domenica 25 dicembre 2011

Di tutto un po’ - 21 giugno 2009

Ma fuori dall’Italia. Dopo un po’ di ritorno alle patrie letture, ed in previsione di un’estate in giro (per ora ad Agosto, poi si vedrà), torniamo a parlare di autori stranieri, letti lo scorso aprile nei dintorni della Pasqua. Due autori vicini ai cinquanta, uno spagnolo che parla della Spagna ed un americano dell’America fanno da sandwich all’inglese di quasi ottanta che mi ha portato in Egitto.
Ma andiamo con ordine.
Javier Cercas “Soldati di Salamina” Guanda euro 8 (in realtà, scontato euro 6,40)
Iniziato con diffidenza, poi preso per la testa, con un finale tutto oro. Sì, perché l’inizio non decolla. Si segue un po’ lo scrittore, la sua difficoltà di scrivere, le sconfitte personali. Poi, ad un tratto irrompe la vita “reale”, con la figura a tutto tondo dello scomparso e compianto Roberto Bolaño, e si comincia la vera storia. La storia di questo falangista della prima ora, della sua scrittura e del suo approssimarsi alla quasi morte. Perché il tutto si incentra sulla sua fucilazione scampata. Sulla solidarietà che riceve dai contadini sopra Gerona. E sulle loro storie. Fino a quella bella e piena del soldato comunista sotto tutte le bandiere, che sta terminando i suoi giorni in Francia. Ed alla fine si regge bene. Si legge anche bene. Con lievità ma non superficialità ci si interroga sulla nascita della Falange in Spagna, sul suo essere fagocitata dal franchismo, sulle spaccature tra comunisti e anarchici e via discorrendo sugli anni trenta in Spagna (con qualche sana frecciata agli Hemingway di turno). Un po’ oscura mi rimane sempre la citazione di Salamina (la vittoria dei Greci sui Persiani, cito a memoria). Poi, a me rimane, rimangono sempre quelle parti (e quel finale) in cui ci si ricorda di tutti quelli che hanno significato qualcosa per qualcuno lungo il corso del tempo (Wenders?). Perché finché si pensa a loro, non saranno mai morti del tutto. Ed io ricordo i miei morti e quelli pubblici a cui tengo.
“era un bravo scrittore, ma non un grande scrittore, anche se non avrei saputo spiegare chiaramente la differenza tra un grande scrittore e uno bravo” (19)
“mi trovai a pensare a mio padre… tra non molto … quando non mi ricorderò più neppure vagamente di lui, allora sarà definitivamente morto” (44)
“giunto [al benessere] … si rese conto… che si poteva vivere ma non scrivere, perché scrittura e piena soddisfazione dei bisogni sono incompatibili” (138)
“John Le Carré dice che bisogna avere una tempra da eroe per essere una persona decente… ma una persona decente non è di per sé un eroe” (149)
“si asciugò le lacrime … come se non si vergognasse a piangere in pubblico … come avrebbe fatto un soldato di Salamina” (201)
Lo spagnolo Javier nasce in parti non note della Spagna, in quel di Ibahernando vicino a Cáceres nel 1962. 
Passiamo ora alla quasi ottuagenaria che pare tanto abbia scritto e di cui nulla ho finora letto. Certo, un moto di simpatia verso chi nasce a Il Cairo lo suscita in me. Ho quindi affrontato:
Penelope Lively “Incontro in Egitto” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato € 6,88)
Le parti al Cairo mi hanno lasciato senza parole: quand’è che si parte? Nel complesso interessante, anche se l’inizio (ed ultimamente mi capita sempre più spesso) mi stava lasciando un po’ perplesso. Il rimuginare delle parole della Claudia morente sembrava non portasse a niente, se non ad un difficile snocciolarsi nella spirale del tempo. Ma ho avuto fiducia, ed alla fine ne esce a tutto tondo la figura di una persona che ha vissuto il suo tempo, con i suoi alti e bassi, capendo alcune cose di chi le stava intorno, ma altre non riuscendone ad avvicinarsi (una tra tutte, il rapporto con la figlia Lisa). Bella e dolente ogni oltre dire il suo amore per Tom. Bello e dolente nel corso degli anni il suo amore per Jasper. Strano ed ambiguo il suo rapporto con il fratello Gordon, sempre sul filo tra lecito e non. In fondo Claudia è una di noi, che riguardando i suoi anni ha voglia di metterli lì, non in fila, ma facendone (con un’immagine che mi è piaciuta che mai) una storia generale del mondo. Dove in fondo noi siamo il mondo e questa è la nostra storia, che si intreccia con gli anemoni, con le conchiglie preistoriche, con le bombe e con le persone che abbiamo incontrato nel tempo. Pi si ritorna lì, a questo fulmine scoppiato nel deserto. Senza ragione, senza motivo. Ma fulmine che bello e caldo sarà, e per sempre. Impagabile, l’artificio di fare e rifare le stesse scene a volte dalla parte di Claudia, a volte da chi le sta intorno. Sapendolo usare, ne esce fuori un ritratto ben più efficace di migliaia di parole. Ma lasciatemi finire ancora pensando al Cairo, a Zamalek, a Luxor, al Nilo, al colore dell’acqua e della sabbia, al suo sole, al caffè della libertà, al fumo nel suq, e via e via. Sono pronto a ripartire (andando sempre, come dice l’accademico di Francia Orsenna, di cui prima o poi parlerò).
“i bambini non sono come noi… non vivono nel nostro mondo, ma in un mondo che abbiamo perso e non ritroveremo mai più. L’infanzia non la ricordiamo, la immaginiamo” (46)
“per tenere testa ai bambini bisogna avere una certa mentalità” (57)
“il tempo e l’universo sono sparpagliati nelle nostre menti. Siamo storie del mondo assopite” (68)
“voglio comprarti qualcosa. Cerchiamo qualcosa che tu possa guardare con occhi umidi quando me ne sarò andato” (115)
“Non le vogliamo. Imshi… le uniche parole di arabo che conosco sono comandi o insulti” (115)
“perché sono rimasta a lungo con lui? Quando mai le scelte sessuali sono razionali o sensate? … era un’ottima persona con cui andare a letto, e per giunta divertente” (151)
Come detto Penelope Lively nasce a Il Cairo il 17 marzo 1933.
Terminiamo con quello che meno ho capito, meno mi ha coinvolto.
Jonathan Lethem “Brooklyn senza madre” Il Saggiatore euro 9,80 (in realtà, scontato 8,02 €)
Non conoscevo l’autore, giovane o quasi autore americano dicono di talento (beh i suoi 45 li ha già compiuti). Questa prova è multivalente: una storia hard-boiled (o una parodia di…) che si lascia seguire, coinvolgendo a tratti; una storia di personaggi dropouts di Brooklyn, più interessanti anche se si affonda poco; una storia familiare, che però si scopre a poco a poco; e la storia di Lionel e della sindrome di Tourette (che pensavo fosse inventata, invece esiste, non vi dico cos’è e la trovate su http://it.wikipedia.org/wiki/Sindrome_di_Tourette). Questa è da un lato più interessante (in fondo è la colonna portante del libro), dall’altro lascia perplesso (traduzione, scelte stilistiche, altro?). Cioè, Lionel è simpatico, ma i suoi scatti nevrotici borderline lasciano perplessi. Quanto di vero? Quanto di finzione letteraria? Alla fine, come dice Julia, va avanti perché la sua psicosi lo mostra cretino alla gente, e forse è il meno cretino di tutti. Adoro poi il suo soprannome (Testa di pazzo). Forse qualcosa più di mezza pagina andava spesa per descrivere qualche retroscena familiare (spero qualcuno mi faccia capire chi sia Bailey…). Alla fine si legge anche se con un po’ di difficoltà. Giudizio sospeso, al momento.
Altra settimana cruciale, questa forse con un suo perché. Il progetto che seguo da un anno è al suo esame a Bruxelles. Si lavora perché vada tutto bene, e perché da qui si possa ripartire. 

sabato 24 dicembre 2011

Rimaniamo in Italia - 14 giugno 2009

Anche se con la testa già ci si avvicina al Medio Oriente d’Agosto. Infatti, dopo aver scritto la volta scorsa che nulla si sapeva della prossima estate mi è arrivato l’invito che sapete di Avventure, e che oggi ho accettato. Ma si diceva, per ora rimaniamo in Italia con una triade di due donne ed un uomo. Una di cui è il primo libro, una di cui è la seconda scrittura, ed una vecchia frequentazione (visto che è stato uno dei primi ospiti di queste trame).
Cominciamo con la sarda (ed un abbraccio a Lory & Fako).
Milena Agus “Mal di pietre” Nottetempo euro 13 (in realtà, scontato 10,40 euro)
Mi era sembrato interessante il Corto, allora ho cercato questo, che pur non essendo il primo, è il più noto dei tre romanzi. Mi è piaciuto. Lo consiglio. Delicato, dolente, triste ma non cupo. Al fondo, anche allegro. Storia di gente sarda, ma soprattutto della nonna, fuori dai canoni del suo mondo, avanti tanto che l’unica giustificazione alle sue stravaganze è la pazzia, anche se una pazzia buona. Ma che la porterà a far contento il nonno, a far nascere il padre anche se ha i calcoli (il mal di pietre), ad allevare una nipote stravagante come lei. In fondo la bellezza è che nessuno è poi come ce lo aspettiamo. In bene? In peggio? In fondo non è questo il problema. Il problema è l’accettazione, il rispetto verso l’altro. Cosa che nessuna ha mai fatto “bene” per tutte le 100 pagine del romanzetto. Ma che la Nonna aveva radicato nel profondo dei suoi capelli neri, delle sue tette morbide, dei quadernetti dove scriveva della sua vita e delle cose della sua testa. Tanto da chiedersi (chiederci) poi verità? Finzione? Ma importa davvero se si vivono dei sentimenti forti e belli? Mi piacciono questi bozzetti cagliaritani e la lievità con cui la Agus ci passa sopra. A volte vien voglia di urlare “stai attenta! Non è così che si fa”. Ma anche ci viene di star zitti a guardare le cose che accadono, cercando di capire cosa ci accade a noi.
“l’impressione che le faceva questa posizione mai provata era tale che non riusciva a rassegnarsi a quella cosa, secondo lei senza senso, che è addormentarsi quando si è felici”
“e per fare un sacrificio del genere, di toglierti di mezzo per il bene dell’altro lo devi amare davvero”
“perché in fondo, forse, nell’amore, alla fine bisogna affidarsi alla magia, perché non è che riesci a vedere una regola, qualcosa da seguire per far andare le cose bene”
In mezzo un altro degli ormai tanti e quasi sempre indovinati libri regalati.
Erri De Luca “Il giorno prima della felicità” Feltrinelli s.p.
In realtà, De Luca sembra ormai sempre riscrivere lo stesso romanzo. Qui c’è un miscuglio tra Montedidio e Tre cavalli. Ovviamente c’è Napoli, in tutto il suo essere partecipe della vita quotidiana. Un po’ trama a tesi (il ragazzo orfano cresciuto non si sa da chi, il portinaio orfano che lo adotta moralmente). Poi c’è il clima della fine della guerra. Saltando all’oggi del ragazzo (che pur sempre si colloca una trentina di anni fa), con il suo ricordo-presenza di un amore, di una ragazza amata “sin dal primo sguardo”. E quella luce negli occhi e nell’essere che viene quando si sa che arriverà qualcosa di buono, quell’estasi appunto del giorno prima della felicità, sia essa l’amore, sia essa la liberazione. Che a volte riempie più della felicità stessa. Ripeto, però, che sembra riscrivere pezzi di altre storie. Da Montedidio viene tutta la fisicità della città, tutta la solitudine di un ragazzo in questo mondo “brutto e alieno”. Da Tre cavalli il senso di un amore più grande di tutto il resto. Tra l’altro toccando quella corda di un amore pieno, sentito, ma dove si ha “paura” dell’oggetto amato. Perché irraggiungibile? Perché non ne siamo all’altezza? Saranno tante le domande e forse nessuna la risposta. Ma anche l’accenno all’America del Sud, non si sa quanto reale o agognata. La scrittura, ora dopo tante prove, si fa più docile all’ascolto. Ci si lascia guidare e non si viene fermati dalle asperità che un po’ troppo riempivano le prime prove. Ora è un compiuto scrittore. Certo, qui in una prova che non è il massimo per me, che non mi lascia senza fiato come altre letture di questo periodo. Ma va bene anche così. Ci vuole tanto per riempire il nostro mondo. E De Luca ne tratteggia pezzi che non mi dispiacciono.
“coi pensieri degli altri non si può parlare. Sono sordi” (18)
“il tempo non è un sacco, magari è un bosco. Se hai conosciuto la foglia, poi riconosci l’albero. Se l’hai vista negli occhi, la ritroverai. Pure se è passato un bosco di tempo” (54)
“Hai paura… di me? Si e nessun coraggio sarà bello come questa paura” (78)
“le parole … dopo che le dici non le puoi ritirare” (113-114)
Finiamo con un libro prestato di un’autrice che on sapevo se volevo leggere (a pelle non ne provo simpatia, ma in fondo si legge di tutto).
Margaret Mazzantini “Venuto al mondo” Mondadori s.p. (regalo di Barbara)
Volete un libro per piangere? Eccolo, la Mazzantini al meglio riesce ad inzeppare in queste cinquecento pagine tutti i migliori motivi per far uscire le lacrime. Rapporto con i figli, rapporti con i padri, l’amore, il dolore della (mancata) maternità, l’invecchiamento, il darwinismo, fino alla guerra, lo stupro, la morte. Penso che abbia lasciato fuori solo l’incesto e la pedofilia. Innegabile che sappia scrivere e che tenga intorno alla pagina senza mollarti. Però … rimane un che di “artificioso”. Si sente già il film che ne farà Castellitto. Ed io mi domando cosa mi vuole dire? Certo la bellezza di certe scritture è anche la libertà di coglierne i tuoi frutti, senza essere “imbeccato”. Io qui ne ho presi un paio: quando è che si è innamorati? Cosa influisce sulla nostra crescita, l’ambiente o il dna? Domande forti, su cui aprire dibattiti. La seconda mi è discretamente chiara (almeno mi è chiara la mia risposta). Un ambiente pacato porta ad una crescita personale che prescinde da qualsiasi dna sepolto. Mentre lì dove vedo conflitti, sento le persone ritirarsi, e vedo rinascere quello che chiamerei bisogno atavico di sicurezza, questo si scolpito nella nostra memoria ancestrale. E l’amore? Ah, questo invece rimane aperto. Qui la Mazzantini lo mescola con il sentimento femminile del bisogno della maternità, sentimento che per questioni genetiche non riesco a comprendere (con la testa sì, ma non con il corpo). E forse Diego decide di lasciarsi andare proprio per amore, e non per la sua mancanza come pensa Gemma. Quando ti trovi di fronte ad un bivio, è facile decidere? Bisogna fare un cammino dentro di sé che non sarà mai semplice. Ritornano sempre le velate parole di mio padre, tanti rimorsi e pochi rimpianti. Ma sarà mai facile? E Giuliano è solo un conforto, un ripiego, o c’è qualcosa in più che neanche Gemma comprende sino in fondo. Allegorie, tante allegorie. Per finire con un altro filone sotterraneo, su quella guerra per Sarajevo che io non ho mai capito bene come sia nata. Qui c’è, è un dato quasi scontato, ce lo si domanda, ma con molta lontananza. Certo non è un saggio, ma rimane un ferro rovente che si è voluto rigirare nella piaga senza capire il perché. Insomma, tanta carne al fuoco, tante domande (e non affrontiamo il rapporto con i genitori, che sarebbe altro terreno fertile), ed in fondo nessuna risposta, se non che ad immaginare il peggio, si fa sempre bene. Alla fine, ci ho messo comunque due giorni per riprendermi da tutto quello che mi ha buttato addosso. Datemi una cioccolata calda, se no non sopravvivo.
“perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?”
“’voglio un figlio con questi piedi qui’ … ‘che cosa hanno di bello questi piedi?’ ‘sono i suoi’”
“e papà a un certo punto mi chiede scusa per avermi lasciato qui tutte quelle estati.  i bambini non vanno lasciati a intristirsi’”
Per tornare alla chiusa della volta scorsa, quindi, non è vero che tutto tace, e non mi dispiace tornare ancora una volta a Gerusalemme (chi fa battute cretine, senza ridere e senza piangere, verrà cacciato da questo blog)..

venerdì 23 dicembre 2011

Dalla Germania all’Italia - 07 giugno 2009

E non si tratta di sola lettura. Nella bufera di brutto tempo germanico, grande prima dello spettacolo co-retto di Rosa. Un’ora e mezza di frizzi e lazzi molieriani in tedesco! E come sanno bene i miei due lettori, io sono ostico alla poesia e al tedesco. E non mi sorprende che ora mi si dica che il tedesco è la lingua poetica per antonomasia. Nonostante ciò, lo spettacolo è gradevole, si nota (almeno io l’ho visto) il lavoro di movimento di Rosa. Sarebbe bello portarlo in Italia (ma anche in giro per l’Europa: che battage comunitario – un autore francese recitato in tedesco da una compagnia italiana!!!!).
Ma poi si torna in Italia, ed avrei voluto parlare di poesie o di teatro, ma torno invece a parlare di autori italiani, di giovane e vecchia assiduità.
Cominciamo dal più giovane e meno logorato.
Francesco Ceccamea “Silenzi vietati” Avagliano editore euro 13 (in realtà, scontato 10,40 €)
Un po’ irrisolto, ma abbastanza gradevole, con alcuni spunti di buona ilarità. La storia della propria vita, quella del buon Francesco, raccontato attraverso un racconto che una volta sarebbe stato epistolare, ma che ora si svolge sul filo della posta elettronica. Con questo racconto a senso unico, di cui vediamo il lato Francesco ed intuiamo il lato della vita vera. Vita di un aspirante scrittore, che intanto fa il segretario in uno studio di analisi chimiche dopo aver fatto mille mestieri, compreso il becchino. E lo seguiamo nella sua paranoia nei rapporti con gli altri, e soprattutto con l’altro sesso, amato-odiato. Nella costruzione del suo mondo familiare, soprattutto verso l’amata madre. Bello il sottofinale dove sottopone i suoi genitori ad un’intervista incrociata, da dove ne emergono in filigrana le bontà e le malvagità. Ben reso anche il rapporto con lo psicologo, anche se questi sembra un po’ troppo interventista. Invece di ascoltare e rimandare, propone e costruisce. Non sappiamo (almeno per ora) come andrà questa costruzione, se riuscirà a dichiararsi alla ragazza già fidanzata. Né sappiamo altro del suo rapporto con il ricevente delle mail, il Massimo Onofri, mentore del ragazzo ai tempi del liceo. Alla fine, come rivelato all’inizio, qualcosa non viene dipanata dal trentenne Francesco, ma la lettura è scorrevole, si arriva verso la fine senza troppa stanchezza. Cosa non da poco di questi tempi.
“l’idea di leggere mi piace, e mi piace di più comprare libri, e poi non leggerli” (15)
“le donne sono come gli uomini. O almeno credo. Sono complesse quanto noi, solo che prima lo nascondevano” (63)
“adoro le bambine… e piaccio loro, non so perché, fino a verso i sei anni, poi mi dimenticano e diventano le imperscrutabili giovinette che tanto temo” (70)
“io ho paura delle donne. Ho paura, anche se le amo. Non so se si possa aver paura di ciò che più si ama. Non saprei amare le padelle senza manico, solo averne un terrore smisurato, perché, al pari delle donne, non le capisco proprio.” (70)
“ho preso a lungo in seria considerazione di diventare ginecologo, per lo meno avrei visto un po’ di fica, ma poi non ricordo dove ho letto che una donna, quando va a farsi visitare dal ginecologo, a tutto pensa tranne che al sesso, al di là delle barzellette e dei film di Tinto Brass” (80)
“forse spero di trovare qualcuno che capisca che ho bisogno di aiuto” (88)
“quando incontro una ragazza che mi piace io ho paura di fraintendere, di cogliere un interessamento dove interesse non c’è. E questo perché mi è capitato un sacco di volte di farmi un film tutto da solo” (102)
“c’è un antico detto indiano che dice più o meno così: ‘Quando si è da soli a sognare è un sogno, ma quando si è in due a sognare si è già nella realtà” (129)
“[dovrei] avvertire quella ragazza a cosa va incontro se [mi] dice di si: e cioè alla serata più allucinante della sua vita … Nel mio mondo … ho coltivato delle illusioni, ho creduto che fosse possibile avere una donna, anche senza dover far finta di essere ciò che non sono, cioè un tipo normale che trova assolutamente normale chiedere ad una ragazza di uscire con lui” (145-146)
Veniamo poi invece ad uno con più esperienza e libri alle spalle. Non lo conoscevo ma dopo averne letto questi due, mi sembra che se ne possano leggere altri.
Alessandro Perissinotto “Una piccola storia ignobile” SuperPocket euro 5,60 (in realtà, scontato euro 4,48)
Alla fine meno scontato di quanto sembra. La scrittura è scorrevole, mi ha fatto appassionare alla vita di Anna Pavesi, psicologa disoccupata che per caso si trova a fare il detective. Inserita a forza nella ricerca di un cadavere sparito, per poi a poco a poco anche in modo ingenuo da non investigatrice, trovare cosa si cela dietro tutto questo velo. Passando di paure in delusioni, di gioie in momenti di serenità, per sbando lare la matassa di una piccola storia ignobile. Ma qui non c’entra la gucciniana memoria, se non perché la storia è piccola e coinvolge la gente normale di quei paesi dell’ate milanese (Lambrate, Vimercate, Novedrate, e via dicendo). Passando per alcune descrizioni di Bergamo che mi fanno domandare se forse non vada la pena di vederla, anche questa strana città del mio amico Federico. Alla fine forse la storia in sé si regge poco, anzi risulta un po’ scontata, ma la psicologa mi piace, mi piace la sua gatta, ed il suo ritrovarsi con uomini a condividere brandelli di felicità. In fondo sempre lì si finisce. Siamo soli, e forse va bene così. Ma è bello riuscire a condividere alcuni momenti della propria vita. Così come diceva il mio amato Maalouf, per fare dei tratti di strada in comune. Non si sa da dove si viene né dove si va. Ma lì (o qui) è bello stare. Anche se può riaprire antiche ferite. Come il far di nuovo l’amore con una persona che ci si è lasciata alle spalle, capendo che in quel momento si può stare bene. Ma capendo anche che è proprio alle spalle, che non farà più parte del nostro progetto. E se ci si è lasciati, non è stato un capriccio, ma una conseguenza del nostro essere. Mi sa che devo trovarne altri di libri di Perissinotto.
“…ti trovi in una situazione che sembra per forza portare al sesso. Sei lontano da casa… e nasce una complicità, un desiderio reciproco al quale non puoi resistere; anche se lo sai che il giorno dopo non rimarrà più nulla. Anzi, lo fai proprio perché sei sicuro che non resteranno strascichi….”
Alessandro Perissinotto “Treno 8017” Sellerio euro 10 (in realtà, scontato € 8)
Avevo già detto che mi sembrava una bella scrittura, che dovevo leggerne ancora. Lo confermo. Forse una fine un po’ affrettata, ma se ne può parlare. Ma prima di arrivare alla fine, un bell’affresco dell’Italia del dopo-guerra. Con tutti quelli che alla fine si trovano emarginati, solo per essere stati modestamente uguali a sé stessi. Una bella tirata contro l’arroganza e l’arrivismo, e ci sta tutta. La storia è un po’ un pretesto, si dipana a mo’ di giallo, ma senza che ci sia molto da indagare (o meglio, ci sarebbe, ma è abbastanza scontato il lato poliziesco, anche se intrigante). Il bello è camminare per questa Italia in ricostruzione, sui treni di terza classe per Usmate (ci sarà ancora la stazione? E siamo sempre nell’ate dell’altro romanzo). La Napoli del sottosuolo, e poi si torna sempre lì, nella Bergamo dell’autore (mi sa che ci si dovrà andare, prima o poi). D’affetto il mio rapporto con il protagonista Adelmo (avendo una nonna di nome Adelma, si capisce), proprio perché normale. Accetta quello che viene, disposto a non essere, piuttosto che piegarsi a mostrare. Così come non si piega Irene. Due non colpevoli, anche se non innocenti. Ma tra i due termini ci corre tanta storia. Così come sfioriamo la storia che succede nell’Italia del ’43, tra una guerra che c’è ed una miseria quotidiana con cui fare sempre i conti. Il libro ripercorre romanzato la strage di Balvano, ma per parlare d’altro (in fondo quella sempre esserci stata più per incuria che per altro). Ecco, la fine si diceva è un po’ di fretta. Il colpevole c’è, si vede e tutta la vicenda arriva al suo nocciolo, ma mentre si stava bene sulle littorine, alla fine sembra di salire su un Freccia Rossa Alta Velocità. Forse, meglio i vecchi vagoni con i sedili in legno.
“ma come si fa a fare il turista? Fare il turista è un’arte; bisogna esserci nati; essere inglesi, o almeno ricchi, da generazioni” (95)
Infine, essendo la prima trama del mese, vi porto i libri di marzo, ove si torna a poco a poco a ritmi più antichi di lettura. Sarà la vicinanza della Pasqua o la lontananza dell’Epifania?

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Autore
Titolo
Editore
Euro
1
Grazia Verasani
Velocemente da nessuna parte
Repubblica Noir
7,90
2
Elizabeth George
Cercando nel buio
SuperPocket
5,90
3
Andrea Camilleri
Il campo del vasaio
Sellerio
s.p.
4
Gianluca Morozzi
L’era del porco
TEA
8,60
5
Clive Cussler Paul Kemprecos
Morte bianca
TEA
8,60
6
Jacques Prévert
Poesie d’amore e libertà
Guanda
s.p.
7
Elizabeth George
Nessun testimone
TEA
9
8
Robert Louis Stevenson
Elogio dell’ozio
La vita felice
6,50
9
Milena Agus
Mal di pietre
Nottetempo
13
10
Margaret Mazzantini
Venuto al mondo
Mondadori
s.p.
11
Ismail Kadaré
La figlia di Agamennone
Longanesi
13
12
Irene Némirovsky
Il colore del sangue
Adelphi
11
13
Carola Susani
L’infanzia è un terremoto
Laterza
9
L’estate si avvicina. Ed i viaggi? Per ora tutto tace.

giovedì 22 dicembre 2011

Dell’Islam e dintorni - 30 maggio 2009

Con un giorno d’anticipo dovuto a questo interludio tedesco-berlinese inframmezzato dallo spettacolo di Rosa, torno, dopo tanto tempo, a parlare di scrittori che trattano di cose arabe. Anche se la terna di questa settimana è ben composita. Uno scrittore algerino molto datato al suo primo romanzo, un italiano che parla di Algeria, ma di quella dei “pirati”, una svedese che ci fa piombare nell’Afghanistan del dopo 11 settembre. Diversi modi di affrontare l’arabismo. Certo, Dib è l’unico che lo fa dall’interno. Anche se questo suo primo romanzo, ore ri-edito, fu pubblicato prima che io nascessi.
Mohammed Dib “La casa grande” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà 5,20 scontato)
Molto “datato e storico”. È il primo romanzo di Dib, scritto sui 30 anni intorno al 1952. L’autore cerca di narrare dell’Algeria sua contemporanea, partendo dalle vicende della famiglia del protagonista, il bimbo Omar, alla vigilia della seconda guerra mondiale. La fame è l’elemento centrale di tutto il romanzo, tutto si fa per la fame. Si lavora per guadagnare due soldi per comprare la farina per fare il pane. E non c’è tempo per fare e pensare ad altro. Si dipingono le altre figure: la madre Aini, dura ma in fondo dolce con i parenti, le sorelle, Hamid l’agitatore, e le donne tutte della Casa Grande di Temlcen. Ma ora inizia la guerra, forse ci saranno nuove prospettive, ed Omar sorride nel grande pranzo finale che chiude il romanzo (e che prelude agli altri che ne faranno seguito). Scrittura naturalista alla Zola. Ma in controluce, ogni personaggio ed ogni azione traluce le vicende del suo paese. Casa = Patria. Madre = algerini sottomessi. Hamid = algerini ribelli. Omar = il popolo che mano a mano acquista coscienza. Certo un piccolo acquarello, toccante nella sua storicità. Ma ora un po’ fuori paese. Difficile da capire se non si è visto un po’ di Algeria.
“abbiamo preso l’abitudine di vivere e non vogliamo più cambiare questa abitudine”
“trovavano strano che un uomo leggesse dei libri”
Nato nel 1920, a trent'anni cominciò la sua prima saga sul mondo algerino, per poi continuare a scrivere sino alla morte nel 2003. 
Come secondo affrontiamo il poliedrico Carlotto, anche lui ci parla dell’Algeria, ma facendo un bel salto all’indietro nel tempo.
Massimo Carlotto “Cristiani di Allah (libro e CD)” E/O euro 19,50 (in realtà, scontato 15,60)
Interessante. La storia dei corsari di Algeri (mi raccomando non pirati), del loro essere stati cristiani, per poi passare all’islam (e si vedrà perché). Operazione complessa, legata anche alla produzione di un CD con alcuni brani degni, come a fare una colonna sonora epica e d’epoca al racconto. All’inizio avevo pensato quasi ad un saggio, ma non lo è, anche se ben documenta un andamento storico ben preciso. La vita di Algeri, nell’attimo d’apice della sottomissione dell’islam ai turchi dominatori. L’utilizzo quindi di corsari (guerriglieri marini ante litteram) che rifornivano le casse dell’impero con le loro imprese (come detto non pirati che pensavano solo al proprio tornaconto personale). E bella ed intrigante la storia degli omosessuali che per nascondersi (o per manifestarsi in modo diverso) trovano il loro mondo rinnegando quello di nascita e trovandosi a vivere sotto le ali di Allah. Storia complessa, di piccoli intrighi, di sguardi, ma anche di bravate mache, e di amore, grande e profondo. Come quello dell’albanese Reduane con il germanico Othmane. Un po’ debole la parte finale, con il canto della donna che viene a lenire il dolore, ma che, per la sua bellezza (di canto) non potrà fare altro che ricordare per sempre quel dolore. Bell’operazione nel complesso, anche se, ma forse mi ripeto, io preferisco sempre il Carlotto dell’Alligatore.
Finiamo con l’unica donna della triade, l’ottima giornalista di guerra norvegese ed il suo a suo tempo acclamato libraio.
Åsne Seierstad “Il libraio di Kabul” BUR euro 8,60 (in realtà, scontato 5,88 euro)
Ci voleva una norvegese per tornare a sentire qualcosa sul mondo arabo che non sia troppo di routine? O troppo indulgente o troppo aliena. Qui invece, usando un buon mestiere di scrittura la Seierstad riesce a portarti nell’universo afghano ed a fartelo sentire. Con tutte le sue contraddizioni. Si entra con facilità nel mondo del libraio Sultan Khan, passando man mano dalle prime pagine di ammirazione alle ultime di rabbia impotente. La sua scrittura ci fa facilmente entrare (con tutte le mediazioni di un occhio occidentale) all’interno di un non facilmente decrittabile mondo. Dove valori e concetti che lo governano per noi risultano altri, inconcepibili, in una parola, alieni. Belli i momenti dove si sente con mano il sorgere del conflitto tra l’occidentalizzazione e l’Islam tradizione. L’interessante è tra l’altro vedere come il non schierato intellettuale Sultan Khan, che ha molto sofferto sotto i regimi precedenti la liberazione, non è poi così differente da tutti gli altri afghani, in particolare nel modo vetero-islamico di trattare la donna. Un pensiero finale: com’è difficile essere coerenti quando, liberati dalle costrizioni, possiamo scegliere.
“posa la tua bocca sulla mia / ma lascia libera la mia lingua per parlare d’amore (poeta afghano)” (57)
“… non è abituata a lottare per qualcosa, al contrario, è abituata a rinunciare. Ma un modo dev’esserci. Deve solo trovarlo” (222)
Allora, buona immersione nel mondo arabofono, e tanti auguri a forseluca senza forse che proprio il 27 di questo mese ha visto la luce (data cabalistica 27 maggio 2009 con 2 meno 7 che porta a 5 – maggio – e 2 più 7 che porta al 9 di quest’anno e tanti altri intrighi numerici che vi spiegherò un’altra volta).
E spero di potervi parlare la prossima volta anche di Georges Dandin.

mercoledì 21 dicembre 2011

Scritti con delitti, verso l’Adriatico - 24 maggio 2009

Ero indeciso se mettere come titolo Gialli, oppure Noir, oppure Poliziesco. Ma ognuno coglie una parte della verità. Allora, ho deciso per un ibrido, anche perché non sono solo romanzi, ma sono di gente che vive tra Bologna e Camerino. C’è il romanzo seriale, seconda puntata dell’investigatrice bolognese. C’è la puntata senza interprete seriale del romanziere emiliano. E c’è il saggio sul giallo del professore di Camerino, che, poiché mi ci sono innervosito, lascio per ultimo.
Comincio, noblesse oblige, dalla signora.
Grazia Verasani “Velocemente da nessuna parte” Repubblica Noir Italia euro7,90
Nuova puntata con Giorgia Cantini. Buona la musica (passando dai Ramones, ai Clash, dai Dead Boys agli Ultravox, dai Damned agli Who, dai Depeche Mode ai Japan, fermandosi a lungo al Morissey del titolo – Nowhere fast - ma non tralasciando ogni tanto un ottimo Coltrane). Contenuto “scontato”. Perché in fondo la storia è deboluccia. Si cerca di dare uno spaccato di vita bolognese, attraverso gli occhi single di Giorgia, mettendoci qualche “punto di giallo”, ma senza un grande mordente. Il meccanismo poi, nella ricerca dell’effettino, è prevedibile fin da metà libro. Si cerca solo di dare un po’ di colore alla storia. Che rimane uno svolgersi di tempo mentre si invecchia. Pochi misteri, e qualche colpo sul sociale, tanto per non dimenticarsi (la puttana buona, quella cattiva, il vecchio porno-attore in pensione, il bassista filosofo, ed il maschio che come direbbe la Littizzetto, farebbe bene almeno a lavarsi le ascelle). In fondo, a me pare sempre una guida del vivere quotidiano nella Bologna d’oggi, con le sue trattorie vicino all’Università, i suoi bar intorno a Piazza Maggiore. Però di quella Bologna vista da quarantenne, più che da giovane (e rimando alle saghe di Morozzi sul tema). Anche la musica è forte, hard metal più che rock, tanto che mi piacerebbe far suonare Mel con i Despero. In ogni caso, mi è piaciuto di più della prima prova della Verasani, dove era tutto molto più scontato e prevedibile, quasi già intriso di quella malinconia da effetto, che qui se ne va abbastanza presto.
“sono stata sempre incapace di portare a termine le cose. Mi fermo prima, come un podista che rallenta a un passo dal traguardo, oppresso da un senso di inutilità. In fondo è questa la sintesi della mia vita: cancellarmi dal menu all’ultimo momento come una portata che non fa gola a nessuno”
“la fine di una storia non è mai una passeggiata, e l’amore è come quei percorsi di montagna dove è più difficile scendere che salire. Chi non ci vuole non ci vuole. E le ragioni non contano, anche quando restano inespresse.
Continuo con l’inventore di Sarti Antonio in un romanzo senza Sarti Antonio.
Loriano Macchiavelli “Sequenze di memoria” VerdeNero euro 12 (in realtà, scontato 9,60 euro)
Premesso che, se capita, continuerò a comperare i libri della VerdeNero sulle mafie ed i guasti italiani, questo, rispetto agli altri che ho letto ha qualche plus e molti minus. In effetti, il pregio migliore è che non è un libro scritto “su commissione” e quindi non si sente quello sforzo, a volte troppo smaccato, di dover dimostrare qualcosa. Qui si parla di inquinamento ambientale, e lo si fa in un ambito che non vuole dimostrare nulla, se non che, per favorire certi sviluppi industriali si è passato sopra, ed alla grande, su quanto le industrie potessero inquinare. Il solito uovo oggi. E le galline? C…i di chi ci arriverà. I minus cominciano con la “vecchiaia” dello scritto stesso. Ha trentatre anni e si sente. Certo anche nel 1976 già si cominciava a parlare di fiumi che muoiono e compagnia cantante. Ma il tema, seppur centrale, forse non è centrato. Poi c’è Macchiavelli senza Sarti Antonio, che se vogliamo è stata la sua fortuna e la sua dannazione. Gli ha dato da vivere, ma lo ha costretto in un cliché. Qui se ne libera. C’è sì il morto e se vogliamo il giallo. Ma … ma seppur bravo non siamo dalle parti di Agatha Christie e visto che i misteri per un giallista classico non possono essere risolti con l’arrivo di alieni dagli occhi verdi, i cosiddetti misteri sono già svelati dopo poche pagine. Rimane l’impianto, la storia di chi fugge del proprio paese perché gli sta stretto, o doloroso o entrambi. E quando torna non sa se fuggire di nuovo o scoprire che in fondo si è realmente invecchiati. Qualche altro pregio sui personaggi di contorno. Riesce a tratteggiare l’odiosità del maresciallo come pochi altri. Facendo intravedere l’arroganza del potere e l’impotenza di chi, dalla sua, ha solo la ragione (come dice il suo amico Guccini chi sta sempre con la ragione e mai col torto…). Insomma l’ho letto, mi è moderatamente piaciuto (e lo si vede da alcune frasi che riporto) ma mi aspettavo di meglio. Aspettiamo altre prove sia di Macchiavelli che della VerdeNero.
“mi guardo attorno e mi chiedo … dov’è finito il mio passato e la mia infanzia che pensavo di dover ricordare per sempre” (17)
“è matto uno che dice alla gente quello che pensa? O che non sopporta di vedere nessuno perché ha capito che razza di animali gli vivono attorno?” (52)
“Sono sciocca vero? Piango per… perché sono stata felice’ ‘ Non sei sciocca: piangere è un modo per essere felici” (100)
“mi piaceva riconoscermi incapace ed ero soddisfatto nell’assicurare a me stesso che non sarei mai riuscito a combinare niente di niente, nella vita” (153)
“c’è un modo per uscirne? … Scappare, come ho sempre fatto: sono scappato dai miei amori di fanciullo e dai sogni, ho cercato di fuggire gli inevitabili dolori della giovinezza …; ho lasciato per strada, senza uno sguardo indietro, parenti, amici,… Ho voltato la schiena …  a ridicole rinunce per una vita che volevo a tutti i costi tranquilla” (295-296)
E finiamo con il professore di Logica tosco-camerinense.
Carlo Toffalori “Il matematico in giallo” Guanda euro 13 (in realtà, scontato 11,40 €)
Discreta la prima metà, inutile la parte centrale. Manca comunque una buona bibliografia. L’idea di partenza mi aveva affascinato ed integrato: cercare un filone matematico all’interno del giallo, del noir ed analoghi. Così come aveva fatto Bartocci nell’altrettanto poco riuscita antologia sui Racconti Matematici. Gli spunti poi sarebbero apparsi tanti ed intriganti, se si fosse concesso qualche cosa al filone “logica” piuttosto che matematica pura. Questa, almeno per i profani, si riduce a qualche nozione di crittografia (di cui ho anche parlato nel racconto di Poe). Come detto alcuni spunti: il matematico assassinato, il matematico assassino ed il detective che è anche professore di Matematica in qualche università. Ma chi si serve meglio della matematica, i delinquenti o i poliziotti? Non è facile imbastire un racconto rigoroso dal punto di vista matematico ed avvincente da quello poliziesco. Una caduta verticale poi, si trova quando si va parafrasando la ricerca della soluzione all’ultimo teorema di Fermat o si narra della congettura di Goldbach (forse solo nel libro di Dioxasis un minimo interessante, quel “Zio Petros …”). Si poteva anche andare più in fondo sull’ispettore Dupin o su Sherlock Holmes e sul bel saggio dedicato loro da Borges. O, sempre rimanendo su Borges, tratteggiando altro del “sentiero dei destini che si biforcano”. Poi c’è la paura (o la necessità) di dire molto ma non svelare i colpevoli, altrimenti che gialli sarebbero? L’unica cosa interessante, alla fine, è il rimando al sito http://Math.cofc.edu/Kamsan/MATHFICT dove il buon Alex Kamsan collaziona e commenta non solo gialli, ma tutti i racconti e i romanzi che toccano la materia, cioè la matematica  (e da dove, dopo averlo visitato, credo che Bartocci, di cui parlai, abbia preso la quasi totalità degli spunti per la sua antologia). Se avessi più capacità dovrei dedicare del tempo a questo filone di ricerca.
Carlo Toffalori è nato a Firenze nel 1953 (classe di ferro!) e dal 1989 insegna Logica Matematica all’Università di Camerino. Dal 2006 è presidente dell’associazione italiana di Logica e Applicazioni. Ha scritto vari manuali universitari ed è autore di articoli e libri di divulgazione della matematica.
Siamo quasi alla fine di maggio. A grandi passi si avvicina l’estate. Che succederà? Si parte? Si resta? Io prenderei lo zaino e partirei domani, forse anche stasera. Ma non sarà un modo di fuggire?

martedì 20 dicembre 2011

Tre lingue, un sentimento - 17 maggio 2009

Oggi ci dedichiamo a tre autori di tre paesi ben distanti tra loro, se non geograficamente, almeno culturalmente. Uno è il solito inglese - americano, che non manca mai nelle letture attuali. Una scrive in spagnolo, in quello semplice ancorché ricco del Sud America. Il terzo è di una di quelle lingue incomprensibili, l’ungherese. Tuttavia sempre di rapporti si parla. Tra le persone, principalmente. L’amore. Dov’è? Com’è? Quanto dura? Ma anche fratelli, genitori, ed amicizia. Ma andiamo con ordine, ovviamente mio, folle, di lettura.
Cominciamo con l’ungherese.
Sandor Marai “Le braci” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato 8 euro)
Bisogna rifletterci su. Nella galoppata verso la fine (come in un film di Ridley Scott) si dicono tante cose sulla vita e sul nostro viverla. Stavo anche cercando di collocarne temporalmente la scrittura, ma non ci sono riuscito (direi intorno agli anni Cinquanta, più o meno). Al solito, i libri fatti di niente sono poi pieni di tante cose. È uno, come detto, dei tanti che ho letto nell’ultimo periodo, imperniati sul rapporto tra due persone. Qui due amici, che si ritrovano dopo 41 anni, ed in quasi duecento pagine di monologo, il generale passa in rassegna le loro vite. Dall’amicizia all’odio, al tradimento, fino a domandarsi il perché di tutto, mentre (ed il generale lo dice o lo fa capire) si dovrebbe comunque vivere. Romanzo di grandi passioni, là dove neanche un accenno vien scritto men che casto. Romanzo dove si confrontano l’amore e l’amicizia, il dover dire o il meglio soffrir tacendo. Che fare? Poiché sempre qualcuno ne soffre, che si fa? Si sceglie il male minore? Si sceglie il bene per sé? Ed alla fine, in controluce, si legge anche l’amore-odio di Marai per la sua sofferta Ungheria, per il rimpianto di quello che era. Per l’accettazione e la sofferenza del vivere nell’Ungheria comunista. Standoci ma soffrendo. Andandosene ma soffrendo. E come in un gioco alla Potocki, poi, suicidarsi 41 anni dopo essere tornato in patria, così come 41 anni erano trascorsi tra il tradimento di Konrad e la lunga arringa del generale. Pieno anche di frasi che rimangono, e di una lunga citazione che non riesco a tagliare e riporto per intero.
“il sentimento è più forte di noi, più fatale”
“un bel giorno siamo destinati a perdere la persona che amiamo. E se qualcuno non sopporterà il colpo peggio per lui: non è un uomo di carattere”
“l’uomo vive finché ha qualcosa da fare su questa terra”
“alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza”
 “certe passioni non si possono occultare”
“se qualcuno si rifugia con tanta veemenza nella sincerità significa che ha paura di ritrovarsi un giorno con la vita carica di segreti inconfessabili”
“le cose non ci accadono così per caso… gli uomini contribuiscono al loro destino”
“il fatto è che noi amiamo sempre i diversi da noi, e continuiamo a cercarli in tutte le circostanze… quando due esseri uguali si incontrano la si considera una fortuna, un dono della sorte”
“in fondo all’animo nascondevi un impulso spasmodico: il desiderio di essere diverso da quello che eri. È il tormento più crudele che il destino possa riservare a un uomo. Essere diversi da ciò che siamo… è il desiderio più nefasto che possa ardere in un cuore umano. Giacché l’unico modo per sopportare la vita è quello di rassegnarci a essere ciò che siamo ai nostri occhi e a quelli del mondo. Dobbiamo accontentarci di essere fatti in un certo modo e sapere che, una volta accettata questa realtà, la vita non ci loderà per la nostra saggezza, nessuno ci conferirà una medaglia al merito solo perché ci siamo rassegnati a essere vanitosi ed egoisti, o calvi e panciuti – no, in cambio di questa presa di coscienza non otterremo né premi né lodi. Dobbiamo sopportarci quali che siamo, il segreto è tutto qui. Sopportare il nostro carattere, la nostra natura di fondo, con tutti i suoi difetti, il suo egoismo e la sua cupidigia, che non saranno corretti né dall’esperienza né dalla buona volontà. Dobbiamo accettare che i nostri sentimenti non siano contraccambiati, che le persone che amiamo non rispondano al nostro amore, o almeno non nel modo che vorremmo. Dobbiamo sopportare il tradimento e l’infedeltà, e soprattutto la cosa che ci riesce più intollerabile: la superiorità intellettuale o morale di un’altra persona.”
Secondo sulla scena si affaccia il duro americano.
Pete Dexter “Un affare di famiglia” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
Meglio il titolo originale (“Il ragazzo dei giornali” o “Lo strillone”). Ma tutto sommato ininfluente, rispetto all’America di provincia che ne viene fuori. Violenta, e con la bottiglia sempre a portata di mano. Con il ragazzo che attraversa tutto il romanzo, sempre un po’ sfasato rispetto alla realtà (forse, in fase solo nelle ultime due pagine). E la storia degli uomini. L’arrivismo, il mito del condannato a morte, l’innocenza e la colpevolezza che non sono altro che accidenti nella vita degli uomini, l’omosessualità (vera? finta? ma forse non importa). E come tutti i buoni libri americani ben costruiti, sembra già la trama di un film, prima che al film stesso si pensi (e ne verrà o ne è stato fatto un film). Tante domande (risolte o meno): l’etica del giornalista, il rapporto padri – figli, l’altro (o il proprio) sesso. In fondo, tutto si gioca sulla correttezza: fino a che punto si può, si deve essere corretti? Esistono momenti in cui si può “passare sopra”? La mia risposta (e quella sottintesa di Dexter) è negativa. Anche a costo di soffrire, di esserne tormentati per tutta la vita. Non facendolo, forse si sopravvive, ma non si sarà mai sereni con se stessi. A meno che… certo a meno che non si è talmente stupidi che queste domande neanche ce le si pone.
“io credo che sia necessario aver sofferto per poter capire qualunque cosa”
Finiamo con la cilena che nei primi scritti mi affascinò, per poi passare un po’ nell’ombra.
Isabella Allende “Ines dell’anima mia” Feltrinelli euro 8,50 (libro in prestito)
Si legge d’un fiato. Bello anche se non travolgente la storia dei fatti salienti della vita di Ines Suarez, da lei narrati alla figlia adottiva Isabel. Un diario orale, che parte dalla Spagna natia, passa attraverso le vicende matrimoniali ed extra-matrimoniali, con il sensuale Juan de Malaga, con l’onesto Pedro de Valdivia e con il dolce Rodrigo de Quiroga. Per narrare, poi, nient’altro che la conquista del Cile da parte del solito manipolo di spagnoli. Facendo però risaltare (almeno un po’) la differenza tra questi e l’orda veramente barbarica degli accoliti di Francisco Pizarro. In un certo modo, cercando di dar un po’ di patina di “nobiltà” al Cile rispetto all’odiato Perù. Il tutto narrato dalla bella penna della Allende, vissuta in Cile (almeno fino al colpo di stato). Certo, meglio sarebbe leggerlo girando lì per i posti narrati, così come han fatto i miei amici dell’Elba. E certo l’esserci andato, da gusto alla pagina scritta. Ma poi ci si perde nella ferrea volontà della bella Ines, che attraversa tutto il secolo 1500 in fondo con poco altro se non il suo amore. Amore sensuale, ed amore per l’onestà, scusate se è poco. Una delle pagine più belle resta il primo incontro tra Ines e Pedro, lì dove minuti ed ore di silenzio, sono riempito dallo sguardo occhio nell’occhio. E continueranno per anni, con di poco mutato ardore. Ripresa a leggere dopo la difficoltà di una parentesi che mi impediva di riaccostarmene, certo non ancora alle vette della Casa degli Spiriti, ma di nuovo, per le mie corde, su di un passo sudamericanamente accettabile. Leggetelo bevendo mate, mi raccomando.
“nessuno se ne va all’altro mondo prima che sia giunto il suo momento”
“Juan mi faceva ridere, mi divertiva con canzoni e versi audaci, mi addolciva a baci. Gli bastava sfiorarmi per trasformare il mio pianto in sospiri e la mia collera in desiderio. Com’è accomodante l’amore, che perdona qualsiasi cosa!”
“nessuno amo Pedro più di me, nessuno lo conobbe meglio di me, ed è per questo che posso parlare con cognizione delle sue virtù, come poi sarò costretta a non tacere dei suoi difetti, che non erano lievi.”
“persino gli uomini più integerrimi e coraggiosi sono soliti deludere noi donne”
“sapevo che era innamorato di me, una donna lo sa sempre… probabilmente anch’io lo amavo – si possono amare due uomini contemporaneamente – ma tenevo per me questo sentimento”
“mi fa impressione constatare che ancora adesso, nonostante pensi intensamente alla morte, ho voglia di realizzare progetti… ho il sospetto che in questa vita non si vada da nessuna parte, tanto meno se si va di fretta: si cammina solamente, un passo alla volta, verso la morte”
Mentre volevo notare che sia dalla Allende che da Marai in una delle citazioni si parla dell’avvicinarsi alla morte, volevo anche e di nuovo sottolineare la lunga citazione di Marai sull’essere se stessi. Quanto lavoro s’è fatto per arrivarci. Ma poi, ci si riesce? Ci si riesce ad accettarsi calvi e panciuti (beh, forse solo panciuti)? E si riesce ad accettare che qualcuno sia migliore di noi? Ed accettarlo non a parole, ma con tutto il proprio sé?
Ai postumi l’ardua sentenza, come direbbe Manzoni ubriaco.

lunedì 19 dicembre 2011

E poi si ritorna in Italia - 10 maggio 2009

Avendo felicemente passato un altro (comple)anno dalle tende maure della scorsa settimana, torniamo a parlare di autori italiani, con delle prove oneste, da cui speravo, per titoli e quarte di copertina, uscisse qualcosa di meglio. Non che siano prove da cestinare, anzi, ma, come si leggerà, speravo di più. D’altro canto, direte miei Voi che state là, chi è che non spera di più?
Cominciamo allora con l’unico di cui già si lesse.
Domenico Seminerio “Il manoscritto di Shakespeare” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato 10,40 euro)
Pensavo e speravo meglio. Qualcosa, ma non sono convinto della scrittura, così come non lo era nel primo libro di Seminerio che ho letto. L’idea mi piace, è ancora stimolante. Chi era veramente Shakespeare? Ci sono coincidenze che ne potrebbero fare un italiano, a limite un siciliano, tal Florio (perché ambientare una commedia a Messina?). Il libro si barcamena tra questi due registri. Portare piccoli brandelli alla costruzione dello Shakespeare-Florio e girare intorno alle prove rubate di questa identità. A quel manoscritto che potrebbe definitivamente dimostrare la tesi sconvolgente. Ma tutto si ingarbuglia, sempre per il benedetto vizio di voler dire tanto, forse troppo. Di mettere troppe frecce allo stesso arco. E questo modo narrativo, del tutto alla terza persona, senza dialoghi diretti, alla fine è un po’ faticoso. Anzi artificiale. Riviene anche fuori il carattere “siciliano”, con i suoi stereotipi. Lo scrittore bravo che insegna al liceo, il maresciallo colto, la mafia (o meglio “la famiglia” ed il benessere delle sue persone). Questa è la parte debole, che cerca di dire troppo. Meglio il povero illuso che per tutta la vita si muove dietro alla speranza di trovare qualcosa per cui sarà ricordato. L’immortalità dedicata alla demistificazione del mito shakespeariano. Ripeto pensavo più vicino alla descrizione della sicilianità dello scrittore inglese. Questa si intrigante base di un narrare non usuale (anche se pare ci siano altri libri che lo hanno fatto). Alla fine, ho fatto fatico a leggere le 300 pagine, segno che non ne ero convinto/coinvolto fino in fondo.
“per essere ottimista basta avere una fede, una qualsiasi, sia essa religiosa o politica, o economica o sportiva o teatrale o letteraria, persino”
“e se quando muoio me ne vado in paradiso, se non ci trovo te, neanche ci entro. [Dalla Cavalleria Rusticana]”
“lei… gli diceva che c’è grande differenza tra amare e volere bene. L’amare è quello dei sensi, la passione che ti sconvolge; il voler bene è quello del cuore, il sentimento. Si può amare e non voler bene, e viceversa”
“quanto è meglio piangere di gioia che gioire del pianto. [Da Molto rumore per nulla]”
Dalla Sicilia risaliamo alla Toscana.
Francesco Recami “Il correttore di bozze” Sellerio euro 12 (in realtà, euro 9,60 scontato)
Pensavo meglio. Un po’ irrisolto. Il correttore come metafora. La scrittura mi è piaciuta, in fondo. Questo entrare ed uscire da più piani narrativi: il correttore, il libro da correggere, l’autore che sembra intervenire. Questo poi cercando di confondere le acque, facendo apparire che qualcosa possa succedere. Però, purtroppo, non succede. Ed alla fine, che immane tristezza, questa dell’essere solo a leggere per entrare nella parola dell’autore. Questo capirne i trucchi e non esserne abbagliato (il disincanto di chi molto ha letto, ma che molto vuole ancora leggere). Alla fine, tanta tristezza, perché il correttore è e sarà sempre un gregario che può correggere la forma, ma che non ha la scintilla per essere dall’altra parte della pagina stampata, di quella così detta creativa. L’irrisolto mi viene da tutta questa carne, che messa così al fuoco poteva portare a lungo, a fondo in altre vertigini di lettura. Magari a ritrovare tutti i fili sparsi qua e là lungo le pagine. Certo, mi si dice che spesso la vita è così, un po’ sospesa. Che spesso non tutto si riesce a portare a compimento. Ma questa è la vita e quello è un libro. O no? Ma ne consiglio vivamente la lettura, sperando che capiti anche a voi lo spaesamento e l’emozione, dopo un po’ di pagine, di saltare sulla sedia quando Lucilla si accorge di avere un “carattere di meda” (tra virgolette perché così c’è scritto nella bozza…).
“coloro che sottolineano o evidenziano i libri, siano essi presi a prestito, i libri, ma io direi anche se sono di loro proprietà, dovrebbero essere arrestati, puniti severamente. E pene severe ci dovrebbero essere per quelli che i libri li spiegazzano, li scartabellano, li ungono.”
Finiamo poi, sempre e comunque al centro nella mia amata Roma.
Errico Buonanno “L’accademia Pessoa” Einaudi euro 10 (in realtà, gratis con Feltrinelli +)
Alcuni buoni spunti di romanzo “en abime”, alcuni momenti di vicinità con Reccami, altri punti irrisolti e/o irrisolvibili. Nel complesso un sufficiente scritto che stimola un po’ il cervello, anche se non il cuore. Come un algido Baricco, senza il fuoco della passione. Certo è che i libri che parlano di libri sono per me un’attrazione fatale. Qui, inoltre, l’idea non è male: una confraternita che (senza dirselo, o confessarlo) scrive raccordi tra i classici di modo che Pinocchio altro non sia che la continuazione dei Promessi Sposi e questo la continuazione del Don Chisciotte, o del Conte di Montecristo e così via creando una specie di biblioteca borgesiana, ma creando anche un “mostro” che per poter vivere deve alla fine distruggere i propri creatori. A volte sembra una trama gialla e ci si aspetta di trovare colpevoli, moventi e spiegazioni annesse. Poi si riflette e si scopra che il nome del protagonista (nano fuggito dal Marocco) non è altro che quello riportato da Cervantes come scrittore originario del Chisciotte di cui lui non fa che la traduzione in spagnolo. Alla fine, tanta la carne al fuoco. Irruenta e piena di buone intenzioni, ma a volte val meglio passare un po’ di tempo (anche tanto) tra piatti macrobiotici.
“scrivere è brutto ma … noi non riusciamo a farne a meno, perché … l’arte è la prova che la vita non basta; perché c’è una felicità segreta nel complicarsi l’esistenza che, come tutte le felicità più pure, non vuole essere spiegata”
Ed allora, dove aver per l’ottava volta compiuto sette anni, non è certo questo il momento di fare bilanci. In fondo poco si chiede ad un bambino, basta non far capricci. Si spera soltanto che sia il momento dello sblocco, si passa da bimbi ad adolescenti, e forse si ricomincia a viaggiare.
In questa giornata della mamma, poi, un bacio speciale a tutte le mie amiche mamme.
Ma visto che sono generoso, ed è Domenica ma non Domenico, un bacio a tutti.

domenica 18 dicembre 2011

Oggi si torna all’oggi - 3 maggio 2009

Questa settimana tre autori moderni, ancora viventi, e senza troppo giallo intorno. Tre lingue e tre scritture diverse: un’inglese molto british, uno spagnolo molto cubano, ed un tedesco molto crucco. Anche se ve li propongo ora, li ho letti a cavallo della Mauritania, ma sono quanto di più lontano da quegli spazi aperti. Anche se il tedesco fa venire voglia di muoversi. Ma andiamo con ordine. Sotto le tende maure ho letto:
Alan Bennett “La sovrana lettrice” Adelphi s.p. (regalo)
Se non me lo regalava non lo leggevo, credo, perché mi ero innervosito con “La visita guidata”. Invece è carino, scorrevole, ed è stato oggetto di pubblica lettura serale in Mauritania, a mo’ di surrogato televisivo. Il titolo italiano cerca di riprodurre il gioco di parole inglese, anche se con poca efficacia (qui si gioca sul termine sovrano, spesso usato per mettere il lettore al di sopra dell’autore, lì, dove il titolo era “The uncommon reader”, sul lettore comune, che si nutre di bassa lettura, e sul non-comune della lettrice specifica). Si gioca, come altrove, sull’ironia e lo spaesamento. Questa Maestà, che per bizzarria del caso, si immerge nei libri, creando lo sconcerto prima e lo scompiglio poi, nel programmato mondo della regalità britannica. Ma leggere produce pensiero, se lo si fa con la testa. Ed i pensieri non possono che scardinare il protocollo reale, dedito alla più pura facciata. In controluce, vedo altre scene in cui l’apparire ha completamente tolto il posto all’essere. Quanto sarebbe bello che anche questo nostro apparire venisse buttato all’aria da un sano ritorno al leggere, cioè al pensare. Cioè, in definitiva, all’agire per un bene comune, non per un egocentrismo narcisistico. Il libro è corto e veloce, e mi riconcilia con il Bennett che conoscevo, quello del bellissimo e fulminante “Nudi e crudi”.
“l’attrattiva della letteratura … consisteva nella sua indifferenza… i libri se ne infischiavano di chi li leggeva, loro stavano bene lo stesso”
“era meglio incontrare gli autori dentro le pagine dei romanzi, creature dell’immaginazione del lettore come i personaggi”
“io guardo le cose in prospettiva, come del resto ho sempre fatto. A ottant’anni le cose non succedono, si ripetono”
Il secondo l’ho letto in un baleno nel letto di dolore di una dissenteria post-viaggio.
Leonardo Padura Fuentes “Addio Hemingway” Il Saggiatore 9 (in realtà scontato 7,20 euro)
Non si fa, ma comincio con la critica: non al libro, ma all’operazione editoriale. Non va bene vendere un libro dove nel titolo e nella quarta si parla di un romanzo, e poi ti trovi due racconti, il secondo del quale non si trova citato da nessuna parte, neanche in un misero indice finale. Con lo spaesamento che entrambi hanno per protagonista il detective Mario Conde. Ma quello del titolo è un Conde posteriore, uscito dalla polizia per motivi di scrittura. Mentre il secondo racconto ce lo presenta ancora in forza alla polizia cubana. Comunque, devo aver letto del Conde qualche vita fa, mi ricorda qualcosa. Il racconto su Hemingway, in ogni caso, è bello anche se non avvincente. Cerca di tratteggiare da cubano la vita dello scrittore che tanto tempo passo sull’isola, senza forse capire bene i cubani stessi. Certo c’è un cadavere, e la ricerca di un assassino, anche se di quarant’anni fa. Ma il centro è lo scrittore, con il suo non accettare la decadenza del fisico e della mente. E con i suoi amici cubani, tra cui emerge la figura dell’integerrimo Ruperto che preferisce la povertà allo sfruttamento del nome dell’amico. Il Conde, ora anche lui tentato dalla scrittura, deve fare i conti con questo vecchio che oltre ad essere un grande scrittore, era un uomo sfaccettato, a volte anche meschino nell’umiliare i deboli, anche se scrittori anche loro (bello il pezzo su Dos Passos). Si faranno i conti con tutto ciò. E il Conde potrà dire addio a questa ossessione, che lo aveva preso sin da bambino quando salutò Papa Hemingway sul molo, e tornare ad vivere la sua vita. Poi si fa un salto di 10 anni indietro e si passa ad un’indagine nel quartiere cinese de l’Havana. Qui bella è l’ambientazione in questo luogo che non ti aspetti esistere. La storia è poverina, la morte di un povero cinese, che poi si scopre essere più importante di quello che sembrava, e dei motivi della sua morte. E l’intreccio di amicizie e parentele cinesi, che costringono anche a fare i conti con i cattivi. Che sono cattivi ma non cinesi cattivi. Sono cattivi perché il cattivo è già una categoria a sé. Anche il cinese è una categoria, laddove si rinchiude e non si integra nella vita del posto in cui si stabilisce. Alla fine però la storia ne esce lenta, poco avvincente, e propria da raccontino. Una prova sbilenca, che merita un appello per il bravo Fuentes.
“cominciò a convincersi che molte delle domande che si sarebbe posto da quel momento in poi sarebbero rimaste senza risposta, ma lo rasserenò ricordare che qualcosa del genere gli era già successo con molte altre domande che si era trascinato in lungo e in largo per tutta la vita, fino a quando non aveva accettato la perfida evidenza di dover vivere con più dubbi che certezze.”
“a questo servono gli amici, a ricordarsi a vicenda”
Il terzo invece viene dalla baraonda dei giorni della mamma malata e ricoverata.
Daniel Kehlmann “La misura del mondo” Feltrinelli euro 8 (in realtà, 6,40 scontato)
Questo mi è piaciuto di più del primo (ricordo “è tutta una finzione"). La storia parallela di von Humboldt e Gauss è ben trattata. Certo non è quel capolavoro di filosofia che vuole la quarta di copertina. Ma si fa leggere. In fondo non è una vera e propria storia. A capitoli alterni ripercorre la vita dei due grandi tedeschi, fino a raccontare del loro (forse vero) incontro a Berlino nel 1826. Due personaggi che, in ambiti diversi, hanno cercato di misurare il mondo. Chi attraverso i numeri e le loro proprietà (la testa), chi girando per le nuove terre alla ricerca di animali, vegetali, minerali e quanto possa servire a descrivere l’ignoto in cui viviamo (il corpo). Come sottoprodotto non banale, poi, Humboldt serve a simbolo del rapporto tra fratelli (che si lasciano, si riprendono, sono in ogni caso vicini anche se lontani fisicamente e intellettualmente). Mentre Gauss ripercorre i rapporti padre-figlio (in special modo tra padre genio e figlio normale e sul come sia difficile accettare gli altri se sono diversi da sé; mi tornano in mente le discussioni sull’intelligenza globale rispetto ad una normale ed ahi quanto migliore empatia). Ripeto, nessun capolavoro di disquisizioni filosofiche sull’esistere, ma riflessioni queste sì sul nostro stare in questo ingarbugliato mondo.
“disse che … lui voleva viaggiare… è un desiderio che provano in tanti… e tutti se ne pentono. Perché? Perché non si ritorna mai”
“i ricordi… non riportano una data. Le cose si conservano nella memoria e solo con la riflessione una persona riesce a sistemarle in un ordine temporale”
“i numeri non sottraggono una persona dalla realtà, al contrario, gliela rendono più che mai chiara e manifesta”
“l’indovino reclinò il capo. Disse che niente è sicuro. Può venire così o così. Ognuno è artefice del proprio destino. Chi mai conosce il futuro!”
“chi viaggia in posti lontani, disse, apprende molte cose. Qualcuna anche su se stesso”
“qualche volta bisogna accettare di non poter aiutare le persone.”
Essendo la prima domenica del mese, mettiamo anche l’elenco delle letture di febbraio, anche qui con un andamento da canicola piuttosto che da camino.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
1
Pete Dexter
Un affare di famiglia
Einaudi
12
2
Francesco Recami
Il correttore di bozze
Sellerio
12
3
Amos Oz
Una storia d’amore e di tenebra
Feltrinelli
s.p.
4
Errico Buonanno
L’accademia Pessoa
Einaudi
10
5
Isabella Allende
Ines dell’anima mia
Feltrinelli
8,50
6
Massimo Carlotto
Cristiani di Allah
E/O
19,50
7
Henning Mankell
Il ritorno del maestro di danza
SuperPocket
5,90

Vogliamo parlare della prossima settimana? Forse è meglio tacere. Forse è meglio tornare a sognare.