domenica 26 ottobre 2014

Ultime ossa - 26 ottobre 2014

Purtroppo (o per fortuna?) non sono le ultime. Parliamo ovviamente delle avventure di Temperance Brennan e della serie “Ossa” (da cui il serial tv “Bones” che ho visto ma che non ha l’impatto della scrittura). Pensavo di essere riuscito a leggere tutte le avventure scritte da Kathy Reichs, e mentre finivo l’ultima… è uscito un nuovo libro. Come i miei lettori sanno, una serie di varia intensità, che tuttavia nelle ultime avventure si è stabilizzata su di un andamento di medio gradimento e di medio coinvolgimento. Pur rimanendo una delle serie che con più piacere ho letto e seguito.
Kathy Reichs “Virals” BUR s.p. (regalo collettivo Almaviva 2013)
[A: 07/05/2013– I: 21/05/2014 – T: 23/05/2014] - &&&
[tit. or.: Virals; ling. or.: inglese; pagine: 392; anno 2010]
Un tentativo di spin-off per catturare il pubblico giovanile. Tutto sommato gradevole, anche se di portata limitata. Nel linguaggio descrittivo dei generi, questo sarebbe classifico “per adolescenti”. E questo rimane, nato com’è dal desiderio del figlio della scrittrice Reichs. Quindi siamo qualche anno dopo la serie principale. Qui, la protagonista è Tory Brennan, nipote della nostra Temperance. Così dopo un fugace raccordo, simile a quello nel coevo libro di Tempe, in modo da fare un po’ di pubblicità incrociata, possiamo dedicarci all’avventura di questa banda di ragazzi. Il capo della banda è lei, Tory Brennan, gusto per l'avventura e passione per la scienza. Quando arriva a Morris Island, di fronte alle coste del South Carolina, per andare a vivere insieme a colui che ha appena scoperto essere suo padre, Tory fa amicizia con un gruppo di ragazzi che come lei sono fanatici delle esplorazioni scientifiche. Qui c’è un po’ di stereotipo adolescenziale: a Tory muore la mamma in un incidente e si trasferisce dal padre Kit, un trentaduenne che fino a quel momento non aveva idea di essere un giovane papà. La nuova vita di Tory si svolge tra avventure con i tre amici coetanei (Ben, Shelton e Hi) e la scuola, dove la ragazza non è tra le più popolari ma sembra attirare l’interesse di alcuni dei ragazzi più gettonati. Insieme si divertono ad analizzare al microscopio conchiglie e fossili fino a quando non si imbattono, con orrore, in ossa umane. Intanto i nostri adottano un cucciolo di lupo sfuggito agli strani esperimenti che si fanno sull’isola (dovrebbe essere una base di qualche missione americana, al solito ignota e super-segreta). Ma ben presto scoprono che il cucciolo è un portatore sano di qualche virus e che anche loro ne sono contagiati. Il loro corpo subisce strane trasformazioni, acuendo in ognuno di loro uno dei cinque sensi. Ovviamente, l’isola è piena di buoni e cattivi. I primi essendo i parenti dei nostri, che però non capiscono cosa stia succedendo. I secondi sembrano guidati dal direttore del laboratorio, anche se ben presto ci si accorge che questi è la lunga mano di qualcuno che ha realmente il controllo sull’isola, ma anche sul tratto di terra prospiciente. Tornando alle ossa umane di cui sopra, Tory ed i suoi amici si mettono in caccia, e da bravi quindicenni moderni, con accessi in rete ed altre “normali” diavolerie, riescono a risalire alla vicenda di quaranta anni prima. Guidati anche da una piastrina persa da un reduce del Vietnam (fate i conti, gli anni tornano). E si fanno quindi persuasi che le ossa siano di una giovane allora scomparsa, tale Katherine Heaton, che ha fatto un'importante scoperta: l'isola ospita alcuni esemplari di aquila calva, una specie rarissima. Sta per divulgare la notizia, che fermerebbe sia la costruzione della base militare sia gli insediamenti in terraferma, quando scompare senza lasciare traccia. La polizia indaga senza esito. Ma ora che Tory ed i suoi amici trovano nuove prove, la polizia continua a non volersene occupare. C’è qualcuno in alto che manovra. I nostri riescono a ritrovare (fortunosamente e grazie ai nuovi poteri del “virus”) altre prove, ed un diario della morta. Avviandosi verso un finale, scontato come soluzione, anche se ricco di tensione. Il libro si conclude con la presa di coscienza dei nostri quattro dei loro poteri, ovvio prologo ad un allungamento della serie stessa. Insomma, solita buona scrittura della nostra scrittrice, anche se io non sono dell’età di apprezzare sin in fondo questi “juvenilia”. Ma quando c’è qualche personaggio simpatico, qualche battuta decente ed un intreccio non proprio buttato là “con i piedi”, è sempre piacevole leggere. Anzi, più che piacevole, sanamente distensivo, anche se non so se avrò voglio di leggere altri episodi.
Kathy Reichs “La cacciatrice di ossa” BUR euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 19/05/2013– I: 12/06/2014 – T: 14/06/2014] - &&&
[tit. or.: Flash and Bones; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2011]
Sarà colpa della povera Irene Annoni che già altre volte ho tirato in ballo per i titoli bislacchi della collana italiana, o, più probabilmente, una pervicacia dei responsabili marketing della BUR? Ricordo solo che circa un anno fa, ne parlai male quando, ad un titolo inglese che parlava di ossa rotte, utilizzarono il titolo italiano “Carne e Ossa”. Qui, che si parla di appunto di “Carne e ossa”, ci si inventa un titolo su di una cacciatrice delle stesse. Non sarà forse (pensiero orribile) che l’uscita in Italia di quello di cui parlai era di poco posteriore all’uscita in patria di questo? Così che con un colpo solo si poteva sperare di far colpo su quelle schiere di lettori che seguono la Reichs e la sua eroina Brennan, catturandone in maniera subdola l’attenzione? Sperando di essermi sbagliato, provo a tornare a bomba al libro ed al suo contenuto seriale. Come al solito, le vicende si svolgono alternativamente tra i due scenari, dove si muove la nostra dottoressa: il North Carolina e il Canada. Qui siamo a Charlotte, ed abbiamo un piccolo cameo che non mi dispiace: siamo nella settimana del NASCAR, il campionato automobilistico americano. E Ryan (l’ex-amore canadese) chiede a Tempe un cappellino firmato di Jacques Villeneuve! Inoltre, e fortunatamente, lasciamo un po’ da parte le paturnie sentimentali della nostra eroina (ce ne sono accenni, sulla fine della storia con Ryan, sull’ex-marito Pete e la svampita Summer, ma non molto altro). C’è invece la storia. Un primo cadavere trovato ai bordi del circuito asfaltato in un bidone. Vista la location del ritrovamento si pensa ad uno dei due ragazzi (Cindy e Cale) scomparsi una decina d’anni prima. Ma non coincide l’età. Inoltre, vengono travate tracce di sostanze potenzialmente pronte per un attacco chimico. Niente di strano, quindi, che venga subito in mezzo l’FBI. La nostra scrittrice ha un dente avvelenato con i federali, e fa fare loro (anche in questo caso) figure barbine e presupponenti. Sequestrano il cadavere, non divulgano informazioni. Neanche al fratello di Cindy che cerca la sorella. Neanche quando lo stesso trova la morte in uno strano incidente nel box di un’auto da corsa. Si cerca a tutto tondo. Riescono fuori poliziotti che avevano indagato all’epoca. Skinny con l’aiuto allora di Rinaldi (ora morto, ma ne avevamo avuto tracce in un vecchio romanzo, l’italo americano abile nelle ricerche e criptico negli appunti). Gilmore che tutti accusano di aver depistato le indagini, ma che forse si trovava in un gioco più grande di lui. E comprimari, come Bogan, il secondo padre di Cale, dedito all’agricoltura, ma con due grandi passioni: le auto e la supremazia della razza bianca. Passioni che aveva trasmesso a Cale, che si era unito ad una setta para-militare. Ma poi aveva conosciuto Cindy, una ragazza molto abile nella guida, tanto che stava per diventare una promessa dei circuiti (una nuova Danica Patrick, per intenderci). Al solito Kathy gioca a mescolare tutte le carte. Facendoci balenare possibili scenari e possibili sospetti. Magari Cale è diventato confidente della polizia e lui e Cindy sono sotto-protezione (uno dei miti americani, quello di sparire protetti dai federali). Oppure è Gilmore che, preso tra alcool e mazzette, aveva tentato colpi a sorpresa. Rimane comunque la pista delle armi chimiche. Tanto che si scopre essere intossicato anche il morto asfaltato. E c’è anche la parte “wikipediana” con digressioni sulla ricina e sulla abrina, due derivati vegetali, di cui conosco il primo (in piccole dosi se ne ricava un olio, che non vi sorprenderà, si chiami olio di ricino!). Alla fine, la soluzione è molto più banale, anche se crudele. E la nostra Tempe ci arriverà non attraverso l’analisi delle ossa, ma interrogando un’amica di Cindy, la nera Maggie. Insomma, un buon prodotto, che si sfilaccia un po’ quando non si ricollega esattamente con la precedente storia (quella hawaiana delle ossa del ragno). Ma questo va bene. Non va bene, e lo accenno solo di passaggio, che, ad un certo punto, senza nessun senso logico all’interno del racconto, Tempe ci parla di una filiazione da parte di qualche parente non riconosciuta nelle discendenze della sorella. Guarda caso, progenie che, poco dopo temporalmente, è la protagonista dello spin-off tramato in precedenza. E finisco tirando ancora una volta le orecchie alla casa editrice che, se assumesse un buon vecchio “proto” eviterebbe di fare errori come il seguente: a pag. 351 “Gamble sembrava fare pregressi con le indagini”. Che dite, forse Gamble faceva progressi? Insomma libro decente, confezione deprimente.
Kathy Reichs “La voce delle ossa” BUR euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 19/05/2013– I: 15/06/2014 – T: 18/06/2014] - &&&
[tit. or.: Bones are forever; ling. or.: inglese; pagine: 374; anno 2012]
Un libro esattamente al centro della cupola gaussiana dei gradimenti (miei) verso la scrittrice americana. Medio praticamente in tutto: coinvolgimento, trama, riuscita, traduzione. Non una punta di eccellenza. Ma neanche, e non è poco, una punta di vero biasimo. Forse il solo punto poco brillante è al solito il titolo, diventato da “Ossa per sempre” ad una voce che non si sa come e perché ci sia. La trama ricalca i grandi motivi della Reichs: scoperta di cadaveri, analisi delle ossa, si risale a qualche indizio da dove la trama si allarga ad ampio spettro, si coinvolge un po’ di gente, sollevando un po’ di polvere, poi ci si avvia verso un finale dove Tempe è sempre in qualche pericolo, miracolosamente si salva e tutto si risolve. Anche le vicende amorose sono (anche se giustamente più marginali) nei soliti binari: non si capisce perché lei e Ryan non si chiariscano (ma forse lo fanno nel finale, e penso che i lettori della nostra siano intervenuti con i loro commenti in ciò), c’è una vecchia fiamma che compare, ma è vecchia e non riaccende nulla, c’è l’ex-marito che ogni tanto si affaccia, e ci sono gli affetti filiali (anche se Katy si fa viva solo con una telefonata). Infine, la parte scientifica è anche lei più presente, con una nuova sindrome la CDLS (ma come fa la Reichs a pescare le più astruse?). Che sarebbe la sindrome di Cornelia de Lange (dal nome della scopritrice olandese) caratterizzata da irsutismo e ritardo intellettivo. Da questa sindrome è affetta la prima protagonista del romanzo, Annelise, che partorisce senza accorgersene, e, quando Tempe e la scientifica controllano la sua casa trovano tre piccoli corpi in vario stato di decomposizione. Si mettono sulle tracce di Annelise, che nel frattempo si è spostata da Montreal a Edmonton. E lì la seguono, Tempe, Ryan e la vecchia fiamma Ollie. I due maschi non faranno che fare i galletti per tutto il romanzo, lasciando il compito delle indagini e delle deduzioni alla nostra dottoressa. Il tutto è complicato dalla presenza, ad Edmonton, di due bande rivali che si stanno massacrando a colpi di pistola. Ed anche Annelise muore, ma di fucile. Edmonton, inoltre, è (o è stata) la capitale diamantifera del Canada (non a caso i De Beers vi aprono una miniera). Ed è anche piena di nativi canadesi, il cui rapporto con i dominanti anglo-francofoni non è tra i più idilliaci. Indagando e leggendo, parlando e deducendo, Tempe scopre: a) che Nellie la cameriera del suo hotel è la sorellastra di Annelise; b) che Rocky, il presunto magnaccia di Annelise, in realtà è parente di entrambi, una sorta di cugino prossimo; c) che il terzo fratello, Dick, morto alcuni anni prima, risulta ucciso da un colpo di arma da fuoco; d) che Dick è morto insieme ad un ambientalista venuto a salvare i caribù dagli scavi delle compagnie minerarie (i diamanti si trovano vicino a dei laghi, dove vivono gli uccelli in via di estinzione); e) che Tayne, l’ambientalista locale, si comporta in modo ambiguo; f) che Phil, il capo di Rocky, è anche lui della zona, e conosce bene sia Tayne che il padre di tutta la stirpe dei fratelli. Facile a questo punto indirizzare le indagini non solo sui bimbi morti, ma sulle successive morti per colpi di arma da fuoco. Per scoprire, come ad un certo punto pare evidente (da qui il coinvolgimento medio della trama, che ad un certo punto si fa discretamente manifesta), che dietro a tutto ci sia una sola cosa: il denaro. O meglio i diamanti. E nella fattispecie, un terreno che il padre morto lascia a Nellie, Annelise e Dick. I quali non sanno quanto sia ricco in filoni diamantiferi. Vi risparmio le dotte pagine scientifiche sulla kimberlite e sull’estrazione dei diamanti. Ovvio che i cattivi si stiano innervosendo, che prendono di mira la nostra Tempe. Sequestrata, quasi uccisa, salvata da Ryan (ritornerà la fiamma dell’amore? Speriamo di si). E si scoprirà anche chi c’è dietro a tutta questa carneficina. C’è la solita accelerazione finale, il climax, poi un lungo respiro e qualche spiegazione (forse questa volta un po’ troppo stringata). Insomma, un altro lavoro di mestiere, per riempire i momenti pre-notturni con qualche pagina rilassante.
Kathy Reichs “Le ossa dei perduti” BUR euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 03/07/2014– I: 25/08/2014 – T: 27/08/2014] - &&&
[tit. or.: Bones of the Lost; ling. or.: inglese; pagine: 426; anno 2013]
Completamente fuori sequenza di lettura, ho acquistato e poco dopo letto l’ultimo economico della Reichs per colmare un buco, per evitare di lasciare in sospeso per anni i miei lettori, per consentire a mia madre di avere dodici libri dodici da leggere di fila come fosse una fiction seriale (e d’altra parte, chi segue la televisione mi dice che la serie tratta dai libri della Reichs, “Bones”, va alla grande). Ribadisco tuttavia il giudizio riportato nell’ultimo libro. L’autrice sta lavorando di mestiere. Certo non ha le catastrofiche cadute che stanno caratterizzando le ultime uscite di Patricia Cornwell. Ma non ha neanche le impennate di alcune nuove scrittrici. E questa volta, neanche un rimprovero ai traduttori, che pure il titolo è ben riportato (al contrario di quasi tutte le precedenti uscite). Pur sviluppandosi al solito sui due binari (pubblico e privato), non c’è molto intreccio tra i due temi, se non qualche forzatura, che come spiega in postfazione, è dovuta alla voglia di intrecciare alcune esperienze personali della Reichs come patologa forense, con qualche tematica, anche di attualità. Peccato che questa volta, dal punto di vista scientifico non ci siano nuovi elementi da aggiungere al nostro bagaglio personale. Sul piano privato, c’è la figlia Katy arruolatasi in Afghanistan, e la scrittrice inventa un intermezzo di quasi ottanta pagine per dar modo alla nostra Tempe di andare a fare una expertise su un cadavere in zona di guerra ed incontrarsi con la figlia. Inopinatamente, questo intermezzo le permetterà (ma molto fortuitamente) di risolvere il caso principe che stiamo seguendo. Dalla fine del libro precedente si sperava in un ritorno del tenente canadese, ma qui compare solo verso la fine, e solo per annunciare che la figlia che lo aveva allontanato da Tempe è morta di overdose. E poi scomparire di nuovo. C’è invece, purtroppo, il quasi ex-marito, che imperversa, rompe le scatole, ed alla fine rompe il fidanzamento con la svampita, lasciando prevedere nelle prossime puntate un nuovo rovello: Andy o Pete? Io non ho dubbi, ma non sono Tempe. Poi c’è la storia: ragazzina quindicenne presumibilmente falciata da un pirata della strada. Senza documenti, forse sud-americana inserita in qualche giro di prostituzione. L’analisi del corpo, unico punto scientifico, permette a Tempe di dimostrare che è stato un omicidio. Ma nessuno ha visto niente. E l’unica persona che sembra avere qualche sospetto (una cameriera) è ben presto uccisa anche lei. Per pagine e pagine non si cava un ragno dal buco, e sono le parti più deboli. Poi, mentre Tempe è in Afghanistan per dimostrare che un civile è stato colpito di fronte e non di schiena, si muove qualcosa. Tracce di sperma, analisi del DNA, si risale ad un altro bar, ad un giro di prostitute. Tempe trova anche una foto di un riccone (morto tempo prima) con un reduce della guerra del Golfo che pare avere le mani in pasta. La svolta decisiva c’è nel momento che la nostra analizza tutte le foto che ha trovato per le prime 350 pagine, scovando in un riflesso di uno specchio la figura del tenente dei marines da lei salvato per l’omicidio afghano. E scovando una foto di una giovane afghana che, con qualche anno in più, sempre la stessa della morta nel falso incidente iniziale. A questo punto solito finale che si vorrebbe mozzafiato, ma è solo pura routine da thriller di media levatura. Tempe scopre dove vengono recluse le afghane rapite dal marines, assalta da sola il fortino nemico. Uccide un cattivo, sta per essere uccisa dal secondo. Arrivano i nostri e tutto finisce in gloria. E fortunatamente, questa volta l’autrice ci concede una buona ventina di pagine di spiegazioni dove tutti i punti oscuri vengono messi in chiaro. Come detto, un prodotto da letture serali per conciliare il sonno. E visto che non se la prende con chi marginalizza i malati di malattie poco note, fortunatamente prende a bersaglio la tratta delle ragazzine, rapite un po’ ovunque nel globo, ed immesse nel mercato del sesso a basso costo. Dove scopriamo che il North Carolina ha un suo posto d’eccellenza in questa classifica degli orrori. Qualche concessione ai “militari buoni che esportano democrazie”, ma anche qualche buona mazzata verso corrotti e faccendieri. Speravo in meglio, veramente, ed ora avremo almeno un anno di riposo da questa saga. E ce lo meritiamo entrambi, noi lettori e la nostra pur sempre brava Kathy Reichs. Un ultimo inciso, ad un certo punto, tanto per ribadire lo spin-off di cui sopra, viene di nuovo citata la nipote Tory, quella che è l’anima della sotto serie dei “Virals”. Piccola concessione al marketing.
Beh, la mamma porta fortuna (e questo è un must della vita), e contemporaneamente agli auguri è arrivato l’ok al viaggio dove, seppur per ora pochi, si parte tra un mese. Comincio quindi, oltre a leggere, curare la salute ed altre attività, a studiare ed impostare il viaggio. Spero in prossimi aggiornamenti su tutta la linea, e continuando a fare gli auguri a tutti gli ottobrini, vi saluto

domenica 19 ottobre 2014

Almost McCall - 19 ottobre 2014

Solo quasi, perché abbiamo ben 3 libri dello scrittore dello Zimbabwe, per celebrarne alcuni fasti. Quello delle letture e dei comportamenti etici (e quanti di noi si interrogano su come si comportano giorno per giorno?) e quello dei fasti e nefasti quotidiani della città di Edimburgo e dei suoi scozzesi. Il quarto posto per un libro comperato con tante speranze all’aeroporto di Istanbul, ma che si è rivelato inferiore (e molto) alle attese che vi avevo riposto.
Alexander McCall Smith “The Lost Art of Gratitude” Abacus euro 10
[A: 20/04/2014 – I: 20/04/2014 – T: 20/04/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 249; anno 2009]
Non è un errore: questo libro è stato comprato, iniziato e finito in un giorno, in un lungo giorno di viaggio, ritorno della Pasqua da Edimburgo a Roma. E quale migliore omaggio alla città che leggerne di uno dei suoi più noti scrittori viventi? Uno di cui (e non è un caso) molti libri sono presenti nella mia libreria. L’autore è anche prolifico e multiforme. La sua serie maggiore, ricordo della giovinezza ed altri pensieri del nativo Botswana, è imperniata sulla detective africana Precious Ramotswe, serie che però non mi convince e non ho letto. Ho invece libri delle due serie successive: quella ambientata al numero 44 di Scotland Street (e di cui parlerò quando tramerò quei libri) e questa che ha per protagonista Isabel Dalhousie ed imperniata sulla sua vita e su vari dilemmi etici e filosofici cui va incontro. Intanto, sottolineo che questo è il primo libro in originale che leggo, e devo convenire, con la mia amica Chiara, che, in effetti, la lettura in inglese non solo è (discretamente) agile, ma anche aiuta a ripassare la lingua, visto che utilizza schemi grammaticali semplici e poche parole “nuove”. Allora, con la mente ancora fresca della gita scozzese, ecco mi immergo in un pranzo da “Glass & Thomson”, in una visita alla National Library o al National Museum, in una passeggiata per i Princess Garden. Insomma, leggere di Isabel e soci è come continuare la visita alla Scozia, frequentando anche nuovi luoghi. Ma detto del piacere direi estetico della lettura, questa volta il piacere etico è leggermente inferiore, anche se le avventure che seguiamo a loro volta seguono il filo rosso del titolo. Sono situazioni in cui qualcuno fa qualcosa per qualche altro. Bisogna essere grati per questo? E come manifestarlo? Questo in fondo il piccolo dilemma dei nostri filosofi. C’è il bel rapporto tra Isabel e Jamie, suggellato dalla nascita e dalla cura del loro piccolo Charlie. Tanto che Jamie finalmente chiede ad Isabel di sposarsi. Come reagiranno gli altri? Cosa dirà la tata Grace? Ma soprattutto, Cat, la nipote che alcuni anni prima si era messa lei con Jamie (per poi lasciarsi, senza nessun rancore)? Poi c’è la rivista di Etica, di cui Isabel è editore. Dove viene incautamente pubblicato un articolo con una citazione non referenziata. Cosa che fa alzare gli scudi agli oppositori della linea editoriale di Isabel. Professori saccenti, che non si accontentano di scuse. E come reagiranno quando Isabel presenterà un loro scritto anch’esso con una citazione saltata? Saranno capaci di mostrare gratitudine? Infine, c’è la perfida Minty, rampante donna della finanza che abbiamo già incontrato in qualche libro precedente, che irretisce Isabel in una sua complessa macchinazione. Dove entrano: il piccolo di Minty, coetaneo di Charlie, che però Minty ha avuto con un altro, e che il marito di lei non sa di essere cornuto, l’amante di Minty, che vorrebbe interagire con questo suo figlio naturale, un investitore cui Minty ha truffato, anche se non si hanno prove, un po’ di denaro. Minty chiede aiuto a Isabel per il primo problema, sfruttandone, a sua insaputa, la presenza come deterrente per tutte le altre due. Isabel cade nella trappola, vorrebbe che Minty pagasse il fio delle malefatte. Ma questo significherebbe mettere nei guai l’amante e l’investitore. Fatti i conti con la sua etica personale, Isabel decide che il suo carattere (quello per cui occorre praticare ogni giorno al fine di farlo crescere come vogliamo noi) non gli consente una tale mossa. Spiega lo spiegabile a chi la può capire, ricevendone attestati di quella gratitudine di cui sopra. Lo dirà anche a Minty, fuori dai denti, come si dice in gergo. Minty capisce che Isabel non andrà mai oltre le parole. E rimarrà sulle sue, senza un’ombra di ringraziamento. Insomma, rispetto ad altri momenti della vita della capitale scozzese, siamo in un racconto in minore. Eppur tuttavia, godibile, e, come detto sopra, leggibile facilmente anche in originale. Dove ho imparato che “playpen” è il box dove si mettono i bambini piccoli a giocare. Una buona compagnia, per un ritorno a casa anch’esso facile e senza problemi.
“She thought … how often what we say is the exact opposite of what we really mean.” [Pensò … quanto spesso ciò che diciamo è l’esatto opposto di quello che vorremmo dire realmente.] (29)
“That was the problem with any large collection of books, whether in a library or a bookshop: one might feel intimidated by the fact that there were simply too many to read and not know where to start.” [Questo era il problema con qualsiasi grande collezione di libri, sia in una biblioteca o in una libreria: ci si sente intimiditi dal fatto che ci sono troppi libri da leggere e non si sa da dove cominciare.] (83)
“The best sort of relationship … was where each person had a private area.” [Le migliori relazioni sono lì … dove ognuno ha una sua zona privata.] (109)
Alexander McCall Smith “Lettera d’amore dalla Scozia” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 04/06/2014 – T: 06/06/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: Love over Scotland; ling. or.: inglese; pagine: 352; anno 2006]
Quest’altro McCall Smith l’avevo preso da tempo, ma non ancora letto. Ricordo alcuni capisaldi per i miei amici lettori un po’ smemorati: il nostro Alexander, pur essendo nato in Zimbabwe, è uno scozzese purosangue, e scrive in un inglese piano e di facile comprensione. Motivo per cui, come dicevo sopra, ne viene consigliata la lettura in lingua. Il nostro è poi un autore prolifico, che si diletta in serial – fiction, di cui tre sono le più note ed acclamate: la serie di Precious Ramotswe (detta “Serie della detective n.1 dello Zimbabwe”), la serie di Isabel Dalhousie (detta “Il club dei filosofi dilettanti”) e la serie di Pat Macpherson (detta “Le storie del 44 Scotland Street”). Ne ho già parlato, quindi vado avanti, dedicandomi a questo che è il terzo libro della serie di Scotland Street. Devo confessare che nella Pasqua edimburghese ho fatto di proposito anche una passeggiata per Scotland Street, scoprendo che i numeri pari arrivavano a … 42! Ma cogliendo bene i riferimenti che si fanno ai luoghi delle vicinanze: i parchi, i caffè, i Princess Garden ed altro. La sortita scozzese mi ha anche consentito di capire meglio questa serie di libri, che nelle trame precedenti mi lasciavano ogni tanto perplesso per la loro discontinuità, per il fatto che saltavano qua e là, a volte senza spiegazioni. Ho scoperto, infatti, che i brevi capitoli (ogni libro ne ha almeno un centinaio) derivano dal fatto che l’autore ne pubblica giornalmente sullo “Scotsman”, uno dei giornali locali più letti. Da qui le piccole storie, il passare argomenti, ma anche la capacità di narrare tra le righe la vita locale, le manie. Insomma, tutto quello che fa “scozzese”, ma che non si disgiunge mai dall’intento di fondo dell’autore. Porre problemi di comportamento e di relazione, facendoci riflettere su come ci si comporta, sui fili ragionativi che seguiamo per prendere decisioni. Certo, son libri facili, anche se di corposa scrittura. Ma continuo a trovarli piacevoli. A parte, ovviamente, avere da ridire sul modo di tradurre il titolo. Che di lettera d’amore non se ne trova traccia. Di lettere sì, ed anche d’amore. Ed è forse quello l’intreccio che interessa di più Alexander. L’amore tra i giovani, l’amore tra genitori e figli, l’amore per il lavoro, l’amore tra persone mature. Diversi gradi d’amore (e spesso lontano dalla componente sesso), ma, come diceva il Poeta, è l’amore che muove il mondo. Ed allora veniamo ai personaggi che si muovono in città (ma anche fuori). C’è la nostra eroina Pat, che lascia temporaneamente il 44 di Scotland Street dopo la delusione con il narcisista Bruce (che fortunatamente lascia la serie e si trasferisce a Londra). Pat riprende l’Università dove incontra il belloccio Wolf, che scopriamo ben presto essere un cacciatore di femmine. Anche lui prestante, per cui Pat “scivola” un po’, accorgendosi ben presto che Wolf sta con la sua nuova coinquilina Tess. Qualche scaramuccia da “convivenza forzata”, poi Pat lascia anche questa casa e trova rifugio dal suo datore di lavoro, il trentenne Matthew, quello giovanile, ricco, e molto imbranato. Quello della galleria d’arte (e chi è stato ad Edinburgh sa quante ce ne siano). Ed anche innamorato senza speranza proprio di Pat. Qualche pennellata per rimarcare l’incapacità del giovane ad agire in prima persona (e l’unica cosa che fa da solo, sarà comprarsi un maglione color porridge, veramente inqualificabile). Ma tra i due potrebbe nascere qualcosa. Mettiamoci alla finestra a vedere. Prende maggior copro la presenza dell’attempato Angus che si ritrova solo, dato che la sua grande amica antropologa Domenica è partita per una ricerca sul campo nella penisola malacca. Qui Alexander fa delle digressioni esotiche e comportamentali sia sugli studiosi che fanno inutili ricerche in giro per il mondo (la nostra non trova di meglio che cercare di scoprire la vita dei pirati malesi, per ritrovarsi, delusa, ad osservare un gruppo di “pirati” locali che l’unica pirateria che fanno è quella di contraffare CD!) sia sul comportamento degli anglo-sassoni a contatto con le altre culture (cosa che ben gli deriva dal suo passato australe). Seguiamo però con piacere Angus, i suoi tentativi di socializzazione, ma soprattutto le sue puntate al market Valvona & Crolla (ci sono stato, ed è veramente carino, e costoso, in particolare con i prodotti italiani importati). Ma quello che più mi attira è l’agire del piccolo Bertie. Il piccolo genio, con una madre da sopprimere seduta stante (una che imposta la vita del piccolo con il titolo “il progetto Bertie”, come fosse un prodotto da vendere sul mercato, e che serve solo a soddisfare le sue voglie da primadonna). Bertie è pur tuttavia simpatico, con il suo sax, la sua innocenza. Come non godere della sua trasferta a Parigi dove, lui di sei anni e ignorante della lingua, mette alla berlina un professore della Sorbona ed il suo destrutturalismo. Credo che Bertie potrà e dovrà avere spazio nelle seguenti puntate, soprattutto sperando che riesca a mettere a posto la madre. Tra macchiette varie, bevute di birra tra i vari personaggi, consolazione verso bariste dai pensieri filosofici, ed altre piccole amenità, il libro scorre, si fa leggere e ci lascia qualche domanda su quei comportamenti di cui prima. Di chi innamorarsi? Come reagire alla morte di una persona conosciuta? Cosa fare aprendo la porta di un bagno e trovarvi un uomo nudo? A me continua a divertire, nel suo andamento un po’ sconclusionato, ma molto, molto Scottish.
“Gli piacevano le cene … ma in generale preferiva essere ospite che ospitare. … Trovava difficile rilassarsi e godersi la conversazione se doveva anche tenere d’occhio la necessità degli invitati. E alla fine di tutto, come se non bastasse, toccava rassettare.” (139)
“Si diventa sempre come i propri genitori. I loro consigli inizialmente disprezzati … e le loro opinioni vengono avvalorati, uno per uno, dalle nostre scoperte e dall’idea che ci facciamo del mondo. E intanto, con orrore crescente, diamo credito ad un’affermazione che prima non avremmo mai considerato: le nostre mamme avevano ragione!” (311)
“In te ho trovato me stesso.” (334)
È molto importante essere capaci di accettare i regali. … Pensiamo di dover imparare a dare, ma dimentichiamo il ricevere, che può essere anche più difficile del dare.” (348)
Alexander McCall Smith “The World according to Bertie” Abacus s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 20/04/2014 – I: 12/06/2014 – T: 20/06/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 329; anno 2007]
Nella trasferta scozzese, due libri di Alexander entrarono in libreria: l’arte perduta di cui ho scritto tempo fa, e questo nuovo episodio del 44 di Scotland Street. Tra l’altro, libro che, leggendone risvolti, intro e quarte, mi ha fatto appunto capire la genesi di questa serie, pacificandomi un po’ con quell’andamento apodittico che mi aveva inizialmente turbato. Ed ho quindi anche compreso che, per il nostro autore, in questa serie la storia (o le storie) hanno il solo senso di arrivare a nodi comportamentali ed a svelare usi e costumi scozzesi. Devo di converso sottolineare che invece, rispetto agli altri scritti, in questo McCall Smith usa un inglese un po’ più difficile. Forse perché, uscendo giornalmente sul quotidiano locale, inclina maggiormente ad un uso della lingua più colloquiale e vicino alla vita giornaliera dei simpatici edimburghesi. Inoltre, mentre il precedente, come rilevato, si incentrava sull’amore, qui si torna, ed alla grande, sull’analisi dei comportamenti e sulle reciproche relazioni. Muovendosi su tre binari paralleli (la vita del piccolo Bertie e della sconsiderata madre, il mondo degli “anziani” Domenica ed Angus, le vicissitudini dei giovani in cerca di futuro, e sui quali torneremo), utilizzando sia l’indirizzo-titolo della serie sia alcuni personaggi “cross” per cementare vicende e seguirne sviluppi. Dal punto di vista della trama, allora, in questa puntata abbiamo l’inserimento del nuovo nato, fratellino di Bertie, inopinatamente chiamato Ulysses (a proposito, si scopre che Bertie è diminutivo di Roberto, nella mania italianeggiante di mamma Irene), degli scompensi che provoca in Bertie (che ne vede una preoccupante somiglianza con lo psicoterapeuta presso cui è in cura), e degli scompensi che provoca anche nella vita di Mummy e Daddy, quando “dimenticano” il piccolo e la carrozzina all’entrata di Valvona & Crolla (un must, come si diceva; tra l’altro, con la passeggiata che i quattro fanno da casa in Scotland Street verso il negozio che io e Alessandra s’è fatta più volte sotto il sole di Pasqua). Il secondo filone dei comportamenti studiati è quello della classe di Bertie, con le cattiverie e le crudeltà dei suoi coetanei, con l’atteggiamento di Irene che, purtroppo, la passa sempre liscia (ma spero che prima o poi riceva la paga per le sue malefatte psicologiche), e con la povera insegnante, Miss Harmony (povera due volte, sia per la classe che deve sopportare sia per quel cognome molto impegnativo) che non riuscirà ad esimersi di dare una tirata d’orecchie all’impertinente Olive (una ragazzina che andrebbe bene sotto la tutela di Irene, e che si ostina a mettere paura a Bertie sostenendo come lui si affetto da … lebbra). Tirata che le costa la sospensione dalla scuola. Ma che porta risvolti positivi, poiché, libera da lezioni, si aggira per Dundas Street, dove incontra Matthews, che se ne innamora all’istante. Troncando (con sospiro reciproco) l’infatuazione con Pat che non stava portando nessuno dei due verso “nuove spiagge amorose”. Pat si trova così di nuovo, sola, e ritorna sotto l’ala paterna. Ma in questo modo riesce anche ad evitare il ritorno di Bruce (e sì, purtroppo ritorna…), sempre con il suo narcisismo, con lo sfruttamento delle altrui debolezze. Cinismo che lo porta a convivere con la bella (ma molto, molto oca) Julie, e, quando questa rimane incinta, Bruce si fa convincere dai soldi del padre di Julie ad un matrimonio riparatore (mi sa che se ne vedranno delle belle in futuro). Infine ci sono i drammi degli “anziani”: la barista Big Lou si innamora di un monarchico anti-inglese che sogna il ritorno degli Stuart sul trono di Scozia; il cane di Angus viene arrestato per presunti morsi, lasciandoci intravedere anche piccoli aspetti della giustizia scozzese (con dei risvolti che ne fanno il paio con la nostra italica), ma che, sotto la testimonianza di Bertie, viene rilasciato; Domenica torna dall’Asia, pubblica un articolo sulla sua ricerca, ma soprattutto è coinvolta nello strano comportamento della sua vicina e (forse ex) amica Antonia. Che lascia l’appartamento di Domenica e compra il vecchio appartamento di Bruce, che ha una storia di sesso con il muratore polacco che sa dire una sola parola in inglese (“Brick!”, d’altra parte è muratore…), che lascia morire le piante di Domenica, che sottrae forse inconsapevolmente forse no tazzine di tè alla stessa. Insomma, un difficile rapporto d’amicizia che si va deteriorando. Ecco, tutto questo è il coro greco che si avanza da Scotland Street, attraversa Drummond Place, si disseta al Cumberland Bar, e poi si riversa per le strade della pacifica città. Ma si diceva questi sono tutti elementi o episodi che servono a far dire al nostro qualcosa sui comportamenti umani. Ci sarebbero diversi spunti da approfondire. A me piace rimarcarne due: il leggere, la bibliomania, con annessi e connessi (credo che se incontrassi McCall gli citerei volentieri la battuta di Troisi: voi siete tanti a scrivere ed io sono solo a leggere). Ma soprattutto la condivisione delle esperienze. Nello strano rapporto tra il polacco e la scozzese, Domenica si interroga su come si possa avere un rapporto con qualcuno che non parla la tua lingua. Ed io le risponderei, appunto, che guardare insieme un tramonto, e poi guardarsi negli occhi, se c’è quella luce che ci si può trovare, vale più di mille discorsi fatti in una lingua comune. Insomma, a me i suoi scritti piacciono, con quell’alternarsi di serietà ed humour, e penso che ne continuerò a leggere. Impagabile, ad esempio (e qui chiudo) la prima frase che riporto sulla descrizione di un quadro tutto verde, dove lo si chiama come un ambientalista (un verde) invidioso (verde di rabbia) seduto sull’erba (verde) che legge un famoso romanzo di Graham … Greene!!
“[What would you call] a completely green canvas? – “An Envious Conservationist sitting on the Grass”, he said. And then he added: ‘Reading Our Man in Havana’.” [Come intitoleresti un quadro completamente verde? Un ambientalista invidioso seduto sull’erba, rispose. E poi aggiunse: mentre legge ‘Il nostro agente a L’Avana’.]  (45)
“Somewhere there might be those who read each and every book they acquired.” [Da qualche parte ci sarà pure qualcuno che ha letto ogni libro che ha comperato.] (164)
“Domenica herself had tried to read Vikram Seth’s ‘A Suitable Boy’ four times, but on each occasion had got only as far as page eighty… Such a fat book, so many pages, and marriages, and family relationship.” [La stessa Domenica ha provato a leggere il libro di Vikram Seth ‘Un ragazzo giusto’. Quattro volte, ma ogni volta si era fermata a pagina ottanta … Un libro così spesso … così tante pagine, e matrimoni, e rapporti familiari.] (166)
“Proust … was a chronic hypochondriac … [that produces] sentences of remarkable length, the longest one being the sentence which, if printed out in standard-size type, would wind round a wine bottle seventeen and half times, or so we are told by Alan de Botton in his ‘How Proust can change your life’, a book which has surely been read by most of those who have bought it, so light and amusing it is.” [Proust … era un ipocondriaco cronico … [che ha scritto] frasi di notevole lunghezza, la più lunga delle quali, stampata in corpo standard, avrebbe fatto diciassette volte e mezzo il giro di una bottiglia di vino, o così ha scritto Alan de Botton nel suo ‘Come Proust può cambiarti la vita’, un libro che sicuramente è stato letto da quasi tutti coloro che lo hanno comperato, per com’è leggero e divertente.] (166)
“You never really knew your friends until you had lived in close proximity with them for some time.” [Non conoscerai mai veramente i tuoi amici, finché non hai vissuto insieme a loro per qualche tempo.] (169)
“If one could not say anything to the other, and he could not say nothing to you, what remained?” [Se non puoi dire nulla all’altro, e lui non può dirti nulla, cosa resta?] (174)
Elif Shafak “The Flea Palace” Penguin euro 11
[A: 02/06/2014– I: 30/06/2014 – T: 11/07/2014] - & e ½ 
[tit. or.: Bit Palas; ling. or.: turco; pagine: 444; anno 2002]
Sono rimasto molto deluso, dal libro, dall’autrice ed anche dalla traduzione (avevo, infatti, pensato che traduzione per traduzione, visto che non conosco il turco, potevo leggerlo in inglese, ma il traduttore non mi ha convinto fino in fondo). Ho comprato il volume il giorno della partenza da Istanbul per tornare in Italia, dopo un viaggio bello ed intenso. E volevo qualcosa che, come accade dopo ogni viaggio, mi facesse restare un po’ sui luoghi appena trascorsi. Quindi, niente sembrava meglio di una storia ambientata in un Palazzo di Istanbul. Inoltre, la scrittrice, pur dopo la non eccellentissima prova del “Latte Nero”, rimaneva sempre nella mia testa per “La Bastarda d’Istanbul”, sicuramente la sua prova migliore. Ora, se ci si impiegano quasi due settimane per un libro c’è qualcosa che non va. Ed in questo, non va la lentezza, non della lettura ma della scrittura. È un libro che piace per le prime 50 pagine, poi vegeta per almeno altre 370, ed infine precipita nelle ultime 20-30, dove cerca di dare significati, ma si perde. Anche se potrebbe averne, di significati. È vero che l’autrice è stata perseguitata dopo “La Bastarda” per alcuni giudizi (condivisibili ed impietosi) sull’atteggiamento turco verso lo sterminio armeno. Ma questo viene prima, ed anche qui non risparmia certo critiche trasversali (e qualche volta criptiche) al suolo patrio. Con un gioco ad incastri, la narratrice scopriamo essere una manifestante arrestata durante uno sciopero nel maggio del 2002. Per vincere la paura di pulci ed altri animaletti, scrive un racconto infestato da questi esserini. È la prima parte, che narra la nascita del “Bonbon Palas” quello che diventerà il muto protagonista della seconda, quella più frizzante, con salti temporali, la comparsa del disinfestatore Ingiustizia, della coppia di esuli russi, prima squattrinati, poi ricchissimi e padroni del palazzo, nonché la storia dei due cimiteri (armeno e mussulmano) e della loro scomparsa, ma non di quella di un fantomatico santone. Dopo tutto questo fuoco d’artificio, tutto il resto del libro si concentra sui dieci appartamenti del palazzo, narrandoci le storie dei loro abitanti, che si intrecciano tra loro e con la puzza che pian pianino sommerge il palazzo. Fino alla catarsi descritta nelle ultime pagine, che vi lascio leggere, se ne avrete la voglia ed il coraggio. Da un punto di vista testuale, l’idea non era poi malvagia, quasi a riprendere il bellissimo “La vita istruzioni per l’uso” di Perec (ma che aveva tutto un diverso stile dietro). E se come altri critici hanno detto, avesse usato i dieci appartamenti per raccontarci dieci storie, forse avrebbe avuto un diverso effetto. Invece questo saltare senza costrutto da una all’altra, agendo da scrittore onnisciente che sa dove vuole arrivare e dove vuole portare il lettore, cercando di mandare messaggi ad ogni giro di pagina, beh, mi ha lasciato freddo, e devo dire un pochino annoiato. Ripeto, l’dea degli appartamenti è quanto meno divertente, e quindi vediamo. Al numero 1, c’è una famiglia turco-islamica, dove i tre hanno nomi cari all’iconografia religiosa (Mosè, Myriam e Muhammet), con la donna che fa la pulizia a tutti gli appartamenti del palazzo, il marito che non fa nulla, ed il ragazzo di sei anni ha la crisi di crescita di chi, dopo aver vissuto in famiglia, deve affrontare il pauroso mondo della scuola. Al numero 2, c’è lo strafatto studente Sidar con il suo cagnone Gaba (acronimo dell’acido gamma-aminobutirrico, un regolatore delle inibizioni emozionali) con la sua paranoia di vivere da solo, e con l’unico punto a favore che incontrerà in uno sperduto cimitero il fratello del numero 10, ma non lo saprà mai. Al numero 3, ci sono Cemal e Celal, i gemelli parrucchieri gay, che usano la casa come bottega, e che serve alla scrittrice come momento di raccordo tra i vari piani e le varie avventure, che dal parrucchiere si chiacchiera. Al numero 4 la famiglia FigliDelFuoco, inutile presenza di cui si nota solo che tutta la famiglia ha il nome che inizia con Zeta. Al numero 5 la famiglia del nonno Hadji Hadji e dei suoi nipoti, cui il vecchio continua a narrare storie al solo scopo di mettere paura ai bambini. Al numero 6 Metin con SuaMoglieNadia, profuga ucraina la cui unica attività è vedere le soap opera in TV. Al numero 7 il finto narratore della storia, di cui ci viene narrata la storia, il divorzio, le sue lezioni all’università, il suo permanente stato alcolico, che inventa la presenza di un santo per tenere lontano i depositi di mondezza (senza sapere che poi la storia è vera) nonché la relazione con il numero 8. Al numero 8 l’Amante Blu, mantenuta da un mercante di olio d’oliva che muore di un attacco di cuore, e quando lei si rifugerà nell’amore del numero 7 scopriremo anche la storia delle sue cicatrici. Al numero 9 Igiene Tijen e la figlia Su, la prima nominata Igiene per la sua mania di pulizia, la seconda infestata di pidocchi (e poi ne capiremo meglio il senso), unica che riesce a far breccia nella solitudine del numero 10. Al numero 10 Madame Zietta, l’unica che ha conosciuto i proprietari, e che… Ma questo lo scoprirete nelle pagine finali. Inciso, ho messo i nomi degli abitanti così come vengono tradotti nell’edizione italiana, da me consultata per scrivere questa trama. Dicevo, se la scrittrice si fosse concentrata su queste storie sarebbe forse arrivato un libro decente. Così è, come detto, lento, slegato, dove con difficoltà si passava da un appartamento all’altro. Un’ultima cosa sul titolo, che in turco sta per Palazzo dei Pidocchi e non delle Pulci. E questo è un punto fondamentale per capire i messaggi della scrittrice. Perché, pur essendo simili, i due animaletti hanno una differenza fondamentale: i pidocchi sono specie specifici, cioè non passano da una specie all’altra, cioè ancora i pidocchi del cane restano sul cane ed i pidocchi dell’uomo colpiscono solo l’uomo. Le pulci invece al contrario, si attaccano dove capita. E per capire la filosofia del libro, questa differenza è basilare. Alla fine, certo, Elif Shafak scrive bene, ha delle intuizioni, si vede (e lo dimostrerà) che è capace anche di meglio. Ma, riprendendo il commento fatto sul web da Tina96 e parafrasando ancora De Gregori, non è da un solo libro che si giudica uno scrittore.
“I demand from her far less than what she is willing to give. In return, I receive far more than what I had demanded initially.” [Io le chiedo molto meno di quello che lei è disposta a dare. In cambio, ricevo molto più di quello che avevo chiesto all’inizio.] (373)
Mentre con un poco di fatica si accumulano proseliti per il possibile viaggio asiatico di inizio dicembre, colgo l’occasione di questa puntata ottobrina per fare gli auguri a… mia madre. Che oggi tocca la buona soglia dei 90 anni. Sperando che la festa che le stiamo preparando riesca come noi si speri nell’averla preparata.

domenica 12 ottobre 2014

No romanzi? Ahi, ahi, ahi - 12 ottobre 2014

Ebbene sì, una settimana “di cultura”, anche se l’unico vero libro interessante è la raccolta di scritti di don Paoli. Certo, piacevole e sempre ben scritto il saggio messicano di Cacucci. E sempre gradito un nuovo episodio di Asterix, alla svolta del passaggio di bandiere tra l’ormai anziano Uderzo ed i nuovi disegnatori. In calo, forse per mancanza di idee forti, la passeggiate tra le memorie di Guccini.
Arturo Paoli “Cent’anni di fraternità” Chiarelettere euro 12 (in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 10/01/2014– I: 21/04/2014 – T: 23/04/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 162; anno 2013]
Un altro bel saggio che merita di essere letto, dove io ritorno alla lettura delle belle parole che Padre Arturo Paoli sempre dedica a chi lo sa ascoltare. Un nome che entrò un anno e mezzo fa nelle mie letture, in occasione della festa per i 100 anni del prelato lucchese. E che ritorna ora con un libro un po’ omaggio alla persona ed un po’ alle sue idee (ed alla vita vissuta). Scopre qui altri pezzi di don Paoli, e ad ogni lettura mi piace e mi avvince. Come dice (e questa volta sono d’accordo) nella quarta Cesare Fiumi, una vita tanto piena che fatica ancora ad essere contenuta pur in una cornice così ampia di un secolo. Dopo aver conosciuto il prete impegnato in America Latina contro tutte le dittature laggiù succedutosi ed il Piccolo Fratello di Padre de Foucauld, ecco qui che appaiono il Giusto di Israele e lo strenuo difensore della “Teologia della Liberazione”, seguace (anche se in maniera meno traumatica) di monsignor Camara, nonché vicino a padre Bergoglio, ora Papa Francesco. Anche lo scritto, pur celebrativo, è diviso in due parti. Nella prima torniamo con don Arturo in America Latina e ne viviamo alcuni aspetti. Nella seconda, Paoli ci dona alcune sue riflessioni scritte nel buon ritiro della natia Lucca, come dice lui stesso in un articolo su “Ore 11”, in attesa di sorella morte, con una serenità di parole ed atteggiamenti che suscita voglia di imitazione. Ed entrambe le parti hanno elementi di interesse. La prima perché, partendo dal famoso “Patto delle Catacombe” (dove nel novembre 1965 riuniti nelle Catacombe di Domitilla in Roma, una serie di preti latino-americani elaborarono le basi della Teologia della Liberazione) da un lato mi riporta alla mia infanzia ed alla nascita (o meglio alla scoperta) di un certo tipo di impegno che mio padre porterà poi avanti per tutto il resto della sua vita. Dall’altro, nei ricordi di Paoli, si fa viva l’applicazione pratica di quelle parole. Sappiamo (da altri contesti) cosa fece e cosa subì Paoli in quegli anni, ma come non ricordare l’incontro con l’indio Domingo o come non sottoscrivere ogni parola del ricordo del martirio del vescovo Angelelli? Perché Paoli ci porta, con la sua straordinaria semplicità, a ripercorrere le sue scelte quotidiane di vita, con i poveri, ma non da esterno, da “missionario e basta”, ma entrando, con tutta la sua vita, in quella dimensione. Lavorando con gli umili, dividendo con loro anche la più piccola scodella di riso. E sono pagine e parole che non possono lasciarci indifferenti. Nella seconda parte, Paoli si fa più riflessivo. Scrive queste righe ormai centenario, per buttare alla rinfusa delle idee che gli sorgono nelle meditazioni quotidiane. Cosa significa la fede? Qual è il ruolo di Gesù? Bella anche quella frase del nazareno che visse trent’anni da artigiano e tre da profeta. Cosa rispondere alle domande dei giovani? Paoli non tace (come non l’ha mai fatto) le sue critiche. Non può non aver visto le derive cui è andata la Chiesa. Ricordo che proprio per quelle critiche nei primi anni ’50 fu cacciato da Gedda via da Roma, in quanto troppo sovversivo. Lui che era sempre stato un fautore dell’amore verso gli altri, quali che siano, tanto da essere poi riconosciuto “Giusto d’Israele” per aver salvato più di un ebreo dalle persecuzioni nazi-fasciste. Paoli ritorna poi sempre ai due elementi cardine della sua vita (e perché non anche di altre?). L’amore e l’amicizia. Amicizia verso chi ci sta accanto per tentare, come predicava padre de Foucauld, di portare l’amore in tutto il mondo. Come vorremmo avere la sua forza, quella di poter affermare di vivere lieto in un mondo triste. Paoli è lieto e sereno perché ha trovato (con tutti i dubbi che sempre ognuno ha) delle risposte dentro di sé. E per aver avuto il coraggio e la forza di vivere queste risposte. Non tutti hanno il suo coraggio, non tutti hanno risposte. Ma come dice il mio amico Roberto, anche se in altri contesti, ma la frase va bene anche qui, “Qualche seme buono nel mondo deve essere stato seminato. C'è sempre qualcosa da imparare...”
“L’amicizia ha bisogno di prossimità.” (99)
“La Chiesa Cattolica ha condannato idee e ideologie dichiarandole in contrasto con le verità della fede, ma non si è opposta all’uso ingiusto dei beni.” (107)
“L’esistenza in gran parte è una scelta.” (142)
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad “Asterix e i Pitti” Mondadori s.p. (regalo di Mamma)
[A: 07/05/2014– I: 11/05/2014 – T: 11/05/2014] - &&&
[tit. or.: Asterix chez les Pictes; ling. or.: francese; pagine: 48; anno 2013]
Forse solo i miei più vecchi amici si ricordano che una delle mie tante passioni, coltivate in gioventù e rimaste lì ad un certo punto, quasi a restare un basso continuo in una frase musicale, era rivolta ai fumetti. Tra le varie facce di questa passione, un posto preminente ha sempre avuto la saga del piccolo villaggio della Gallia che si opponeva strenuamente all’invasione romana. Iniziò nell’epoca d’oro di Asterix, portando con sé anche l’amore per questo fumetto in lingua originale, dove sono stati presenti sempre tanti giochi linguistici e semantici, spesso di difficile traduzione. Tant’è che ne ho la serie completa sia in italiano sia in francese. Ovviamente i primi album della serie avevano uno spessore ironico e uno sguardo divertito su alcune futilità del mondo attuale che si è andato a poco a poco spegnendo. Soprattutto per la morte di René Goscinny nel 1977, ma anche per la diversa verve comica di Uderzo, che in realtà è il disegnatore della serie. Sebbene le storie siano cominciate nel 1959, in Italia cominciano ad apparire solo nel 1968, avendo la fortuna, nelle prime storie, di essere tradotte da quel maestro dell’umorismo che era Marcello Marchesi. Rimarrà per sempre nella mia memoria la frase che Marchesi mette in bocca ad Asterix nell’episodio “Asterix e i Goti”, quando, vedendo i Goti picchiarsi tra loro esclama: “I Goti picchiano i Goti! Che goturia!”. E la fortuna di Asterix fu ed è proprio questa. Umorismo, citazioni, caricature (ci torneremo anche per questo album). Veniamo ora a quest’ultima fatica, dove l’essere una storia a fumetti, e scritta in francese, merita più di un commento. Intanto, ha un suo valore “storico” intrinseco in quanto è la prima storia di Asterix dove non è presente nessuno dei due ideatori (il primo perché come detto morto, il secondo, ormai anziano, ha deciso di tener il brand ma di affidarsi a dei giovani). Devo dire che per la parte “disegni” mi sembra che non ci sia nulla da rimproverare. I tratti sono ormai standard, e, per i personaggi ideati espressamente per l’album, si torna ad introdurre caricature anche riconoscibili (come nel cattivo di turno, dove si ritrovano i tratti di Vincent Cassel). La parte invece storia ed annessi è un po’ deboluccia. Intanto ricalca un cliché ormai consueto: i nostri galli incontrano per qualche motivo un non-gallo nemico dei romani, e lo aiutano in qualche attività. Con la scusa, visitano il paese nuovo, e ci danno qualche tocco di umorismo sulla visione francofono centrica del mondo. Nel risolvere per il meglio la vicenda, se vanno per mare, incontrano la solita nave dei pirati e la “medusano” (riferimento mio al quadro “La zattera della Medusa” di Géricault); in ogni caso riempiono di botte tutti i romani che incontrano; finendo poi il tutto con un banchetto dove il bardo Assurancetourix viene legato all’albero del villaggio. Mettete i Pitti al posto degli stranieri, ed avremo la nostra storia. I Pitti essendo un popolo pre-gaelico della parte scozzese di Edimburgo ed Inverness, il cui nome deriva dal fatto che usavano tatuaggi dipinti (pictus in latino). Meglio va la storia sul versante invenzioni linguistiche: il pitto che sbarca in Gallia si chiama Mac Oloch (è un tipo simpatico, un po’ spaesato, giusto che cerchi un posto a lui adeguato, dal francese “ma colocation”) del clan dei Loch Andoll (e non ci meravigliamo che il ragazzo canti spesso), il cattivo che lo vuole spodestare, quello “alla Cassel” si chiama Mac Abbeh (facile ricostruire il “maccabeo”), il cantore che durante i banchetti scozzesi canta jingle beat, dai Rolling Stones ai Beatles ai Bee Gees, si chiama Mac Keul (qui è un po’ più arduo che si fa riferimento all’argot di “ma guéle” canzone di Johnny Holiday), ed infine l’antenato del mostro di Loch Ness si chiama Afnor (qui siamo sul versante veramente da “internal french”, che il mostro, essendo ben grande, viene sempre chiamato come “l’énorme Afnor” prendendo in giro l’istituto di normalizzazione francese AFNOR e le sue regole, conosciute appunto come “les normes AFNOR”). Il terzo elemento è la traduzione del bravo Michele Foschini, che tenta di rendere un po’ dell’umorismo francese, ad esempio, lì dove era difficile lasciare capire l’ironia, traducendo Mac Oloch con Mac Keron (maccherone?), ma traducendo anche Mac Abbeh con Mac Arogna, dove forse poteva rimanere il nome originale. Peccato che qualcosa sia intrasportabile, per cui la battuta di Mac Keul su Holiday non è stata tradotta, ma “eliminata”. Così come non viene capito né tradotto il nome del mostro (e come si può ridere leggendo “l’enorme Afnor”?). Certo, gradevole è sorridere con Asterix del lancio dei tronchi, dei tartan, delle mucche Highlander. Ma i due nuovi autori devono prendere un po’ più di coraggio e di mano per poter “re-inventare” un personaggio ed una storia che ormai si avviano ai sessanta anni di esistenza. E sappiamo tutti che non è facile cambiare rimanendo se stessi a quell’età.
Francesco Guccini “Nuovo dizionario delle cose perdute” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 16/02/2014– I: 29/05/2014 – T: 31/05/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 148; anno 2014]
Dopo che gli era riuscito un discreto libretto con una sorta di viaggio nella memoria, ricordando “cose perdute”, il nostro amico cantautore (ormai abbandonata la chitarra al chiodo, visto che ha già ben superato i 70 anni e la voce non regge molto) ci riprova. E non ci riesce molto. Il tentativo non è (e non era) tanto di rimpiangere, ma di leggere i cambi del modo di vivere rispetto ai cambi delle cose che ci circondano. Qui ci sono anche più “situazioni”, più letture dirette. Come, appunto, non pensare ai fiumi o alle osterie? Certo i fiumi sono molto nelle corde della gente del centro – nord, ma le osterie ci sono anche nei ricordi personali. Come la mitica osteria di Zi’ Cannella, a due passi da piazza Navona, dove andavo con mio padre ed i suoi amici, loro a bere ed io a sentirli parlare. Ed anche altre corde solleva il nostro amico Francesco in queste sue galoppate di pensiero. Devo però dire che a volte è più il titolo, la cosa, la situazione quella che solletica il ricordo, piuttosto che lo scritto del nostro amico cantautore. Perché anche a me, ricordo, regalarono il mitico “Traforo” in un Natale di gioventù. Ed essendo nota la mia abilità manuale, non arrivò neanche alla Befana. Che dire poi del ciclismo? Era una mania, si seguiva silenti in televisione prima il Giro d’Italia poi il Tour de France. Troppo piccolo per far parte delle discussioni tra Bartali e Coppi, ero invece ancora nel vivo delle classifiche quando si trattava di osannare “la maglia nera”. L’ultimo in classifica, che però era studiato, che doveva arrivare ultimo ma in un tempo prestabilito. Sebbene abolita prima della mia nascita, rimaneva nel ricordo di noi appassionati delle due ruote. Che sostituimmo Luigi Malabrocca con Fedele Rubagotti. Altro mito, poi, l’idrolitina, che mi faceva impazzire per l’uso delle due polverine da mescolare nell’acqua per farla diventare frizzante. Compito che era il mio precipuo ad ogni pranzo domenicale. Troppo antico parlare del bagno in casa, ma troppo facile parlare del gettone telefonico, mitico compagno delle prime gite e dei contatti con la famiglia. Si partiva sempre con una piccola scorta, che, oltre a servire per avvertire i genitori dei propri spostamenti, era l’ultima risorsa in caso di fine dei soldi. Potevi sempre pagare con un gettone la consumazione al bar. E collegato al gettone, non solo la cabina telefonica (che ancora qualche cabina tecnologica si può vedere), ma l’uso del prefisso quando si chiamava da fuori distretto. Così che si facevano i salti mortali per andare al mare a Santa Marinella, cercando di non far sentire il rumore particolare che faceva la chiamata extra-urbana per avvertire casa che si sarebbe fatto tardi. Capitolo a parte, e ben corposo (tanto che Guccini ne dedica tre), è quello degli spostamenti e delle automobili. Il primo pensiero va ai deflettori, quegli aggeggi che spezzavano i finestrini davanti, consentendo circolazione d’aria anche a vetro chiuso. Ormai aboliti e sorpassati da tutta una serie di apparati di ricircolo d’aria, che, tuttavia (questo è il progresso) inquinano che è una bellezza. Il secondo pensiero è per l’autoradio. Che era estraibile, che si portava appresso, insieme alle chiavi ed alle sigarette. Che si scordava spesso nei bar o a casa di amici. Ora è integrata nel cruscotto, anzi è integrata con i telefoni viva voce, con i tom tom, e, da poco, anche con gli accessi ai social network tipo facebook. Ma il più bel ricordo delle cose passate, e questa sì, perduta, è l’autostop. Che si faceva su tutte le strade, che venivi preso e parlavi con altra gente, senza timori, senza tutte le paure che il mondo odierno ci mette addosso. Non si facevano solo delle piccole gite (tipo da Tortoreto a Giulianova per trovare qualche amica nei tempi estivi). Ma si facevano veri e propri viaggi, come il mitico Roma – Siviglia mio e del mio amico Andrea nell’estate dei primi anni Settanta. E ci arrivammo, a Siviglia. Un giorno si avrà tempo per ricordarlo in dettaglio. Ora torniamo all’operazione Guccini. Come detto, appunto, non operazione nostalgia. Ma ricordo, e sociologia del vivere quotidiano. Tuttavia, la prima puntata portava anche, nei ricordi di Francesco, spunti precisi, comici spesso, ma anche dolenti. Qui, una volta individuato e nominato l’oggetto, la scrittura è poco incisiva, lascia il tempo della lettura e poi si perde. Basterebbe leggere l’indice, magari con qualche precisazione laddove l’oggetto misterioso è veramente di difficile reperimento. Come le uova sotto la calce, di cui non sapevo l’esistenza italica, ma avevo presente avendone mangiato in … Cina. Alla fine, ripeto, un bell’indice per un libro che speravo migliore.
Pino Cacucci “Mahahual” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra, cui facciamo anche gli auguri)
[A: 24/06/2014– I: 29/06/2014 – T: 30/06/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 125; anno 2014]
Doverosa premessa: alcuni attenti lettori si domandano come mai alcuni libri entrano ed escono fulmineamente dalla mia libreria, ed altri hanno un andamento che qualcuno, con termine giapponese, ha definito “tsundoku”. Prima risposta: libri che ricevo in regalo o che son frutto di viaggi hanno una corsia preferenziale, così posso non dimenticarmi del viaggio e rispondere al regalante in tempi che lui ricordi a chi e perché fece il regalo. Per il secondo termine (su cui credo ritornerò) ringrazio l’interessante blog di Vitiello che mi ha dato questa definizione di “Tsundoku”: “comprare libri e non leggerli, lasciando che si accumulino in pile sul pavimento o sul comodino”.  Veniamo allora a questo libro che non si è accumulato da nessuna parte, avendolo ricevuto come gentile regalo onomastico. E piacevole, che Cacucci (benché non lo abbia mai detto espressamente) è anche uno dei miei autori preferiti quando ho voglia di tornare in Messico. Ha scritto diverse cose, diversi libri sono presenti nella mia libreria, ma per me rimane sempre associato al paese americano, a Frida Khalo ed alla polvere che si è sollevata durante tutti i viaggi che il nostro ligure – bolognese vi ha fatto. E mi fa piacere tornare, attraverso le sue parole, in una terra che ritengo sempre interessante. Cacucci, al solito, è bravo nel porgere con leggerezza le sue parole, inanellando ricordi sui nuovi passi, muovendosi nel tempo e nello spazio. Tornando, in quella penisola di Quintana Roo, che ricordo fin dal mio primo viaggio messicano (solo venti anni fa, e non trenta come Pino). E poi, tornandovi più vicino dieci anni fa, quando da Tulum passammo nel Belize, di cui ci ricorda la nascita e l’etimologia, tra inglesi occupanti e nativi soccombenti. Lui si colloca un po’ più a Nord, nella cittadina che dà il titolo al libro. Città assolutamente sperduta di fronte al Caribe. Se cercate sulle mappe, non c’è nulla intorno. Ma esce bene dalla descrizione, e dalle immutate situazioni che ancora ci si riesce a trovare. Non come nel D.F. ormai troppo brulicante di gente (saranno almeno 20 milioni). Invece, lì, nei posti sperduti riesce (e si riesce) a trovare lo spirito di un tempo. L’allegria di un capodanno a Oaxaca (mio) o quello di un festival del cinema (suo). La bellezza dei siti maya yucateñi (per entrambi), dove io non scorderò la statua dell’astronomo sperduta nella giungla. Cacucci prende poi un luogo, salta nel tempo, ricorda i corsari (non i pirati). E le strane figure di corsari – donna, spesso nascoste in panni maschili (rimando al primo libro della Asensi per questo). Seguiamolo con piacere nella narrazione delle gesta di Mary Read o di Anne Bonney. Ma ancora di più in quelle di Felipe Carillo Puerto, vittima dei contro-rivoluzionari nel 1922, e di sua sorella Elvia. Quante figure ci sono state nella storia dell’uomo che hanno portato un piccolo contributo a far crescere i sentimenti etici del mondo. E quante non ne conosciamo e non ne conosceremo mai. Di filo in filo nella memoria, non possiamo non essere solidali con Pino sia nel rimarcare la differenza tra corsari e pirati, per finire ai pirati attuali ed alle lotte al largo delle coste somale. Come non mandare un riverente saluto a chi si immola in cerca della verità, come Ilaria Alpi. E chi lotta e continua a lottare contro l’avanzamento della plastica che ricopre spiagge (ovunque) ma che sta soffocando il mare (e vi chiedo anche io con Pino di meditare sul libro di Charles Moore ‘L’oceano di plastica’; un immenso grido di dolore!). Commosso, seguo le immersioni di Chano che nuota con gli squali (e ripenso a quel bellissimo ed indimenticabile bagno mozambicano con lo squalo balena). Meno mi è piaciuto il raccontino finale, anche se con intenti di “traguardare” vicende antiche per riproporre sentimenti attuali. Vediamo senz’altro nel corsaro “El Genoves” un adombrare le origini di Pino della sua Liguria. E senz’altro ancora, l’amore che lui e tutti noi abbiamo per i Maya ed i loro discendenti. È stato un libro che ho divorato (anche stante l’esiguità delle pagine), ma solo perché volevo fare ed ho fatto un tuffo nel Messico che rimane nel cuore di chi c’è stato. Un tuffo in un ‘cenote’, e se non lo hai visto di persona non ne capisce la bellezza. Un lungo viaggio in pullman per scendere dal Chiapas verso Palenque. Non tutto c’è nelle parole del nostro amico scrittore. C’è e ci sarà sempre nel nostro ricordo da viaggiatore.
Come ormai da tutto questo 2014, nella seconda trama del mese vi prendete anche l’allegato dedicato alle cure con, per e attraverso i libri. Che questa volta mi trova un po’ in disaccordo con le autrici, anche se parliamo di libri interessanti e sicuramente da leggere. Inoltre, come i miei amici viaggiatori già sanno, si è aperto anche uno spiraglio di viaggio, anche se lontano per ora ed ancora ben lungi dall’essere certe. Intanto io leggo e mi documento, che bisogna sempre essere pronti. Come voi che siete pronti a ricevere il mio settimanale saluto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2014
Sono molto combattuto, che nel progredire della lettura alfabetica del libro sulla libropeutica, ci si imbatte in una malattia talmente seria che lascia sempre un difficile modo di rapportarsi. Le scrittrici l’affrontano con il sorriso sulle labbra, cosa che non so se riesco a fare io.

CANCRO

Quando fate la chemio, quando vi sentite deboli, quan­do il vostro cervello si rifiuta di lavorare, quando non avete la forza per stare in compagnia... avete bisogno di un bel romanzo breve.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI BREVI

 John Berger               Festa di nozze
 Roberto Bolaño           Stella distante
 Friedrich Dürrenmatt   La promessa
 Nadine Gordimer        Il mondo tardoborghese
 Helene Hanff              84, Charing Cross Road
 Michela Murgia           Accabadora
 Leonardo Sciascia       A ciascuno il suo
 John Steinbeck           Uomini e topi
 Fred Uhlman              L’amico ritrovato
 Stefan Zweig             Novella degli scacchi

Bugiardino

Anche qui, per entrare nello specifico dei libri, non della cura, si è letto molto di romanzi brevi e affini. Cinque sono di anni recenti, e sotto ne parlo. Solo tre non sono (ancora) nella mia orbita, ma prima o poi… Poi ce ne sono due che ho letto molto ma molto tempo fa. Il bellissimo giallo non giallo di Dürrenmatt, con quel poliziotto che inseguirà per sempre un assassino, perché fece la promessa di trovarlo. Ed l’altro enorme piccolo romanzo di Uhlman, tra ardori adolescenziali, furori nazisti e sentimenti omosessuali in controluce. Ma veniamo invece ai libri che si è tramato negli anni. Per non far torti a nessuno, li listo in ordine temporale di recensione, ricordando che sono comunque libri di livello: da buono a ottimo.
Roberto Bolaño “Stella distante” Sellerio 8  (in realtà scontato 4 euro)
[trama del 4 aprile 2010]
Altalenante, comunque sempre affascinante. Ho seguito a balzi e salti l’irregolare carriera di Bolaño, che, come dice da qualche parte, ha in fondo scritto un unico libro, fatto di tanti capitoli che sono stati pubblicati come fossero libri. Qui lo riprendo, dopo molto tempo, dopo i tempi lontani e di tanto de “La pista di ghiaccio”, che non mi aveva convinto, ed i tempi medi di ‘Romanzetto canaglia’, migliore senz’altro. Ora torniamo nel pieno della crisi cilena, in una descrizione (inventata ma forse per questo più reale) degli anni prima, durante e dopo il golpe. Visti da un’ottica alla Scola del film sulla Rivoluzione Francese. La gente normale, alle prese con i grandi moti della storia. Un gruppo di studenti, imbevuti nel sacro furore della poesia (e d’altra parte i due premi Nobel cileni poeti sono, e sicuramente li conoscete) che arrivano sull’orlo del baratro e sono buttati giù nel fiordo da questo strano poeta, che in realtà è un pilota dell’aviazione militare, che in realtà è (forse) una spia, che in realtà è (sicuramente) un sadico-estetico che sembra da subito aver perso il lume ed il filo della ragione. Tutto si incastra in un gioco di scatole cinesi, dove ogni momenti è un pretesto per narrare anche un’altra storia, o una visione diversa della stessa, un altro angolo, e così va. In fondo, è l’anima borgesiana che riaffiora sull’altra sponda del continente sudamericano. Con tutte queste frecce, molti sono i bersagli colpiti. A me rimane la sensazione di orrore e paura, delle descrizioni delle retate e delle morti senza senso, qui crude e dure, e non romanzate o sublimate (non c’è la Isabel Allende, ma neanche Jack Lemmon di Missing). Poi rimane l’immagine di questo poeta aviatore, che con la scia del suo Messerschmit scrive poesie nel cielo cileno. L’immagine è potente, non so se possibile. Tuttavia alla fine Bolaño non è che lasci la bocca dolce e la voglia di andare oltre. In un certo senso si fatica ad andare dietro alle rutilanti invenzioni, perché ad un certo punto ci si aspetta che venga un redde rationem che spieghi, che interpreti, che sveli. Al solito (un po’ come nel primo libro) molto rimane non detto, quando indicibile. Solo rimane il rimpianto che anche lui sia ormai impossibilitato a scrivere (a meno di usare qualche medium). Triste la gente del ’53 che se ne sta andando a rotta di collo…
“era come un sogno, o più esattamente, come la chiave che ci avrebbe aperto la porta dei sogni, gli unici per cui valesse la pena di vivere” (17)
Leonardo Sciascia “A ciascuno il suo” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 2 ottobre 2011]
Classico, datato, ma di buona efficacia. Qualche freccia si è spuntata, ma molte vanno ancora a segno. E soprattutto ritorna alla mente la bellissima interpretazione di GianMaria Volontè nel film di Petri, ispirato anche se non “copiato” dal libro (in effetti, ci sono delle variazioni anche significative, ma qui parliamo dello scritto). Il racconto, inoltre, non risente dei suoi più di quaranta anni. Come non vedere trame e tramette, innalzamenti e ludibri che ancora oggi devastano la nostra altrimenti bella penisola? Sciascia sfruttando, anche se molto superficialmente qui prima di prove più approfondite, la commistione tra poliziesco e denuncia, crea una situazione che, pagina dopo pagina, si infittisce fino alle estreme risoluzioni. Sempre in quella denuncia civile che è stato il motivo conduttore dei suoi scritti e della sua vita. Si inizia con una lettera minatoria indirizzata al farmacista del paese e scritta con ritagli dell’Osservatore Romano. Poco dopo, il farmacista ed il suo compagno di caccia, il dottore, vengono uccisi in una battuta di caccia. A questo punto entra in scena il vero protagonista della storia, il professor Laurana, insegnante a Palermo di lettere classiche. Mentre gli inquirenti brancolano nel buio Laurana si diletta, come ogni abitante del paese, nel tentativo di risolvere il caso del duplice omicidio. Tutti sono convinti che il dottore sia morto perché era insieme al farmacista, ma Laurana scopre che l'assassino ha a che fare con la chiesa (partendo dal giornale e dal rovescio della lettera che reca il motto del giornale “Unicuique Suum”, appunto, a ciascuno il suo). La sua indagine gli fa scoprire l'esistenza di un clan mafioso che ruota intorno all'arciprete della cittadina, zio della moglie del dottore: il delitto era in realtà stato preparato appositamente per questo, con la falsa copertura della lettera minatoria all'amico. Si scopre così che il mandante è il notaio, cugino della moglie del dottore, che deve eliminare il dottore avendo questi scoperto le sue tresche mafiose. Inoltre, il notaio è anche da anni l’amante della moglie del dottore. Scoperto che Laurana ha capito tutto, il notaio lo fa sparire, grazie all'aiuto della donna amata. Infine i due si sposano con grande fasto. La sorpresa finale, tuttavia, è un'altra: Sciascia mostra come tutti, nel paese, hanno intuito quale verità si celi dietro il duplice omicidio, ma questa verità sarebbe rimasta coperta dietro le apparenze, protetta dall'omertà collettiva. Alla fine si scopre, non senza sorpresa, che Laurana non è quell’abile ma dilettante detective che abbiamo creduto per tutto il libro, ma solo un “cretino” che si pone fuori dalle regole omertose della vita cittadina. Il racconto è breve, non è folgorante, mi scuso anche se ne rivelo molto, ma, credo, la storia sia abbastanza ben nota. Quello che risalta è l’amarezza con cui Sciascia ci porta passo dopo passo alle ovvie conclusioni. Detto il bene dell’autore (che rimane sempre tra i miei preferiti, tra Roussel e Majorana, per chi mi capisce), la solita tirata d’orecchie ai curatori che, in quarta di copertina riportano le ultime due battute del libro. Ma che bisogno c’era? Non si può lasciare il lettore che scopre il libro per la prima volta a seguire le vicende stesse come si svolgono? Se Sciascia avesse voluto farle sapere al pubblico, avrebbe cominciato e non finito con quelle. Rimango sempre stupito!
Michela Murgia “Accabadora” Einaudi s.p. (regalo natalino di Nicoletta)
[trama del 25 aprile 2012]
Ho fatto bene ad insistere sulla Murgia. Dopo aver letto il racconto inedito del Corriere, che mi era discretamente piaciuto, ho chiesto la conversione del regalo di Nico nel libro della sarda. Ed ha confermato le prime sensazioni. A parte che la quarantenne di Cabras ha anche scritto quel delizioso libretto (“Il mondo deve sapere”) che non ho letto ma di cui ho visto il film che ne fu tratto da Virzì (“Tutta la vita davanti”, altrettanto delizioso ed ahi quanto amaro), e già questo me la mette in buona prospettiva. Qui, come nel racconto, torna alle sue radici, alla sua terra. E nonostante le paure che confessa alla fine sull’uso dei termini dialettali che a volte non sono immediatamente chiari (ma d’altra parte chi è aduso a Camilleri ha fatto il callo), avendola vinta (la paura), il risultato è di buon livello (e senz’altro superiore alle ultime deludenti coeve letture). La storia di Maria (ma quante ce ne sono nei libri che leggo) che la madre “vende” ala zia Bonaria (zia in senso di rispetto, che non sono parenti) e che quest’ultima alleva e cura come e più di una figlia, ci prende fin dalle prime pagine, e ad un certo punto non mi ha più mollato, tanto che sono andato avanti a leggere per molta parte della notte. Perché l’interesse sulla sorte e la storia di Maria cresce man mano che si intrecciano le storie della cittadina di Sereni. Della scoperta, ma fin ad un certo punto mai palese, dello strano mestiere della zia, l’accabadora, quella che accompagna la fine (e capirete leggendolo che bell’ossimoro con zia Bonaria). Delle meschinità della famiglia d’origine di Maria, delle sorelle grandi che la mortificano, della madre che la prende anche in giro perché studia (per poi rivendersi come sue le spiegazioni che le da Maria). Dell’iniziale ingenuità di Andrìa, che però alla fine capisce e cresce. Dell’intemperanza pericolosa e distruttiva di Nicola, che lo porterà a quella fine che segna una chiave di volta della vicenda. Che darà un senso al prima, che spiegherà il poi, e che servirà a Maria, alla fine, a riconciliarsi ed a capire fino in fondo l’umanità dolente di zia Bonaria. Certamente una svolta all’inizio drammatica, ma che alla fine farà crescere tutti (ed in fondo la crescita è sempre un dramma). Della dolcezza e dei timori del sedicenne torinese Piergiorgio, che consentirà a Maria di vedere dentro sé stessa e dentro il suo rapporto con la zia. Due cose, sulle altre, mi hanno più preso nel romanzo. La capacità di Michela Murgia di raccontare storie inanellate nella storia (come avevo intuito nel racconto del Corriere). Che sono tutti piccoli racconti, quelli che si intrecciano. I racconti contadini della vendemmia e delle faide. I racconti delle veglie per i morti. I racconti degli emigranti sardi, quelli che vanno per guerre e quelli che vanno per lavoro. L’altra è la mancanza di giudizi che l’autrice riesce a comunicare con il suo modo di raccontare e di farci partecipi. Sarebbe stato facile, ma deleterio per la bellezza del narrato, metterci dentro giudizi su tutto. Sulla signora Listru che vende la figlia. Sull’accabadora Bonaria. Perfino su Piergiorgio. Invece tutto scorre, gli avvenimenti, i “fatti” oserei dire, ci vengono davanti, li guardiamo. E cerchiamo di capirli. Come cerchiamo di capire perché hanno spostato il muro in pietra per aver più terra. E perché la famiglia di Andrìa non si ribella. Perché Bonaria si ribella alla richiesta di uno e non alla richiesta di un altro. A proposito, racconto nel romanzo, anche la storia di Raffaele e Bonaria è ben situata. Ma dicevamo dei giudizi. Sarebbe stato facile. Ma apprezzo invece lo sforzo di Michela di farci vedere le cose, di capire i motivi, anche se non si riescono a spiegare. Uno sforzo di empatia che sarebbe utile fare in molti per capire cose su cui, a volte, si preferisce emettere giudizi. Che in un certo senso è più facile, e certamente molto più distante. Capire non è mai facile.
Stefan Zweig “Novella degli scacchi” Einaudi euro 8,50
[trama del 29 giugno 2014]
Come riempire un mondo in meno di 80 pagine! Continuo nel tempo la riscoperta di Zweig. Con questo che viene considerato uno dei migliori romanzi brevi. Che io trovo bello, ma ho letto cose di Zweig che mi hanno fatto lievitare di più. Certo, l’indubbia capacità dello scrittore austriaco riesce a costruire un meccanismo ad orologeria impeccabile. C’è una storia, una storia dentro una storia, una seconda che sembra convergere con la prima, ma che, autonomamente, darà il tocco ed il senso a tutto l’insieme. Viaggio per nave da New York a Buenos Aires, il narratore (di cui non sappiamo i motivi del viaggio) in partenza viene attratto da una strana figura che si aggira per la nave. Scopre che è il campione del mondo di scacchi. Vuole avvicinarlo incuriosito dalla sua storia personale. E trova il modo di scardinare le resistenze di Mirko, coinvolgendo un magnate americano che imbandisce un incontro di scacchi a pagamento. I nostri non possono che perdere, se non che, ad un certo punto, uno strano signore, che poi sapremmo austriaco, molto dimesso, dà loro una mano per portare la partita ad una patta. Mirko allora sfida l’austriaco. Il quale prima dell’incontro racconta al narratore la sua storia. Poi l’incontro, le difficoltà del campione, l’esaltazione del dilettante, la vittoria di questi. Dovrebbero fermarsi, ma Mirko chiede la rivincita, l’austriaco si concede, e comincia una seconda partita del tutto diversa, dove il campione ora pensa, ed il dilettante sembra entrare in trance agonistica, o in altri modi esaltati. Fino a che il nostro sbaglia mosse, ed è il narratore che lo riporta alla realtà, e lontano, per sempre, dalla scacchiera. Ma se questa è la storia, privata dei due contesti, sono le due storie che danno il senso alla vicenda. Prima veniamo a conoscenza di Mirko. Contadino boemo, praticamente analfabeta, impara gli scacchi dal curato del paese, e come lo stolto sapiente comincia a giocare sempre meglio. Ed a vincere sempre. Rimane però inculturato, non riesce a vedere gli scacchi se non con la scacchiera davanti. Ha bisogno del contatto con gli oggetti per poterli usare. E poiché, pur valente, sempre dalla povertà viene, fa sì la scala del potere scacchistico, ma poi gioca ovunque qualcuno gli offra dei soldi per farlo. Diventa, consapevolmente, un professionista del gioco. Magistrale, ma in un certo qual modo, meccanico esecutore di una strategia di gioco. Dall’altro lato, invece, più complessa è la storia dell’austriaco. Ricordo che la narrazione si svolge nei primi anni ’40. L’austriaco è un avvocato di uno studio legale che da sempre cura gli interessi della casa reale e del clero. In maniera discreta ed occulta. Sempre più nascosta poi, da quando Hitler prende il potere in Germania, ed apertamente fuorilegge dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938. Lo studio legale del nostro viene incarcerato, ma non in un lager, bensì nel famigerato Hotel Metropol, che si doveva loro estorcere i segreti dei beni da loro governati. Il nostro viene relegato in una stanza di nullo arredo, dove aspetta che, di tanto in tanto, lo si interroghi (si rivive quasi una riedizione del processo di Kafka). Prima di impazzire, il nostro trova un manuale con 150 partite di scacchi, descritte in notazione algebrica (è un modo di individuare i pezzi e la loro posizione sulla scacchiera). Comincia a studiare di nascosto, impara a memoria le partite, se le rigioca in testa, non avendo scacchi né scacchiere. Questo lo corazza contro le angherie degli interrogatori. Poi esaurisce tutto il libro, e comincia ad inventarsi partite. Qui scatta il meccanismo che lo porterà quasi alla follia. Non potendo giocare con altri, scinde quasi il suo essere in un Io bianco ed un Io nero che, schizofrenicamente, fanno le parti dei due avversari. Una parte di sé lotta contro l’altra. Questo non potrà che portarlo ad andare fuori di testa. Ricoverato all’ospedale, il medico lo riconosce, e lo aiuta ad ottenere il permesso d’espatrio. Ora trovandosi lì sulla nave, nella partita di Mirko contro il magnate riconosce una delle 150 partite del libro (un classico per gli scacchisti, la partita Alekhine – Bogoljubov del 1922 con la presenza successiva di tre regine da parte di Alekhine). Ma quando comincia la sua partita con Mirko, riprende latente la febbre che lo aveva portato fuori di testa. E se nella prima partita si controlla e vince, nella seconda Mirko, accorgendosi della progressiva perdita di lucidità dell’austriaco, rallenta coscientemente il gioco. Il nostro avvocato allora, parte per la sua tangente, giocando altre partite nella sua testa, ed appunto non può che sbagliare perché, tornato alla realtà non riconosce la scacchiera reale. Perché è diversa da quella che aveva in testa. E non può che sbagliare. Fermarsi. E consentire al narratore di portarlo fuori scena. Come direbbe Neruda, è tutta una metafora. La partita a scacchi, che sempre è una metafora del combattimento. L’intelligenza che si deve avere per poter padroneggiare lo sviluppo dell’azione dei pezzi. Poi c’è lo stolto sapiente, che sa d’istinto dove muovere, ma deve vederlo. È concreto, rozzo ed essenziale. Ha un’intelligenza forte, ma settoriale. E Zweig non concepisce (e noi con lui) un’intelligenza che non sia ad ampio spettro. Dall’altra parte l’intellettuale, che, per l’appunto, colto e pieno di tante nozioni, parte verso una sua immagine della storia (della vita, della scacchiera), e non si accorge di cosa succede nella realtà. Anche perché apprende gli scacchi (la vita) da solo, senza relazionarsi con l’esterno. E Zweig che era stato un intellettuale a tutto tondo, grande letterato e grande viaggiatore, non può che sentire i limiti di questo isolamento intellettuale. Il pessimismo di Zweig non potrà quindi che portare l’intellettuale a ritirarsi, a farsi da parte, non avendo mezzi per contrastare la rozza bravura di Mirko. Due mesi dopo la stesura del romanzo, Zweig, austriaco in esilio volontario in Argentina, non trovando sbocco alla sempre crescente avanzata delle forze del male (siamo nel 1942, nel pieno dell’ondata montante del nazismo durante la guerra), si toglie la vita.
“Non è forse facilissimo considerarsi un grand’uomo se non si nutre nemmeno il sospetto che siano esistiti i Rembrandt, i Beethoven, i Dante, i Napoleone?” (12)
Helene Hanff “84, Charing Cross Road” Archinto euro 10
[trama del 4 agosto 2014]
Un libro che non c’è bisogno di leggerlo per conoscerlo, ma che bisogna leggerlo per capire perché non si può non amarlo. Perché è un inno ai libri stessi, all’amore per la carta stampata, per la lettura, per la ricerca di connessioni tra testi. Ma anche un libro pieno di affetto, di amicizia, di rispetto. Ed una piccola fotografia in evoluzione di come sia cambiato il mondo stesso, dalla prima lettera con cui comincia, nel 1949, fino all’ultima, triste ed umana, nel 1970. E chi non conosce il libro, avrà comunque sentito parlare del film che ne fu tratto, con una magica interpretazione di Anne Bancroft ed una sempre eccellente di Anthony Hopkins. Entrambi, libro e film, oggetti di culto tra gli appassionati. È un libro epistolare, che riporta le più significative lettere scambiate dall’autrice Helene Hanff, per la maggior parte con Frank Doel, librario antiquario della libreria Marks & Co, sita, appunto, all’indirizzo del titolo. Helene, amante della letteratura, nonché squattrinata, dopo la seconda guerra mondiale, trova un’inserzione di libri antiquari acquistabili, lei abitante a New York, di là dell’oceano, in quel di Londra. Scrive, e comincia lo scambio tra lei e Frank. Dalle lettere emerge l’amore, di entrambi, per la carta stampata. La ricerca di testi rari, di connessioni, di edizioni integrali (che bei commenti sulla Vulgata della Bibbia o su alcune poesie di John Donne). Emerge in filigrana la vita dell’americana Hanff, che trova anche un suo spazio nel mondo dei libri. Prima come lettrice di testi, poi come sceneggiatrice di serial storici, infine anche autrice di libri per l’infanzia. Ed anche quella del compassato Doel, con la sua famiglia, e la passione per la ricerca della soddisfazione del cliente (tipico esempio del modo d’approccio di commessi anglo-sassoni, che sempre mi ha riempito di ammirazione). Ma tra un testo e l’altro, una citazione e l’altra, le lettere si riempiono anche di altro. L’inglese le manda la ricetta originale dello Yorkshire Pudding o la descrizione dell’incoronazione della regina Elisabetta. Helene ribatte con le partite di baseball dei Brooklyn Dodgers, l’invio di uova in polvere e di calze di nailon (articoli introvabili nell’Inghilterra del primo dopo-guerra). Gli inglesi troveranno in Helene una zia lontana cui inviare pensieri e foto  ricordo. Helene comincerà a mettere da parte dollari su dollari per cercare di visitare l’Inghilterra di Geoffrey Chaucer e di Frank Doel. Miss Hanff sbarcherà effettivamente in Inghilterra, dopo aver trascorso anni a guardare apposta film inglesi per scoprire come sono fatte le strade di Londra… Ma il tanto desiderato viaggio si realizzerà purtroppo troppo tardi. Nel 1969 Frank muore prematuramente a seguito di una peritonite e dopo poco tempo Marks & Co deve chiudere definitivamente i battenti. Eppure, quando finalmente riuscirà a entrare nella polverosa libreria che aveva dato forma e risposta a molti dei suoi desideri, Helene si rivolgerà all’amico tanto caro e mai conosciuto di persona, commentando, a metà strada tra il rimpianto e la riconoscenza: “Che ne dice, Frankie, finalmente ce l’ho fatta!”. Il libro, sottilmente, mai esplicitamente, ma con forza, ci ricorda sempre che dobbiamo lottare per ottenere quello che desideriamo, senza mai tirarci indietro. Annullando il tempo e la morte, attraverso l’unico modo sempre valido da millenni: attraverso la letteratura. Certo, io ora mi domando come si sarebbe trasformato il libro e tutto il contorno ai tempi di Internet, tra acquisti online divisi tra Amazon ed e-Bay, amicizie su Facebook, chat su Skype, pubblicazioni in e-book ed altro. Ma questo potrebbe essere l’inizio di un nuovo libro e di una nuova trama. In chiusura, devo però dire che, date le premesse, mi aspettavo uno scatto maggiore, un piacere maggiore della lettura. Forse perché pieno di citazioni ed incroci, avrebbe avuto bisogno anche di un più corposo impianto di note e spiegazioni. Per cui alla fine arriva “solo” a quattro libricini su sei. Certo, comunque un buon voto. Ed un libro (ed un film) da conservare nella memoria di chi ama la carta stampata.
“Sono una scrittrice senza soldi che ama i libri.” (1)

Conclusioni

Ripeto, trovo il cancro e la chemioterapia un argomento troppo serio e troppo vicino per parlarne con la leggerezza che si fa all’inizio. Quindi faccio ammenda e non parlo della cura e della malattia. Parlo di questi libri. Ed allora non posso che concordare. Sono dieci ottimi romanzi brevi, da leggere, se non lo avete ancora fatto. Da rileggere, se ve li siete scordati.