domenica 31 agosto 2014

Noir Italia, terza parte - 31 agosto 2014

Finisce anche questo agosto tranquillamente rilassante. E per continuare a distendere nervi e cervelli, prima di una brusca ripresa autunnale, eccomi qui a parlarvi ancora di Noir, e della collana, interessante anche se non tutta alla stessa altezza, dedicatavi dal Sole. Poiché come ricorderete sono 40 i volumi usciti, ne tratto cinque alla volta. In questo caso ne abbiamo ben 4 sopra media, soprattutto l’Abruzzo di Mazzotta e la Liguria di Cristina Rava. Ma anche la Milano di Paleari e la Palermo di Barbieri. Unico neo, la sfortunata e deludente prova di Gianluca Veltri, che lasciamo presto all’oblio che si merita.
Alberto Paleari “Il colore della vergogna” Sole 24 ore – Noir Italia 26 euro 6,90
[A: 04/01/2014– I: 25/03/2014 – T: 27/03/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 189; anno 2010]
Un libro discreto, almeno per ¾ e forse poteva essere migliore se non avesse dovuto accondiscendere ai dettami del tempo. Non di scrittura ma di svolgimento. Non conoscevo l’autore, uscito dalla fucina di nuove proposte del Sole 24 ore. Un quarantenne milanese che mi sembra dotato di una buona penna. Qui, a parte il titolo su cui torniamo poi, imbastisce comunque una storia che come dicevo si inserisce bene in un contesto interessante. Ovviamente stiamo parlando di giallo, quindi si comincia con un morto, anzi una morta. E con un commissario che inizia l’indagine, pur essendo a soli quattro giorni dall’andare in pensione. Siamo a Milano, e qualche tocco, della parte cittadina della serie, rimane anche ben tratteggiato. Di nuovo, come spesso nei gialli, Giambellino e Lorenteggio. Ma anche corso Vercelli, e qualche puntata sia verso San Babila che verso i Navigli. L’idea dell’autore è di inserire questo scenario in un momento particolare: siamo all’8 dicembre del 1969. Fatto salvo che l’autore si dimentica del Natale ambrosiano, tutti subito drizzano le orecchie. Ma è quel dicembre? Ma è quello l’anno? Ebbene sì, ed ovviamente la trama non può che svolgersi su binari prima paralleli, poi convergenti, poi in sicura collisione, con quanto sta per succedere. Che noi conosciamo, e quindi sappiamo anche dare un peso alle parole che scorrono sulla carta. La morta sembra una ragazza tranquilla e a modo, universitaria e cattolica. Spesso in giro con la sua amica Rebecca. La quale interrogata, prende invece le distanze. No, Silvia andava a ragazzi, aveva un suo giro. Soprattutto con Giulio ed il suo sodale Pilone. Giulio, extra-parlamentare vicino ad Avanguardia Proletaria, ma che usa il movimento per cuccare. Giulio che viene subito cercato dal commissario Oliveri che, ovviamente, lo trova morto. E due. Pilone, interrogato, comincia a sproloquiare di scioperi ed altro. Pilone è un anarchico che frequenta il Ponte della Ghisolfa (ed anche qui, campanellini…). Il commissario non è convinto della famiglia di Rebecca, soprattutto il padre, chirurgo di successo e faccendiere. Indagini a tappeto. E scoperte varie, ed ovvie. Il chirurgo Ascani è amico del politico Lorusso, democristiano di centro con tendenze destrorse. Ed entrambi frequentano l’ex-colonnello Del Miglio, uomo che auspica il ritorno dei poteri forti. Ovviamente il tempo stringe. Ed ovviamente la combriccola dei potenti ha buon gioco nel mettere in cattiva luce il nostro. Che sebbene emarginato, trova il tempo di tirare fuori qualche asso dal cappello: la giornalista Ester, romana, che gli fornisce i collegamenti occulti del malaffare dei cattivoni, ma che non gli dà uno straccio di prova del loro coinvolgimento nelle morti, e l’ex-ladro Molteni, che invece riesce ad indirizzarlo verso la prostituta Chantal. Mentre Rebecca, oppressa da chi sa quali sensi di colpa, decide di buttarsi sotto la Metro, Oliveri fa cantare Chantal, scoprendo il giro di prostituzione e malaffare che accompagna i tre cattivoni ed i loro sodali. C’è anche un fascistello tuttofare, che scopriamo ben presto essere l’autore materiale dei delitti (e che si incaricherà di eliminare anche la povera Chantal). Oliveri tenta un faccia a faccia con Del Miglio, sperando di farlo crollare. Ma fatica vana è, e noi già lo pensavamo. Ed il commissario non ha neanche uno spillo concreto, un riscontro qualsiasi per attaccare i tre. Sono intanto passati i quattro giorni, e sono le 16 e 37 del 12 dicembre. Devo dire altro? Lo immaginate anche voi, nevvero. Il commissario non può che chiudere tutto, passando la mano. Qualcuno ci penserà. O meglio nessuno, che altro si avrà da pensare da quel venerdì e per molto tempo. Soprattutto nella questura milanese, dove stanno per transitare i Pinelli ed i Valpreda. Il nostro torna a casa, alle sue miserie private, sulle quali non entro, che sono di contorno, anche se danno colore al personaggio. Colore che invece non trovo nella vergogna. È un rosso sangue? È un nero notturno? Cosa ci vuole dire l’autore con quel titolo. Questa seconda parte, quando cominciano gli intrallazzi con la politica, si impantana e finisce in sordina, anche se Paleari cerca di inserire qualche pagina “dura”. Alla fine, e noi lo sapevamo, nessuno paga. Facile morale, che già si pensava dalla seconda pagina, quando compaiono le date della vicenda. Peccato, ripeto, che l’idea del parallelo storia alta e bassa è sempre foriera di interessanti uscite. Quando i livelli rimangono distinti. Qui, il mischiare tutto vuole essere un’alzata di tiro. Ma lo scritto non regge il peso. Comunque, un altro interessante scrittore da tenere a mente.
Gianluca Veltri “La dimora del santo” Sole 24 ore – Noir Italia 28 euro 6,90
[A: 21/01/2014– I: 07/04/2014 – T: 07/04/2014] - & 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 121; anno 2013]
L’unica cosa decente è il nome dei capitoli che disegnano una mappa della Milano d’oggi. Sfogliando questa specie di Goggle Maps in vena di letteratura, si va da via Fatebenfratelli, dove c’è la questura, all’Idroscalo, da via Luigi Porro Lambertenghi a Piazzale Loreto, girando spesso per il quartiere Libia, dove abita l’ispettore protagonista. Per sganciarsi poi un po’ fuori, da Viboldone a Consonno (e solo pochi non assoceranno quest’ultimo al paese dei balocchi voluto dall’industriale Bagno e poi diventata una delle più note città fantasma d’Italia). Questo consente di dare l’unico “libricino” di giudizio al libro, che per il resto è da dimenticare. La storia è esile e già orecchiata. I personaggi ricalcati sui diversi cliché, dal poliziotto al limite al questore bonario, dal giocatore incallito ai delinquenti “di mezza tacca”. Una veloce riedizione di qualcosa letto tra un taglio di capelli e l’altro, presso l’Anadema Haircut del nostro per altro simpatico autore. Simpatico per quei video demenziali che si trovano sul suo sito. Ma torniamo allo scritto. Dicevo, per iniziare, che la squadra del commissario Crespo riecheggia la più simpatica squadra del commissario Igor Attila, quello dei crimini sportivi. Sono sportivi, palestrati, ma meno caratterizzati della squadra romana. Con il commissario, poi, che viene chiamato Crespo per la somiglianza con il calciatore (e per le simpatie interiste, che gli valgono qualche punto in meno, anche se bonariamente). Con il fratello, giocatore di poker compulsivo che scopre cadaveri a destra e a manca. E con la fidanzata ex-prostituta di belle forme e di gran capacità imprenditoriali. Quante volte si è letto di poliziotti con fidanzate un po’ ai limiti della legge? E che per questo si imbarcano in mille problemi. Se decidi che Aurora è il tuo amore, caro Crespo, devi fare meno il gallo del pollaio, ed accettarla, così come lei accetta te. Altrimenti sarete sempre sull’orlo della separazione. Tra l’altro, credo che questa sia la seconda opera di Veltri, essendo la prima incentrata proprio su Leo detto Crespo e su Fulvio suo fratello. Qui ci si muove, come detto, nel sottobosco delle donne di piacere e dei piccoli misteri della notte. Tanto piccoli da essere risibili. Fulvio trova una ragazza morta, sudamericana ballerina di lap dance. La quale ha un’amica che scompare. Amica che è la ragazza di un malavitoso detto il colonnello. Non solo, è anche imparentata con un mafioso calabrese devoto a San Francesco di Paola, detto il Santo. L’amica non si trova, il colonnello chiede aiuto a Crespo, che si imbatte nel calabrese, ingaggiando con lui una gara a chi trova prima il colpevole. Tra locali della notte visitati dai poliziotti e partite di poker del buon Fulvio, scorre gran parte del libro. Non facendoci mancare l’ovvio litigio tra Crespo e Aurora. Che ovviamente lo lascia. Crespo diventa una belva, ma senza pace e senza scopo. Sarà il calabrese che gli dà il primo indizio, collegando le due danzatrici ad un fotografo di foto porno (anch’esso trovato morto). Poi ad un delinquentello che parla di un misterioso “paese dei balocchi”. Crespo senza Aurora sbatte la testa al muro, ma uno della sua squadra collega (ma non era difficile) il paese suddetto a Consonno di cui ho parlato sopra. Mentre anche Aurora sembra cadere nelle grinfie del damerino, la nostra squadra entra in Consonno, sbaraglia i cattivi, libera Alice. Insomma, una catarsi finale che si consuma in sette pagine senza alcuna emozione. Con rappacificazione finale di Crespo ed Aurora, dopo che il primo si fa un nuovo taglio di capelli (e non a caso, molti personaggi vengono caratterizzati dalla chioma che portano) e davanti ad un piatto super-piccante calabrese, nella mitica trattoria di Don Giò (veramente esistente). Insomma 120 pagine che scorrono come acqua fresca, non lasciano neanche l’odore di uno shampoo ben fatto. Un nuovo punto basso della in genere meglio congeniata serie del Noir Italia.
Ugo Mazzotta “Il segreto di Pulcinella” Sole 24 ore – Noir Italia 30 euro 6,90
[A: 01/02/2014– I: 08/04/2014 – T: 10/04/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155; anno 2004]
E sì, qui si risale, ed alla grande, nella valutazione del libro in particolare e della collana in generale. Siamo, infatti, tornati ad un buon livello descrittivo di una realtà italiana (e qui, poco nota, trattandosi degli Appennini tra Abruzzo e Marche) e ad un livello di scrittura migliore dei precedenti. Non intricatissimo l’intreccio giallo, se vogliamo, ma neanche da buttare via con l’acqua sporca. Allora, intanto ci troviamo a Pratello, paesotto non lontano da Rivisondoli. Dove vive, con la sua squadra, il commissario Andrea Prisco. Già dal nome si indovina napoletano, e dai caratteri descrittivi, si capisce amante di spazi aperti (più montuosi che marini, ma anche), un po’ solitario e molto “under statement” verso la burocrazia ed altre amenità da “ufficio centrale”. Ha una buona relazione con la giovane Agnese (e già due punti in più per la scelta dei nomi, onorando sempre mia madre) con cui parla, discute, e gode le piccole gioie della vita, pur essendo (o forse proprio perché) lei di stanza in un ufficio a Ametrano (altro paese ad una mezzoretta dal nostro). La tranquilla vita del paese è prima messa in subbuglio dalla comparsa di due loschi figuri che vanno in giro a chiedere il pizzo ad alcuni commercianti, cosa che fa nascere il sospetto di possibili infiltrazioni camorriste. Poi viene senz’altro destabilizzata dall’uccisione di un burattinaio di Portici, Ciro Ferrandino, freddato con alcuni colpi di calibro 22 mentre faceva il suo spettacolo di burattini in piazza. Il questore comincia a mettere sotto torchio il nostro e la sua squadra (che essendo quasi tutta di oriundi napoletani è soprannominata “Bella Napoli”). Prisco cerca di capirci qualcosa, seguendo le due piste, quella del pizzo, ma sembra senza uscita, e quella del morto. Quest’ultima provando a capire i sentimenti e le reazioni della di lui moglie, Assunta (altro nome in A, e non sarà l’ultimo). Perché Ciro era (forse stato) uno sciupa femmine, ma di tanta grazia che Assunta confessa: primo, di averlo conosciuto a Portici e seguito dopo solo una settimana, tanto l’amore suscitato, secondo, che non la tradiva ma se lo avesse fatto, lei avrebbe continuato ad amarlo così com’era. Misteri dell’amore! Mentre continuano le piccole descrizioni quotidiane, i piccoli quadri di ispettori, di bar, di ristoranti sperduti tra i monti, di ricerche tra la gente, della misantropia di Prisco, delle lotte tra fazioni all’interno di questure e di medici patologi. Mentre Prisco fa una vacanza con Agnese nel Napoletano, succedono alcuni fatti che fanno avanzare (o precipitare) gli avvenimenti. Una macchina ed un negozio vengono bruciati con benzina da quello che sembra sempre più un avviso mafioso, viene trovato il cellulare di Ciro e rintracciando una telefonata, si scopre che il burattinaio era stato a Pratello nove anni prima. Prisco ed il suo vice Curti non sanno a chi dare i resti, fortunatamente vengono rinforzi dai Carabinieri di Peligno, e viene reintegrato l’organico con l’ispettrice Alice (ecco l’ultima A) Coturno, piccola, simpatica e molto efficiente. Alice si dedica ai camorristi, ed in breve riesce a trovare un bandolo: uno dei commercianti, il Bortoli, era quasi in bancarotta, era in lite con l’altro bruciacchiato, aveva fatto il militare nella Folgore, ma era stato cacciato per condotta poco in linea con il Codice Civile. Insieme a due suoi amici, ora muratori, che, guarda caso, erano sempre assenti dal posto di lavoro durante i tentativi di estorsione. Dall’altro versante, Prisco riesce a risalire ad una bella ragazza che era molto presa del Ciro di nove anni prima, riuscendone a rintracciare i genitori, che da alcuni anni si erano trasferiti ad Ancona. Qui Prisco ha un’intuizione geniale, quasi da giocatore di poker, che permette di arrivare ad un veloce finale, forse un po’ all’americana. Ma ci può stare. I misteri si risolvono tutti. La bella Agnese torna al lavoro (non avevo detto che stiamo introno a Ferragosto, e lei era vacanziera) ma con molta tenerezza verso il suo Andrea. Insomma, alla fine, mi sono piaciuti il clima, i personaggi, ed il plot generale. Se ci fosse stato un filo più di suspense sulla parte “gialla” poteva avere qualche libricino in più. Ma Mazzotta mi ha convinto. Meglio di altre uscite della collana.
Cristina Rava “Un’indagine al nero di seppia” Sole 24 ore – Noir 8 euro 6,90
[A: 30/08/2013– I: 16/05/2014 – T: 18/05/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217; anno 2007]
Facciamo così la conoscenza con il commissario Bartolomeo Rebaudengo (di Cuneo, ma sarebbe uno scostumato per Troisi, nome e cognome troppo lunghi). E della scrittrice Cristina Rava, ligure, e si sente. Un buon libro eponimo della collana di neri italiani, perché il personaggio rende bene, ed è anche ben inserita la trama nel tessuto territoriale. Infatti, ci moviamo, e la scrittrice ben conosce i luoghi, tra Albenga ed Alassio, fortunatamente in tempi non turistici, così da poter godere le cittadine nel loro vivere quotidiano “normale” (l’azione si sviluppa tra febbraio e Pasqua). Godiamoci quindi queste piccole città del savonese, soprattutto la prima con uno dei centri storici meglio conservati della Riviera di Ponente. Così come ci immergiamo nella cultura locale, fatta di poche parole (tra liguri e piemontesi, si sprecano), di cultura di mare ma di ricordi di terra. E di terra è il nostro commissario, che viene da Cuneo (ci avrà fatto anche il militare, come chiederebbe Totò?). E di poche parole, anche se di tanti pensieri e sentimenti. Inoltre, le due scene migliori, che lo vedono a fianco del medico legale, la giovane Ardelia, dove nella prima la dottoressa, a lui che non mangiava pesce, gli ammannisce una cenetta a base di trenette al nero e acciughine con patate. E nella seconda, il nostro, per regalarle un libro, non trova di meglio che una meta citazione: un libro dello svedese Manning sul commissario Wallander. Esilarante. Meno bene, anche se non stanca troppo, la trama nera, che trovo un po’ debolina, almeno nella parte che si vorrebbe misteriosa. Già nelle prime cinque pagine ci sono indizi che troveranno conferme duecento pagine dopo. Ma andiamo con ordine. Il commissario e la sua squadra (ma soprattutto l’ispettore Ravera, sornione ma di buon intuito e tante conoscenze) viene coinvolta nella ricerca dello scomparso professor Oddone, insegnante di liceo, la cui moglie (istruttrice di Krav Maga, per intenditori) ne denuncia la misteriosa sparizione. Ci si trastulla un po’ sulla ricerca, ma ben presto i nostri sono presi da altro: viene trovata uccisa e forse messa a bella posta in pose “sataniche” la bella Serena, diciannovenne liceale (della classe del professore, ovvio). Qui entriamo nel bel mondo ligure, nelle famiglie “belle e ricche”, ma anche senza spina dorsale. Che Serena, e la sorella minore Candida, sono praticamente abbandonate a se stesse, da una madre fuggita con un nuovo amore in Canada e mai più tornata, ed un padre dentista di tanti soldi e nullo affetto. Rebaudengo comincia a girare, parlare, guardare le facce (perché lui è della vecchia scuola dei Maigret, ha bisogno del contatto visivo per capire l’interlocutore). Scava, il commissario, ma non trova nulla. Per ora solo una comunanza di intenti e di pensieri, appunto, con il medico legale, la dottoressa Ardelia di cui ho sopra parlato. Non si trovano fidanzati della bella Serena. Non si trovano amiche. Ma certo non passa inosservata. C’è Pietro, che se ne invaghì, ma, brutto e dark, preferì andare a lavorare piuttosto che rimanere a rimirare da lontano Serena. Un’altra pista che il commissario prova a seguire, che porterà ad arresti collaterali senza importanza, ma nulla per il filone principale. Certo è che Serena andava a ripetizione dal professore. E, come dice la moglie, il professore non disdegnava bellezze muliebri, ma non così giovani. Però, una fuga d’amore abortita? Abbiamo la prima svolta quando non si trova un orecchino di Serena, cui lei non si separava mai. Attraverso vie tortuose, il commissario risale alla provenienza dello stesso: è identico ad uno presente in una foto in casa del professore. Ormai la rete si stringe, ma si stringe dalla parte sbagliata, che per arrivare alla fine abbiamo bisogno di un nuovo morto, l’amica del cuore nascosta di Serena. E del ritrovamento di un diario dove, leggendo tra le righe, il nostro Bartolomeo arriva alle nostre stesse conclusioni. Quali? Vi consiglio di leggere il romanzo, che almeno farete un bel viaggio verso Savona. Per poi pensare di seguire le successive indagini del commissario (credo siano usciti altri quattro o cinque romanzi) e perché no, per cercare di capire se la storia con Ardelia possa andare avanti. Chissà! Ma io sono curioso…
“Aveva imparato … che gli ordinati rigidi, quelli che se gli sposti una matita danno fuori di matto, sono creature fragili, cercano attraverso l’ordine appunto, d’esercitare un controllo sulla realtà circostante e forse anche sul proprio mondo interiore, che temono sia molto meno ordinato di quanto vorrebbero.” (109)
Carlo Barbieri “La pietra al collo” Sole 24 ore – Noir 32 euro 6,90
[A: 14/02/2014– I: 02/06/2014 – T: 04/06/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155; anno 2012]
Una nuova e più che sufficiente prova della lunga collana del Noir italiano del Sole 24 ore. Dove, sebbene ci siano una buona dosa di nuovi e giovani scrittori, c’è anche una pattuglia di letterati di più lungo corso. O di nuovi letterati ma di lunga vita. Come il qui presente Barbieri, quasi settantenne, ex-chimico in giro per il mondo, ed ora (forse in pensione? Ma non ne trovo traccia) tornato alla natia Sicilia, e, come lui stesso dice, “prestato alla letteratura”. Si sente che conosce le leve del mondo, le possibilità che ci sia altro oltre quello che si vede in superficie. E si capisce anche meglio il commissario Francesco Mancuso, personaggio centrale dei suoi scritti gialli. Commissario in Palermo, si capisce. Con le pulsioni di mezza età verso il gentil sesso (ma come finirà l’ipotesi della sua storia d’amore?) e con le manie che, inevitabilmente, colpiscono chi tanto vive o ha vissuto. Ad esempio, quella di rimanere a Palermo durante il periodo ferragostano, tanto non succede mai niente in questo caldo mese di vacanze. Invece succede, che cominciano ad affiorare dei morti. Con una strana caratteristica, quella di avere uno spago intorno al collo, con una rozza pietra attaccata. All’inizio non ci facciamo caso, presi più dagli ambienti della sempre a noi cara città sicula. Come per il primo morto, trovato nelle catacombe della Chiesa delle Anime Purganti, in una stradina che scende verso Ballarò. Ecco, per la mia gioia di proiettarmi altrove (chi legge è un viaggiatore, ricordiamolo), già mi ritrovo nelle vie di Palermo, mangiando un’arancina-bomba all’Orto botanico, e sorseggiando una limonata fresca. Strano anche questo primo morto, nudo, e con la faccia irriconoscibile, quasi a volerne cancellare le tracce. Invece, altri che compaiono, poi (ed alla fine saranno almeno quattro), si riconoscono subito. Quasi che l’assassino giochi con il commissario, a fare chi è più intelligente. Che anche gli altri hanno la pietra al collo. Ma sono riconosciuti. Tutti, bene o male, legati al mondo delle molestie verso i fanciulli. Un frequentatore di cinema mattutini, un contabile parente di mafiosi, ma non nella onorata società (che in quanto onorata, non vede di buon occhio la presenza di pedofili ricattabili). Scavando a poco a poco, vincendo reticenze e depistaggi, si scopre che il primo era un prete ed il secondo un professore in pensione di un istituto religioso (lo stesso del prete), a suo tempo sospeso (ma poi reintegrato) sempre per gli stessi reati. E sarà un prete che illuminerà il nostro commissario sulla pietra al collo, derivante da un versetto del vangelo di Luca (“è meglio che gli sia messa al collo una pietra e venga gettato in mare … piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli”). Intanto tornano dalle ferie i due aiutanti del commissario, appunto l’ispettrice Esposito e l’ispettore Cosenza. Mancuso, forzando un po’ sull’istituto di cui sopra (in una pagina che non può non rimandare alle conoscenze di Barbieri dei meccanismi politici a tutti i livelli), capisce che il fattore comune (oltre alla pedofilia) è anche l’essere l’assassino un trovatello. Tutta una serie di indizi e di mosse, inoltre, portano a restringere il campo verso qualcuno che, in qualche modo, è vicino al commissario stesso. Riflettendoci su, Mancuso non può che tornare ai suoi aiutanti, che anche nel nome hanno discendenze “trovatelle”. Esposito viene da “esposto”, cioè dove venivano messi i trovatelli, esposti alla ruota dei monasteri. Cosenza è nome di città, anch’essa data a coloro di cui non si sapeva la provenienza. Dovrà decidere, e molto in fretta, su chi puntare. In un convulso finale, trova la chiave di lettura, punta sul cavallo giusto (anche noi a quel punto ci puntavamo), e benché ferito e poi di lunga convalescenza, risolve il mistero e smaschera chi doveva esserlo. Non vi svelo, allora, il veloce ed esauriente finale, che, tutto sommato, è una lettura interessante, per i luoghi e per un po’ dell’intreccio e della soluzione dello stesso. Avevo paura, nella prima parte, che si andasse impantanando nella ormai troppo adusa pedofilia da horror. Invece si mantiene sul livello di denuncia (e ad un buon livello). Una lettura degna per passare dalle bellezze anatoliche alla calda estate romana.
Molto Bene. Come detto iniziando, or si passa dall’ozio al quotidiano lavoro, ognun secondo le proprie capacità, ed i diversi ambiti. Perdonandomi l’anacoluto, io speriamo che la viaggio. Ma Ben lungi ancor qualche notizia avventurosa. Per ora mi accontento di saper che viaggi da me propugnati e disegnati sono andati a buon fine. Sperando che lo siano anco quelli a venir.

domenica 24 agosto 2014

Agosto in giallo - 24 agosto 2014

Parafrasando uno dei titoli sotto riportati, per un’estate di relax e distensione, eccoci a quattro titoli italiani in giallo. Apriamo e chiudiamo con due titoli di Valerio Varesi ed il suo commissario Soneri (e meglio il secondo, che almeno si tinge della faccia televisiva di Barbareschi, che lo vivacizza un po’). Passiamo di corsa attraverso un (praticamente) inutile Vito Di Bari, per cadere in quel Ferragosto che mi ha suggerito il titolo, e che ritengo (come scritto) un’ulteriore prova della poca intelligenza letteraria di alcuni curatori. Intano, e per davvero, rilassiamoci tutti.
Valerio Varesi “Ultime notizie di una fuga” Frassinelli euro 12,50 (in realtà, scontato a 10,63 euro)
[A: 16/02/2014– I: 18/03/2014 – T: 20/03/2014] - &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 157; anno 1998]
Ma sono 3 libricini di gradimento più per la stima dell’autore che per il libro in sé. Che, ripubblicato da Frassinelli dopo essere stato edito dalla Moby Dick circa quindici anni fa, recupero un buco: la prima inchiesta del commissario Soneri. Ed un po’ come la prima inchiesta di Pepe Carvalho, è intrinsecamente diverso ed uguale al personaggio seriale che poi conosceremo (ed apprezzeremo, anche se non, visto che non ce l’ho, nelle apparizioni televisive di Luca Barbareschi). Perché se da un lato il commissario ha quei tratti che lo renderanno “tipico”: mezzo toscano spesso acceso, piacere della buona tavola (e vai con i pranzi e le cene dal Milord) e del buon bere (qui spesso si scola del bianco Chablis, con qualche whiskey torbato e qualche grappa a latere). Dall’altro non ha la posizione sui luoghi che ne faranno appunto “un tipo”. Non c’è il sentore della bassa, né il Po e la sua vita. Sì, c’è Parma, ma tutta città e poco altro. Non c’è (ancora) la sua bella. Nulla sappiamo del suo passato. E c’è una storia senza delitti. Varesi prende spunto da una ferita aperta nel tessuto cittadino, la maschera un po’ (ma neanche tanto) e ce la ripropone con qualche variante. La ben nota storia è quella della famiglia Carretta, padre, madre e due figli, improvvisamente scomparsa da Parma. E foriera di tante supposizioni. Noi ora sappiamo quale ne furono le premesse e gli sviluppi. L’autore, prendendo spunto solo dalla fuga, la usa per tirare qualche freccia contro l’allora nascente malcostume di corruzioni e denari di dubbia provenienza. Quindi ricalca gli inizi: in un caldo inizio d’agosto il contabile Rocchetta si allontana da Parma con moglie ed un figlio sul suo camper, per poi essere raggiunto dal secondo figlio più tardi. Mesi dopo il camper viene trovato abbandonato a Milano. Il contabile gestiva i soldi di una società con ricchi appalti, con tanti soldi puliti e sporchi che giravano intorno. Ed è facile vena dell’autore farci vedere il faccendiere amico del proprietario che settimanalmente porta i soldi in Svizzera. I vecchi soci allontanati per questioni di appropriazioni non chiarite. Il proprietario che sbraita e minaccia, ma che è l’anima nera di tutte le commesse sporche. Come nella realtà, seguendo piste labili ma promettenti, Soneri segue le tracce prima a Milano. Poi a Londra (dove nella realtà poi il giovane Carretta verrà ritrovato anni dopo la fuga e confesserà i fatti). Ed infine nelle Barbados, paradiso fiscale dove le tracce dei Rocchetta si arenano e spariscono nel nulla. Varesi qui comincia il suo percorso diagonale, ipotizzando la fuga con appropriazione della cassaforte della società, con ricatti più o meno palesi. E con l’idea che Rocchetta, da iniziale artefice di una grande truffa, sia poi diventato succube dei veri “mafiosi”, che, potenti, sguazzano nelle paludi del bel mondo caraibico. Su quest’ultima idea, cala il sipario della prima inchiesta del nostro commissario. Una storia quindi con poca vera originalità, ricalcata sulla realtà, con qualche grido di dolore che forse meritava più enfasi. Anche la scrittura ne risente. Un treno a carbone ai suoi primi passi, che sbuffa, si ingolfa e non trova ancora la sua giusta andatura. Ci sono salti, passaggi lasciati ai lettori (che con la storia vera in mente sono capaci di riempire i buchi, ma non ora a quindici anni dalla prima stesura ed a forse trenta dalla vicenda). Tanto che alla fine mi ha lasciato un poco insoddisfatto, e vogliosamente in attesa di altre e più recenti storie. Un punto a favore di Varesi lo voglio spendere per la frase che sotto riporto presa dalla prefazione che ora, nel ripubblicare il testo, ha deciso di scrivere e sulla quale mi dichiaro in totale accordo. Ed è uno dei motivi che continuo a cercare, nelle pieghe dei noir e simili, quella vena di realtà, a volte con difficoltà uscente da contesti diversi. Con quell’omaggio da sottoscrivere a Scerbanenco, Sciascia, Gadda, ma anche a Izzo, Malet, Manchette e Simenon.
“Vicenda dopo vicenda scoprivo come i delitti (anche quelli di corruzione o ambientali) nascondessero scenari che mi apparivano come la spia dei cambiamenti sociali e dei conflitti interni del mondo d’oggi. … L’indagine … poteva (e doveva) essere dilatata al contesto, svelandone le contraddizioni.” (VI)
Vito Di Bari “Nessuno è come sembra” Mondadori euro 4,90
[A: 06/12/2013– I: 20/03/2014 – T: 23/03/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 258; anno 2013]
Ecco un giallo della vecchia scuola Mondadori, non molto convincente né molto coinvolgente. Ormai siamo adusi al giallo moderno, dove l’autore si inserisce nei suoi luoghi e, come dice Varesi, utilizza il meccanismo “giallo” anche (e spesso soprattutto) per narrarci altro. La vecchia scuola Mondadori, quella tipo “anni Sessanta”, utilizza invece autori italiani quasi a scimmiottare il giallo americano. Lì, per di più, si usavano pseudonimi risibili, che almeno ora scompaiono. Abbiamo quindi questo esimio Vito Di Bari che le note ci dicono vivere a Miami e scrivere per Il Sole 24 ore, e che ci narra un giallo ambientato nella sua città. Quale? Ovviamente Miami. Ma è lui veramente? Altre note in rete, ci dicono che lo stesso Di Bari è un designer, inventore del logo di Expo Milano 2015. A chi credere? E vale la pena cercare meglio? Forse no. Perché tornando a questo giallo, è in puro stile appunto americano d’annata. L’unico italiano è un professore di antropologia, Luca, trasferitosi per lavoro appunto a Miami, ed autore, nella parte finale, dell’unica cosa interessante del libro. Un compendio di cosa NON si dovrebbe fare quando si naviga per i social network. Lasciando al finale altre lamentele (anticipando solo che una riga di Connelly vale una decina di questi libri), veniamo alla pur labile storia. Che mescola l’odore americano con le conoscenze dell’autore. Si parla, ed intensamente, di social network (tipo Facebook e fratelli) dove è facile conoscere qualcuno virtualmente, per poi finire chissà come nella realtà. Il libro gioca molto su questo tasto, cercando anche di riproporre il senso delle chat su internet. Ma non è facile, soprattutto quando tenta di farci sentire la contemporaneità delle chiacchiere virtuali. In quel di Miami, infatti, si aggira un feroce assassino che sembra scegliere le sue vittime nell’ambito appunto dei social. Ed è quindi una sequela di presentazione di belle signorine, farcele conoscere, per poi farle uccidere sotto i nostri occhi. Dall’altro c’è una congrega di tre o quattro papabili killer: un chirurgo plastico (che il killer uccide tagliuzzando le vittime come con un bisturi), un ricco cocainomane nonché commerciante (che a lui piaccion le sbarbine), un giovanotto palestrato (il più addicted della rete), un general manager di una grande ditta (molto complessato e con manie di controllare tutto). Sullo sfondo si agita anche un altro navigatore solitario, che usa computer, iPad, smartphone e tutte le possibili altre nuove tecnologie per seguire le chat in rete, inventandosi anche una serie di personalità fittizie. Il buon Luca di cui sopra viene coinvolto dal capo della polizia (oriundo cubano, naturalmente) nella ricerca di un profilo del killer. Dopo una serie di morti senza possibilità di intervento, una vittima si salva (con spray al peperoncino). Ovviamente è bellissima, ed ovviamente di lei Luca si innamora. E con il di lei aiuto, sembra far andare i pezzi del rompicapo al loro posto. Capisce il mistero dei tagli sulle vittime. Ne ricava un piccolo rebus, di soluzione immediata. E restringe il campo, focalizzandosi sulla prossima, assolutamente certa vittima. Di Bari tenta, ma senza troppo riuscirci, di mescolare le acque. Fa dire la parola “falsità” ad uno dei sospettati, e capiamo subito (congiungendo con il titolo) che quello non sarà il colpevole. Scopriamo anche che il quinto uomo è proprio un quinto, non uno dei quattro mascherati. E si arriva allo smascheramento del colpevole, salvando sia Diane che stava per essere uccisa, sia Alice che aiutava Luca. Un finale miserello, per un giallo in linea con il finale. Senza veri spessori psicologici, e con qualche ovvietà sull’uso sconsiderato della rete (ma voglio vedere poi quanti non internauti andranno a fondo tra i “like”, i “friend” e “unfriend”, i “fake” e compagnia cantante). Un ultimo appunto, come si diceva sopra: che brutta copertina e che brutto occhiello. Quest’ultimo recita: “A Miami la morte non ha volto”. Un’ovvietà che non dice nulla né del libro, né di Miami. E quel tabulatone con la scritta “system failure”? Ne vogliamo parlare? Nell’era dei PC sempre più avanzati, un dump di sistema è qualcosa che porta indietro di trenta anni almeno. E in tutto il libro, non c’è mai, ripeto mai, nessun sistema che si ferma. Veramente negativo. Se avete tempo, sfogliate il libro, ma potete anche evitare di leggerlo.
Autori Vari “Ferragosto in giallo” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 01/07/2013– I: 07/04/2014 – T: 08/04/2014] - &&
[tit. or.: originale (eccetto quello indicato); ling. or.: italiano (+ spagnolo); pagine: 274; anno 2013]
Libro contradditorio, nato dalla volontà di dare qualcosa in lettura alla madre solitaria nell’estate dello scorso anno (insieme ad altri libri, ovviamente). E vittima di una duplice attenzione, del tipo odio e amore. Perché si sa la mia passione verso gli intrecci gialli (amore) ed in particolare verso i personaggi di lunghe serie (altro amore). Ma altrettanto nota è la mia perplessità verso i racconti (odio) ed in particolare verso quelli noir, che raramente riescono a produrre una degna atmosfera in poche pagine (altro odio). Qui, in soprammercato, come ben narra nel prologo la casa editrice, si tratta di un libro a tema, su richiesta della stessa Sellerio. Alcuni autori della loro scuderia di “gialli” vengono invitati a produrre un racconto incentrato sul Ferragosto, con protagonista il loro eroe della serie. Ora, il sentimento generale che ne esce dopo la lettura, è che o si conosce bene il protagonista, ed allora si segue la micro-avventura dello stesso, magari senza coinvolgimenti, ma senza neanche essere spaesati. Così ad esempio per Montalbano, o per Massimo il barrista, o per la Petra spagnola. Quando invece il protagonista non è ben noto, ad esempio, come è accaduto a me non avendo letto ancora nulla né del commissario Schiavone, né delle case di ringhiera milanesi, né, infine, del siciliano Baiamonte, si rimane leggermente sconcertati. Perché le mini storie a volte hanno solo accenni, pennellate, che complementano il personaggio principale. Ma se non lo conosciamo, si riamane freddi. Capisco, d’altronde, lo sforzo di marketing: non lo conosci? Leggilo, magari in un’avventura completa, e vedrai. Poiché tuttavia, io sono sordo alle lusinghe del marketing, e leggo e consiglio quello che a me pare e piace, il risultato finale è una raccolta di tono minore, con qualche punta di piacere, e con alcune punte di insofferente inutilità. D’altronde, essendo una raccolta eterogenea, vado a brevemente chiosare i sei racconti. Ma fin da ora suggerisco: lasciate perdere queste raccolte, e, se ne desiderate il piacere, leggete i romanzi da cui derivano questi personaggi.
Andrea Camilleri “Notte di Ferragosto”
Un discreto Montalbano in punta di penna. Intanto siamo andati ben indietro nel tempo, sino al 1983, come documenta la citazione (purtroppo sbagliata) del Festival di Sanremo. Che l’anno prima era stato vinto non da “Felicità” di Al Bano e Romina, come dice il nostro, ma da “Storie di tutti i giorni” di Riccardo Fogli. E siamo indietro nel tempo, perché Livia e Salvo sono (seppur litigiosi) ancora saldamente insieme. Come vuole la richiesta dell’editore quindi siamo a Ferragosto e, durante le feste spiaggiose, vicino casa Montalbano, si ritrova un morto per overdose. Piccolo giro di inchiesta, morto non sembra dedito alle droghe (la sorella) o forse sì (l’amante). Ma quando Salvo mette l’acceleratore e scopre le possibili contraddizioni di una persona indiziata, l’inchiesta gli viene tolta, che fa parte di un più grande movimento per l’arresto di una rete in grande stile. Tutto sommato, meglio delle ultime stanche prove di Montalbano, che, invecchiando, sembra intorcinarsi su di sé.
Marco Malvaldi “Azione e reazione”
Mentre si attende un altro romanzo di più ampio respiro, abbiamo qui di nuovo i nostri beniamini: Massimo, il BarLume, e gli anziani che intorno gravitano. Tra una discussione e l’altra sul caldo (ferragosto, ovvio), sulle sigarette elettroniche e sul malcostume (differenziato) degli stranieri in vacanze versiliesi, si trova il modo di assistere alla morte appunto di un cafone russo. Qualche battuta di Massimo, un saluto al commissario Fusco che sta per andarsene, qualche imbarazzante uscita degli investigatori “Villa Arzilla”, per poi arrivare al nocciolo. Intossicazione da piombo. Possibili le sigarette elettroniche? Il nostro autore, pur non avallandole, scrive righe in loro difesa (ma che ci sono gli sponsor?), e lascia che Massimo risolva brillantemente, seppur senza particolari lampi, l’indagine estiva. Tendente al basso.
Andrea Manzini “Le ferie di Agosto”
Qui è tutto un mistero. Ma non la storia, bensì il protagonista, il commissario Rocco Schiavone, di cui nulla sapevo prima, e che rimane adombramente misterioso anche qui. Mi sembra di capire che abbia (abbia avuto) una donna, che o è morta o l’ha lasciato (non si evince), e mi sembra che Rocco indulga con piacere verso le belle donne. Qui abbiamo una macchina che sfonda una banca, sembra per una rapina, ferendo due impiegati, e, soprattutto, un’anziana signora che stava facendo le pratiche per la chiusura dei conti. Non ci mette molto, il nostro, a collegare la macchina fintamente rubata ad un ladruncolo, compagno di scuola del direttore di banca, sicuramente danneggiato dalla chiusura dei suddetti conti. Qualche pennellata qua e là, e finale al mare, con Rocco, i suoi amici, nonché la moglie del direttore di banca di cui sopra. Scarsamente coinvolgente.
Francesco Recami “Ferragosto nella casa di ringhiera”
Qualcosa si è letto di Recami nel tempo (con quell’intrigante “L’errore di Platini” degli esordi). So che ultimamente ambienta le sue storie nelle case di ringhiera, ma di queste non ho ancora letto nulla. Quindi non mi entusiasmo ai personaggi qui descritti (come se fossero vecchi amici, ma non lo sono). E soprattutto all’anziano Luis, con la sua BMW roadster, coinvolto in un’affannosa corsa attraverso la Milano notturna, da un’emula di Elenoire Casalegno. Forse ci sono escort che se la vedono brutta. La bella, alla fine, regala una notte di passione a Luis, che gli presta 5.000 euro perché lei possa fuggire. L’unica domanda che ci facciamo è se la bella ha preso in giro Luis o meno. Per il resto, non c’è nessuna traccia di tensione. Forse il più inutile.
Gian Luigi Costa “Lupa di mare”
Anche qui conosciamo un personaggio nuovo: l’investigatore palermitano Enzo Baiamonte, ex elettrotecnico. Qui in vacanza relax con la sua bella, lungo le spiagge di Menfi, durante un invitante convegno slow food e slow wine. Decente la caratterizzazione del personaggio, della bella, e dell’atmosfera (rarefatta e radical chic) di questi posti. Si salva un simpatico wine-maker, che tenta di utilizzare il Nero d’Avola per fare un vino che si accosti all’Amarone della Valpolicella. Non si capisce perché, questo da fastidio a qualcuno, che cercherà di ammazzarlo con una bomba residuato bellico. Ed il nostro Enzo riuscirà a collegare i fili, per svelare l’arcano. E per godere di una bellissima cena con la sua Rosa. Niente di che, ma Enzo sembra simpatico.
Alicia Giménez-Bartlett “Vero amore” [tit. or. Verdadero amor; anno 2013]
Benché la data di scrittura sia dello scorso anno, qui torniamo alla Petra prima maniera (sembrerebbe quasi scritto anni fa e dimenticato nel cassetto). Non ci sono le pulsioni amorose con il compagno, né quelle materne con i di lui figli. Non c’è Garzon sposato ed imbalsamato. C’è la morte della moglie di un commissario, e le indagini delicate che ne conseguono. In poche battute, Petra sente suonare dei campanellini falsi, perché il sospettato sembra proprio innocente, come sostiene a gran voce il suo aiutante. Che è rimasto scottato da una donna che lo ha lasciato improvvisamente. Ma se questa fosse… Petra ha delle intuizioni, che però sarebbero di difficile comprova, visto che la casa del delitto non reca segni effrattivi, e la pistola del delitto, è all’interno di una teca all’interno della casa. Ma Petra… Qui non ve lo dico, che qui, in effetti, anche se in minore, c’è l’unico briciolo di suspense di tutto il libro. Insomma, ben poco.
Valerio Varesi “Il commissario Soneri e la mano di Dio” Sole 24 ore – Noir 2 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 07/07/2014 – T: 09/07/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249; anno 2009]
Questo invece è un Soneri “aggiornato”, cioè il commissario protagonista di una dozzina di libri, rivisitato sopratutto dopo il passaggio televisivo con Luca Barbareschi. Varesi ha, libro dopo libro, precisato ed aggiustato il personaggio. Ed ora gli fa acquistare sempre più le sembianze simpatiche ma anche un po’ deluse del buon Luca. Il commissario non si trova bene nella grande Parma (un saluto ai miei amici parmigiani, immediatamente), e cerca sempre di scappare altrove. Prima era verso la bassa. Ultimamente (in questo spinto da Luca) più verso l’Appennino. Ed è lì che lo spinge il ritrovamento di un morto presso il Ponte di Mezzo, che sembra proprio essere sceso a valle lungo la Parma (il fiume è femminile laggiù). Si toglie subito dal centro dell’azione, dove imperverseranno magistrati e giornalisti, e dove lascerà di vedetta il fido Juvara, e cerca tra i monti risposte alle domande. Si trova un pulmino forse usato per scaricare il morto, si trova il proprietario, un cittadino che ha deciso con la famiglia di vivere “più naturale”, ma che non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Trova posto all’osteria di Egisto, conosce il guardaboschi Afro ed il parroco Don Pino, mandato tra i monti in punizione perché un po’ “sinistroso”. E come dirà la sua bella Angela, che presto lo raggiunge in montagna, quando passeggia per i monti, Soneri ragiona meglio. Pensa, guarda, collega. In quel buco di posto che i locali vorrebbero trasformare in stazione sciistica (ma non hanno i soldi), che ruota intorno ad un’industria di acque minerali, e dove su per i monti ci sono due razze diverse che si isolano per opposti motivi: extra-comunitari, che poi scendo a valle, verso il mare, per esercitare i loro mestieri da “vu’ cumprà”, e dei neo-cristiani che cercano di ritrovare la purezza della fede lontano dal mondo “corrotto dal denaro”. Oltre a passeggiare, ovviamente, Soneri si dedica alla buona cucina della moglie di Egisto: anolini in brodo, tagliatelle ai porcini, cacciagione varia (soprattutto cinghiale) e grana a molliche, innaffiati possibilmente da una bella Bonarda locale. Ed oltre a mangiare e passeggiare, si parla, con tutti, anche con chi non vuol parlare come la moglie di Breviglieri, il proprietario del pulmino. E si parla perché ben presto si rimane isolati, visto che nevica (siamo in gennaio), e c’è poco altro da fare. Parlando e chiedendo lumi al fido Juvara quando c’è bisogno di aggiornamenti, Soneri immagina e ricostruisce. Intanto scopre che il morto è appunto Malpeli, l’industriale anima della zona. In tutti i sensi, anche in quello delle feste con escort e droghe (dagli spinelli quasi innocui a fiumi di coca). Quello che regge le industrie (ma hanno tutte bilanci truccati), che spinge per la pista da sci (ostacolato dal prete e dai neo-cristiani), e che ha strane connivenze con qualche nome “da marocchino”. Malpeli ucciso con un forte colpo alla nuca, tanto forte che rimangono incastrati pezzi d’avorio di provenienza antica. Collegando telefonate e strani via vai di carri attrezzi per le strade appenniniche, facendo leva sull’anello debole della catena (il Breviglieri), Soneri ricostruisce il giro. La coca arriva a La Spezia, viene spedita su per i monti dalle scassate macchine dei marocchini, che dividono il prodotto 2/3 e 1/3 con Malpeli. Il quale, attraverso la catena distributiva delle acque minerali, lo ricicla in città. Mentre gli extra, con il loro terzo fanno un po’ di “soldi da tasca”. Coinvolgendo il Breviglieri, utilizzando il suo pulmino come corriere. Attriti vengono fuori (tanto che più che attriti sembrano guerre) quando da un lato i marocchini vogliono allargare la loro parte a scapito di Malpeli, e quando Malpeli, violando un patto che aveva fatto con Don Pino, spinge per la pista da sci, nonostante appunto che il sanguigno prete avesse chiuso entrambi gli occhi all’uso del cimitero come secondo deposito della droga. La soluzione, scontata fin dal titolo, si avrà scoprendo che l’avorio viene da un antico crocifisso scomparso (o rubato) dalla Chiesa parrocchiale. Questa la storia, al solito poco gialla, e molto pretesto per dare colpi a destra e manca. Parma città corrotta dai politici (e poco dopo andrà in mano ai grillini, non  a caso). Marocchini che maneggiano falsi e droghe. Inno alla sana vita di montagna. Insomma, i soliti cliché di Varesi, spesso appunto troppo centrato nelle sue lamentali (centrato nel senso che dà colpi a tutti i colori politici degli schieramenti italiani). A me continua a dare piacere nella riscoperta di luoghi desueti e di mangiari locali. Per il resto, non molto altro. Peccato, poteva essere meglio. Ma va bene anche così, aspettando partenze che non arrivano.
“I ricordi sono traditori … ci fanno desiderare cose che non esistono più.” (57)
“Chi è che non è [fallito] alla fine? … Resta sempre per tutti uno scarto tra ciò che volevamo e ciò che abbiamo.” (142)
Tornato con grande piacere dal lungo (ma poi non tanto) giro normanno-bretone, salutato con piacere l’amico Vito che unisco a queste trame, essendo (anche se siamo quasi a fine mese) la seconda trama di Agosto, vi prendete anche un’appendice dei libri “da cura”, dedicato all’astinenza. E ci sarebbe da dirne, sull’astinenza, ma di avventure, che ormai da troppi mesi latita. Speriamo in un recupero autunnale.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Questo mese cambiamo soggetto, e ci dedichiamo ad una malattia “seria”, un bisogno di liberarsi da qualcosa, un bisogno quindi di essere catturati. E come suggeriscono spesso le nostre “dottoresse” un elenco di libri sarà utile allo scopo.

ASTINENZA, CRISI DI

Per combattere il dolore fisico e spirituale che vi accompagnerà se vorrete liberarvi da soli di una di­pendenza avrete bisogno di libri che vi catturino, e vi costringano a interrogare a fondo la vostra anima segnata dalle intemperie. Si consiglia una full immersion, e allo stesso modo si invita a considerare la pos­sibilità di una somministrazione sonora. Questi libri non avranno paura nemmeno di tenervi la testa mentre vomitate.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SUPERARE UNA CRISI DI ASTINENZA                        

 Louis-Ferdinand Céline    Viaggio al termine della notte
 Howard Cruse               Figlio di un preservativo bucato
 E. L. Doctorow              Ragtime
 John Fante                   Chiedi alla polvere
 Ivan Gončarov              Oblomov
 Cormac McCarthy          Meridiano di sangue
 José Saramago             Memoriale del convento
 Jean-Paul Sartre           La nausea
 Roberto Saviano            Gomorra
 Leonardo Sciascia          Il Consiglio d'Egitto

Bugiardino

Certo non ci si meraviglia troppo pensando che il mio bisogno di essere “catturato” viene da lontano, e che quindi abbia, in vario modo, toccato ben 8 dei sopra citati dieci libri. Ed anche il mio ricordo della loro lettura è ben vario. Va dalla dimenticanza di lettura più che ventennali di Sciascia e Gončarov, al ricordo di un’isola e di una lettura (forse la sola che mi rimase allora impressa, prima di qualche recente recupero) di Saramago. Inoltre, c’è un libro che mi preme citare perché rappresenta un “caso” nelle mie sterminate letture: Céline ed il suo viaggio è uno dei pochi libri che ho “abbandonato” prima di terminarlo. Cerco sempre di seguire i precetti di Pennac al riguardo, del diritto di lasciare i libri senza finirli, anche se la mia capacità di sopportazione è generalmente più ampia della norma. Comunque, ne rimangono ben quattro di cui ho parlato nelle trame, e ve li cito in ordine di lettura.
Cormac McCarthy “Meridiano di sangue” Einaudi euro 11,50
[trama del 17 dicembre 2008]
È il secondo che leggo, ma devo dire ancora non so fino a che punto mi piace. Da una parte passa da una prosa all’altra come nei due esempi che riporto (a parte di capire il primo cui la metà delle parole mi sfuggono, come ‘ipomea’ o ‘calderugia’). Dall’altra, proprio questo contrasto disegna un’epopea di mondi lontani (il West selvaggio americano del 1850) che forse solo così si può rendere.
“Passarono attraverso un prato montano col suo tappeto di fiori di campo, acri di calderugia dorata e di zinnia e di genziana viola e viticci ritorti di ipomea blu, e una vasta pianura colma di piccoli fiori variegati che si protendeva come percalle stampata verso i lontani bordi dentellati del prato coperti da una foschia azzurra e le catene adamantine che sorgevano dal nulla come dorsi di mostri marini in un’alba devoniana.”
“La donna alzò la testa e lo guardò… Glanton indicò qualcosa con la sinistra e lei si voltò seguendo la mano e allora lui le appoggiò la pistola alla testa e sparò. … Un buco grande quanto un pugno si spalancò sull’altro lato della testa della donna vomitando un grande schizzo rosso, e lei crollò in avanti e giacque nel proprio sangue, irrimediabilmente morta.”
Siamo al confine tra Stati Uniti e Messico nel 1850, una banda di cacciatori di scalpi lascia dietro di sé una scia di sangue, sullo sfondo di una natura grandiosa e impassibile. Li comanda il corpulento giudice Holden: un predicatore e filosofo dei deserti che trascina con sé una corte di spostati, mezzosangue e reietti armati fino ai denti, in una spirale di ferocia e morte. Con loro c'è anche un ragazzo quattordicenne: sarà quella la sua iniziazione alle spietate leggi del West, tra agguati, lunghe marce, bivacchi desolati, notti di bagordi. È il mistero del Male e della violenza la grande ossessione di McCarthy, che fa lievitare le sue storie d'orrore ad altezze epiche. Tuttavia mi manca qualcosa. Alla fine, sembra che voglia fare “il prezioso” senza portare a termine le cose iniziate. O facendo finta, beh, ora andate avanti voi. Quei due muoiono o sono gay? Ed il ragazzo, carico d’anni e di sventura, dove finirà? Bacerà anche lui la sua petrosa Itaca? Non sono di quelli che vogliono tutto spiegato, ma tutto in ombra a far finta di “quanto sono intelligente”, a volta mi stufa. Si parla di Faulkner, ma dopo averne letto un racconto credo che ci sia della distanza da colmare.
Roberto Saviano “Gomorra” Mondadori euro 10
[trama dell’8 dicembre 2010]
Parafrasando un suo passo, alla fine di questa  emozionante lettura, mi viene da dire “Io so. Ma non ho le prove”. A quasi 4 anni dalla sua uscita, ho aspettato di poterlo leggere senza l’urgenza mediatica e con la sua uscita in economica scontata. E nel frattempo, non ho neanche visto il film. Ebbene, se ne esce sconvolti. Perché sono fatti alla luce di tutti, eppure lì nero su bianco, e messi tutti insieme raggiungo una forza dirompente. Dove purtroppo non si sa cosa fare. Lo sappiamo, quello che succede in Italia. Lo vediamo tutti i giorni, nei tribunali, negli uffici pubblici (un giorno vi narrerò le vicende dell’INPS di Piazza Augusto Imperatore), nelle televisioni, nei giornali. Ma pochi hanno il coraggio della maestra di Mondragone, che non abbassa la testa, che vede gli assassini, che li denuncia. Lei, una rosa nel deserto. E come quelle rose, dopo la denuncia, rimane nel deserto, abbandonata dal fidanzato, dagli amici, dalla città. Da incorniciare, e far discutere in tutte le scuole e gli oratori, le pagine così dolenti e grondanti di pianto e rabbia, dove si narra la storia del martire Don Peppino Diana! Le storie che ci racconta Saviano, ormai in questi 4 anni sono diventate oggetto di discussione, e non hanno il sapore della novità. Sappiamo tanto anche del sarto di Arcella, dell’AK-47 di Massimo, delle morti assurde a 15 anni. Ma non è questo che mi ha colpito. Un pugno lo dà l’intrecciarsi di tanti fili, che non si riesce a sbrogliare. Lo dà la rabbia. Ed uno, definitivo, lo dà l’arroganza del potere. Come togliersi dalla testa le ultime pagine sulle discariche napoletane e sulla demagogia che poco dopo ne tira fuori il Silvio Imperator! Come togliersi dalla testa (Io so, non ho le prove) che ci sia stata anche una lotta tra mafia (che appoggia la politica) e camorra (che appoggia l’economia)? E come qualcuno abbia preso a cuore gli interessi di… E qui lascio puntini perché, non ho le prove. Ho messo tutte le stelle possibili per dare il mio parere su questo libro. Per il coraggio ed i contenuti. Meno per la scrittura, dove dal punto di vista “solamente letterario”, a volte si incarta un po’. Certo un peccato veniale, che gli perdono facilmente, cercando di salire con lui sulla sua vespa con il naso all’aria e l’occhio vigile, per vedere quello che succede a Casal di Principe, a Mondragone, a Villa Literno, fino ai posti a me comunque cari del litorale domiziano (dove ho visto con i miei occhi le ville bunker ed altre oscenità). Un libro da leggere e rileggere per trovare il modo di fare. Ottime le cinquanta pagine finali, dove vengono riportate recensioni del libro apparse in varie parti del mondo. Così apprezziamo anche la diversa ottica con cui si guarda a questa scrittura, da quella appassionata e partecipe di francesi, tedeschi e nord-europei a quella straniante dell’America, il cui cruccio maggiore è non sapere se etichettare il libro come “fiction” o “non-fiction”. Quanto è importante per gli anglo-sassoni mettere etichette. Soprattutto ad un libro che è tutto il contrario di qualcosa etichettabile. Che denuncia, usando i toni del romanzo e la scrittura di un saggio. Peccato manchino i commenti italiani, in particolare di quei giornali che sostengono il libro aver dato un’immagine distorta del nostro bel paese. Ma gli editori di quei giornali sono anche editori del libro… Mi verrebbe allora da dire, boicottiamo gli interessi perversi che intrecciano capitali leciti ed illeciti. Smettiamo di guardare la televisione. Smettiamo di comprare libri Einaudi e Mondadori. Smettiamo di fare la spesa nei super-market “chiacchierati”. Chissà fino a dove dovremmo continuare a smettere. Avremo la forza di farlo? Non lo so, poi penso alla maestra e mi dico: c’è ancora qualcuno con la coscienza civile di tirare fuori qualcosa. Di non mettere la testa sotto la sabbia. Speriamo, speriamo, speriamo.
“Ciò che rende scandaloso il gesto della giovane maestra è stata la scelta di considerare naturale, istintivo, vitale poter testimoniare. Possedere questa condotta di vita è come credere realmente che la verità possa esistere” (323)
Jean - Paul Sartre “La nausea” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 10 agosto 2011]
Non mi è piaciuto tantissimo. E non perché non abbia contenuti, idee (tant’è che ho un ricco carniere di citazioni). Ma credo sia il modo di esprimerle, e di esprimersi del protagonista che mi lasciano distante. Il filo della trama è esile, quasi inesistente. Un trentenne borghese che dispone di una rendita, dopo aver girovagato per il mondo, si è rinchiuso in una città di provincia per scrivere un libro storico su di un oscuro personaggio francese vissuto alla corte dello Zar di Russia. Ma la sua vita è vuota (e secondo me, lui è un poco snob), si interroga sulla sua esistenza (non è un caso che Sartre scriva questo romanzo dopo la laurea in Filosofia, ed il libro è pieno, anche se io non posso esserne un esegeta data la mia ignoranza, di Heidegger e Husserl), la trova vuota, non riesce ad interagire con gli altri (né con il socialista Autodidatta che cerca di farsi una cultura in Biblioteca, e che Sartre tartassa come personaggio, quasi voglia tartassare tutti i socialisti meschineggiandoli, né con la sua ex-fiamma Anny, che pur rivede, ma che ancora e ancora non riesce a capire). E tutto questo vuoto di esistenza, viene riempito di tanto in tanto dalla Nausea, da questo sentimento di non farcela più, tanto che a volte sembra che si voglia (giustamente) suicidare. Sconfitto, non potrà che abbandonare il libro, tornare a Parigi, e, forse, trovare un modo di giustificare l’esistenza: un’opera di ingegno, magari un libro, un disco, un refrain di jazz, una pennellata. Ma non mi piace il modo in cui Sartre inanella pagina dopo pagina questa non esistenza, questo libro che diventerà poi bandiera e simbolo dell’esistenzialismo, quel modo di essere parigino del dopo guerra, quello si di Sartre e della De Beauvoir, ma anche di Juliette Gréco, di Boris Vian, per parte di Albert Camus. Ecco, io sono più dalla parte di Boris Vian, dalla parte scanzonata, ma ridicolmente seria, quello che scriveva di fantascienza, produceva canzoni immortali come “Le dèserteur”, e prendeva in giro Sartre facendolo entrare nei suoi libri con il nome di Jean-Sol Partre. È vero, qui siamo ancora nel ’38, è da poco finita l’esperienza del Fronte Popolare del ’36, c’è stata la Guerra di Spagna. Tuttavia, non mi prende, non mi emoziona, non mi convince che la vita sia inutile. Forse è inutile a chi si siede ad un bar e non riesce a parlare a nessuno. Forse Roquentin è l’esempio negativo di cosa NON si dovrebbe fare. Forse, per combattere la Nausea bisogna fare la Rivoluzione (e tutto con le maiuscole). Forse, ma non lo riesco a vedere così, mi viene voglia ad ogni pagina di dire: prova, fa qualcosa, parla, agisci. Ma come, hai girato mezzo mondo solo per enumerare i posti dove sei stato, e non ne hai capito un cavolo. Non c’è bisogno di avventure per vivere. C’è bisogna della vita, per andare avanti, per arrivare lì dove sarà Garcia Marquez quando scriverà la sua autobiografia (“Vivere per raccontarla”). Quindi, già un po’ mi stava antipatico Sartre, e questo libro non lo tira su di molto. Un ultimo punto anche sulla traduzione. Ora, si può tradurre una frase “Defense de fumer, même une gitane”, con “Proibito fumare, perfino una gitana” e scrivere in nota “Marca di sigaretta francese”! Ma o si da per scontato che si conosca la Francia ed il fumo, e tutti (TUTTI anche i non fumatori) sanno cosa sia “una gitane”, oppure si decide che bisogna spiegare tutto, ma non si può scrivere “gitana”. Niente da fare, i traduttori tradiscono (quasi) sempre. Andiamo ad fumarci un cammello (pardon, una camel…).
“Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare.” (16)
“Se mai dovessi fare un viaggio credo che prima di partire noterei per iscritto i più piccoli tratti del mio carattere per poter poi fare un paragone, al ritorno, tra quello che ero e quello che son diventato.” (48)
“Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. … Un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.” (54)
“Ed io dove potrei conservare il mio [passato]? Non ci si può mettere il passato in tasca; bisogna avere una casa per sistemarvelo.” (85)
“Se soltanto potessi smettere di pensare andrebbe già meglio. … Il mio pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso … e non posso impedirmi di pensare.” (126)
“Ho voglia di andarmene, d’andarmene in qualche posto dove sia veramente al mio posto … Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.” (153)
“Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento … C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio; se si riflette non lo si fa.” (180)
“Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?” (220)
John Fante “Chiedi alla polvere” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama del 10 giugno 2012]
Che dire? Mi era rimasta impressa la faccia di Selma Hayek che faceva Camilla sullo schermo ed ho impiegato del tempo per decidermi a leggere il libro di Fante. Il film (a parte Selma) l’ho già dimenticato. Il libro è più difficile. Da dimenticare e da mandar giù. Perché Fante – Bandini riesce a farmi esaltare ed arrabbiare ogni poche pagine. Ma sicuramente ti prende, ti senti lì in California con lui. Ed è un vero reportage su un certo mondo che vive a Los Angeles, di emarginati, di gente in cerca di qualcosa, che vive di briciole. Oltretutto sentito fino in fondo, che quello è ancora il mondo del figlio di immigrati italiani, fuggito dal Colorado per cercare fortuna nel West, armato solo di una smisurata fiducia nella sua capacità di scrivere. Fante si sta avvicinando ai trenta anni, e si arrabatta con lavori occasionali e racconti pubblicati sporadicamente. Ma questo suo vivere al margine gli da materia per rivestire le sue esperienze, scrivere il romanzo, ed avere una parte di quella fortuna che pensa di meritarsi. Qui, Fante si cala di nuovo nel suo alter-ego Bandini, e narra un po’ sé stesso dal vivo ed un po’ romanzato. Con quell’albergo scalcinato dove puoi entrare dalla finestra senza farti vedere dalla padrona cui deve settimane di affitto. Con quel bar, il California Buffet, dove per 5 cent ti metti a sorbire un pessimo caffè. Con la fauna che popola l’albergo (l’ubriacone, le donne in fuga con figlia al seguito, le matrone in decadenza), con il droghiere cinese che ti passa di straforo delle arance con cui sopravvivi. E con quell’ego ipertrofico che gli fa annunciare ogni due parole: quanto sono bravo a scrivere, quanto sono geniale, quanta gloria avrò tra poco. In questo mondo ai margini, Bandini fa due incontri, con due donne ben diverse: Vera, assillata da problemi fisici, benché nascosti, e Camilla, la splendida messicana, irrequieta e spontanea. C’è una specie di triangolo aperto sotterraneo, che Vera si prende di Bandini che si prende di Camilla che si prende … della marijuana. E Bandini trasfigurando il suo rapporto con Vera scrive il romanzo che gli porterà il benessere (e che aprirà a Fante le porte di Hollywood dove farà, seppur scontento, per decenni lo sceneggiatore). Ma non riesce a star lontano da Camilla, la cui verve gli dà vita e pensieri e voglia di fare. Tuttavia il rapporto non decolla, che la prima volta che cercano di andare più in là, Bandini fa cilecca. E qui esce fuori tutta la cattiveria e la rabbia, da americano e da italiano. Da lì, ogni momento sarà buono per tormentare Camilla, per ripagarla con falsa moneta, perché non si può ammettere di aver fallito. Camilla però da spirito libero, non entra in questo gioco di Bandini, ed esce dalla porta più scomoda. Perché è scontenta della vita, perché non riesce a sopportare la mediocrità in cui vive dopo essere fuggita dalla povertà messicana. E fugge. Prima nella droga, e poi verso il deserto, nella polvere. Bandini ogni tanto rinsavisce, cerca di riavvicinarsi. Ma il solco iniziale è stato troppo violento, e non sarà possibile. C’è altro nel libro, c’è atmosfera, c’è tratteggio di situazioni interiori (quel rapporto ossessivo da immigrato italiano verso la religione intesa come valvola di sfogo quando le cose vanno male), ci sono cammei. Tutto in un libro che ha più di settanta anni, ma che (a parte il dollaro che aveva tutti altri valori) si legge con un’attualità sorprendente. Quello che mi respingeva ogni tanto (seppur scritto bene) è questa incapacità di Bandini non dico di fare un passo giusto, ma di ragionare in modo incoerente e di agire di conseguenza. C…o, ma fermati un attimo, pensa! Certo, l’autore si colloca ventenne e quindi irruento e quindi in formazione. Ma tutte quelle azioni sballate (poesie copiate male, telegrammi stupidi, parole fatte uscire dalla bocca senza aver connesso il cervello) mi facevano sentir male leggendole e mi facevano urtare verso Fante che le scriveva. Direte, ma questo è il mestiere dello scrittore. D’accordo, ma io sono un lettore umorale, e se i personaggi si comportano male in modo che non mi piace, mi storco. Però un bel libro, che avrebbe a suo tempo meritato maggior fortuna, visto che poi solo negli anni settanta fu ristampato e rivalutato. Hai dovuto aspettare molti inverni, Fante, altro che primavera! (Inciso finale, che non può mai mancare, sempre grazie a Luana che anni fa mi fece leggere il mio primo Fante).

Conclusioni

Questa volta ho delle obiezioni alla cura delle esimie dottoresse. Se c’è bisogno di essere catturati per guarire, Cèline è proprio l’esempio principe di una cura sbagliata. Ed anche Sartre e Saramago hanno le loro pecche. Certamente la “decina” proposta è di quelle di peso (premi Nobel ed altre glorie letterarie). Ma forse il solo Fante, con la sua scrittura asciutta (ma comunque piena) mi ha catturato tanto da farmi dimenticare i miei contorni. D’altra parte, è questa è la riprova, non sempre i dottori indicano la cura giusta. A volte c’è bisogno di aggiustamenti. E questo capitolo ne è l’esempio eponimo.

domenica 3 agosto 2014

Walad - 03 agosto 2014

Neologismo intradotto che indica un’insalata di donne (Woman sALAD). Dopo tutte le mescolanze fatte nel mese scorso, questa volta, infatti, abbiamo a che fare con quattro scrittrici di lingua inglese. E tutte di buono ed anche eccelso livello. Tutte inoltre alla mia prima lettura, con delle buonissime sensazioni per lo scritto di Siri Hustvedt, con il piacere (anche se non fin in fondo) del premio Nobel Morrison, e con la piacevole sorpresa dell’agevole lettura di Helen Simonson. Ed alla fine, ciliegina morale della torta, la lettura dell’inno alla carta stampata fatto da Helene Hanff con il mai troppo lodato 84 Charing Cross Road (lodato per il suo simbolo, anche se, come sottolineo, il libro è di resa normale). E non è un caso che siano anche libri pieni di citazioni e di rimandi.
Siri Hustvedt “L’estate senza uomini” Einaudi euro 9,50 (in realtà, scontato a 5,70 euro)
[A: 10/01/2014– I: 12/03/2014 – T: 13/03/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: The Summer without Men; ling. or.: inglese; pagine: 165; anno 2011]
Una nuova, splendente, interessante entrata nella mia pur vasta biblioteca. Entrata autonoma, che ne avevo visto recensioni in giro per librerie. Scoprendo poi che l’esimia Siri è, anche, moglie di Paul Auster. Ma per la lettura e per i suoi libri, questo è un dato assolutamente marginale. La bellezza di questo testo mi ha preso sin dalle prime pagine, dove, e finalmente, c’è una donna che parla da donna. In un’atmosfera che se fosse solo ironica, ricorderebbe quel bel ritratto della metà di niente della Dunne. Ma non è solo ironica, anche se c’è l’ironia. È dolente, è coinvolgente, è cattiva, è reale come la vita. Insomma, è bella e mi è piaciuta. Anche se l’io narrante non è nelle mie corde: Mia, una donna, intelligente, poetessa, colta, ma fragile, viene lasciata dal marito Boris, neuro scienziato, colto e stronzo, che si vuole prendere una “Pausa” (che nella fattispecie è una bionda francese), dopo trenta anni di matrimonio ed una figlia più che ventenne. Mia va in pezzi, tanto da finire per una settimana in un trattamento psichiatrico. Ne esce, ma deve ricostruire se stessa e la sua fiducia nel mondo. Per questo decide di andare nel “buen retiro” dove la madre sta invecchiando per gli ultimi suoi anni insieme a sue coeve amiche. E dove decide, di tenere un corso di poesia, cui si iscrivono sette fanciulle. Questa estate senza uomini è appunto la storia di questa estate passata a Bonden nel Minnesota, e dove (appunto) gli uomini sono solo lo sfondo della scena. Necessari ma se ne può fare a meno. Mia nel percorrere i suoi giorni, percorre anche tratti della sua vita. Ricerca le sue prime esperienze sessuali. Rafforza il legame con la figlia Daisy, aspirante attrice (che non sopporta la “Pausa” del padre). Conosce queste anziane signore, ed alcune le accompagna altrove. Muore la vecchia Georgine di 102 anni. Muore la simpatica Abigail, che per tutta la vita ha fatto ricami a mano, con una perizia tale che, quando li spiega a Mia, le fa vedere le trame nascoste dei ricami. Dove compaiono suntuose e lascive scene di sesso e di eroticità. Discute con la madre il loro diverso rapporto con il padre morto alcuni anni prima. Anche lui con le sue “Pause”, ma che sempre tornava ed era accolto dalla madre. E soprattutto, la storia delle lezioni di poesia e scrittura creativa con le giovani adolescenti. Che Mia scruta, trovandole diverse dal se a quella età, diversa dalla figlia a quella età, ma con tanti punti in comune. Il branco che lotta, la “pecora nera” (cioè quella diversa, per una qualsiasi ragione) che viene sbeffeggiata, allontanata, con tantissima crudeltà (come non ricordare la crudeltà dei giovani di cui si legge nei giornali, che portano anche al suicidio le pecore nere prese di mira). Le discussioni poetiche (stupendo l’Haiku che cito in basso). Le discussioni sull’amore (non solo con le giovani, ma anche con le anziane amiche della madre, durante l’analisi di un libro di Jane Austen). Le crisi che Mia riesce ad indurre nelle giovani, e la catarsi che ne esce fuori. E quel riandare periodico da un lato all’ospedale psichiatrico ed alla dottoressa che la cura e la tira fuori di lì, e dall’altro ad episodi e momenti della vita con Boris. Finché la “Pausa” non molla Boris, e questi tenta (ci riuscirà?) di riconquistare Mia. Il tutto contrappuntato da uno scambio di mail anonimo con un mai scoperto intellettuale, che prima la prende in giro, poi si mette a discettare con lei di massimi sistemi (dalla letteratura a Kant). Ma il nodo è lì: Mia che si analizza, Mia che percorre la sua vita, Mia che deve decidere se dare una nuova possibilità a Boris, Mia con la figlia Daisy, Mia con la madre. Insomma, un TuttoMia molto intrigante. E ben scritto. Da leggere e commentare (sulle possibili declinazioni del finale). Intanto, e solo per finire, una sonora tirata d’orecchi ai curatori dell’edizione italiana, poco accurati. A pagina 96 si fa riferimento ad una citazione/episodio descritto precedentemente, indicandolo avvenuto a pagina 57. Peccato che il formato delle pagine cambi da edizione ad edizione, da originale a traduzione, e così via. Per cui, in questo libro, il riferimento andrebbe collocato come avvenuto a pagina 61. Insomma, che ci vuole ad essere attenti?
“Ed io recitai la poesia di Ron Padgett ‘Haiku’: è stata veloce / intendo la vita.” (86)
“Un libro è una collaborazione tra chi legge e ciò che si legge e, se tutto va per il meglio, quell’unione è una storia d’amore.” (135)
Toni Morrison “Amatissima” Pickwick euro 10,90
[A: 04/01/2014 – I: 08/04/2014 – T: 12/04/2014] - &&& e ½
[tit. or.: Beloved; ling. or.: inglese; pagine: 406; anno 1987]
Saranno più di venti anni che la mia amica Cristina cerca di convincermi a leggere gli scritti del Premio Nobel 1993, l’americana Toni Morrison. E per una somma di motivi (stanchezza, casualità ed altro) avevo fino ad ora tralasciato questa potente scrittura nero americana. Preso ora da voglie di recupero di tanti testi passati (ma non invano) ho preso e letto questo scritto, tra l’altro Premio Pulitzer nel 1988. Che dire? Non è un testo facile, né una lettura che lascia indifferenti. Anche se, appunto, è pieno di citazioni e rimandi alla storia americana, non sempre decifrabili da noi poveri d’oltreoceano (e ringrazio per le esaurienti note al testo). Ed è, sopratutto, una scrittura personalmente ostica, che rimanda molto (pur con i dovuti distinguo) ad alcune belle prose sudamericane, con voli nello spazio e nel tempo, con sogni, con invenzioni ed irrealtà difficili da comprendere. Una specie di “flusso di coscienza” collettivo, che ci porta in pieno Ottocento americano, e per la precisione, nel pieno della metà del Secolo. Con tutte le lotte tra neri e bianchi, e tra bianchi e bianchi, che quell’epoca provocò la schiavitù. La Morrison, dobbiamo senz’altro dargliene atto, dà voce, e che voce, ai neri, tirando fuori, ad una ad una tutti i soprusi, gli abusi, le negazioni dell’individuo che l’epoca schiavista portò alla luce. Lo fa attraverso la storia di Sethe (tra l’altro lo spunto è una storia vera, qui romanzata e portata ad epigono di un momento storico), dei momenti della sua schiavitù, della fuga, del carcere, della libertà, dell’angoscia, e di un finale forse non allegro, ma forse speranzoso e non più disperato. La difficoltà, dicevo, è che il racconto non è lineare, ma va a balzi, passa da un personaggio all’altro, il quale ci porta i suoi pensieri, i suoi ricordi, di modo che, certo, alla fine, si potrà avere una pittura completa, ma bisogna prestare attenzione a tutti i passaggi (e non è un caso che ho impiegato più tempo a leggerlo e capirlo). Quindi da una parte c’è la storia come la possiamo ricostruire: Sethe è schiava in una piantagione dove non conosce sua madre, dove deve scegliersi un compagno nero che possa dare figli schiavi al padrone (sempre indecisa tra due, Halle e Paul D), nelle grazie dei padroni (più umani di loro simili negrieri) finché uno muore e la signora si ammala e cerca aiuto in un nuovo gestore della piantagione. Questo sarà come la quasi totalità degli schiavisti, pieno di rancore verso i neri (ma perché non si capisce), consentirà lo stupro di Sethe da parte del nipote, metterà ferri e catene ai neri validi per età. Tanto che un gruppo cerca di fuggire. Halle sembra scomparire. Paul D viene ripreso, messo alla catena, e solo dopo mille traversie riuscirà ad arrivare a Cincinnati. Sethe ed i suoi tre figli più la piccola che ha in pancia arrivano per primi a casa della madre di Halle (che questi aveva riscattato). Ma il cattivo padrone li ritrova e mentre sta per prenderli, per non essere di nuovo ridotta in schiavitù, Sethe uccide la figlia piccola. Tutto si ferma allora. La prendono, la processano, la giudicano pazza. Poi tornerà dalla nonna, in una casa piena dei fantasmi della figlia uccisa (che lei chiamerà solo e soltanto “Beloved”, Amatissima, come dice il titolo italiano, ma anche Adorata o Diletta, che avrebbe rispettato le 7 lettere dell’inglese). I maschi partiranno presto, e lei rimarrà con la piccola Denver. Dopo la morte della nonna li raggiungerà Paul D che per un po’ scaccerà i fantasmi, fino a che Diletta (così la chiamerò io) non compare di nuovo, come fantasma tangibile, intossicando la vita ai presenti, facendoli piombare nei rimorsi. Paul D viene subito emarginato. Denver pensa di aver ritrovato una sorella, la cerca, le sta vicino, ma si accorge ben presto che Diletta è tornata per tormentare la madre. Sethe proverà a spiegarle e spiegarci che stava uccidendo i suoi figli per non farli tornare schiavi. Ma Diletta non la comprende. E quel che è peggio, neanche Sethe, pur capendosi, si assolve. Fino a che, grazie alla costanza ed all’amore sia di Denver che di Paul D, Diletta scompare e rimarranno i vivi a cercare di portare avanti una vita non certo facile. La forza e la potenza del libro sono quegli squarci quasi giornalistici sulla crudeltà subita dai neri durante la schiavitù (e non a caso, il libro è dedicato ai milioni di persone morte durante la traversata atlantica nelle navi-prigione). La difficoltà (mia) è nel seguire le vicende di Diletta come se fosse vera, come se il fantasma potesse muoversi tra noi, agire fisicamente e non solo nella mente e nella coscienza delle persone. Ma il libro, che nonostante tutto consiglio di leggere, pone tante domande forti, oltre a quelle sul rapporto tra le due razze, tuttora irrisolto (lì e altrove). Pone domande sull’amore e sul rapporto tra Sethe e Paul D. Pone soprattutto domande sul rapporto genitori – figli e sui sensi di colpa che i genitori potranno avere (avranno) per tutta la loro vita, perché “un figlio è sempre un figlio”. Al solito, ora che ne scrivo, lucidamente dopo la lettura, trovo punti e spunti migliori, che durante le pagine mi lasciavano perplesso, e mi mettevano fatica. Chissà forse questo ci insegnerà qualcosa.
“Grande non significa niente per una mamma. Un figlio è sempre un figlio. È chiaro, crescono, invecchiano. Grande, però, cosa vuol dire? … Io la proteggerò quando sarò viva e la proteggerò anche quando non ci sarò più.” (64)
“Quello che è giusto non è detto che vada bene per forza.” (357)
“Io e te messi assieme abbiamo più passato di tutti quanti. Ora abbiamo bisogno di un po’ di futuro.” (382)
Helen Simonson “Una passione tranquilla” Pickwick euro 10,90
[A: 04/01/2014 – I: 30/03/2014 – T: 03/04/2014] - &&& e ½
[tit. or.: Major Pettigrew’s Last Stand; ling. or.: inglese; pagine: 438; anno 2010]
Quali circostanze del caso portano Mrs Jasmina Ali ad andare a trovare il maggiore in pensione Ernest Pettigrew proprio quando questi si sente mancare a seguito della morte del fratello? Da questo attacco in sordina, quasi a voler parlar d’altro, nasce l’interessante (seppur non eccelso) libro della Simonson. Inglese trapiantata in America, che con questo libro molto acclamato dai passaparola, ci descrive e ci fa vivere uno spaccato contemporaneo delle vicende che intercorrono tra i due personaggi nella campagna inglese. Il tono è quasi di un distaccato umorismo, laddove le descrizioni dei tic e delle nevrosi inglesi certamente suscitano del rilassamento nelle nostre facce intente alla lettura. Ma pur con una venatura ironica, non è un libro comico, anche se, nonostante tutto, l’ho trovato un libro allegro. La Simonson ambienta la vicenda nell’attuale campagna inglese, dove ci sono proprietari terrieri, piccoli lord in disarmo, un circolo del golf, le signore che gravitano intorno al pastore con le loro iniziative, tra il benefico e l’auto-referente, nonché immigrati di prima e seconda generazione. La storia ha un andamento lento per più di metà, per poi accelerare in un finale di lungo respiro e di buona resa. La lentezza serve a caratterizzare i personaggi. Al centro, il maggiore, vedovo da sette - otto anni, preso nella routine delle piccole cose quotidiane (la colazione, il tè, la cura dei fucili per la caccia alle anatre, le partite a golf e quella a scacchi, gli acciacchi che inevitabilmente porta l’età, e l’amore per i libri e la cultura). È un inglese di stampo antico, legato ai valori diremmo tradizionali, eppure non chiuso, non ottusamente fermo nelle sue posizioni. Di lato, l’altro personaggio centrale, la vedova Mrs Ali, inglese di nascita, ma pur sempre pakistana di origine, che gestisce l’emporio cittadino, e di cui scopriamo, pagina dopo pagina, l’intelligenza, la cultura (conosce sei lingue) e l’amore per i libri e per Kipling. Tra i due vediamo subito nascere una scintilla di piacere della frequentazione, che laddove si parla e si comunica non può non esserci un moto di convergenza. Ma per far scoppiare la convergenza, l’autrice ci dipinge, con capacità, la possibile vita di questa campagna. E le potenti lotte nell’ambito della cosiddetta convenienza sociale. C’è la morte del fratello del maggiore, e la conseguente lite tra le due famiglie per l’eredità dei fucili del padre colonnello. C’è Roger, il rampante figlio del maggiore, che costruisce la propria vita alla ricerca del denaro, dell’accumulazione, con una capacità, proprio laddove il padre sarebbe tranquillo, di coinvolgerlo in situazioni di difficile gestione. Affitti di casolari, improbabile rapporto con una bella americana (tipico l’atteggiamento tra vecchio e nuovo mondo quando si incontrano, anche se poi Sandy l’americana sarà capita meglio dal maggiore che dal figlio), battute di caccia dove Roger fa sempre più figure barbine. Ci sono le signore benpensanti, che devono organizzare il ballo annuale, e che vorrebbero accasare il maturo maggiore con la zitella Grace. Ma c’è anche la comunità pakistana, con altrettanto ferree regole di comportamento. Il rispetto delle decisioni dei maschi di casa, l’orrore dei rapporti fuori dal matrimonio, la pacchianeria di esposizioni di fiori finti. I nostri due vedovi, attratti dalle loro teste, a poco a poco si avvicinano, ma non sanno che lo status quo non è così facile da scalfire. Il punto di rottura si avrà al ballo organizzato dalle signore. Un ballo in costume, per celebrare i lontani fasti indiani, e rendere omaggio alla memoria del colonnello (il padre del nostro Ernest) che ebbe appunto i fucili al centro di quasi tutte le vicende come dono del maharajah avendo salvato la di lui moglie. Banchetto organizzato con l’aiuto delle due comunità, che però rompe l’equilibrio quando il capostipite pakistano si accorge che la battaglia celebrata fu dove persero la vita quasi tutti i suoi parenti. Rottura inevitabile. Maggiore in crisi che non sa che pesci prendere. Jasmina che torna in famiglia in Scozia lasciando il negozio al bigotto nipote (che però aveva pur sempre messo incinta la bella Amina). Qui si opera l’insight del maggiore. Lontano dalla quotidianità di Jasmina, cade nella più fatale delle depressioni, certo non aiutato dal figlio stupidino che si lascia con Sandy, cercando di circuire la figlia del Lord (che gli preferirà giustamente un magnate americano). Sarà invece proprio Grace che, rifiutando il suo ruolo, spinge il maggiore a ricercare Jasmina. Il maggiore la trova, si scontra con la di lei famiglia, capisce che anche lei, inespressamente, voleva un suo ritorno. E fanno una fuga d’amore, come se fossero ancora ventenni. Bellissima l’immagine di loro due nel freddo casotto di pesca, pur consci del loro passato, e non rinnegando i loro morti, cominciano a vivere, pur anziani, la loro passione. Contro tutto e contro tutti. Ci sono scene forti sul rivolgimento delle convenzioni e sulla forza della passione, che sarà pure tranquilla, ma se ostacolata, travolge tutto e tutti. Per questo la trovo una storia allegra. Perché molti si mostrano al fine come sono, e le persone che avranno la meglio saranno sempre quelle che mostrano più rispetto per l’altro. Anche quando i parenti dell’uno fecero male ai parenti dell’altro. Al fine, non posso definirlo un capolavoro, ma un libro da leggere, con qualche tocco di riflessione che non guasta. E che mi ha anche insegnato la parola “oleaginoso”, un termine più intenso di oleoso, perché contiene anche olio, oltre ad essere sguiscido. Un altro buon suggerimento delle ultime letture incrociate.
“Nessuno contempla la morte quando prende le decisioni per la propria vita.” (17)
“Mi rifiuto … di accettare che la vita sia fatta di tepore e buon senso. … Senza [la passione] due persone che vivono insieme possono ritrovarsi più sole che se vivessero ognuna per conto proprio.” (356)
“A volte il mio amico … sogna di vivere una vita che non può avere. … Invece noi, che potremmo fare tutto, noi rifiutiamo di vivere i nostri sogni solo perché non sono sensati.” (389)
Helene Hanff “84, Charing Cross Road” Archinto euro 10
[A: 18/02/2014– I: 24/05/2014 – T: 25/05/2014] - &&&&
[tit. or.: 84, Charing Cross Road; ling. or.: inglese; pagine: 120; anno 1970]
Un libro che non c’è bisogno di leggerlo per conoscerlo, ma che bisogna leggerlo per capire perché non si può non amarlo. Perché è un inno ai libri stessi, all’amore per la carta stampata, per la lettura, per la ricerca di connessioni tra testi. Ma anche un libro pieno di affetto, di amicizia, di rispetto. Ed una piccola fotografia in evoluzione di come sia cambiato il mondo stesso, dalla prima lettera con cui comincia, nel 1949, fino all’ultima, triste ed umana, nel 1970. E chi non conosce il libro, avrà comunque sentito parlare del film che ne fu tratto, con una magica interpretazione di Anne Bancroft ed una sempre eccellente di Anthony Hopkins. Entrambi, libro e film, oggetti di culto tra gli appassionati. È un libro epistolare, che riporta le più significative lettere scambiate dall’autrice Helene Hanff, per la maggior parte con Frank Doel, librario antiquario della libreria Marks & Co, sita, appunto, all’indirizzo del titolo. Helene, amante della letteratura, nonché squattrinata, dopo la seconda guerra mondiale, trova un’inserzione di libri antiquari acquistabili, lei abitante a New York, di là dell’oceano, in quel di Londra. Scrive, e comincia lo scambio tra lei e Frank. Dalle lettere emerge l’amore, di entrambi, per la carta stampata. La ricerca di testi rari, di connessioni, di edizioni integrali (che bei commenti sulla Vulgata della Bibbia o su alcune poesie di John Donne). Emerge in filigrana la vita dell’americana Hanff, che trova anche un suo spazio nel mondo dei libri. Prima come lettrice di testi, poi come sceneggiatrice di serial storici, infine anche autrice di libri per l’infanzia. Ed anche quella del compassato Doel, con la sua famiglia, e la passione per la ricerca della soddisfazione del cliente (tipico esempio del modo d’approccio di commessi anglo-sassoni, che sempre mi ha riempito di ammirazione). Ma tra un testo e l’altro, una citazione e l’altra, le lettere si riempiono anche di altro. L’inglese le manda la ricetta originale dello Yorkshire Pudding o la descrizione dell’incoronazione della regina Elisabetta. Helene ribatte con le partite di baseball dei Brooklyn Dodgers, l’invio di uova in polvere e di calze di nailon (articoli introvabili nell’Inghilterra del primo dopo-guerra). Gli inglesi troveranno in Helene una zia lontana cui inviare pensieri e foto  ricordo. Helene comincerà a mettere da parte dollari su dollari per cercare di visitare l’Inghilterra di Geoffrey Chaucer e di Frank Doel. Miss Hanff sbarcherà effettivamente in Inghilterra, dopo aver trascorso anni a guardare apposta film inglesi per scoprire come sono fatte le strade di Londra… Ma il tanto desiderato viaggio si realizzerà purtroppo troppo tardi. Nel 1969 Frank muore prematuramente a seguito di una peritonite e dopo poco tempo Marks & Co deve chiudere definitivamente i battenti. Eppure, quando finalmente riuscirà a entrare nella polverosa libreria che aveva dato forma e risposta a molti dei suoi desideri, Helene si rivolgerà all’amico tanto caro e mai conosciuto di persona, commentando, a metà strada tra il rimpianto e la riconoscenza: “Che ne dice, Frankie, finalmente ce l’ho fatta!”. Il libro, sottilmente, mai esplicitamente, ma con forza, ci ricorda sempre che dobbiamo lottare per ottenere quello che desideriamo, senza mai tirarci indietro. Annullando il tempo e la morte, attraverso l’unico modo sempre valido da millenni: attraverso la letteratura. Certo, io ora mi domando come si sarebbe trasformato il libro e tutto il contorno ai tempi di Internet, tra acquisti online divisi tra Amazon ed e-Bay, amicizie su Facebook, chat su Skype, pubblicazioni in e-book ed altro. Ma questo potrebbe essere l’inizio di un nuovo libro e di una nuova trama. In chiusura, devo però dire che, date le premesse, mi aspettavo uno scatto maggiore, un piacere maggiore della lettura. Forse perché pieno di citazioni ed incroci, avrebbe avuto bisogno anche di un più corposo impianto di note e spiegazioni. Per cui alla fine arriva “solo” a quattro libricini su sei. Certo, comunque un buon voto. Ed un libro (ed un film) da conservare nella memoria di chi ama la carta stampata.
“Sono una scrittrice senza soldi che ama i libri.” (1)
E veniamo allora, come ad ogni inizio mese, alle 18 letture di maggio, numero che ricorre spesso in questo 2014. Un mese di letture mediane, senza troppi sbalzi, illuminato solo da “La storia dell’amore” di Nicole Kraus ad inizio mese, ed oscurato in finale da un mediocre libro di Morozzi che a ben altre letture mi aveva abituato.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Gianni Simoni
Un mattino d’ottobre
TEA
12
3
2
Alessia Gazzola
L’allieva
TEA
12
3
3
Nicole Kraus
La storia dell’amore
Guanda
12
4
4
Silvana La Spina
Morte a Palermo
Et al.
9
3
5
Isabel Allende
Il quaderno di Maya
Feltrinelli
9
3
6
Jean-Yves Ferri & Didier Conrad
Asterix e i Pitti
Mondadori
s.p.
3
7
Robert Van Gulik
Il paravento di lacca
Repubblica – Noir
s.p.
3
8
Elizabeth Peters
Tomb of the Golden Bird
Robinson
12
3
9
Alessandro Perissinotto
La canzone di Colombano
Sellerio
11
3
10
Diego De Silva
Non avevo capito niente
Einaudi
s.p.
2
11
Cristina Rava
Un’indagine al nero di seppia
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
12
Èlisabeth Gille
Un paesaggio di ceneri
Marsilio
s.p.
3
13
Kathy Reichs
Le ossa del ragno
BUR
9,90
3
14
Gianluca Morozzi
Chi non muore
TEA
10
1
15
Kathy Reichs
Virals
BUR
s.p.
3
16
Helene Hanff
84, Charing Cross Road
Archinto
10
3
17
Italo Calvino
La giornata d’uno scrutatore
Mondadori
9
3
18
Francesco Guccini
Nuovo dizionario delle cose perdute
Mondadori
12
2

Agosto si sa è un mese capriccioso, in cui i giorni si mescolano tra loro. Quindi ecco un invio sul filo di lana festivo, e, per il futuro, alcune settimane di riposo per tutti. Si va verso la Francia, dove da troppo si era lontani. Torneranno le mie righe per voi, ma solo verso la fine del mese. Allora, riposatevi tutti, ricaricatevi.