per la complessa genealogia da cui viene fuori. Che Agata è figlia di Giuliana Raja e Michele Bazzi, e Giuliana è figlia di Margherita Ahrens e Vincenzo Raja, e Margherita è figlia di Johanna Benjamin e Albert Ahrens. Albert che è il capostipite di questa famiglia di cui il libro narra la storia.

È un libro familiare, ma anche, ed è un suo merito, una fotografia di Palermo e dell’Italia lunga quasi ottanta anni. Un libro scandito poi da alcune date forti per la famiglia Ahrens. Il 1875, quando Albert arriva a Palermo. I venti anni a cavallo del secolo scorso, epoca della grandezza. Il 1919, quando, travolta da tristi vicende familiari, Albert lascia le industrie da lui fondate. Il 1934, iniziando le restrizioni per gli ebrei, la famiglia, ebrea e tedesca, comincia ad avere problemi. La morte di Albert nel 1938. La festa dei 100 anni di Johanna nel 1958.

Come potete capire già da queste date, è l’intreccio tra la famiglia e la Storia, l’altro elemento sempre presente, che Agata, pur con qualche frenata letteraria, riesce a rendere in maniera molto scorrevole. Introducendo diversi piani di scrittura. Ci sono interpunzioni del progredire nel tempo con brani presi dal diario che Albert cominciò a scrivere arrivato a Palermo. C’è una terza persona narrante che scandisce gli anni dal 1875 al 1900 (circa). C’è la voce narrante di Martha, figlia di Albert, che racconta in prima persona gli avvenimenti dal 1900 al 1958. C’è infine l’epilogo soggettivo di Agata che scandisce gli ultimi rivoli della grande storia.

Albert nasce poco dopo la metà dell’800 nella città di Varel nel nord della Germania, non distante da Brema. Avviato alla produzione ed al lavoro già quindicenne in seguito alla morte del padre, dopo alcune esperienze in varie situazioni lavorative, si trasferisce ventenne a Napoli presso un cugino. Albert è ebreo, ma non praticante; è bassino e non particolarmente bello, ma di pronta intelligenza. Nel 1875 decide di tentare la propria strada, aprendo un mercato nuovo ai mobili della famiglia impiantando una nuova sede a Palermo. Lì avrà il colpo di fulmine: per il clima, per il lavoro, per l’ambiente plurinazionale che in quegli anni, e fino alla Prima guerra mondiale, si respirava a Palermo, sotto la spinta industriale e ambientale della famiglia Florio. Tanto che sarà proprio con Ignazio che avrà il primo abboccamento, e la spinta per le sue imprese.

Ma Albert non poteva restare solo, aveva conosciuto, prima di partire, una forte donna ebrea, Johanna. Quando comincia ad avviare le sue attività, dopo molte lettere caute, le invia una formale richiesta di matrimonio. Cui Johanna risponderà con un telegramma di una sola parola: “Ja”. Da quel sì, cominceranno i giorni belli: l’arrivo a Palermo, il matrimonio, la nascita di otto figli: Robert, Erwin, Margherita, Berta, Alice, Marta, Olga e Vera.

All’inizio del ‘900 il registro della narrazione passa nella penna di Marta, menomata nell’udito, ma attenta e sempre presente. L’unica che non si sposerà. E con Marta seguiremo gli alti e bassi della famiglia. La morte di Robert nel famoso disastro ferroviario del 17 dicembre 1912. Il suicidio di Erwin mai ripresosi dalle brutture della guerra. Le diaspore delle figlie, alcune verso il Nord, sia Milano sia in Francia. Il doppio incrocio tra gli Ahrens e i Morello con il matrimonio tra due ragazze Ahrens e due ragazzi Morello. La storia tra Margherita e Vincenzo Raja, sindacalista e comunista. Insomma, tutto l’intreccio sociale e politico della famiglia.

In parallelo, vediamo anche Palermo che cresce di importanza fino agli anni ’20, con tutti gli impresari, soprattutto stranieri, ad investire nel Marsala. Poi la decadenza della città, con il crollo della dinastia dei Florio, la sciagurata reggenza del prefetto Mori, e tutte le vicende che hanno portato alla distruzione di gran parte della città, alla sua non ricostruzione ed al proliferare della presenza mafiosa sul territorio.

Infine, lungo tutta la storia, la costruzione della villa Ahrens, poco prima di quella che ora è lo ZEN. Villa di famiglia, poi venduto in seguito alle leggi razziali, ed ora ricostruita, risorta a nuova vita e sede della DIA. Come dice Agata, una fine che avrebbe fatto piacere ad Albert.

Non sempre la scrittura riesce a rendere tutta la complessità di una vicenda familiare e sociale che, seppur non di primissimo piano, è stata comunque presente e vitale per tanti e tanti anni a Palermo. Fa anche piacere sentire il legame solido che soprattutto Johanna (morta a 106 anni) è riuscita a costruire intorno a sé.

Personalmente, mi rimanda la sensazione della mia storia familiare, da quei capostipiti che furono nonno Cesare e nonna Bianca, fino a noi, un tempo 28 cugini, ora meno che qualcuno ci ha lasciato. Ma anche noi, pur nelle ovvie diversità, coesi nel fondo dei nostri cuori.

Romana Petri “Pranzi di famiglia” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 11 euro 7,90

[A: 22/09/2020 – I: 23/02/2021 – T: 26/02/2021] - & +     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 414; anno 2019]

Un libro che ho faticato a leggere ed a comprendere. Ha anche degli spunti interessanti, tuttavia avrebbe avuto bisogno di una piccola prefazione, che ne spiegasse meglio le vicende narrate e desse qualche indicazione maggiore sull’autrice.

Perché innanzi tutto, il romanzo è la seconda (finale?) puntata di una più grande saga immaginata dalla scrittrice. Riprende ed approfondisce, infatti, i personaggi del suo precedente libro “Ovunque tu sia”. Si poteva quindi inquadrare i personaggi a partire da quel contesto, dove venivano narrate le vicende di Marta de Ceu (la madre) e di Ofelia e Margarida (le nonne). Che qui sono presenti un po’ come ombre. Anche se poi, proprio sulla madre si appuntano prima domande e poi rivelazioni che ne danno un quadro a tutto tondo. Ovvio, unendo i due scritti.

Qui, in realtà, seguiamo meglio la vicenda dei tre figli di Marta e Ceu, Rita, la primogenita, e Vasco e Juana, i gemelli. Nonché quelli di Tiago, il padre.

Ma prima di delineare altro della trama, è bene soffermarsi sull’altro punto di domanda che mi ha attanagliato per tutto il libro. Perché ambientarlo a Lisbona? E qui, sarebbero state d’aiuto note biografiche maggiori (che ho cercato e trovato solo a posteriori). Che Romana Petri è sì scrittrice, ma anche traduttrice, in special modo dal portoghese. Dividendo la sua vita tra Roma e Lisbona. Città dove ha incontrato l’amore in Diogo Madre Deus, ora suo marito. Con il quale ha anche fondato una piccola ma interessante casa editrice “Cavallo di ferro”.

Dicevo dunque che i personaggi principali sono tre (e mezzo).

Rita nata con una grave malformazione al volto, nonostante una serie di interventi chirurgici non riuscirà mai ad avere un viso piacente, una voce normale. Ne esce viva, ma segnata da tanta rabbia verso il mondo, che spesso esterna in sfuriate epocali. Non ha un buon rapporto, in fondo, con nessuna, e cerca (riuscendo infine) di vivere solitaria nella casa materna.

Juana, la gemella bellissima, mal sposata con l’insulso Nuno, votata a far figli per dare un senso alla propria vita. Ne avrà due (cui darà il nome dei genitori), ma entrerà in una depressione abissale. Perché il marito la tradisce, il padre la ignora, i figli la stressano, i fratelli non entreranno mai in una vera comunicazione con lei.

Vasco, il gemello maschio, il personaggio positivo della famiglia. Quello che si pone domande, che si chiede perché ha rimosso la sua infanzia. Ma anche quello che si riscatterà, incontrando l’amore nell’italiana Luciana. Una pittrice un po’ simpaticamente mattoide, più grande di lui, che gli dà la forza di uscire dalle secche familiari, magari per volere verso più sereni orizzonti italiani. Inciso: anche Romana è più grande di Diogo, ed anche loro si trasferiscono, in gran parte, in Italia, a Roma, e con un piede in Umbria (luogo natio del padre di Romana, il basso nonché attore cinematografica di film del genere “peplum” Mario Petri).

Il mezzo, che sempre presente ma agisce solo per riferite azioni, è il padre Tiago. Antipatico, supponente, che vuole imporre ai figli l’altrettanto antipatica sua seconda moglie. L’unica azione positiva, almeno come motore dell’azione romanzesca, è la sua volontà di vedere i figli ogni  domenica, in un pranzo che sarà poi quello che dà il titolo al romanzo, ed intorno a cui si dipana la vicenda narrativa.

Certo, ci si immerge nella cucina portoghese, soprattutto nel “bacalao”. Certo, seguiamo il percorso di Rita che ricostruisce i ricordi perduti della madre. Ma tutto è annegato in giri di frasi che si scontrano più che incontrarsi. Anche se Luciana riesce a portare quel soffio di italianità spensierata che farà finalmente fuggire la “saudade” lusitana.

Per tutto ciò, alla fine devo dire che non ho un buon ricordo di questo libro. Ora che ne ripasso il filo, tenendo solo l’essenziale, pare più corposo. Durante la lettura no, non vedevo l’ora di voltare pagina, per capirne il finale.

Un ultimo punto a favore, che porta quel segno di addizione nel giudizio è l’immancabile citazione delle “pastel de nata” mangiate a Belém. Lo fanno Vasco e Luciana. L’ho fatto anch’io, ma ne ricordo solo l’ultima volta.

“Quando si metteva a letto … leggeva anche se era stanco. Era convinto che una intera giornata senza un momento dedicato alla lettura fosse una giornata persa.” (234)

“Tolstoj mi ha insegnato che solo il corpo non mente mai, solo il corpo dice chi veramente siamo.” (370)

Carla Maria Russo “Una storia privata” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 10 euro 7,90

[A: 22/09/2020 – I: 19/03/2021 – T: 21/03/2021] - && e ½      

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 347; anno 2019]

Carla Maria Russo nasce nel 1950 in Molise, ma vive da sempre a Milano, dove per anni ha insegnato italiano e latino in un liceo. Ha iniziato a scrivere nel 2005 imboccando la strada del romanzo storico, imbastando biografie, più o meno romanzato, dalla storia di Costanza d’Altavilla alle vicende storiche della famiglia Sforza. Per passare, raramente ma con efficacia, a romanzi d’ambientazione più recente. Con questo libro, uscito nella collana di “Saghe familiari” del Corriere della Sera fa un po’ un mix, tra biografia (il sottotitolo del libro è infatti “La saga dei Morando”) e romanzo di storia recente.

Il tessuto narrativo è ben formato, indice di una sapienza nel maneggiare la lingua, lasciandomi però con alcune insoddisfazioni. I soliti salti temporali, che non sempre trovo funzionali alle trame dove vengono utilizzati (a volte sono solo indice di voler tenere il lettore in uno stato di sospensione, di “trattenere il respiro”). Ma anche la chiusa, che, pur chiarendo ai protagonisti dei punti oscuri che noi si aveva chiari da lettori onniscienti, lascia alcuni attori della vicenda in un limbo narrativo dove ognuno immagina la fine che vuole. Talvolta è un modo per continuare nel lettore a pensare alla vicenda, tal altra è solo un indizio di non voler prendere partito.

Come detto, la storia si muove su due piani temporali: uno comincia nel 1932, muovendosi verso il presente, e narrando le vicende di Pietro Morando in terza persona; l’altro è un qui ed ora, narrato in prima persona da Emanuele, figlio di Pietro, l’intellettuale della famiglia, quello che non ha voluto un posto nell’impresa di costruzioni, ma fa l’editor poco pagato presso una casa editrice.

Nel presente vediamo Emanuele assistere alla morte del padre, e da quella, leggendo le carte dei segreti di famiglia, cerca di risalire a chi fosse realmente Pietro, come avesse vissuto, come avesse fatto fortuna, perché la bella Giulia stava accanto al padre, e chi è anche Giulia.

Intrecciando le carte di Emanuele, con la voce onnisciente, ricostruiamo allora la vita di Pietro, da quando stava in un basso nei Navigli, per poi passare alla casa di ringhiera di Corso San Gottardo (sono poche centinaia di metri, ma erano un mondo culturale). Lì Pietro, madre giovane ed esuberante, padre anziano e bigotto, incontra la famiglia Ronchi. Operai e comunisti, fin da subito impegnati nell’antifascismo. Come, così lo scoprirà Pietro, anche sua madre. Pietro diventa sodale di Giovanni ed Ettore, si innamora non ricambiato della loro sorella Lucia, entra in urto con l’arcigna zia Gina. Giovanni morirà in Spagna lasciando un figlio ed una futura sposa, che si unirà ad Ettore. Anche Lucia avrà un figlio, con il marito che verrà venduto ai fascisti dall’avida zia.

Ma se Pietro aveva cominciato su questa scia, quando scopre la madre in una situazione all’epoca compromettente, tramuta tutto il suo amore in odio. Verso la madre, che fugge con l’amante per darsi alla guerra partigiana. Verso i Ronchi cui, attraverso una frode ben congeniata, ruberà tutto il patrimonio, anche se per farlo dovrà cedere le armi verso la figlia di Gina.

Emanuele troverà, nella cassaforte del padre, anche le prove della sua affiliazione al fascismo, e, sconvolto, cercherà la verità nella madre e nei fratelli. Che non potrà che confermare quello che noi sappiamo. Cosà farà dopo? Ha messo in crisi il suo matrimonio, ha forse avviato una storia con Giulia, che però ha anche lei dei segreti dolorosi da percorrere.

Molto sapremo nel finale, anche se rimane in ombra il modo in cui Pietro riesca a passare indenne verso il dopoguerra. Certo, aveva sempre fatto il doppiogioco, ma qualche zona d’ombra rimane.

La Russo ci fa riflettere su come il passato pesi sempre sulle nostre storie, come il destino possa avere una forza dirompente. Ma sono riflessioni leggere che lasciano il passo alla disamina su quale sia il bene ed il male. A volte intrecciati da non poterli separare. Questo, almeno, nelle intenzioni della scrittrice. Io, con in mente le cose in cui credo, con il mio codice morale, non avrei dubbi, sulla condanna completa di Pietro e delle sue azioni.

Mi domando solo se il rischio di morire per le proprie idee possa, in persone normali come me, trovare modalità di espressione che ora non intravedo.

Quindi, certo, una bella cavalcata. Ma Pietro mi ha disgustato ed Emanuele deluso. Chi eleggere allora a proprio eroe?

Natasha Solomons “I Goldbaum” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 12 euro 7,90

[A: 01/09/2020 – I: 21/03/2021 – T: 23/03/2021] - && +     

[tit. or.: The House of Gold; ling. or.: inglese; pagine: 478; anno 2019]

Una discreta prova letteraria, anche senza troppi acuti. Si legge bene, anche perché Natasha sa di scrittura per due ordini di motivi. Anche il marito, David, scrive, quindi la casa nel Dorset è pervasa dall’afflato di libri. Natasha è dislessica, ed ha sempre utilizzato la scrittura per esprimersi e farsi comprendere. Infine, essendo comunque di discendenza ebraica, ecco che questa prova di scrittura sulle sorti di una facoltosa famiglia ebrea è facilmente comprensibile.

Diciamo subito, inoltre, che la falsariga della famiglia Goldbaum è la grande famiglia Rothschild, esimi banchieri sorti alla notorietà economica nella seconda metà del Settecento, entrati nella loro età dell’oro per tutto l’Ottocento, ed avendo il loro lento declino nello scorso secolo. Lento, che molti discendenti della famiglia sono tuttora in posizioni preminenti nella finanza mondiale. Nonché hanno posti d’onore in vari campi, uno fra tutti il vinicolo con la produzione d’eccellenza coltivata nel domaine Château Lafite Rothschild.

Facendo un passo indietro, e rimanendo sui Rothschild, per chi avesse meno memoria storica, il capostipite nel Settecento, dopo aver accumulato una discreta fortuna, decide di inviare i propri cinque figli in altrettante destinazioni, per sviluppare localmente le rispettive banche. Nascono così i rami tedesco, austriaco, francese, inglese e napoletano. Che mantengono le redini economiche locali, prosperando e non cedendo nulla all’esterno, continuando per tutto l’Ottocento a sposarsi fra cugini di secondo e terzo grado.

Questa è la linea guida che la scrittrice segue per lo sviluppo della sua trama, seguendo i Goldbaum-Rothschild per circa sei anni, dal 1911 al 1917. Il nucleo principale è il ramo austriaco, impersonato dal primogenito Otto e dalla sorella Greta. Otto prenderà le redini della banca viennese, mentre Greta andrà sposa ad Albert del ramo inglese. I londinesi sono guidati da Lord Goldbaum, il vecchio e conservatore capofamiglia, ed è composta dal primogenito Clement, interessato solo al cibo ed agli scacchi, e da Albert, entomologo nell’animo ma destinato a prendere le redini dell’azienda, visto che Clement non ha proprio la testa.

Tra le due famiglie, si inserisce anche il ramo francese con il cugino Henri, che vorrebbe rompere le tradizioni familiari e sposarsi fuori dalla cerchia, ma senza successo.

Vediamo Greta innestata come un ramo spurio nel mondo londinese, vediamo le difficoltà di capire le regole ferree della dinastia, il riservo, il ruolo della donna, la difficoltà di avere un contatto con il marito Albert.

Seguiamo il proseguire delle varie vicende, Greta che si dedica al giardinaggio, dove mostrerà capacità ed inventiva. Trovando anche il modo di far nascere l’amore nel loro matrimonio combinato. Ci sono tutti gli elementi per una descrizione del fatuo mondo degli impaccati di denaro. Ma c’è anche uno sguardo sul mondo reale. Ad esempio, quello del piccolo Karl, ragazzino abbandonato che si scopre ebreo e che diventerà l’attendente di Otto allo scoppio della guerra.

Greta farà due figli. Henri avrà un crollo nell’impossibile sviluppo del suo amore per Claire. Clement troverà pace nell’esilio svizzero insieme alla dolce e determinata Irina.

Ci sarà anche l’arrivo del mondo esterno, con lo scoppio della guerra, la difficoltà di mantenere i rami familiari coesi, laddove saranno su fronti opposti della guerra. Otto verrà preso prigioniero in Russia. Henri cadrà con l’aereo nel fronte tedesco. Albert, andato in America per sollecitare l’intervento degli americani nella guerra, subirà un nubifragio al ritorno in patria.

Non vi dico chi morirà, chi si salverà. Non è importante, anche se piacevole leggerne come in una fiction (e penso che se ne possa fare una bella serie).

La scrittura scorre, qualche elemento “di rottura” c’è (lo scontro tra Greta ed i nobili londinesi sui calzoni alle donne), ma il tutto non è molto più che una piacevole lettura di passaggio, poco più gradevole di una puntata di “Blue Bloods” e meno di una intera serie di Rocco Schiavone o di Màkari. Anche perché vengono solo accennati altri problemi fondamentali, come la situazione degli ebrei in Russia, ma soprattutto l’appoggio fondamentale della famiglia Rothschild alla costituzione dello stato ebraico. Non a caso erano anche sodali di Balfour, e destinatari della famosa dichiarazione, emessa, se guardiamo alle coincidenze, il 2 novembre 1917 (tre giorni prima dello scoppio della Rivoluzione russa). Ma questa, forse, è un’altra storia.

Ann-Marie MacDonald “Chiedi perdono” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 5 euro 7,90

[A: 08/07/2020 – I: 07/06/2022 – T: 09/06/2022] - &&     

[tit. or.: Fall on Your Knees; ling. or.: inglese; pagine: 577; anno 1996]

Avrei aspettato tempi diversi per la lettura di questo libro, che non era ancora maturato nelle mie liste mentali come uno da leggere prioritariamente. Tuttavia, avendolo letto Ale, ed avendomene chiesto un giudizio, ed un confronto, ho avuto necessità di leggerlo subito. E di concordare con lei, che, certo, la scrittura è bella, capace e variata, ma non coinvolge, anzi, il modo di passare da un soggetto all’altro, nonché tutto un centinaio di pagine dedicate ad una scrittura diaristica, non ne facilitano la lettura.

Rimane anche freddo per le problematiche affrontate, che certo, partono da un punto che tuttavia è abbastanza remoto, una cittadina canadese sperduta, negli ultimi anni dell’Ottocento. Ed è certo che il modo di vivere di 130 anni fa, e di milioni di chilometri nello spazio, era, è diverso, non solo dall’attuale, ma anche dal corrispettivo nazionale italiano dell’epoca coeva.

Due parole preliminari. La prima sull’autrice, Ann-Marie Mac Donald, solo parzialmente scrittrice (in effetti ha firmato tre romanzi ed una pièce teatrale), ma ben presente nella scena dello spettacolo canadese: attrice, conduttrice televisiva, nonché bandiera dei movimenti di liberazione sessuale, insieme alla sua compagna Alisa.

La seconda sul titolo, che ci si chiede perché da inginocchiarsi passa a chiedere perdono. È ovvio che, generalmente, si chiede perdono in ginocchio. Meno ovvio che inginocchiarsi implichi direttamente chiedere perdono. Ma si sa, i titoli nelle traduzioni si permettono grandi libertà (ad esempio, in Francia è uscito con il titolo “Un profumo di cedro” o in Germania come “Ascolta le mie preghiere”).

Comunque, la scrittrice prende le mosse dalla sua terra, che, nata in Germania da un militare canadese ed una madre libanese, torna in patria e si installa nel territorio del New Brunswick, passando molto tempo a Cape Breton Island, dove ambienta questa storia. Una storia legata a quattro sorelle, più o meno, diverse e complementari tra loro, unite dalla presenza di un padre forte, ambizioso, ed a suo modo intelligente.

James Piper, in fatti, ha un buon orecchio musicale, si dedica ad accordare i pianoforti, così che lui diciottenne conosce Materia Mahmoud, una canado-libanese di tredici anni. Amore folle a prima vista, con James che si invaghisce della sua sposa-bambina. Dalla loro unione nasce Kathleen, carattere indipendente, dotata dell’orecchio musicale del ramo paterno, e di una voce deliziosa ed operistica. Anche notevolmente graziosa. Ricordo lei nasce il 1° gennaio 1900.

Nella prima parte assistiamo alla vita quasi idilliaca della famiglia Piper, anche se James, una volta cresciuta la moglie, sembra aver turbamenti verso la figlia. Così che, per distoglierne le mira, Materia continua a sfornare figli, vivi o morti. Vivranno solo le femmine, in particolare Mercedes, che si rivelerà una cattolica ossessiva, e farà sempre la parte di protettrice del gruppo familiare, e Frances, incorreggibilmente bugiarda, portata dalla sua natura a percorrere tutte le cattive strade per redimire qualche suo vero o presunto peccato infantile.

Kathleen viene mandata a New York a studiare canto per la sua carriera di Diva. Lì, attraverso il diario dell’ultima parte del libro, seguiamo la sua storia, il suo innamoramento per la negra Rose, dai tratti assai maschili. Saputolo, James la va a riprendere, succede qualcosa, e Kathleen torna a casa, dove si scopre incinta. Di due gemelli, che però crescono male così che al momento del parto, la madre levatrice, dovendo decidere chi salvare, salva i piccoli e Kathleen muore. Scoramento di James, con Frances, di sei anni, che tenta di battezzare i neonati nel fiume, facendone morire uno e ammalando di poliomielite l’altra. Così che Lily avrà sempre una gamba più corta. Materia, non resistendo a tutto quanto le sta avvenendo intorno, alla tenera età di 33 anni, si uccide con il gas del forno.

Seguiamo tante storie, soprattutto di Frances da quel momento in poi. Che forse, inconsciamente, cerca di punirsi delle malefatte inconsciamente perpetrate (e che nessuno la fece ragionare mai su questo). Ragazza perduta, ballerina provocante, forse donna di facili costumi, si innamora anche lei di una donna di colore, ma non sa fare il passo “vero”, e decide di farsi mettere incinta dal di lei fratello. Nasce, vivo o forse no, un altro piccolo Piper. Mercedes cresce e diventa insegnante, salvaguardando il padre, colpito da ictus, e Frances, chiusa in un suo mondo altro. Ma facendo in modo che la figlia di Kathleen, Lily, abbia soldi per fuggire dal Canada ed andare in America alla ricerca di Rose.

Tutto si chiuderà molti anni dopo, leggendo l’albero genealogico disegnato da Mercedes, dal quale anche noi, se non lo abbiamo già fatto, capiremo tutti i legami della lunga ed intrecciata storia.

Come detto, una trama complicata non sorretta da una scrittura adeguata, anche se capisco come 25 anni fa possa non solo aver fatto scalpore, ma essere balzato agli onori di classifiche e premi. Non è che non sia una bella saga familiare, e che non è riuscita a coinvolgermi.

Solo una cosa, molto familiare, mi rimane, che quando si pubblica l’annuncio della morte di Frances Piper, scopre che muore il 25 aprile 1953, lo stesso giorno di nonno Arduino Fanuele, il suocero di mia zia Loriana, che viene ricordato nelle memorie familiari in quanto si voleva che il primo bimbo nato dopo quella morte ne prendesse il nome. Pericolo scampato da me per l’opposizione ferma ed irremovibile di mio padre.

Come forse ho già detto, per ora ho terminato l’esame delle letture “libropatiche” e “felicioferenti”, che riprenderanno se e quando si avranno nuovi elementi. Continuiamo quindi ad allegare le trame citazionali di diverse mezze dozzine di anni fa.

Al solito, mentre si aspetta una gestione viaggiosamente serena, si addensano sempre nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Di certo chi mi sta vicino da tanto tempo, mi aiuterà anche qui a risolvere le ingarbugliate trame. E, altrettanto certamente, tutti voi, quando serve, continuerete a farlo, ed io ad abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di giugno – primo

Siamo ormai al 2010, e recuperiamo alcune memorie dei primi mesi di un anno che fu molto importante (ma ne parleremo a suo tempo).

Intanto, all’inizio di febbraio, sodalmente al compleanno del mio amico Emilio, leggevo e commentavo il libro “A un cerbiatto somiglia il mio amore” di David Grossman. Dove in effetti c’erano diversi livelli di frasi da ricordare. Le prime riguardavano l’amore. Con delle frasi che lui dice a lei: “Forse è questo che rimpiango: non aver provato amore per una donna. Non averne incontrata una che fosse un’ancora per me, alla quale poter dare tutto me stesso” (570) e “Lei gli chiedeva tanto poco, e nemmeno quello riuscivo a darle” (586). Ed altre che lei rivolgeva a lui: “Sei proprio un coglione, giochi con i sentimenti degli altri, ecco quello che fai” (65) e “Non mi hai mai detto… che mi ami. Una ragazza ha bisogno di sentirselo dire... Ma tu sei avaro, al massimo dici ‘amo il tuo corpo’, ‘mi piace stare con te’, ‘mi piace il tuo sedere’” (584-5).

C’era poi una frase che mi colpì perché ero sempre stato in dubbio su come si facesse realmente a scegliere: “Non capisco come si può scegliere il nome a un figlio, prendere una decisione tanto cruciale…” (408). Infine, si ragionava sullo scrivere: “Davvero, chi immaginava che facesse così bene scrivere?” (372) e sull’analisi di quello che ci succede: “ricordati soltanto che a volte una cattiva notizia non è che una buona noti-zia che è stata fraintesa, e ricordati anche che quella che era una cattiva notizia, può tramutarsi in buona col tempo, forse la migliore” (401).

Una settimana dopo invece, e subito dopo il compleanno della mia amica Rosa, passavo ad una delle scrittrici del mio pantheon personale, Alicia Gimenez-Bartlett che sottolineava, per la sua Petra, alcuni fatti caratteriali di base in “Il silenzio dei chiostri”. Diceva infatti, nella prima parte del libro, quella che serve ad introdurre l’azione vera e propria: “il fatto è che non so essere riconoscente quando gli altri si occupano di me” (63) e “il fatto è che l’amore può trasformare il carattere di un uomo, perfino la sua vita, ma si rivela del tutto inefficace contro le miserie quotidiane” (95).

Passa un’altra settimana, si avvicina un compleanno esimio, rotondo per il mio amico Luciano, e dedicai quelle trame ad un trio di autori sbilenco. Due che amavo ed amo, uno cui non sono ancora entrato in sintonia.

Il primo è il grande scozzese Alexander McCall Smith in uno dei libri dedicati alla sua creatura Isabelle e a “Il club dei filosofi dilettanti”. Dove tanti, proprio come dice il titolo, sono gli spunti morali: “So che non dovrei parlarti così, perché non bisognerebbe dire agli altri cosa devono fare” (23); “Chi è più felice: chi è consapevole e ha dei dubbi o chi è sicuro delle sue certezze e non le mette mai in discussione?” (57); “Non ricordo quando è diventato normale che i politici mentano. … è iniziato con Nixon … poi la moda è arrivata di qua dell’Atlantico e hanno iniziato anche i nostri. … Adesso è la norma” (68) [ed ora, dopo più di dieci anni è peggio]; “L’educazione consiste nel prestare attenzione agli altri: bisogna trattarli con serietà e correttezza, comprenderne i sentimenti e i bisogni. Gli egoisti tendono a non comportarsi così, e si vede. Sono impazienti con quelli che ritengono contino poco… Chi è educato presta attenzione a tutti” (152-3).

Ma non mancano le riflessioni sul rapporto tra i sessi: “A volte … trovava stupefacente il fatto di essere stata così attratta da lui. … ‘è il sesso’ [le diceva] una delle amiche di Isabel ‘fa stare insieme la gente più diversa’” (49); “Le persone che amiamo non ci mettono mai in imbarazzo” (51); “Di solito agli uomini non piace sapere che una donna li trova attraenti… è un’informazione fastidiosa che li mette a disagio. Ecco perché gli uomini scappano dalle donne che li inseguono” (230).

Sarà stato il momento difficile (era il secondo anniversario della morte di papà), ma mi veniva anche a fagiolo la seguente frase: “[Ci] sono quei giorni in cui vuoi rannicchiarti su te stessa e far sparire il mondo” (184).

La seconda è dovuta alla bella penna di Margherita Oggero che in “Qualcosa da tenere per sé” riesce a farci una bella fotografia di Torino nelle diverse stagioni: “L’inverno, se si ha un tetto sulla testa, è la stagione più bella di Torino. Quella in cui i colori hanno una nettezza nordica e gli spazi delle piazze diventano percepibili nella loro grandezza; quella in cui l’ombra fredda sotto i portici divide il selciato in parti che non comunicano tra loro, appartenenti a spaccati diversi di una scenografia monumentale e fantastica. L’estate invece è una stagione estranea che fa affondare la città in una mollezza orientale … con le strade quasi deserte e le serrande dei negozi abbassate come palpebre su occhi sonnacchiosi, con le alberate dei viali – tigli siliquastri ippocastani aceri platani – stremate dal peso delle foglie immobili nella calura. Il sole che picchia duro fa incassare le teste tra le spalle e nessuno alza lo sguardo…” (9-10).

Infine, l’autore che non ho ancora affrontato a dovere, anche se so che a molti piace incondizionatamente. Parlo di Joe R. Lansdale. Che riesce, nel suo “Una stagione selvaggia” a tirar fuori tre frasi soggettivamente stupende: “Andai a vedere come stava venendo il suo lavoro di falegnameria… Stava lavorando un po’ alla volta, e come sempre in quel genere di cose, la sua abilità era impressionante. Io non ero capace di mettere un preservativo senza istruzioni, e comunque l’avrei anche potuto infilare al contrario” (22); “[ho fatto l’amore con..] … – Non è quello che volevo sentire. – È la verità. – A volte è meglio una piccola bugia innocente.” (90); “Mio padre mi diceva sempre che se hai paura di qualcosa l’unica cosa da fare è affrontarla faccia a faccia. In questo modo ti risparmi un sacco di notti insonni” (116).

Come avrete capito dal testo di riferimento delle trame, intensifico per ora queste citazioni, per cui ne centellino l’uscita, fermandomi ad aspettare la prossima occasione.