domenica 19 settembre 2021

Scritti ebrei - 19 settembre 2021

 Nel senso che, in varia forma, si collegano all’ebraismo. Vuoi per la nascita degli scrittori (Malamud figlio di ebrei russi, Appelfeld figlio di ebrei rumeni, Debenedetti ebro italiano, Auster figlio di ebrei austro-polacchi), vuoi per gli attori delle diverse storie. E dopo il primo, interessante ma forse datato, gli altri, anche per la commozione delle storie, crescono. Insomma, una settimana con un indice di bravura, leggibilità e gradimento decisamente alto.

Bernard Malamud “Il commesso” Repubblica Duemila 3 euro 9,90

[A: 21/05/2018 – I: 16/12/2020 – T: 18/12/2020] - && e ¾ 

[tit. or.: The Assistant; ling. or.: inglese; pagine: 255; anno 1957]

Il primo commento da fare è che, pur sapendo di averlo visto e rivisto nella Biblioteca paterna, nel dubbio di non sapere se ci fosse ancora, l’ho ricomprato e riletto prima di mettere ordine nei meandri sorianesi. Dove, in effetti, ho trovato quello che mi ricordavo: una copia della prima edizione italiana, uscita per le edizioni Einaudi, con il dorso duro, la sovra copertina bianca, ed i bei caratteri a stampa dell’epoca, compreso l’ovale con struzzo.

Riprendendolo in mano nei ricordai alcuni tratti di lettura, che sono stati ribaditi da questa lettura direi della maturità. Anche se risente, e non poco, dell’età. Non perché lo scritto e le tematiche siano obsoleti, ma perché da quel libro Einaudi del 1962, molta letteratura di tematiche ebraiche, di immigrazione e di rapporti sociali sono passate sotto i ponti della storia. Quello che all’epoca poteva essere se non una novità, quanto meno uno dei primi momenti di scoperta, ora è diventato un tema suonato e risuonato. In termini tristi ed in termini ironici. In commedia ed in tragedia. Per cui, in finale, pur riconoscendone i pregi, non vola così alto come potrebbe.

La storia, possiamo dire, è ben radicata nelle tematiche yiddish, ed anche nei vissuti dello stesso Malamud. Tutto ruota intorno ad un negozio, al suo proprietario, Morris Bober, ed alla sua famiglia, la moglie Ida e la figlia Helen. Nonché a quello che diventerà il suo commesso, l’italo americano Frank Alpine.

Morris, emigrato dalla Russia (come la famiglia Malamud), mette suo il suo negozio di merce varia, in un quartiere non ebreo di New York. All’inizio ha abbastanza clienti, poi con il progredire “della civiltà” e con il regredire “dei rapporti umani”, è sempre più in difficoltà.

Morris è un uomo buono, e fondamentalmente giusto. Aiuta i bisognosi, magari vendendo qualche merce sottoprezzo. Cerca di non far torto a nessuno, anche quando il proprietario (ricco ed ebreo) di quasi tutti i locali della zona gli fa uno sgarbo. E non da poco: consente l’apertura di un negozio più moderno poco distante da Morris. Così che lui, sebbene sia sopravvissuto alla grande crisi, e poi alla guerra, comincia ad avere sempre più difficoltà, aggravate dal fatto che l’età avanza. Tanto che la figlia Helen, invece di proseguire una possibile carriera universitaria, si vede costretta ad impiegarsi come segretaria per poter arrotondare le entrate familiari.

Come spesso accade agli ebrei, sono ciclicamente coinvolti in avvenimenti che inizialmente sembrano positivi, poi si rivoltano e ne affossano vieppiù le velleità di “successo”. Così che mentre sembra poter risollevarsi da una nuova crisi, Morris viene rapinato da due tipi: uno lo ferisce, l’altro lo soccorre. Mentre è in convalescenza (e la moglie Ida non sa a chi dare i resti) compare in zona Frank, che si mette con tutta la sua buona volontà ad aiutare i Bober. Anche senza farsi pagare.

Capiamo ben resto che Frank è il buono della rapina, che tenta così di espiare presunte colpe. Ma Frank ha due problemi: non riesce a frenare i suoi istinti “rubacchiatori” ed è turbato dalla presenza di Helen nei dintorni. Malamud descrive con efficacia questa parte: Frank tormentato con desideri di riscatto, Helen presa tra Frank e mondi diversi, Morris combattuto tra il necessario aiuto di Frank e la voglia (molto ebrea) di riscattarsi da solo. Anche perché Morris vede sia la pericolosità del rapporto tra Frank e Helen, sia il fatto che, seppur attraverso piccole somme, ci siano continui ammanchi in cassa.

Tuttavia, la presenza di Frank sembra risollevare le sorti del negozio. Ma… ed ecco di nuovo la catastrofe ebraica che si abbatte. Frank fa uno sgarbo ad Helen ed avendo Morris scoperto le ruberie, viene allontanato immediatamente. Le sorti risollevate, tuttavia, non erano merito di Frank, ma dell’altro negozio che ben presto chiude. Per, tuttavia, riaprire “più bello e più ricco di pria”. Che Morris non riesce a tenervi testa. Non solo, ma dopo una abbondante nevicata, nel tentativo di spalare la neve davanti al negozio, si becca un bell’infarto.

Ida richiama Frank per aiutarli. Frank lavora sodo, rimanendo sempre molto distante da Helen, cui non sa come chiedere scusa. Morris, tuttavia, non si riprende e muore. Colpito dalle parole sull’uomo giusto che era stato in vita, Frank ripensa alla sua vita. Dirà tutto anche a Ida, cercherà (ma Malamud non ci dice se ci riuscirà) di riavvicinarsi ad Helen. Ma soprattutto, deciderà di convertirsi all’ebraismo e di rimanere a gestire il negozio.

Come vedete, i temi che affronta Malamud sono universali e presenti, in tutte le religioni ed in tutte le latitudini. Esistenze minute che lottano non per emergere o primeggiare, ma solo per sopravvivere. Il testo è anche tessuto da elementi etici di assoluta condivisione: rispetto del diverso, voglia di essere riconosciuti per i propri sforzi, ma anche le cattiverie dei malvagi di ogni quartiere e di ogni provenienza (il più cattivo, ad esempio, è figlio di un poliziotto). Sembra quasi uscirne fuori una sorta di etica della rassegnazione, dove entrambe le facce sono valenti e rappresentate.

Sebbene quindi non sia completamente nelle mie corde, e nonostante tutti i distinguo inziali, trovo che sia stata una lettura da tempo di covid da segnalare. Perché anche noi ci si rimbocchi le maniche, senza infingimenti, e si torni ad uscire dal guscio. Magari ci riusciremo meglio di Frank Alpine.

Aharon Appelfeld “L’immortale Bartfuss” Guanda euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro) (consigliato da Robinson)

[A: 25/01/2021 – I: 30/03/2021 – T: 31/03/2021] - &&& e ½

[titolo: Bartfuss ben almavet; lingua: ebraico; pagine: 157; anno: 1983]

Lessi una dozzina di anni fa un altro libro di Appelfeld, ambientato prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale (“Badenheim 1939”) e ne scrissi in modo positivo. Così come scrivo di questa nuova lettura, forse non ai livelli della prima, ma intensa e sapientemente costruita. Ringrazio quindi “Robinson”, il supplemento librario di Repubblica che lo inserì tra i libri da leggere (ed era più o meno l’inizio di quest’anno).

Ottima, come sempre, la traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal, forse meno l’introduzione che aggiunge poco (e che va letta dopo il libro). Forse, l’unica cosa significativa per me è stata quella puntualizzazione sul titolo, dove, letteralmente, “immortale” deriva dall’ebraico “figlio della non morte”. Piccole significative sfumature.

Il libro, tuttavia, in molti sensi è difficilmente raccontabile in una successione di trama coerente. Non che non abbia un suo sviluppo. Ma è tutto, tanto, nei dettagli che affiorano, nelle mezze parole dette, e nelle mezze parole non dette. Tanto che, si può dire, il libro non inizia e non finisce. Cioè Appelfeld ci porta fin dalle prime righe nel mondo di Rex Bartfuss, il protagonista (a proposito, solo dopo più di cento pagine sapremo che Bartfuss fa di nome Rex), che accompagniamo per un po’, e che alla fine lasciamo, senza un vero perché.

L’azione, se di azione possiamo parlare, si svolge in Israele, là dove anche Aharon riparò alla fine delle sue vicende di persecuzione e di guerra. Ed in un certo senso traslato, ripercorre idealmente il percorso di Aharon. Sia lui che Rex finirono in un campo di sterminio, ma ne uscirono vivi. Entrambi passarono per l’Italia, magari Rex con qualche avventura in più (Aharon aveva solo 14 anni all’epoca). Entrambi, infine, finirono in Israele. Non seguiamo più lo scrittore, però, ma l’immortale che finisce a Giaffa.

È un solitario, ma lì è venuto con la moglie Rosa e le due figlie, Paula e Brigitta. Sono passati anni, non sappiamo motivi, ma l’immortale si chiude in sé stesso. Non comunica più con la moglie, che stenta anche a nominarlo. Ha una sincera antipatia per la figlia maggiore, e per il di lei marito, giudicandolo un inetto arrivista. Ha solo affetto, inespresso (o inesprimibile) per la piccola, afflitta da una qualche malattia (dislessia? Autismo? Non sappiamo, invalidante per la vita sociale, ma affrontabile, almeno così pare).

Rex rimprovera a Rosa la vita poco ortodossa laggiù in Italia, dove per salvarsi usava il proprio corpo. Rosa rimprovera Rex di aver un suo tesoro che non condivide con la famiglia. Sappiamo che c’è, questo tesoretto, e ben protetto. Sappiamo che Rex fa affari di natura ignota, ma che fruttano di che vivere.

E lo seguiamo, il nostro uomo, che gira per la città, si sposta verso il mare, prende il pullman per Netanya, magari si accompagna accidentalmente con delle donne, tanto per sfogare la carne. Ma più che altro, ne sentiamo il dolore che non si riesce a sopportare di chi ha visto tante brutture, e pur uscito, ha una sua spirale invalicabile. Nelle sue peregrinazioni, l’immortale incontra anche uomini o donne con cui aveva condiviso momenti di prigionia, o momenti di contrabbando in Italia. Ma non riesce, non riescono ad avvicinarsi.

Bartfuss è un superstite della Shoah, dovrebbe avere una vita serena, ma l’indescrivibile orrore, ora passato, lascia un vuoto. C’era tanta tensione per rimanere vivo, tutto era un urlo, tutto era un tentativo di rimanere vivi. Ora, come ci ha insegnato anche Primo Levi, non rimane che il silenzio. Così che Bartfuss evita il contatto, rifugge l’altro che riconoscere significa ricordare. Ma quando è lui che vuole avvicinare qualcuno, viene sempre anche lui respinto.

La scrittura di Appelfeld riesce a non dire una parola sulla deportazione, sui campi di sterminio, eppure sono lì, presenti ad ogni pagina, in ogni riga. Presenti quando tutti riconoscono in Bartfuss l’uomo forte. Immortale perché vive con cinquanta pallottole in corpo. Immortale che vive a dispetto della famiglia che rifiuta, degli amici di un tempo che non frequenta. Ma Appelfeld, alla fine guarda dentro il cuore di Rex, e gli consente di liberarlo, e, forse, finalmente, dormire.

Una lettura sempre dolorosa, un quadro desolante con una punta di speranza. Una scrittura che sempre mi convince. Anche per riportarmi in quelle strade, dove Israele non è più solo Gerusalemme. Ma Giaffa, Tel Aviv, Netanya, Haifa, il deserto, e poi, e poi…

Giacomo Debenedetti “16 ottobre 1943” Einaudi euro 9,50 (consigliato da Robinson)

[A: 25/04/2021 – I: 26/06/2021 – T: 26/06/2021] &&&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 82; anno: 1944]

Dietro consiglio del supplemento di Repubblica dedicato ai libri, il 25 aprile ho comperato questo libro, di un’agilità sorprendente, di una potente lucidità e di un dolore inestinguibile per tutti quelli che hanno una coscienza.

Debenedetti, ebreo torinese, studioso, scrittore, dopo varie peripezie in giro per l’Italia, negli anni centrali della guerra si trova a Roma. Per caso o per fortuna, insieme alla moglie Renata, ed ai figli Elena e Antonio, si rifugia a Cortona dopo il 25 luglio. Ma sa cosa avviene a Roma, dall’arresto di Mussolini in poi. Sa, conosce, e già nel ’44, a pochi mesi dagli avvenimenti, scrive un libello di denuncia dell’attività nazista a Roma nell’ottobre dell’anno precedente. Questo fulminante “16/10/1943”. Lo stesso ’44 scrive anche “Otto ebrei”, piccolo pamphlet su cui torneremo più avanti. Due scritti di denuncia, due scritti a loro modo forti. Due scritti che vanno assolutamente letti, ora e sempre. Non perché siano crudi, duri, puri, ma perché, candidamente, quasi con educazione, ma in modo fermo, pongono ai lettori alcuni quesiti la cui risposta è dirimente sul crinale della democrazia.

I fatti che stanno dietro ai due scritti sono, purtroppo, ben noti. Il 16 ottobre 1943, un sabato mattina, le forze d’occupazione nazista, isolano il Portico d’Ottavia e zone limitrofe, deportando in Germania 1259. Di queste sopravviveranno solo 15 uomini ed 1 donna. C’è tutta una catena di avvenimenti che portano a quell’ottobre. Il 25 luglio Mussolini viene esautorato, arrestato e deportato prima a Ponza e poi sul Gran Sasso, da dove i tedeschi lo libereranno in agosto. Roma viene definita città aperta, ma dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio di Cassibile, e della fuga del Re verso il Sud Italia, le forze naziste occupano Roma, nonostante la dichiarazione italiana unilaterale di “città aperta” (cioè città che non deve essere toccata dalle forze in campo).

Herbert Kappler, comandante della Gestapo di stanza a Roma, verso fine settembre aveva preteso 50 chili d’oro per garantire la non toccabilità della comunità ebraica. Oro presto consegnato. Ma era un bluff, e il 16 ottobre Kappler stesso ordina il rastrellamento e la deportazione.

Nello scritto Debenedetti narra di fatti minuti, di piccoli episodi eroici, ma anche della grande ed immeritata fiducia che gli ebrei romani confidavano nella parola data. Lo scrittore argomenta che gli ebrei sono diffidenti nelle piccole cose, ma confidenti in quelle grandi. Motivo per cui, nonostante segnali sicuri dell’imminente catastrofe, pochi ne presero sul serio la possibilità, e quasi nessuno si mise in salvo. Il tono dello scritto è piano, non iroso, eppure nel suo incidere di una potenza infinita. Una ferita, inferta agli ebrei ed ai romani, che impiegherà tempi biblici per essere, parzialmente, ricucita.

Ferita, invece, che non si ricuce nel secondo scritto, molto più scomodo. Debenedetti muove dall’interrogatorio del commissario Alianello, durante il processo al Questore Caruso, fascista e repubblichino. Nel marzo c’era stato l’attentato di via Rasella, ed il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine, dove furono fucilati per rappresaglia 343 italiani. Alianello depone durante il processo di aver depennato 8 ebrei dalla lista dei fucilandi. Da qui parte la difficile arringa di Debenedetti. Che non assolve la polizia italiana per aver tolto otto ebrei dalla fucilazione, che, secondo lo scrittore, andavano tolti dei nomi a prescindere dalla loro etnia. La tesi che sostiene è il cattivo uso della razza che anche in questo caso prese la mano ai poliziotti italiani. Sostiene, e qui si apre un dibattito forte, che bisognava e bisogna ragionare in termini di uomini. E che non bisogna dare a qualcuno un compenso a futura memoria perché è ebreo, nero o altro.

Un dibattito che sarebbe stata forte da lì a qualche anno, quando, per compensare delle perdite nella shoah, venne dato un intero stato a compensazione.

Vi rendete subito conto della forza e della durezza del duplice scritto. Debenedetti non fa sconti: se la prende con l’ingenuità degli ebrei e con il distorto uso della pietà nei loro confronti. Ne pagherà a lungo le conseguenze, che Debenedetti non verrà mai accolto benevolmente da nessuna comunità. Né la propria, né quella dei professori italiani, che lo emarginarono fino alla di lui morte poco più che sessantenne.

Io concordo invece a pieno con le sue tesi, per ragionamento personale e per spirito familiare. Che leggendo queste scarne righe, mi montano in testa ricordi belli e dolenti: la lotta di mio zio dentro e fuori il Fatebenefratelli, mia zia Giovanna che corre scappando di fronte all’occupazione nazista (lei diciasettenne nelle belle frasi di mio cugino Alessandro), mia zia Vittoria che fa da staffetta in bicicletta tra Roma e Viterbo, mia madre Agnese con la sporta carica di pistole mentre attraversa Ponte Sisto presidiato dai tedeschi. E tanto altro che non c’è spazio qui per raccontare, ma che rimane e rimarrà sempre nella mia memoria ed in quella di tutta la mia grande famiglia materna.

È uno scritto breve, infine. Potete spendere un paio d’ore a leggerlo. Ne vale proprio la pena.

Paul Auster “Follie di Brooklyn” Repubblica New York 1 euro 9,90

[A: 21/01/2019 – I: 16/07/2021 – T: 18/04/2021] - &&&&

[tit. or.: The Brooklyn Follies; ling. or.: inglese; pagine: 306; anno 2005]

Devo dire che è sempre una sicurezza una bella lettura di Paul Auster. Può avere un grado di piacere diverso, maggiore o minore, ma è sempre una storia ben tornito. Una storia che mi prende in lettura, con personaggi natural-normali, situazioni vivibili, nel corpo o nella mente. Forse, inoltre, un libro a quasi sessant’anni trova risvolti più terreni e meno angosciosi, pur nella complicanza di un inserimento nella non facile vita americana a cavallo del secolo.

Ed è questo che mi ha intrigato, nelle follie di Brooklyn, questa volta mirabilmente tradotte anche nel titolo. Una sarabanda strana, che segue il nostro personaggio centrale, Nathan Glass, nelle sue evoluzioni vitali, una volta che prende la decisione, essendogli stato diagnosticato un cancro, di terminare la sua vita là dove era iniziata, a Brooklyn.

Il buon esito degli esami medici, e la sensazione di poter fare qualcosa, ora che si ritrova pensionato e solitario, ma non solo, mettono Nat nella condizione di accettare il mondo esterno, di aprirsi, di ascoltare l’altro, e di farsi a sua volta ascoltare.

Così, in questa Brooklyn che sconfina con Manhattan, in questo periodo che inizia alla fine dello scorso secolo, e termina nell’ultima pagina l’11 settembre 2001 (anche se usato come data simbolo, senza che nessuno dei personaggi ne sembri coinvolto), Nat si muove, pensa di scrivere un libro sulle follie umane, frequenta una libreria antiquaria, dove, per i casi della vita, incontra suo nipote Tom Wood (ed evitiamo di approfondire i calembour che possono nascere dai due cognomi di vetro e di legno).

Come in molti scritti di Auster, le persone, le amicizie, le piccole e grandi storie, si intrecciano con la vita del quartiere e dei suoi personaggi (ricordiamoci sempre il film “Smoke”). Tra gli altri, introdotto da Tom, c’è il padrone della libreria, Harry, ex-detenuto per truffa, gay con l’ex-amante che torna per coinvolgerlo in altre folli avventure.

E soprattutto c’è la storia familiare della famiglia Woods, con la sorella di Tom, Aurora, che compare e scompare, e di cui si ricostruisce, a brandelli, la vita sregolata. Con la comparsa della di lei figlia Lucy, un mostro di intelligenza e di simpatia. Che si presenta muta alla porta di Tom, e sconvolge la vita di zio e nipote. Mitica sarà il suo riempire il serbatoio della macchina di Nat con venti lattine di Coca Cola. Episodio che farà partire una serie di altri piccoli episodi. Che riusciranno, anche se con fatica, e molta ilarità (mia) a smuovere Tom dalla sua apatia. In fondo la trama è tutta qui: matrimoni, divorzi, problemi di soldi, amicizie, cotte e rapporti genitore-figlio oltre che a molte stravaganze, che Auster parla sempre anche quando parla di altro.

Con quell’attacco che mi ha legato alla pagina per non farmene uscire più (“Stavo cercando un posto tranquillo per morire”). Con quella scrittura in cui è vero, Nat parla in prima persona, ma sentiamo che ha la doppia voce (Nat e Paul), e sento che mentre narra si rivolge proprio a me. Un libro che riporta alla felicità della lettura, e non è poco.

Un inciso vorrei dedicarlo ad alcuni pezzi di scrittura nella scrittura. Con le citazioni sotto riportate, che non commento. Ma anche con le parole di Tom, che per consolare (o spingere) Nat alla scrittura, fa un lungo elenco di persone di lettere illustri che hanno lasciato la scena prestissimo, dai 23 anni, 5 mesi e 5 giorni della vita di Christopher Marlowe ai quasi 41 di Franz Kafka, passando per tutta una serie di autori di cui vi lascio leggere in coda. Ma non vi dico quali siano i commenti di Tom. Diciamo solo che cerca di convincere l’anziano Nat che si può scrivere a qualsiasi età.

Per uno strano caso della vita di lettore, questo che uscì come primo libro della collana su New York, l’ho letto per ultimo. E devo dire, ne sono contento, che è una degna conclusione di questa collana. Che finisco ringraziando sempre la mia amica Luana che mi aprì le porte di Auster ormai vent’anni fa.

“Stai diventando un vero scrittore … No, sono soltanto un [uomo] … in pensione che non ha meglio da fare … Nessuno diventa scrittore a sessant’anni.” (151)

“Quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia … i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più.” (158)

“Ricordo una battuta di un film … I bambini consolano di tutto … tranne che di averli.” (173) [a me, più che di un film, ricorda una frase di Hippolyte Taine]

“Il sesso tra persone non più giovani comporterà anche i suoi momenti di imbarazzo … ma … quando una persona che ti piace … ti bacia sulla bocca, puoi sdilinquirti esattamente come ti succedeva quando credevi che saresti vissuto per sempre.” (277)

Terza settimana, orfana di libri felici, ma riempita dai miei florilegi di citazioni.

Come molti di voi sanno, come molti di voi non sanno ma sapranno, questa settimana ha segnato una svolta fondamentale di questa parte della mia vita, portandomi laddove non pensavo, sinceramente, potessi ancora salire.

Quindi, in contro citazione, menzionerei Marc Augè che nel suo bellissimo “Non Luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità” dice: “uno non è più a casa sua, a suo agio, … là dove i suoi interlocutori non comprendono più le ragioni che egli dà … dei suoi gesti, né dei risentimenti che nutre o delle ammirazioni che manifesta”.

Mentre ora qualcuno li ha capiti, ed io ho fatto il grande passo. Ne sono felice. Siatelo per me. Ed io non vi farò mai mancare gli abbracci.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di settembre

Non possiamo certo passare sotto silenzio che questo settembre sta cambiando radicalmente modi di vivere consolidati. Un cambio rischioso ma pieno di splendide premesse. Così che mi è più facile tornare a tredici anni fa, dove nel giugno del 2008 ancora elaboravo il lutto della morte di mio padre.

Così che non sorprenda l’affiorare, l’8 giugno un moto di insofferenza sollecitato da un poco interessante libro (“Lola Motel”) di un autore, Marco Archetti, di cui null’altro ho letto. Ma lì mi si fermo questa frase: “C’è qualcosa di peggio che avere mio padre come padre? Me lo sono chiesto per giorni, per mesi, per anni. Ho sempre finito per rispondermi: sì, avere mia madre come madre.”

Nelle stesse tornate, riandavo più volte alla lettura, facile, di Fabio Volo. Passando così da sentimenti verticali (verso i genitori), a sensazioni orizzontali nei rapporti con le donne. Ne “Il giorno in più” cercavo di capire quanto realmente avessi in comune con il protagonista. Leggendo: “io per stare bene con una donna … meno mi sento legato e più sto bene”, oppure “questo è stato sempre il mio pensiero con le donne: ho sempre creduto che se stavo con una avrei perso tutte le altre.” Di sicuro, mi trovo in disaccordo (purtroppo?) con la sua chiusa: “quando si viaggia da soli si scopa sempre”.

Verso la fine del mese, passarono sotto i miei occhi, stranamente con non ne sono mai molto convinto, autori russi. Prima le “Poesie” di Marina I. Cvetaeva dove tante frasi sembravano affiorare, ma una sola rimanere: “io sono una pagina per la tua penna”. Poi Michail J. Lermontov che nel suo “Un eroe dei nostri tempi” svariate frasi mi ha lasciato. Nella prima, dialogo fra due innamorati/amanti, lui dice “dovrei odiarti, da quando ti conosco mi hai dato solo sofferenze”. E lei risponde “forse per questo mi vuoi bene: la felicità si dimentica, le pene mai…”. Poi, ancora, verso passati i fuori giovanili, così si esprime l’eroe: “è passato quel momento in cui si cerca la felicità; adesso voglio solo essere amato, e da pochissimi”. Concludendo “nella giovinezza si passa da una donna all’altra, fino a cadere su quella che non ci può sopportare … e dà inizio ad una passione costante ed infinita, … il [cui] segreto è solo nell’impossibilità di raggiungere la meta”.

Innegabilmente, quel giugno ero alla ricerca di qualcosa che non trovavo stabilmente. Così che mi fermai anche sulla seguente frase di Daniel Wallace tratta da un veramente poco leggibile libro “Mr. Sebastian e l’ombra del diavolo”: “sarebbe bello se dentro di noi ci fosse una lampadina che si accende automaticamente quando qualcuno si innamora di noi. Sarebbe bello se l’amore venisse sempre corrisposto”.

Luglio invece porto riflessioni veramente forti sul passare del tempo e sulla letteratura in generale, e nello specifico di alcuni meandri.

Sul primo fronte, il mio sempre caro Tiziano Terzani nelle “Lettere contro la guerra” mi solleticava con una frase che allora, forse, era un po’ prematura, mentre non lo è ora: “ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più.”

Per la seconda, e per finire, c’è un libro che è una pietra angolare della mia costruzione mentale, intorno ai libri ed alla lettura. È un libro immancabile, un saggio sulla lettura che chi ama i libri deve leggere almeno una volta. Sto parlando de “La saggezza dei libri” di Harold Bloom.

In realtà si dovrebbe avere il coraggio di citare tutto il libro. Coraggio o possibilità. Io, allora mi accontento di alcune frasi, magari raggruppandole per temi similari.

C’è un inizio molto biblico, con citazioni dall’Ecclesiaste (9, 10-11): “Tutto ciò che trovi da fare, fallo … perché il tempo ed il caso ci raggiungono tutti”. Poi dal Libro della Sapienza (2, 1-9): “Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati … su, godiamoci i beni presenti … lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta”.

Poi si passa a letteratura tra il 1500 ed il 1700. Parlando di Shakespeare, Bloom ci confessa: “Io preferirei essere Falstaff … che Amleto … poiché l’invecchiamento mi ha insegnato che l’essere è più importante del conoscere”.

Poi ci si dedica lungamente a Montaigne. Pensieri sulla saggezza (“Montaigne ci incoraggia a vivere la nostra vita, … il [suo] motto potrebbe essere conoscerete la verità e la verità vi renderà saggi”), pensieri sulla tolleranza (“Montaigne sostiene … che le idee di ordine diverso dalle nostre ci sono sempre difficili da comprendere”), pensieri in fondo sul montarsi la testa (“Anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo”).

Ma soprattutto concludendo con una domanda che Montaigne rivolge anche a noi: “La più famosa domanda di Montaigne è Che cosa conosco?”.

Partendo da queste riflessioni, Bloom mi consigliò: “La conoscenza di sé stessi conduce all’auto accettazione, a nutrire delle aspettative realistiche su ciò che possiamo essere, e alla benevolenza verso sé stessi e gli altri”.

Venendo ai “moderni”, Bloom si inchina a Freud (“Di fronte a Freud dobbiamo dire che dopo di lui troveremo solo commenti su quanto ha scritto”), cita Ralph Waldo Emerson che cita Platone (“Platone mette in crisi la nostra possibilità di dire qualcosa di originale”), erige un monumento a Proust (“Proust … è la nostra autorità di riferimento in tema di gelosia”).

Un Proust che, verso la fine della sua “Alla ricerca del tempo perduto” ci ricorda: “È raro che le creature che hanno recitato un ruolo importante nella nostra vita ne escano di colpo in maniera definitiva”.

Finendo per tornare ai padri della lettura, se non della letteratura. Perché leggere è ricordare: “È da Sant’Agostino che impariamo a leggere, dato che egli è stato il primo a dimostrare la relazione tra lettura e memoria”. Ed è lo stesso Agostino che “è stato il primo ad insegnarci che i libri, da soli, nutrono il pensiero, la memoria, e la loro fitta rete di interazioni nella vita della nostra mente. La sola lettura non basterà a salvarci o a renderci saggi, ma senza di essa veniamo a cadere in quella forma di vita-nella-morte che è l’odierno abbattimento del livello culturale”.

Perché, qui chiudo e vi invito come sempre alla lettura, come dice Bloom: “Sono del parere che leggiamo per porre rimedio alla nostra solitudine, anche se poi, di fatto, la nostra solitudine cresce parallelamente all’aumentare … delle nostre letture”

Leggiamo insieme, allora.


domenica 12 settembre 2021

Tra Cina e Islanda - 12 settembre 2021

Questa volta l’impari confronto è tra tre romanzi dell’immigrato cinese Xiaolong, che ci consentono di terminare (finalmente) la saga dell’ispettore Chen (o almeno credo), ed un libro di un nuovo autore islandese. Che, anche per il mio immotivato amore per l’isola, vince alla grandissima.

Qiu Xiaolong “Il principe rosso” Marsilio UE Feltrinelli euro 11 (in realtà, scontato a 8,80 euro)

[A: 05/11/2019– I: 19/03/2021 – T: 20/03/2021] - && --

[tit. or.: Shanghai Redemption; ling. or.: inglese; pagine: 376; anno 2016]

Devo dire che, pur continuando a leggere, anche saltuariamente, gli scritti di Qiu, le avventure, gli intrecci, le pose stesse dell’autore cominciano ad essere abbastanza dissonanti con le mie capacità di lettura. Certo, visto che è un autore seriale, che questo è il nono episodio della serie, e che ne sono usciti altri due, continuerò a leggerne. Magari continuando anche a parlarle non sempre in termini positivi.

Ora il nocciolo della questione è sempre lo stesso: una persona (Chen Cao) discretamente onesta a confrontarsi con tutto l’establishment cinese, discretamente corretto. Sono diversi libri che Qiu gioca su questa contrapposizione, e che non la risolve. Certo, lui, espatriato, correntemente americano, sappiamo da che parte voglia giocare. Ma il fatto che, alla fine, zoppicando forse, Chen riesca ad uscirne “vivo” (in senso letterario non fisico), è come una concessione all’idea che, forse, qualcosa di buono potrebbe esserci.

Ma prima di addentrarci nella trama, c’è da sottolineare tutte quelle parti, magari belle e colte, ma che rendono grossi pezzi del romanzo illeggibili e/o inintelligibili. Sappiamo, per averne letto fin dal suo apparire in Italia, or son vent’anni, che Qiu, prima che scrittore, è ricercatore in lettere e cultore della poesia. Ora, già per me la poesia normalmente è ostica. Figuriamoci quella cinese, che ha metriche, immagini, espressività talmente particolari e proprie che neanche leggendone con una spiegazione a lato riesco a capirne il senso. Peccato che Qiu le usi a volte come chiose a situazioni, o come prodromi di sviluppi di altri momenti topici. Visto che sono limitato, salto a piè pari le parti poetiche, mi concentro sul resto, forse perdendo un po’ del pathos. Ma questo è, e questo sono io, lettore.

In questo libro, inoltre, Qiu tenta un’operazione che può forse sfuggire a chi non conosce la storia cinese recente. O a chi, pur leggendo la quarta, non intende approfondirne i temi. Infatti, tutta la storia è una rivisitazione, abbastanza fedele, delle vicende politiche e personali che convolsero intorno al 2012 l’astro nascente del Partito Comunista Cinese, Bo Xilai. Bo era considerato uno di sinistra, all’interno del PCC, con il suo slogan “canta il rosso e colpisci il nero”, aveva debellato diverse organizzazioni criminali (“colpisci il nero”), ma nelle zone sotto la sua influenza sembra ritornare il sinistro fiato della Rivoluzione Culturale (“canta il rosso”).

La seconda moglie di Bo, eminente avvocato, era ben addentro ad affari vari, tra cui lucrosi appalti. Nonché proficue transazioni con l’estero. Mediate da un consulente americano, Neil Heywood. In seguito a contrasti imprecisati, Neil viene avvelenato, e da lì parte tutta una catena di indagini e contro indagini, che alla fine porteranno Bo e sua moglie Gu alla condanna all’ergastolo per corruzione, concussione e abuso di potere.

Ora, se in questa trama inserite l’ispettore Chen come granello per inceppare il meccanismo, avrete il libro letto e stampato. Infatti, Chen viene rimosso dall’incarico di Ispettore Capo, promuovendolo a capo di un Dipartimento per Riforme Legali (“promoveatur ut amoveatur”). Per rilassarsi, si occupa della tomba di famiglia, ma lì viene coinvolto da una escort in pensione in una trama di ricerca di informazioni, che si collega con alcune indagini che stava seguendo prima di essere rimosso, per finire con collegarsi alla morte di un americano. Eccetera, eccetera, eccetera.

Ovvio che nella trama, dalla parte dei buoni, sono coinvolti i personaggi fissi della serie: il vice di Chen, l’ispettore Yu, la di lui moglie, Peiqin, ed il di lui padre chiamato “Vecchio Cacciatore”, e l’ex-entraineuse Nuvola Bianca (che sospetto abbia un debole per Chen, ma…).

Alla fine, a Chen verrà riconosciuto il merito di aver debellato una losca trama, ma sapremo solo negli altri libri come e se si evolverà la sua storia.

Quindi, critica di una certa corruzione a tutti i livelli della vita cinese (“tanti colpi al cerchio”) e speranza che ci siano molti “Ispettori Chen” che non si lascino piegare (“ed uno alla botte”).

Ultimo appunto, oltre alle su deprecate poesie, ci sono anche una serie di termini che magari sono mutuati dalla vita cinese, ma che, nella circolazione internazionale del romanzo, lasciano quanto meno perplessi. Un esempio su tutti: una certa classe di persone facoltose vengono bollate con l’epiteto di “ricconi”, mentre, forse, il termine cinese più aderente sarebbe “nuovi ricchi”. Anche i “ricconi” però hanno una loro gerarchia, e verso i gradi più alti, si ammantano di titoli monarchici, come “Principe Rosso”. Come quello del titolo italiano, che punta diritto al punto dolente della narrativa di Qiu, mentre avrei preferito che si mantenesse l’originale “Il riscatto di Shanghai”. Ovvio, riscatto dalla corruzione imperante. Attraverso il buon, Chen, che sconfiggerà il cattivo (il Principe, cioè). Ma qui si torna alla solita storia della mia lotta verso la mala traduzione, che poi ne riparleremo.

Ragnar Jónasson “L’angelo di neve” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà scontato a 4,50 euro)

[A: 21/05/2018 – I: 23/03/2021 – T: 26/03/2021] - &&&  ----

[tit. or.: Snjöblinda; ling. or.: islandese; pagine: 286; anno 2010]

Torniamo, e veramente dopo troppo tempo, a scritture islandesi, e soprattutto a scritture gialle che non siano il mio amato ed immarcescibile Arnaldur Indriđason. Con una lettura anche interessante (e ne parleremo più avanti). Quello che mi ha disturbato è la solita approssimazione delle edizioni italiane.

In particolare, la quasi certezza che sia stata utilizzata la versione inglese e non l’originale islandese. Sia perché viene ringraziata l’agenzia “Orenda Books”, sia perché la traduttrice è Roberta Scarabelli, che è ben nota come traduttrice dall’inglese e poco (a quanto mi risulta, ma potrei sbagliarmi) come traduttrice dall’islandese.

Il secondo punto negativo viene dal titolo che sia in originale (quello sopra riportato) sia nella traduzione inglese (“Snwoblind”) sta per “Accecato dalla neve”. Non capisco da dove spunti fuori l’angelo del titolo.

Certo, di un corpo femminile nella neve si parla nel prologo (con data 14 gennaio 2009). Poi, il libro comincia, nella primavera del 2008, e prosegue seguendo il corso normale dei giorni, per chiudersi il 24 gennaio 2009, quasi un anno dopo l’inizio. E quel prologo sembra messo un po’ a “muzzo”, senza una ragione apparente. Che tutta la storia è altra, intersecantesi se vogliamo con qualcosa citato nel suddetto prologo, ma solo per fortuite circostanze.

Intanto, facendo un passo indietro (o anche due), diciamo che Ragnar nasce avvocato (mestiere che continua a fare) e traduttore in islandese dei libri di Agatha Christie. Poi nel 2009 comincia a scrivere, innestandosi in un successo abbastanza notevole, in patria e all’estero, con la serie che stiamo leggendo. Serie che in patria è nota sia come “Storie di Siglufjörður” che, meglio, come “Dark Iceland”. In Italia, per motivi arcani, è stati ribattezzata “I misteri d’Islanda”. No comment.

Questo dovrebbe essere il primo libro della serie, anche se il protagonista, Ari Þór Arason (che indicheremo solo come Ari per facilità) compare nel primo libro di Ragnar (“Fölsk nóta”) è probabilmente lì potremmo conoscerne meglio le coordinate di vita. Ma il libro non è mai uscito fuori dall’Islanda.

Così ora vediamo Ari che studia per diventare poliziotto, dopo aver abbandonato gli studi in teologia. Vive a Reykjavík, con la sua fidanzata Kristin, ma riceve l’offerta di finire il tirocinio nella cittadina di Siglufjörður, posta nel nord islandese, discretamente vicina ad Akureyri. Accetta e da lì comincia la storia, cioè la saga della vita in una tipica isolata cittadina, da sempre con l’economia fondata sulla pesca, ed ovviamente, ora, in declino.

Ovvio che inizi anche una crisi, forse insormontabile, tra Ari e Kristin, lei studentessa e poi medico. Ma quella è solo una parte dello spaccato di vita cui assistiamo. C’è il capo della polizia Tomas, paterno con Ari, ma in crisi familiare. C’è l’aiutante Hlynur, forse troppo incline al pettegolezzo. C’è il vecchio scrittore, autore di un solo libro, Hrólfur, novantenne e poco trasparente. C’è Ugla, fuggita dall’Islanda occidentale (quella parte in alto a sinistra, dove veramente non ci sono quasi paesi, ma solo montagne e porticcioli) per dimenticare brutte esperienze. C’è Palmi pensionato e regista della filodrammatica locale. Gruppo teatrale che vede anche l’autore in seconda Úlfur, il belloccio Karl, sposato con Linda ed amante di Anna, il tuttofare Leifur e la guardarobiera Nina.

In questo microcosmo, prima Hrólfur cade dalle scale del teatro (incidente? Omicidio?) e muore. Poi Linda viene trovata quasi morta e dissanguata nella neve. Ari, che non conosce nessuno, comincia a porsi delle domande. Confrontandosi spesso con Ugla, che sembra l’unica “normale” (e sottolineo sembra). Ma proprio l’estraneità e la caparbietà di Ari serviranno a districare la matassa. La in quella cittadina dove tutti sono accecati dalla neve che in inverno (dicembre e gennaio sono i mesi cruciali della storia) cade in maniera estrema (inciso: a Siglufjörður non c’è la “notte polare”, ma il giorno di luce più corto dell’anno è il 21 dicembre con 2 ore e pochi minuti di sole).

Si scoprono intrecci, si svela il furto letterario di Hrólfur, l’autolesionismo di Linda, la vita di espedienti di Karl. Tutto per trovare colpevoli, se ci sono, ma molto per tratteggiare uno spaccato di vita che sa molto di islandese. Un esempio per tutti: nessuno chiude le porte di casa a chiave (confermo).

L’intreccio è ben fatto, ed i caratteri risultano interessanti e tipicamente locali, anche se ci si aspetta di vedere come si evolveranno. Vi dico già che ho gli altri libri della serie.

Una piccola curiosità linguistico-islandese: il padre di Ragnar Jónasson si chiama Jonas Ragnarson. Se volete, un giorno ve lo spiego.

Qiu Xiaolong “Il poliziotto di Shanghai” Marsilio UE Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,20 euro)

[A: 17/12/2019– I: 10/05/2021 – T: 12/05/2021] - && ---

[tit. or.: Becoming Inspector Chen; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 2016]

Aggiungiamo un altro meno al gradimento della decima avventura dell’ispettore Chen Cao, solo per rispetto della storia personale dell’autore e per l’idea di fondo, sempre buona e rilevante, di parlare della Cina odierna, in modo interno, anche se ovviamente critico. Mentre poi la seconda parte è abbastanza chiara (la critica) la descrizione dei meccanismi cinesi descritti senza “mediazioni occidentali” a volte riescono di non facile comprensione.

In questo libro, la “confusione” è anche aumentata dall’incongruenza titolatrice, dalla farraginosità dei racconti presentati, dal tentativo (lodevole ma poco riuscito editorialmente) di mescolare e far convergere pubblico e privato. In questo libro che definirei “di passaggio” in modo da alleviarne il peso, l’esimio scrittore Qiu cerca di presentarci brani della biografia fittizia di Chen, per spiegarci (e spiegare anche a sé stesso) in quale modo il lettore d’inglese nonché fine conoscitore della gastronomia cinese, possa diventare non solo poliziotto, ma diventarlo consapevolmente e con adesione al ruolo.

Intanto, il titolo inglese (che questa è la lingua usata da Qiu per le sue storie) avrebbe meglio indirizzato il lettore: “Diventare l’ispettore Chen”, così che capiamo che lo scritto ci dovrebbe portare per mano verso quello che abbiamo imparato a conoscere nei nove capitoli precedenti. Certo, Chen vive e lavora a Shangai (come l’autore in gioventù), ma il titolo italiano è una fotografia, mentre quello inglese è un video.

Secondo problema, benché ritagliati ad hoc, incastrati ed altro, i diversi capitoli sono in realtà tanti racconti, più o meno lunghi, che intrecciano momenti della biografia di Chen con momenti di quella di Qiu. Matrice comune, sempre, la critica ad una certa politica cinese, alle degenerazioni che ha portato, ed anche allo stadio finale cui è arrivata ora.

Punto nodale è la Rivoluzione Culturale, nel testo descritta da diversi punti di vista, sempre dalla parte di chi ne subì le più gravi conseguenze. Certo, non è un romanzo o un racconto che permette di analizzare un fenomeno complesso come quello della Storia Cinese negli anni Sessanta e Settanta. Qiu ce ne fa vedere alcuni esempi macroscopicamente tragici, sui quali di certo non possiamo avere che il suo stesso sentimento, di rabbia e di dolore. Ed è anche abbastanza ovvio che sia difficile descrivere un fenomeno complesso, come il sommovimento popolare di milioni di persone, innescato dal presidente Mao, dopo aver perso la scommessa economica degli anni Cinquanta, il famoso “Grande Balzo in avanti”. Ma di certo non è neanche questo il luogo per entrare in una discussione su Mao, su Lin Biao o su Deng Xiaoping. Forse ci saranno momenti altri per rifletterne.

Qui vediamo appunto alcuni episodi della biografia fittizia di Chen, mescolati a elementi reali della biografia di Qiu. La difficoltà è data dall’inflazione di nomi e di intrecci di situazioni. Ora, in un normale romanzo, pur seguendo nomenclature complesse, ad un certo punto nella mente del lettore si stabilizzano i punti fermi del racconto: il protagonista (ad esempio l’ispettore Chen), i personaggi positivi (l’aiutante di Chen, la moglie dell’aiutante, il “Vecchio Cacciatore”), poi quelli negativi o antagonisti. Ora, vediamo racconti, che introducono nomi. Poi racconti diversi dove ci sono nomi simili. E non si riesce a seguirne il collegamento.

Ad esempio, è il padre di Chen o il padre di Qiu che gestiva una fabbrica di profumi nel ’49? E chi dei due era un intellettuale universitario, esperto di confucianesimo? Come che sia, entrambi vengono travolti dalla Rivoluzione Culturale, costretti a fare autocritica, privati di lavoro e sostentamento. Qiu, all’epoca, ha tredici anni, quindi viene colpito marginalmente dall’ondata iniziale dell’Agosto del ’66. Ne subisce gli effetti, per la perdita economica, per la malattia della madre, per il suo dover diventare adulto anzi tempo.

Sono i due “racconti lunghi” quelli che danno un po’ di respiro al narrato, e che ci fanno vedere meglio dentro i due personaggi, il reale ed il fittizio. Nel primo, si segue l’iniziazione di Chen nella polizia, ed il suo contributo alla prima indagine che gli consentirà di avviare la “gloriosa” carriera che abbiamo seguito nelle puntate precedenti. Chen è esperto d’inglese, e di poesia, si laurea con una tesi su T. S. Eliot, poi il Partito lo invia nel corpo di polizia di Shangai. Dove deve tradurre dall’inglese i manuali investigativi americani. Nel mentre si imbatte in un morto di difficile comprensione investigativa. Tramite il suo acume, l’aiuto dell’amico-gourmet Lu detto “Cinese d’Oltremare” (su questa dizione c’è un’autentica messe di letteratura che non vi entro anch’io) e le visitazioni al circolo delle storie narrate nel Vicolo della Polvere Rossa (dove Qiu scrisse un intero libro “non ispettore Chen” su questo fenomeno), Chen scopre e risolve il mistero. Ma nei capitoli precedenti e seguenti, pur presentando brandelli della vita, non entriamo meglio nel personaggio-Chen. Un solo esempio: sappiamo della sua lunga storia d’amore con Ling, che vediamo sbocciare alla Biblioteca di Pechino, ma che non viene approfondita. Chi sa di Chen capisce, chi non sa rimane con i suoi dubbi sul significato di tutto ciò.

L’altro lungo racconto si incentra sul “vero” Lu, e parlandone, Qiu in effetti parla di sé stesso, del suo percorso negli anni dal ’66 all’89, cioè dall’inizio della Rivoluzione Culturale, al suo definitivo espatrio in America. Luogo dove Qiu ora vive, insegna a Saint Louis (ovviamente, insegna Letteratura Cinese), è sposato, con figlia. Non vi tedio con la storia dell’ascesa e della discesa delle fortune di Lu, né di quelle conseguenti e vicine di Qiu. È un pezzo di storia cinese visto dal di dentro. Forse l’unica parte interessante del libro. Ci fornisce una visione, questa volta non mediata da fittizie colorazioni, di quello che per Qiu fu di sciuro uno dei periodi più difficili della sua storia personale.

Ma alla fine, che cos’è questo libro? Una raccolta di racconti? Una miscellanea tra pubblico e privato? Un tentativo poco riuscito di mostrare “altro” da quello che è solito far vedere l’autore? Certo, poi, con tutte le parti “cinesemente strette” riesce anche a volte poco chiaro: ripeto, non tutti, leggendo due versi di una poesia cinese antica, riescono a collegarla con qualcosa che non sia il vento che spira tra le foglie.

Spero che il futuro respiro del Drago ci consenta una lettura meno antagonistica, verso l’autore e verso il protagonista.

Qiu Xiaolong “L’ultimo respiro del drago” Marsilio UE Feltrinelli s.p. (Regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e sig.ra Laura)

[A: 07/05/2020– I: 25/05/2021 – T: 26/05/2021] - && e ½

[tit. or.: Hold Your Breath, China; ling. or.: inglese; pagine: 239; anno 2017]

Ed eccoci arrivati all’ultima inchiesta dell’ispettore Chen pubblicata in Italia. Al momento, inoltre, non ho notizia se, in America, sono usciti altri libri di Qiu. Infine, proseguiamo con la saltuaria lettura dell’ingente regalo fattomi dai miei “parenti” in occasione di un compleanno che sembrava segnare la fine di un’epoca pandemica, cosa che purtroppo, ora è passato un anno, non si è mostrata veritiera.

Ma non siamo qui per parlare di Bruto, ma di Giulio Cesare.

Intanto, ci si domanda le motivazioni del titolo italiano. Qiu aveva, credo con intenzioni di spiegazione e collocazione in un determinato ambito (di cui si capirà meglio più avanti), intitolato il libro “Trattieni il respiro, Cina”. Sia per adombrare una trama thriller, o quanto meno, una trama che mettesse in un qualche pericolo i protagonisti della lunga serie (che sottolineo, con questa è arrivata alla puntata numero undici). Sia per collegare il romanzo stesso alle tematiche che verranno toccate nel testo. Mentre qui, Marsilio ci propone un drago e l’ultimo respiro, inteso, forse, come chi sta per morire. Il termine “drago” è di solito legato alla mafia cinese (vedi, ad esempio, “Il respiro del drago” di Michael Connelly), ed è ovvio che, mafia o non mafia, l’ispettore Chen è sempre a confronto con una corruzione diffusa nella società cinese attuale. Sperando che ci siano le forze per portare il drago verso la sua giusta fine (sperando in San Giorgio). Ma anche, e qui abbiamo l’altro incrocio, parlando di respiro ci si ricollega ai temi principali di tutto il romanzo.

Che al solito, come gli ultimi di Qiu, è molto legato alla politica cinese attuale (con ovvi accenti critici, data la personalità del mio coevo scrittore). La tematica, neanche tanto sottesa, è l’alto tasso di inquinamento della Cina, dovuto alle industrie, all’urbanizzazione ed alla sovrappopolazione. Un tema già affrontato ne “Le lacrime del Lago Tai”, ed in un certo senso conseguente a quello. Entra ed esce dalla trama Shanshan, allora protagonista, ed ora ambientalista e produttrice di un documentario sull’inquinamento. Che è inviso sia alle industrie petrolifere (ovvio) sia all’establishment del partito (in un certo senso, altrettanto ovvio). Il nostro ispettore Chen viene allora distolto dagli incarichi polizieschi per seguire questo filone.

Incarichi, e qui finalmente ritroviamo il “vecchio Qiu”, che sono legati ad alcune morti, sospettosamente seriali. Persone uccise al mattino presto (tra le cinque e le sei), con un colpo forte alla testa (un martello?), e con una mascherina gialla che viene ritrovata nei dintorni. Le indagini, prima affidate a Chen, passano al suo sottoposto Yu, che si avvale della preziosa collaborazione della moglie.

Qiu tenta di mescolare le carte, facendo entrare una serie improbabile di coincidenze, facendo vedere la difficoltà di muoversi verso una “verità”, in una società dominata dal Partito Unico, che controlla tutto, anche Internet e la telefonia.

L’unico elemento che salva Qiu dal precipizio è la capacità finale di far convergere le due indagini, verso una problematica anch’essa legata all’inquinamento. Non vi svelo in che modo le morti seriali siano collegate alle polveri sottili, ma il legame c’è. E per risolvere le due inchieste Chen sarà costretto ad alcune scelte (che neanche queste vi svelo) che potrebbero condizionare futuri testi, se Qiu deciderà di continuare nella scrittura.

La mia difficoltà nella scrittura di Qiu è spesso dovuta all’uso di modalità espressive molto cinesi, che non sono mie e che non riesco a decifrare. L’uso della poesia, in primis, ma anche il rifarsi ad antichi testi, e perché no, ai “trentasei stratagemmi”, che hanno una loro capacità espressiva (e dove molte parole sono state usate per descriverli). Ma io mi trovo sempre bloccato, ad esempio, quando Chen per descrivere una sua decisione, ci dice, rifacendosi a quelli, “Solcare il mare all’insaputa del cielo”. Qualcuno lo sa spiegare, ma nel corso della lettura, questi “intarsi” colti mi spiazzano e non mi danno materiali conoscitivi utili per capire meglio la trama. È solo un esempio, ma fa capire perché, alla fine, pur piacendomi la lettura (in particolare dei primi libri), non riesco a riportare Qiu ai livelli iniziali.

Comunque, saluto degnamente il ritorno della scrittura e della trama ad un livello più sciolto rispetto al precedente.

“Sono trascorsi vent’anni, è sorprendente che io sia ancora qui.” (211)

“Confucio: anche sapendo che ti è impossibile fare una cosa devi comunque provarci, purché sia la cosa giusta da fare.” (238)

Seconda settimana ed una bella visita ad una cura contro la vigliaccheria.

Tutti stanno aspettando la metà di settembre, e ci sarà un motivo, credo. Intanto, una pallida riflessione di un’autrice che si impegnò in un compito titanico (scrivere 26 libri gialli, uno per lettera dell’alfabeto), e che ci ha lasciato pochi capitoli prima della fine. Comunque, Sue Grafton in “R come Rancore” ci diceva: “Lo sai qual è il peggio? È che continuo a sperare che ci possano capitare delle cose carine. Magari non sempre, ma giusto ogni tanto.”

Io credo che capitino, io credo che ho voglia abbracciarvi tutti.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2021

Penso che la prossima cura svelerà di più, ma questa è una cura che tutti dobbiamo affrontare.

VIGLIACCHERIA

Harper Lee                  “Il buio oltre la siepe”

È impossibile vivere bene ed essere vigliacchi. Come si può aspirare a fare la cosa giusta per gli altri - o anche per sé stessi - se il primo impulso, quando le cose si complicano, è scappare con le ginocchia che tremano?

Non vogliamo farvi diventare temerari. Avere paura va bene. Bisogna, però, avere paura e fare comunque qualcosa, come vi suggerirebbe un libro di auto-aiuto. Se avete la tendenza a svignarvela, a comportarvi da buoni a nulla o a lasciar sempre fare agli altri - o vi serve una flebo per affrontare un’occasione che richieda particolare sangue freddo - fatevi ispirare dalle gesta di alcuni tra i più coraggiosi personaggi letterari.

Il nostro preferito - oh, lo amiamo davvero - è Atticus Finch, ne “Il buio oltre la siepe”. Questo padre single di Jem e Scout rivela il proprio coraggio davanti al pericolo quando uccide con freddezza un cane rabbioso nella via principale di Maycomb, Alabama, con un solo colpo di fucile. Il gesto gli vale l’immediato, attonito rispetto dei figli, che fino a quel momento lo avevano liquidato come debole e mezzo cieco, e inoltre più anziano degli altri padri del posto. Atticus insegna ai figli che non c’è niente di coraggioso nel tormentare il recluso del quartiere, Boo Radley, e che a volte ci vuole più coraggio a evitare lo scontro, quando qualcuno si fa beffe di noi (“Scout è una vigliacca!”), che a rispondere. È tuttavia il suo coraggio nel difendere Tom Robinson, un nero accusato di avere stuprato una donna bianca in una comunità dove il razzismo è endemico, a insegnare loro - e a noi - la lezione più importante. Coraggioso abbastanza da mantenere la calma anche quando i figli vengono scherniti, a scuola, per le sue prese di posizione e da affrontare - da solo - una folla inferocita e determinata a linciare Robinson rinchiuso nella prigione locale, Atticus è un uomo che si distingue da tutti gli altri.

Il buio oltre la siepe rimane una delle più feroci condanne letterarie del pregiudizio razziale, e il coraggio della stessa Harper Lee - una donna bianca che scrive delle persone in mezzo alle quali è cresciuta - non dovrebbe essere trascurato. Lee pubblicò il romanzo nel 1960 - prima che il movimento per i diritti civili americano arrivasse al culmine - e la decisione di far sentire la propria voce la mette sullo stesso livello del suo personaggio.

Non permettete che la paura vi renda vigliacchi. Qualunque cosa dobbiate fare, portatela con voi. Seguendo l’esempio di Atticus e di Harper Lee, indossate con coraggio le vesti di un eroe dei nostri giorni.

Bugiardino

Non è la prima volta che parlo di Harper Lee, per cui, insieme alla breve analisi del testo di cui sopra, per completare il discorso vi allego anche la trama del successivo libro dell’autrice.

Harper Lee “Il buio oltre la siepe” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)

[tramato il 14 settembre 2008]

Un libro pieno di sorprese, o almeno tre.

La prima è che Harper Lee è una donna, mi ero sempre fissato fosse un uomo.

La seconda è la dura gradevolezza.

La terza è che Atticus Finch anche nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory Peck.

Unico libro degno di nota della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall’uscita, mantiene la sua forza, la sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in fondo pieno di diversi, con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più bistrattati a salvare da una sordida fine i “Finch brothers”.

Vogliamo parlare del nero accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le ronde? Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare nelle scuole lo stupendo film.

A Maycomb, Jem e Scout (figli di Atticus Finch) un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno amicizia. I tre sono attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo pericoloso e violento, rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare del tempo, si accorgono che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre.

Atticus spiega che è stato nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom Robinson, accusato di violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che avrebbe perso. Al processo, Atticus dimostra, senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza di Bob il padre della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una giuria di bianchi.

Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando verso casa, dopo la recita, quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo della lotta, alla fine viene ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho detto quasi tutto, ma lascio un po’ di buio, infondo alla siepe.

Note di merito alla traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera. Infatti, in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il vicino di casa dei Finch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non conoscono. E infatti anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non la spaventava più, ma non le appariva meno buia.

Nel testo, invece, ci sono diversi riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa: Uccidere un usignolo). L' usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo cinguettio. Uccidere un passero è quindi un peccato doppiamente grave.

Harper Lee “Va’, metti una sentinella” Repubblica Duemila 9 euro 9,90

[tramato il 06 gennaio 2021]

Iniziamo dalla fine: ho indicato la data ufficiale del libro (2015), ma tutti concordano che sia stato scritto molto tempo prima. Tanto che il famoso buio della siepe, nella prima stesura, pare avesse questo titolo. Poi è stato preso, allungato, smembrato. Una parte è diventata il famoso e celebrato “To Kill a Mockingbird”, reso famoso anche da un’interpretazione cinematografica maiuscola di Gregory Peck.

Una parte è rimasta nell’ombra, che troppo dolorosa per il Sud Unionista ma anche per l’America in toto, con la sua denuncia del sostrato razzista che negli anni Cinquanta permeava tutta una gran parte del suolo americano. Ed è un peccato, questa scelta editoriale imposta alla brava Lee, che, didascalicamente, aveva un senso presentare prima questa America, e poi far capire come, per la correttezza e l’onestà personale, anche una persona con posizioni borderline, avrebbe dovuto comportarsi. Ne sarebbe uscito un manifesto per quella che ritengo una delle più belle frasi rimaste nella mia memoria. Il Voltaire cui si faceva dire: “Non sono d’accordo in una sola virgola di quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa dirlo.” (Non entro sulla lunga esegesi della estraneità di Voltaire al testo della frase ma non al suo senso di tolleranza).

Ragionando allora come se fossimo vicino alla compianta Harper, quasi un suo secondo Truman Capote, vediamo come si possa sviluppare il tutto. Il libro, nel suo complesso, si riferisce al Libro di Isaia della Bibbia, dove nel sesto versetto del capitolo 21 si dice “Poiché così mi ha detto il Signore: «Va', metti una sentinella che annunzi quanto vede...”. È un brano dove il profeta Isaia annuncia la caduta di Babilonia. Un brano che serve ad Harper per plasmare tutto il testo intorno alla caduta. Di tutti gli eroi che ha costruito, ma anche, cosa più importante, del mondo retrogrado dell’Alabama degli anni Cinquanta, ancora vicina all’Ottocento più che al Duemila.

In terza persona, seguiamo la nostra eroina, Jean Louise ‘Scout’ Finch, ventenne, emigrata in quel di New York, che torna per le festività nel paesello natio. Dove ritrova i suoi affetti: il padre Atticus, avvocato quasi pensionato, in declino fisico ma non mentale, la zia Alexandra, separata e bigotta, lo zio Jack, con le sue sentenze dotte ed iperboliche, ed Hank, quello che potrebbe essere il suo fidanzato, ma che forse non lo diventerà mai. Non trova invece il fratello Jem, morto tragicamente da qualche anno. Vediamo subito che Scout ed il resto della cittadina non sono in sintonia, soprattutto per quello che è il nodo principale del profondo sud dell’America: il rapporto tra bianchi e negri (non sono politically correct, ma non me ne importa). Vedendo i comportamenti dei suoi, in special modo di Atticus ed Hank, Scout si trova sbalestrata. Ha sempre pensato che comunque fossero tolleranti ed aperti al confronto raziale, mentre qui li vede immersi in un tessuto sociale che, se non frequentato, rischia di emarginarti. Scout non capisce che i suoi tentano di moderare gli animi, ma per farlo devono entrare in contatto, devono convivere con le pulsioni più retrograde. Lei, aperta e cittadina, vorrebbe invece affrontare tutto di petto. Scout dovrà fare un doloroso percorso interiore per arrivare a capire, anche se non ad accettare, quello che in particolare Atticus va facendo nella città. E noi ci domandiamo ancora quale sia il giusto modo di affrontare il problema (che ancora è aperto, in America ed in molte parti del mondo). Sarà un distacco mentale penoso ma necessario. Che avrebbe aperto ai ricordi di ‘Scout’ di quello che pensava essere l’atteggiamento aperto del padre, così che si poteva sviluppare, ricordato in prima persona, tutto quello che noi abbiamo letto ed ammirato ne “Il buio oltre la siepe”.

Ma se questo aveva un suo senso, non è questo quello che abbiamo vissuto. Siamo cresciuti nel mito del buon Atticus, e qui ci ritroviamo a doverlo far scendere dal piedistallo. Nel percorso inverso, non ci saremmo fatti illusioni, ma avremmo avuto una storia più aderente al vissuto locale, di Scout, ma anche di Harper, di Truman e di tutta la gente del Sud. A prescindere quindi dalle costruzioni e dalle ricostruzioni, devo dire che, se non ci fasciamo gli occhi con i pregiudizi, il libro è altrettanto potente dell’altro. Dato che ci pone la domanda fondamentale: per cambiare, bisogna sfasciare o cercare di erodere? Credo che sia una domanda che vada bene anche in altri contesti. Ce la facemmo noi cinquanta anni fa, e, personalmente, non ho ancora trovato una risposta convincente. Alla fine, quello che l’autrice mi comunica è che siamo umani. Quello che dice in più, partendo dal suo retroterra protestante, è che la Babilonia delle lotte raziali cadrà, come predice Isaia. Ma questa, purtroppo, è una questione di fede.

Conclusioni

Una cura ineccepibile. Nulla da aggiungere.