domenica 26 marzo 2017

Camilleri's - 26 marzo 2017

Eccoci allora ad una bella quaterna dedicata al decano degli scrittori italiani. Con quattro libri diversi e di resa quasi tutta bassa. Non mi ha convinto uno degli ultimi “Montalbano”, non mi convince, al solito, una ennesima raccolta di racconti ambientati a Vigata, rimane lieve la raccolta-omaggio dedicata ai sogni. L’unico che si alza dalla media, è un romanzo di una decina di anni fa, ben articolato nelle varie componenti di personaggi ed azioni.
Andrea Camilleri “La giostra degli scambi” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 07/05/2015 – I: 25/08/2016 – T: 27/08/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 255; anno 2015]
Come confessa in finale l’autore, e come noi sappiamo dalla lettura di una sua cinquantina di libri, il più delle volte Camilleri prende una vicenda, un fatto, uno spunto “reale” e lo trasforma e lo interpreta nel suo mondo “letterario”. Il più delle volte significa che talvolta l’idea viene da altrove, o, come in questo caso, l’idea è correlata ad una parola che ronza intesta allo scrittore. E su questa, intorno a questa parola costruisce il suo romanzo. Quindi nessun fatto di cronaca che viene ad inserirsi nella vita tranquilla del nostro commissario, ma la parola scambio, anzi, come direbbe Camilleri nel suo siculo, “scangio”. Come in una giostra alla Schnitzler, allora, abbiamo tutta una serie di scambi, veri o supposti, che fanno da trama a questa nuova avventura dei nostri eroi di Vigata. Ne leggiamo con gusto, anche se il risultato finale è un po’ sotto le attese. Poco mordente, pochi momenti ilari come solitamente accadeva, tutto, forse, pervaso da quell’invecchiamento che non solo circonfonde il nostro più che novantenne scrittore, ma che adombra di scarse luci il poco più che cinquantenne commissario. L’idea dello scambio è già lì, nelle prime pagine, dove Salvo è tormentato da una mosca, che, anche se con difficoltà, uccide, per poi averne una nuova che ronza per casa. e si domanda: avrò ucciso quella che mi dava fastidio, o la mosca morta era innocente? Da qui si dipana la storia. Montalbano viene coinvolto in una rissa, e scambiato per l’aggressore invece che per il paciere che voleva essere. Il signor Virduzzo viene scambiato da Angelina per un ladro, e colpito duramente con una padella, mentre era venuto per denunciare al commissario una scomparsa. Due donne vengono rapite per poche ore, cloroformizzate e poi rilasciate, con l’unico punto in comune di essere giovani e di lavorare in banca. Anche loro scambiate per qualche altra donna? Finché noi ci imbattiamo nel mistero che dovrebbe essere il centro della vicenda. La scomparsa del proprietario di un negozio di elettrodomestici in seguito a un incendio doloso e, in una successione senza pause, un terzo sequestro, sempre di una ragazza che lavora in banca. Questa, Silvana, è la donna la cui scomparsa veniva a denunciare Virduzzo. Per tutta la vicenda Virduzzo cerca di parlare con Salvo, che la scomparsa Silvana è una ragazza che lui adotta, per darle agio di accedere alle sue proprietà (vista la non poca differenza di età tra i due). Anche se Virduzzo non sembra proprio limpido in questo atteggiamento. Che cerca di coinvolgere, o di incolpare, tal Bonfiglio, ben noto “puttaniere” (almeno secondo Mimì), coetaneo o poco meno di Virduzzo, ed amico, più o meno sincero, del Di Carlo. Bonfiglio che aveva avuto una storiella con Silvana, presto troncata dalla stessa, anche se foriera di forte gelosia in Virduzzo. Per riprendersi dalla storia Silvana va in vacanza a Lanzarote, dove incontra, qui certo casualmente, Di Carlo. Nasce lì nelle Canarie una storia d’amore, che i due “piccioncini” sembra vogliano tenere segreta. Sembra, ma è anche vero che, svolgendo indagini, Slavo ed i suoi scoprono che sia Bonfiglio che Virduzzo ne sanno. E sembra che entrambi ne patiscano una forte gelosia. Tutto precipiterà con il ritrovamento del corpo di Silvana, ovviamente uccisa. Noi seguiamo le indagini, e fino alla fine siamo presi dallo scambio anche fra i due possibili colpevoli: Virduzzo o Bonfiglio? Bonfiglio o Virduzzo? Chi ne leggerà saprà. Noi sappiamo solo qualcosa dei contorni. Ma non di quelli succulenti che prepara la brava Angiolina, né quelli, suntuosi, che imbandisce il ristoratore Enzo al suo commensale preferito. Sono i contorni degli eroi del commissario di Scicli, pardon di Vigata (non è un lapsus, è un omaggio), Fazio il preciso, che, in quanto preciso fa e farà sempre innervosire Salvo, Augello il latin lover (ma ad un certo punto mi sono perso la moglie Beba), e la “macchietta” Catarella, che con la sua presenza da commedia dell’arte serve ad alleggerire la vicenda nei momenti opportuni. Sono i contorni di Salvo Montalbano che, come tutti noi mortali, invecchia. Fortunatamente qui si interroga poco sul procedere della sua età. A me rimane solo quel bellissimo accenno a pagina 170 ad una mirabile poesia, che io invece riporto per intero: “Come pesa la neve su questi rami / come pesano gli anni sulle spalle che ami. / L'inverno è la stagione più cara, / nelle sue luci mi sei venuta incontro / da un sonno pomeridiano, un'amara / ciocca di capelli sugli occhi. / Gli anni della giovinezza sono anni lontani.” Non solo riporto, ma ne cito l’autore, che Camilleri non cita. Si tratta di Attilio Bertolucci, poeta e padre del regista Bernardo. Ritengo anche io, come molte trame nella rete indicano, che questo non sia né il migliore Camilleri, né tanto meno il migliore Montalbano. È però sicuramente un prodotto onesto, leggibile con facilità, di modo da aiutare i nostri aggrovigliati sensi a rilassarsi, nei moneti bui. Non mi sembra certo poco. Un piccolo pensiero finale, suscitato da questa lettura: spero che il mio amico Carlo trovi agio nella sua Marinella.
Andrea Camilleri “Il casellante” Sellerio euro 11 (in realtà, scontato a 8,80 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 21/11/2016 – T: 22/11/2016] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 140; anno 2008]
Alla fine del primo decennio di questo millennio c’è un’impennata nella produzione sempre rigogliosa del maestro siciliano. Tra nuovi libri, raccolte e racconti, nel 2007 sono pubblicati 8 testi, 9 nel 2008 e 10 nel 2009. Il 2008 tra l’altro vede due nuove storie inedite di Montalbano. Questo, invece, si colloca nel versante vigatese di recupero delle memorie e degli innesti di leggende di origine greca nella storia siciliana. Aveva terminato l’anno prima quella “Maruzza Musumeci” che si rifaceva al mito della sirena. Qui, tra diversi altri punti, la storia converge invece sul mito della donna-albero. Il mito di Smyrna (o Mirra) che tramutata in albero dopo nove mesi dà alla luce Adone, uno degli uomini più belli mai comparsi sulla terra, tanto da far innamorare Venere, e da ingelosirne Marte, che, tramutatosi in cinghiale lo uccide. Il sangue di Adone bagna la terra, dando luogo ad una vegetazione fiorente, per cui diventa simbolo della rinascita e della primavera. Ma qui non stiamo a parlare dei miti greci, che altro spazio e luogo meriterebbero, stiamo parlando del grande maestro e delle sue opere non montalbaniane. In questo breve libretto, inoltre, trattate di passaggio, ma ben presenti, sono diverse fila della costruzione del mondo di Camilleri. La storia di Nino e Minica si intreccia con le ferrovie siciliane, con il fascismo, con la guerra, con i legami tra mafia e sbarco americano in Sicilia, con la mafia stessa e l’impotenza dello Stato. La storia principale in realtà è abbastanza semplice. C’è Nino che si trova a fare il casellante di una ferrovia siciliana, sposa Minica, vogliono un figlio, lei rimane in cinta. Mentre nino è coinvolto in altre storie, di cui parlerò poi, Minica rimane sola, viene assalita, stuprata, quasi uccisa. Perde il figlio, perde la possibilità di averne altri e si avvia verso una china di follia. Tanto che decide di trasformarsi in donna-albero per generare la prole. Ma, al contrario del mito greco, Camilleri non crede (troppo) alle favole. Solo l’amore di Nino ed un inaspettato regalo di guerra porteranno ad una conclusione meno drammatica del previsto. Anche se quest’ultima parte, troppo onirica forse, va avanti in tono minore. Ma in cosa era coinvolto Nino per lasciare sola ed indifesa Minica? Per guadagnare qualcosa suona nella “barberia” del paese ed ogni tanto fa qualche favore al potente (mafioso?) locale, don Simone. Nelle scorribande musicali, per l’esuberanza popolare, si trova a stravolgere in mazurka un inno fascista. Scatenando (questa parte gustosa e drammatica) le ire del segretario del fascio. Durante il breve carcere avvengono i fatti di cui sopra. Sarà don Simone a tirarlo fuori, ad indicargli il colpevole, ad aiutare Nino nell’atroce vendetta. Chiedendo in cambio un aiuto per far sbarcare, nascondere e fuggire un americano (o meglio un siculo-americano) testa di ponte di quella che di lì a poco sarà lo sbarco in Sicilia. Questi i due lati della medaglia. E se da un lato ci si appassiona al dramma di Minica ed ai tentativi di Nino di assecondarla e di non farla cadere nella follia, l’altra faccia ha risvolti di controversa natura. Certo, sempre scritti con gusto, e con la capacità di Camilleri di farti entrare nel suo mondo di fantastica lingua, che si segue anche senza capirne parola per parola. Ci sono parti molto dense, e piacevoli. La storia, parziale e ristretta, delle linee ferroviarie siciliane. Che Camilleri ama, e che io ho provato in un fantastico viaggio da Palermo ad Agrigento, passando per quel di Racalmuto, e che ho trovato superlative nella loro semplicità. E nell’attraversa quei campi viola di erica. Siamo nel pieno della Guerra. Quindi ci sono i fascisti, da sempre e con feroce cattiveria, messe in berlina da Camilleri. Anche se si capisce la brutalità di alcune fasce provinciali (dove spesso la politica è presa a pretesto di vendette personali). Ci sono i soldati, che lasciati soli in luoghi sperduti, mostrano anche loro facce poco rassicuranti. C’è, potente, sommersa, presente e riconosciuta, la mafia siciliana. Che, nella persona di don Simone, una volta constatata l’impotenza della giustizia, a questa si sostituisce. Prima parentesi: è vero, è successo così, ma il tono di Camilleri è troppo accondiscendente, in questo caso. È vero, ripeto, lo Stato non avrebbe trovato il modo di punire il colpevole del massacro di Minica. Ma l’uso privato della giustizia che Camilleri avalla mi lascia qualche domanda in fondo alla testa. Non è che, di compromesso in compromesso, si scivola troppo lontano dall’etica che dovrebbe governare la nostra vita. Altro discorso, invece, riguarda il rapporto tra Mafia e liberazione americana. Senza il connubio tra Mafia siciliana e Gangster americani, probabilmente molto più lenta sarebbe trascorsa la guerra. Camilleri ci fa intravedere questo rapporto con poche ed efficaci parole, e molti sottointesi. Qualcuno, da qualche parte, ne ha sicuramente scritto meglio e più a fondo di me. Io volevo riprendere il tema e portarvelo alla luce del sole. In fondo, son meno di 150 pagine, ed al solito, Camilleri intreccia molte storie, ed ha molte frecce al proprio arco narrativo. Comunque l’ho trovato, seppur in calando nella fase finale, uno scritto meglio dosato dei precedenti, ed anche di alcuni successivi. Una stagione felice, questa del 2008. E lo sottolineo ancora ed ancora.
Andrea Camilleri “I sogni di Andrea Camilleri” Sellerio s.p. (prestito di Mamma)
[A: 01/01/2016 – I: 22/11/2016 – T: 23/11/2016] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 207; anno 2015]
Un piccolo divertimento ed un gradito omaggio che Sellerio ha fatto al suo più prestigioso autore (che ovviamente, ad ogni uscita, rimpingua notevolmente le casse dell’editore). Il 6 settembre 2015, infatti, Camilleri ha festeggiato i suoi 90 anni. Sellerio in omaggio ha pubblicato questo cofanetto-strenna. Che non ha molto senso, dal punto di vista del contenuto. Non è una nuova storia, non ha alcunché di inedito. È una astuta “compilation”, se mi consentite il paragone musicale, di tutti i momenti in cui, nei quasi 50 libri pubblicati dal maestro agrigentino presso le edizioni palermitane, si parla di sogni. O si sogna. Ma prima di parlare di sogni, parliamo della seconda parte del cofanetto, che contiene una diversa e diversamente gradita strenna. Al momento della pubblicazione del cofanetto, erano 49 i libri usciti da Sellerio: di questi viene riportata, a forma di cartolina, l’effige di copertina. E sappiamo bene che le copertine di Sellerio sono sempre delle piccole opere d’arte. Possono piacere o meno, ma hanno un loro perché, essendo spesso particolari di quadri, interpretazione grafiche, ed altre ben accette rappresentazioni. Dispiace che nella loro riproposizione, l’editore non abbia voluto inserire l’opera o l’autore da cui sono derivati. Tuttavia sono visivamente interessanti, una piacevole disamina di belle figure. Ma torniamo invece ai sogni. Non ad una loro disamina, che, nella loro essenzialità, vengono riproposti scarnamente, ed ovviamente fuori dal contesto dei romanzi o dei racconti che li contenevano. A loro uso, che, in Camilleri, si avvicina più ad una interpretazione junghiana del sognare, piuttosto che ad una stretta osservanza freudiana. Non hanno bisogno, come strettamente rilevava Freud, di una decodifica, di una “interpretazione”. Sono, come ammonisce Jung, totalizzanti. Rivelano cioè tutto del soggetto che li sogno e dell’oggetto del sognare. In questo cofanetto poi rileviamo che in ben 28 dei 49 testi da Sellerio, il nostro fa sognare qualcuno. Mentre nelle storie vigatesi, il sogno è sempre immediatamente funzionale alla storia, o a volte, come in “La mossa del cavallo” serve per chiuderla e lasciarci andare via, verso i nostri sogni, nei “Montalbano” hanno una funzione più complesso. Possono sì essere utili ad un memento di verifica di quale sia lo stato di Salvo. Ma soprattutto, possono permetterci una interpretazione del mondo di Montalbano, come lui stesso, ragionando con sé stesso, è portato a fare. Anche se potrebbe andare più a fondo. In “Il campo del vasaio” appunto, rivisitando il sogno in cui si spaventa della presa del potere statale da parte della Mafia (ed è un palese invito a non abbassare le armi verso i Grilli e i Salvini ed i loro epigoni vari), ricerca nel sogno i ruoli del suo mondo reale. Non ci stupiamo quindi che il buon Catarella possa assurgere al ruolo di “angelo custode” delle sbandate montalbaniane. E se ne avesse il coraggio, Salvo potrebbe anche scoprire che Fazio ed Augello non sono altro che due suoi alter ego, che fanno cose che lui vorrebbe fare, ma che… Certo non sarà mai preciso come Fazio, ma quando deve ricostruire storie ed episodi, anche senza i famosi “pizzini” del suo aiutante, si rivela di una precisione incontestabile. Certo vorrebbe essere uno sciupafemmine come Augello, ma pur rimanendo sempre fedele alla sua Livia, ha qualche onesta scivolata nella sana sessualità. Insomma, si parte dal sogno e si arriva all’anima dei personaggi. Perché come diceva Shakespeare ne “La Tempesta” (ed io lo avrei messo in ex ergo al volume) “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. Chiudo qui questa non trama, questo piccolo volo del vostro umile sognatore, riportando una frase che ben esprime questi modi di essere. Aspettando poi di tornare a più corpose letture. Dimenticavo, la quasi sufficienza deriva proprio da queste piccole mancanze che ho rilevato, sulle cartoline, e su un discorso leggermente più approfondito sul senso più che sul significato di questi sogni.
“Ma com’è che a cinquantasetti anni [ma anche a 60 e più, nota mia] faciva sogni da vintino? Forsi che la vicchiaglia non era accussì vicina come pariva che era?” (152) [estratto da “La caccia al tesoro”]
Andrea Camilleri “Le vichinghe volanti e altre storie d’amore di Vigata” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 19/10/2015 – I: 20/03/2017 – T: 23/03/2017] - && ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 308; anno 2015]
Un altro lungo capitolo delle storie di Vigata, dove il nostro “vecchio” della scrittura siciliana, orfani qui delle più complesse storie di Montalbano, ci offre una serie (otto per l’esattezza) di racconti. Che accettiamo per il piglio spavaldo con cui porta avanti il vigatese (tanto ormai sappiamo che bisogna leggerlo anche senza capire tutte le frasi, che il senso arriva), anche se, in quanto racconti, raramente hanno il respiro calmo e piano che questo genere di scrittura meriterebbe. Certo, c’è quel sottotitolo che lega le storie all’amore. Ma sono tutti momenti poco incisivi, tutte storie che sottendono frasi fatte, o momenti diversi. Soprattutto, mi sono sembrate troppo spesso piene di stereotipi, maschili e femminili, per cui non mi sono neanche tanto divertito. Prendiamo intanto il terremoto del ’38, uno scritto che in una quarantina di pagine cerca soltanto di ribadire il concetto “tutto è bene quel che finisce bene”. Dove è divertente l’intreccio di storie e storielle terremotate che gravitano nei quattro piani del palazzo Fulconis, ma dove non si capisce il senso di parlare del bombardamento del ’42. Nulla aggiunge al terremoto di 4 anni prima, se non con il pallino (più da Vitali che da Camilleri) di mettere giustamente in berlina il comportamento poco consono dei locali gerarchi fascisti. Dove invece il terremoto serve a far celebrare 4 matrimoni ed a sanare i debiti di due persone. Qualche sorriso e poco più. Anche il secondo testo si basa sulla spiegazione di un proverbio: “chi la fa l’aspetti”. Ma è molto in tono minore. Uno sciupafemmine deve mettere la testa a partito per ricevere l’eredità paterna (sposarsi e mettere al mondo un figlio). Schermaglie d’amore, abbandoni e vicinanze, ma Arturo Brucato (e che la moglie si chiamerà Matilde Mistretta?), avrà qualche sorpresa al momento della nascita. E che dire del terzo, dove il super antipatico zio Gennaro vuole mettere all’asta sua nipote Caterina? Bella ed un poco stonata, essendo l’unica rimasta viva di una piccola tragedia familiare. Ma per nascondere Caterina agli occhi del mondo la fa rinchiudere in campagna, dove c’è un nipote scemo e “abbisognevole d’aiuto”. Ovvio che noi si fa il tifo per Caterina, e con ragione. Assolutamente moscio il quarto, che poi dà il titolo alla raccolta. Queste quattro vichinghe, che vengono con il circo a fare evoluzioni sulle moto, e che il dottore di Vigata, scapolo e buontempone, vuole (e riesce) ad abbordare. Ma essendo quattro ha bisogno di tre compari. Che sfortunatamente sono sposati, così che la festa si trasformerà in qualcos’altro, e sarà interessante sapere per colpa di chi. Purtroppo, una volta saputolo, restiamo un po’ dispiaciuti che la trovata sia proprio, come ho detto prima, moscia. I due seguenti, pur con tracce diverse, ripercorrono il tema della ricerca di accoppiamento con conseguenze tentativo, a volte riuscito a volte meno, di liberarsi di qualcuno. Nel quinto c’è una specie di spirale, che Vincenzo per liberare ‘Ngilina, pur essendo sposato, uccide sbadatamente il marito di lei. Peccato che venga a sua volta ucciso dall’amante della moglie. I fantasmi, invece, com’è ovvio, non sono che dei travestimenti dell’amante di una vigatese che cerca di fare il proprio piacere in tempi di Carnevale. Lascio per ultimo il settimo, e passo un velo pietoso di silenzio all’ultimo, dove le pie e vogliose donne vigatesi si prendono di passione per il corpo, giovane e di certo ben fatto, del giovane Luicino. Ma non riusciranno fino in fondo nei loro intenti. Dicevo del settimo, quello che fa salire a due i libricini, che altrimenti erano proprio pochini. Non è una storia facile, quella della bella Matilde, che non va a scuola, che è bella e che vuole diventare santa. Motivo per cui sta più in chiesa che in casa. Riuscendo così a diventare diavolo tentatore per il parroco don Lucio. Cederà il parroco alla tentazione? Si salverà Matilde? Il laico Camilleri imbastisce l’unica storia con un po’ di sostanza, e con un finale misantropico ma realista. L’unico altro elemento di interesse è la collocazione temporale delle storie, tutte ambientate in una Vigata d’epoca, tra il 1910 ed il 1950. Questo potrebbe dare agio all’autore di deliziarci anche con pennellate storico-culturali. Ma a parte alcuni accenni ai gerarchi fascisti nel primo ed alle elezioni del ’48 nel sesto, non c’è molto altro. Come se fosse tutto sospeso in una nuvola atemporale, in attesa che si scatenino le passioni, che si soddisfino le voglie. Insomma, ben poca cosa, e senza grande coinvolgimento. Speriamo sempre che Salvo ci salvi…
Ho lasciato il commento finale al primo libro tramato, che così era al momento della scrittura. Purtroppo Carlo non ha fatto in tempo.
Io continuo a studiare viaggi sia a breve che a lungo termine, sperando che sia possibile renderli concreti. Vero amici? 

sabato 18 marzo 2017

Europa: N vs O - 18 marzo 2017

Sì, una lotta titanica tra un rappresentante dell’Europa dell’Ovest, che ha sempre scritto come se fosse ad Est, l’ottimo e compianto Saramago verso due campioni del nord Europa, l’inglese Barnes, sempre presente a livelli molto alti, e l’islandese Helgason, letto per affezione alla sempre cara isola del Nord. Un quasi pareggio, con delle ottime punte (e spunti) di lettura.
Julian Barnes “Il pappagallo di Flaubert” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 19/10/2015– I: 01/10/2016 – T: 04/10/2016] - &&&& e ½  
[tit. or.: Flaubert’s Parrot; ling. or.: inglese; pagine: 225; anno 1984]
Ne avevo a lungo rimandato l’acquisto prima e la lettura poi, quasi temendo di trovarmi di fronte ad un pastiche illeggibile sulla vita dello scrittore normanno. O, peggio, ad uno scritto che partisse tangenzialmente verso lidi altri. Poi è venuto “Il senso di una fine”, il mio affetto per il Barnes scrittore, nonché, ultimo tassello ma importante come ogni altro, il fatto che Barnes sia nato a Leicester. Qualcuno se ne domanderà la ragione, e qualche d’un altro darà la risposta giusta. Colloco comunque questo scritto tra gli autori moderni maschili, anche se è un pastiche non molto etichettabile in un solo genere. C’è, ed è molta, ed è foriera di pensieri nuovi e riflessioni profonde, la vita e l’opera di Gustave Flaubert. Ricca anche di aneddoti, di momenti vissuti, di elementi (noti o ignoti) che contribuiscono a disegnare un ritratto a tutto tondo dello scrittore di Rouen. Ma anche, e qui sta la mia ammirazione per l’autore, impostata come racconto “altro”. La finzione si impernia su di un dottore inglese da poco in pensione, da sempre ossessionato e appassionato di Flaubert, con una moglie (adorata) morta da non molto e tanto tempo libero. Per cui il nostro Geoffrey comincia ad approfondire questa passione, e a scriverne. Mescolando ricordi, storie della propria vita, viaggi verso la Francia e la Normandia, con spunti della vita di Flaubert, non disdegnando anche di utilizzare elementi eterogenei per far risaltare meglio la passione del supposto autore e la figura dello scrittore da analizzare. L’elemento scatenante il romanzo è la presenza di due diversi pappagalli impagliati, nei due luoghi deputati a Flaubert nei luoghi che di questi videro trascorsi la maggior parte della vita in quel di Rouen e dintorni. Quale sarà il “vero” pappagallo, quello che serviva da ispirazione e mentore allo scrittore mentre questi componeva il racconto “Un cuore semplice”, lì dove un pappagallo era il fulcro della vicenda che narrava la storia, semplice e squallida, della povera Félicité? Da questa domanda, e dalla inusuale risposta che ci verrà fornita solo alla fine del libro, si dipana il flusso discorsivo di Geoffrey. Che parlando di sé, dei suoi viaggi tra l’Inghilterra e Rouen, del suo amore per i formaggi francesi (ah, se lo capisco), del suo lavoro di medico (analogo a quello dei due Achille di casa Flaubert, il padre ed il fratello maggiore), del suo amore per la moglie Ellen, e delle libertà che questa si era presa nella sua breve vita, pur rimanendo sempre di fondo a lui fedele, ci porta in realtà nel mondo dell’idiota di famiglia, come direbbe una persona colta che ha letto Sartre. E andando su e giù per il mondo flaubertiano, ci presenta l’autore, la sua vita e le sue opere, da quella angolazione minore. Dicendo, narrando, a volta affondando il bisturi nella carne viva dello scrittore francese. Con alcuni momenti per me epici di scrittura: le tre possibili vite di Flaubert, l’esame universitario su lui e sulle sue idee. Vediamo, intuiamo, Flaubert ed il suo rapporto con le donne. A cominciare dall’amata e mai lasciata madre, che condizionerà tutta la vita. Ma per passare presto ai suoi amori (M.me Schlesinger che forse lo svezzò, la governante inglese Juliet, le prostitute egiziane, da cui prese la sifilide), per concentrarsi sul lungo rapporto con una gran bella donna del tempo, Louise Colet. Bella e libera, sposata, ma subito in amore con il filosofo Victor Cousin, che lascia per una lunga e tormentosa storia con Flaubert. Durata 8 anni, ed interrotta per l’arrivo di un nuovo amore, Alfred de Musset. Poi anche questo finirà, e la nostra dama continuerà a mietere successivi d’alcova per alcuni anni in Italia (pare abbia avuto anche una notte con Garibaldi). Ma qui ritorniamo al suo rapporto tempestoso con Flaubert, che per lei prendeva addirittura il treno onde incontrarla a mezzavia tra Rouen e Parigi (non avendola mai voluta fare entrare nella casa materna di Rouen). E dalle parole stesse di Louise capiamo, forse, molto dello spirito strano del nostro scrittore. Che viaggiò molto, anche in Oriente, soprattutto con l’amico Du Camp (che sosteneva, a ragione, che Flaubert amava l’idea del viaggio più che il viaggio stesso). Che ebbe un’intensa vita sessuale, anche omo con Louis Bouilhet, tanto simile a lui nella figura da apparire talvolta in fotografie come se fosse il “vero” Gustave. Che era misantropo. Che era maniacale in tutte le sue espressioni. Ed in controluce, citando pezzi, passi, momenti, escono fuori anche le opere di Flaubert. “Madame Bovary” con le sue citazioni velate ma non nascoste (una su tutte, Emma consuma l’adulterio in una carrozza, così come spesso avevano fatto Gustave e Louise). I racconti e gli aforismi. I ricordi orientali di “Salammbô”. Fin a quel libro incompiuto, quel “Bouvard et Pécuchet”, che si ricorda nei miei personali passi, quando nei miei trenta decisi che andava letto, e che lessi a dispetto di mogli, amici ed altri a me vicini che di questa lettura mi presero (e mi prendono ancora) in giro. Un libro che mi ha aperto uno spiraglio sul mondo di Flaubert che conoscevo solo di taglio, che mi ha incuriosito, facendomi approfondire luoghi e personaggi che non conoscevo (soprattutto Louise), pieno di parole, come spesso i libri di Barnes. Una lettura intelligente e stimolante. Che altro volere di più, a meno di non essere il pensatore americano Logan Pearsall Smith che cito qua sotto.
“L’unico sogno della democrazia – scriveva Flaubert – è quello di elevare il proletariato al livello di stupidità raggiunto dalla borghesia.” (93)
“Gustave, in un saggio su Rabelais, elenca i misfatti della civiltà moderna: ferrovie, fabbriche, farmacisti e matematici [sic!!].” (122)
“Questo distingue sul serio le persone: la differenza non è tra chi ha segreti e chi non ne ha, ma tra chi vuol sapere e chi no.” (144)
“Se il seno è piatto, si è più vicini al cuore (Louis Bouilhet).” (176)
“La gente dice che ciò che conta è vivere; io preferisco leggere (Logan Pearsall Smith).” (198)
Hallgrìmur Helgason “101 Reykjavík” Faber & Faber euro 20
[A: 24/06/2016– I: 01/07/2016 – T: 01/11/2016] - && e ¾   
[tit. or.: 101 Reykjavík; ling. or.: islandese; pagine: 370; anno 1996]
Fin dalla prima volta che sono stato in Islanda, cercando tra i libri che vengono citati come tipici della letteratura isolana, mi sono imbattuto nella citazione di questo libro. L’ho quindi cercato a lungo nelle librerie italiane, dove risultava tradotto anni fa ma ben presto uscito di produzione e senza scorte trovabili in vari magazzini. Benché poi ne sia stato anche tratto un film, diretto dal cineasta islandese Baltasar Kormákur, e di discreto successo (vincitore tra l’altro del premio giovani al Festival di Locarno). Questa volta, nella fornitissima libreria di Akureyri, ne ho trovato la versione inglese. Visto che, in ogni caso, ne avrei letto una traduzione, e nonostante il costo sia fuori dai miei canoni abituali (ma l’Islanda è costosa in tutte le sue manifestazioni), ho deciso di comperarlo. Non vi stupite, però, che abbia impiegato quattro mesi a leggerlo. Non tanto per la lingua in sé (certo leggere in inglese non sottintende la stessa velocità di una lettura in lingua madre), quanto perché è pieno di citazioni in slang, che ne hanno rallentato alquanto la lettura. Certo, ho anche imparato cose nuove (e non so se utili), come i nomi di molte parti del corpo femminile e maschile, nonché il modo colloquiale per indicare droghe e preservativi. Ma il risultato finale, non nego interessante, mi ha lasciato un filo perplesso. Facciamo comunque un passo indietro. E parliamo di Hallgrìmur. Senza patronimico, che in Islanda si chiamano tutti per nome. Inciso: in Islanda sono ammessi 1785 nomi maschili. Se vuoi dare un nome non compreso nell’elenco, devi chiedere l’autorizzazione al “Icelandic Naming Commitee”. Comunque il nostro nasce come pittore, anche di una certa rilevanza, poi conduttore radiofonico, e solo dopo i trenta anni comincia anche a scrivere. Tra l’altro ha il nome del grande cantore di inni cui è stata dedicata la bellissima chiesa di Reykjavík (la Hallgrímskirkja). Lavorando alla radio, tira fuori questo personaggio, Hlynur Björn, come epigono dei ragazzi islandesi, alla ricerca di un’identità, dopo tutte le rivoluzioni avvenute nel 1989 (la serie alla radio comincia proprio nel 1990). Sei anni dopo decide di dare una sistemata al personaggio, inserirlo in una storia, e proporci una visione scanzonata ma fedele (almeno nelle sue intenzioni) della vita islandese. Che poi, al di là della storia, invero molto lineare, l’intento dell’autore è quello di farci vivere momenti islandici dei giovani trentenni (e di come vedono il loro mondo). Dicevamo la storia. Hlynur vive con la madre Berglind dopo che questa ha allontanato il padre alcolizzato (che tuttavia è un brav’uomo, a parte la troppa birra). Berglind scopre di essere innamorata di Lolla, una consulente degli Alcolisti Anonimi, tra l’altro bisessuale. Prima che Lolla venga a vivere con i due, lei e Hlynur finiscono a letto. Ma è solo un episodio. Perché a questo punto la nostra attenzione si incentra su Hlynur. Che vive con il sussidio di disoccupazione (cosa assai frequente nei paesi nordici), che ogni tanto si accompagna con qualche donna (conservando come trofeo i preservativi usati, terribile!), e che, per la maggior parte del tempo guarda film prono di scarsa qualità, fa uno zapping ossessivo alla televisione e si masturba. Anzi è un teorico dell’onanismo, quando Hlynur passa ore e ore nudo in bagno; anche di masturbazione cerebrale, esemplificata dalla sua abitudine di associare ogni donna che vede a un ipotetico compenso in corone islandesi che sarebbe disposto a pagare per farsela. Lo vediamo avere un breve rapporto con Hofy (così chiamata perché sarebbe un po’ complicato chiamarla sempre Hólmfrídur Pállsdottir), subito interrotto quando lei rimane incinta, lo accusa di aver usato un preservativo scaduto, poi purtroppo avrà un aborto spontaneo uscendo ben presto di scena. Lo vediamo chattare ossessivamente con l’ungherese Katarina, lo vediamo andare a Parigi per incontrarla, dove però scopre che è fidanzata, e tutti i suoi sogni vanno in fumo. Lo vediamo avere altri brevi incontri. Per poi piombare nella saga finale, quando Lolla rimane incinta (e lui pensa di essere il padre, ma non è così) ed i tre, Lolla, Berglind e Hlynur cercano di capire se potrà sussistere una coabitazione tra loro. Tra loro quattro, che alla fine nasce anche il piccolo Halldor. Ma la saga è tutta sul titolo. Quel 101, il codice postale della capitale, è che si riferisce ad una piccola zona della stessa. Con le sue due o tre vie principali, la piazza dove insieme agli islandesi ho vissuto il campionato europeo di calcio, il porto, e poco altro. Cioè poco altro e molti bar, dove i giovani, Hlynur e i suoi amici, scorrazzano sbevacchiando fino al mattino. Allora, la storia sembra dover molto al film uscito poco prima che Hallgrìmur cominciasse a scrivere. Mi riferisco a “Peccato che sia femmina” di Josiane Balanko. Ma la capacità dello scrittore è di mettersi nella testa di Hlynur e di sciorinarci fiotti di parole, di associazioni mentali, di salti logici. Riuscendoci a farne un ritratto da sobrio ma soprattutto sotto l’effetto della birra o dell’ecstasy. Il libro ha vent’anni, è probabilmente (almeno nella mia percezione) è un po’ datato. Tuttavia ogni volta che leggo delle sue camminate per Laugavergur o Hverfisgata, eccomi tornato nella magica isola. Il punto debole è che non riusciamo ad affezionarci a nessun personaggio (ed ho volutamente tralasciato sia la sorella di Hlynur con la sua famiglia normale, sia un approfondimento dei suoi amici). E ci trasciniamo verso una fine che non è né una fine né un nuovo inizio. Ripeto, però che ha il pregio di portarti lì in Islanda, e di farti sentire come se fossi anche tu uno sfigato trentenne. Vero Jón Frankson?
José Saramago “La zattera di pietra” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[A: 12/06/2015 – I: 02/11/2016 – T: 10/11/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: A Jangada de Pedra; ling. or.: portoghese; pagine: 285; anno 1986]
Non amo particolarmente la scrittura di Saramago, che trovo spesso difficile, almeno per il mio leggere, tant’è che, insieme a Nabokov, è uno dei pochi scrittori di cui a volte ho abbandonato la lettura. Eppur tuttavia continuo a leggerne, sotto spinte diverse. Curiosità, temi trattati o altro. E sempre ne ho ritorni buoni. Come fu in “Cecità”. Com’è stato in questo più che datato viaggio di sospensione della realtà. In cui qualcuno ha voluto leggere (le mie biblioterapeute, ad esempio) uno stimolo per cinquantenni vogliosi di letture. Altri, come me, si sono lasciati trasportare dal duplice binario dell’autore. Concedendogli credito, e seguendolo, con interesse e curiosità, sino alla fine. Ho parlato di doppio binario, che nelle pagine del Nobel portoghese si notano le due storie intrecciantesi, ma con scopi e finalità ben diverse. C’è la storia delle persone, le due donne, i tre uomini ed il cane, che sono toccate e coinvolte negli eventi, ma che, bene o male, seguono anche un loro percorso, una loro costruzione, un loro scopo. E su queste torneremo. C’è poi l’evento scatenante, quello per il quale Saramago ci chiede la sospensione delle domande, ci chiede di entrare nella favola e lasciarsi trasportare. Perché, senza motivi spiegabili, si crea una frattura lungo i Pirenei, e la Penisola Iberica si stacca dall’Europa. Frattura che si ripercuote a sud, staccando Gibilterra dalla penisola. E questa zattera di pietra, scivolando tettonicamente nell’Atlantico, evita miracolosamente le Azzorre, poi si dirige verso sud, sistemandosi in mezzo, tra America ed Africa. Questa finzione serve allo scrittore per tutta una serie di strali politici ed etici. L’idea che Hispania (così si potrebbe chiamare l’isola ispano-portoghese) si stacchi dall’Europa, letta in questi momenti di crisi identitaria, è meravigliosa. Una Brexit ante-litteram però fisica. Vediamo il comportamento dei governi, le invettive, la politica. I tentativi nordamericani di crearne un ponte a loro favorevole, il comportamento stesso delle popolazioni. I turisti, i giornalisti, i commentatori. Tutti che non faranno altro che prendere cantonate, meritandosi le invettive corrosive del Saramago polemista. Che però sfrutta anche l’idea folle per cercare di rinsaldare i legami tra i due popoli. Ed il fatto che poi tutto si fermi lì, sulla via delle conquiste che gli stessi popoli fecero in Sudamerica, magari sfruttando da negrieri gli africani, è molto bella, stimolante ed immaginifica. Ma altrettanto bella, e più interessante per me da seguire, è l’epopea delle persone. Di Joana che tracciando una riga per terra con un bastone ha dato il via alla nascita della zattera. Di Joaquim che lancia un masso pesantissimo nell’acqua del mare, quasi a segnare una via alla navigazione. Di Maria che tesse un calzino che non ha mai fine e la cui lana servirà ad unire i nostri viandanti. Di José che viene seguito da uno stormo di uccelli sino a che non trova il suo spazio tra i viandanti. Di Pedro che sente, unico al mondo, la terra tremare, e la sentirà fino alla fine del viaggio, della zattera e suo. E del Cane che raccoglie gli sparsi viandanti, dà loro modo di riunirsi, e li condurrà, silente ma attento, per le strade ex-peninsulari. Fino ad allontanarsi quando il suo compito sarà finito. Il viaggio di questi umani uniti dal caso è quello che personalmente mi ha più avvinto, anche al di là della difficoltà di seguire la contorta prosa di Saramago. La ricerca della loro identità, la realizzazione dei propri obiettivi attraverso l’amore e l’amicizia. Il ruolo della donna che in Saramago non è mai subalterna, non è mai marginale, ma paritaria, con tutta la forza delle proprie convinzioni politiche. È bello vedere l’avvicinarsi prima di Joana a José, poi di Joaquim a Maria. La forza con cui entrambe le donne poi rivendicano il loro ruolo, le loro scelte. Insomma, un bel libro, difficile, giocato sui due piani. Seguiamo sempre tutte le loro peripezie, sia degli uomini compatti nelle loro avventure politico-etiche-geografiche, sia dei nostri eroi, della loro macchina (la mitica Due Cavalli), delle loro scelte, e di tutto quello che combinano. Di cui non vi parlo, lasciando a voi la voglia di scoprirlo. Ripeto, un libro difficile come lo sono spesso quelli di Saramago, ma che lascia dentro un mondo pieno di cose, vecchie e nuove, come le frasi che mi hanno colpito, e voi capirete come e perché.
“Si trattava per lo più di persone dalla volontà debole, di quelle che continuavano a rimandare le decisioni, non fanno che dire domani, domani, ma questo non significa che i sogni e i desideri non ce li abbiano, il male è che muoiono prima di poterne e di saperne vivere almeno una piccola parte.” (37)
“Non è dopo il sogno, che il sogno lo si può vivere.” (74)
“Chiunque è in grado di capire la differenza fra un addio e un arrivederci.” (107)
“Se per amare una persona si dovesse aspettare di conoscerla, la vita intera non basterebbe.” (128)
“È così che io sono, osservami bene … se volessi potrei attirarti nel mio letto … ma bella non sarò mai, a meno che non sia tu a trasformarmi nella donna più attraente che sia esistita.” (153)
José Saramago “Caino” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 13/02/2017 – T: 18/02/2017] - &&& e ½  
[tit. or.: Caim; ling. or.: portoghese; pagine: 142; anno 2009]
Fatto salvo che ne riparleremo prima o poi per le cure librarie (ovviamente nell’ambito della rivalità tra fratelli, ma non ne sono rimasto troppo sorpreso), andando avanti con l’età, la scrittura del grande portoghese mi rimane meno ostica del solito. Quando dicevo età, ovvio, che mi riferivo a José (non alla mia), ed al fatto che, per l’appunto, rispetto ai primi romanzi, quasi senza punteggiatura ed altre interpunzioni, quasi come fosse un unico lungo pensiero, da seguire con lui, le ultime prove (e questo che poi è proprio l’ultimo romanzo da lui scritto prima di morire) mi sono arse più leggibili. Ricordo ancora che non sono mai riuscito a terminare “L'anno della morte di Ricardo Reis”. Qui invece si legge, ed anche con discreta velocità, pur soppesando le parole come macigni. Certo, sono parole di un ateo che utilizza il Vecchio Testamento per i suoi scopi personali di lotta verso tutte le istituzioni, passate, presenti e future. Saramago discende da Omero e non dalla Bibbia, cristiana o ebrea che sia. Quindi sfida l’universalità che il primo omicida incarna nella sua (a meno come tramandataci) fosca figura, sfida la difficoltà che in molti si è avuta nell’affrontare caino e la sua storia, e le utilizza per il suo scopo preciso. Non tanto e solo per mostrarci un Dio irascibile e geloso, quanto (almeno questo è quello che mi arriva dalla pagina) per dire agli uomini: attenti a voi stessi, a quello che fate, siate coscienti dei vostri passi. La fine, altrimenti, sarà irreversibile. Anzi, visto che tutti sono malvagi, visto che non c’è speranza, come diceva il biblico giudice: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Peccato però che Caino non possa morire, quindi la sua vendetta sarà la più atroce. Tutti moriranno per le loro colpe, rimarranno solo Dio e Caino a ragionare su questo per l’eternità. Questo il terribile messaggio di Saramago, che tuttavia ci permette, in queste men che 150 pagine di afre una cavalcata nei massimi “topoi” biblici. A partire proprio dalla storia di Caino e Abele, almeno di quella cristiana. Dove si vede Abele il pastore rendere grazie a Dio con i migliori capi del suo gregge e Caino l’agricoltore utilizzare solo alimenti di seconda fascia. Dio gradisce solo Abele, e Caino ci rimane male. Da qui, interviene la potente penna del Premio Nobel. Dove Abele prende in giro Caino perché solo le offerte di Abele sono ben accette. Caino cui sale la mosca al naso, e uccide Abele. Dio che ne chiede conto. Caino che rifiuta di essere messo alla prova. Da qui la punizione: andar vagando per tutta la vita, senza che nessuno possa ucciderlo. Perché avrà il marchio sulla fronte. Questa bella idea, permette quindi a Saramago di far spostare nel tempo e nello spazio l’errante Caino, così che possa assistere a tutte le prove cui viene sottoposta l’umanità. Vediamo allora, con gli occhi di Caino la distruzione di Sodoma, la costruzione della Torre di Babele, i massacri dell‘esercito di Giosuè, le pene inflitte a Giobbe, il sacrificio di Isacco, fino alla costruzione dell’Arca ed al Diluvio Universale. Dove appunto si svolgerà il dialogo finale tra le due anime del libro: il Dio vendicativo del Vecchio Testamento ed il caino irriverente. Perché è proprio Caino che chiede conto di tutte le prove cui sono sottoposti gli uomini. Che chiede conto degli innocenti uccisi, ad esempio, nella distruzione di Sodoma e Gomorra. O in quelli che moriranno in seguito al Diluvio. Insoddisfatto delle spiegazioni divine (sempre sulla falsariga della messa in prova della fiducia umana verso il divino), Caino darà vita ad un finale senza appello: imbarcato sull’Arca, visto che ormai è segnato, uccide Noè e tutta la sua famiglia. Così che non rimarrà più nessuno. Quindi è proprio Saramago che, per la sua scelta personale, ripassa tutta la Bibbia, scegliendo le scene fondamentali dell’Antico Testamento tra quelle in cui Dio si manifesta direttamente agli uomini. Scene da cui sembra discendere un Dio collerico, ingiusto e, soprattutto, illogico del quale. Ma qui c’è la grande vendetta della parola: che per ribaltarne la figura (almeno nella sua immaginazione) deve comunque presupporne la presenza, l’esistenza, e soprattutto il Verbo, quello che venne detto in principio dei secoli e rimarrà iscritto per sempre. Non entro certo nel merito della discussione tra Caino e Dio, né tra quella dei lettori del grande scrittore portoghese, tra i fautori del Santo ed i sostenitori del Diavolo. A me, molto modestamente, interessa mostrare la grande capacità inventiva che ha uno scrittore puro anche quando raggiunge la soglia dei novanta anni. La grande capacità di coinvolgerci, di farci ragionare, anche di trovare le ragioni contrarie alle sue. Spero un giorno tornare su altri suoi scritti, vincendo la difficoltà (o forse la pigrizia) che mi hanno sino ad ora impedito di apprezzarli. Finisco anche con il dubbio se Saramago avesse avuto anche il tempo di affrontare, oltre il Caino cristiano anche quello ebraico e islamico. Laddove la storia è leggermente diversa. Che i primi due “nati da donna”, erano in realtà dei parti gemellari. Il primo diede vita a Caino ed Aclima. Il secondo ad Abele e Jumelia. Onde per generare figli e popolare la razza umana, Adamo decide che Abele sposi Aclima e Caino Jumelia. Ma Aclima è più bella, e Caino, incesti a parte (che ancora non erano previsti, visto che la razza umana era composta solo da 6 persone) la vuole per sé. Poiché invece, attraverso il rifiuto del sacrificio, Dio decide in accordanza con Adamo, Caino l’invidioso piglia ed uccide il fratello. Dove si capisce allora che è tutta una questione di donne. Come sempre. Sarebbe interessante, ma non è di queste righe. Allora ve la lascio solo come provocazione.
Terza trama mensile, ed allora, invece di curarci, ecco che cerchiamo di essere felici, magari evitando di andar per barche, o addentrandoci piacevolmente nella lettura di qualche antidoto, Renato permettendo.
Non vi meravigliate dell’anticipo di questa settimana, ma la domenica è di quelle intense. Non perché sia San Giuseppe o la festa del papà (festa che come tutte quelle “inventate” trovo riprovevole). Ma perché viene a valle dell’ottantesimo genetliaco del mio amico Franco cui vanno sempre i miei ringraziamenti per tutto quello che mi ha dato, ed a monte della festa rimandata ma non scordata (seppur privata) dei miei amici sessantenni.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

FEBBRAIO 2017
Invece di occuparmi del Natale, che ovviamente rimando a Pasqua, ecco che pensiamo al mare, ed a come salvarci da crociere e gite varie.

MALANNI DI STAGIONE (I)
PILLOLE PER IL MAL DI MARE

Tre uomini in barca (per non parlar del cane), Jerome K. Jerome
Questo piccolo romanzo è un gioiellino di divertimento e spensieratezza, una girandola di gag umoristiche surreali, una lettura di pura evasione grondante pungente humor inglese. Perfetto come lettura estiva, equivale a una boccata d’aria fresca in una giornata afosa, a un bicchierone di tè freddo. Nato come guida turistica sulla storia del Tamigi, si è poi trasformato in uno dei romanzi umoristici di maggior successo della letteratura inglese. È il racconto della spassosissima gita sul fiume di tre amici maldestri e un cane la cui unica ambizione di vita è quella di stare tra i piedi.
Tre uomini in barca è un rimedio efficace per i seguenti malesseri (che in estate tendono ad acutizzarsi):
ü  Ipocondria: se come Jerome, Harris e George soffrite di qualsiasi malattia tranne il ginocchio della lavandaia, una vacanza in loro compagnia può essere d’aiuto quantomeno per distrarvi dai vostri fantomatici acciacchi. Sembra che una gita in barca sul Tamigi possa fare miracoli.
ü  Tristezza da vacanze mancate: se siete appassionati di barca e mare, ma quest’anno avete dovuto rinunciare (magari a causa del ginocchio della lavandaia) o anche se non siete lupi di mare ma la vacanza è saltata lo stesso, tiratevi su il morale con le divertentissime disavventure dei tre amici alle prese con le gioie e i dolori della vita da marinai. La lettura è molto utile anche se vi hanno convinto a trascorrere le vacanze a bordo di un caicco ma vi sentite in appropriati. Il libro sarà un’iniezione di fiducia: se sono sopravvissuti i tre amici e pure il cane, potete farlo anche voi. Ma fate attenzione e leggetelo tutto, perché il finale potrebbe aiutarvi a capire se la vacanza in barca sia davvero opportuna.
ü  Cattivo umore: depressioni, disagi e malesseri tendono generalmente ad acuirsi d'estate, quando siamo tutti più suscettibili a causa del caldo, della stanchezza, delle notti in bianco molestate da afa e zanzare, delle città che si svuotano e dello scombussolamento degli abituali ritmi biologici. Non c’è niente di meglio che un cambio di location. Ma se non potete partire, basta anche un cambio di prospettiva. Le avventure dei tre uomini in barca e del fedele cane Montmorency favoriscono la naturale produzione di sana spensieratezza, facendo rivalutare il piacere dell’ozio (sacrosanto in vacanza), recuperando quell’innocenza che predispone l'animo a godere delle cose più semplici, come anche delle disavventure. Soprattutto, il libro garantisce al cervello una vacanza dai pensieri che lo affollano tutto l’anno.
Una cosa divertente che non farò mai più, David Foster Wallace
Come Tre uomini in barca in origine doveva essere una guida turistica, il saggio di David Foster Wallace avrebbe dovuto essere un reportage che lo scrittore americano, impareggiabile osservatore delle nevrosi della società contemporanea, avrebbe dovuto scrivere per la rivista «Harper’s». Ma la settimana passata a bordo di una lussuosissima nave da crociera diretta ai Caraibi è stata così sconvolgente che l’autore ne ha tratto un vero e proprio saggio di antropologia vacanziera. Una cosa divertente che non farò mai più è un capolavoro di virtuosismo in cui grazie a una scintillate e spudorata comicità, unita a un pizzico di perfidia, l'autore racconta un’umanità volontariamente imprigionata in una gabbia dorata di divertimento forzato a cinque stelle, tra intrattenimenti a tutte le ore e sorrisi indotti, specchio di una società consumistica che annega la propria inconsistenza nell’opulenza e nel benessere a tutti i costi.      
Il saggio (mai parola fu più appropriata vista la saggezza idi rappresentare lo spettacolo-carrozzone della vacanza) è un medicinale molto efficace in caso di:
ü  Stress di vario genere: vista la sua alta dose di spudorato e dissacrante umorismo, favorisce la naturale produzione di sorrisi incontrollati che aiutano ad allentare le tensioni. Ma attenzione, si ride a denti stretti e la medicina lascia un retrogusto amaro. Nel recensirlo, «The Guardian» lo ha definito un libro così divertente che non si riesce a smettere di leggerlo neanche quando ci si lavano i denti. Probabilmente lavarsi i denti aiuterebbe a contrastare il sapore amarognolo che lascia in bocca la lettura.
ü  Rodimenti da vacanze mancate: se, causa lavoro, situa-zione economica disastrosa o qualsiasi altro motivo, avete dovuto rinunciare alle vacanze, salite con David Foster Wallace a bordo della lussuosa nave da crociera per prendervi gioco con intelligenza dei vacanzieri senza iniziativa e del personale perennemente euforico. Già dalle prime pagine, il rodimento comincerà ad attenuarsi e vi sentirete subito meglio.
Avvertenza: se avete già prenotato una crociera, è sincera-mente sconsigliata la lettura perché potreste decidere di annullarla. Ma la medicina non ha lo stesso effetto su tutti i lettori e non sempre si verifica un calo del desiderio di partire. D’altra parte lo dice Wallace stesso, la crociera è un’esperienza divertente (che probabilmente non vorrete fare mai più). Al contrario, è molto probabile che vorrete leggere altri libri di questo arguto e dissacrante autore.
Robinson Crusoe, Daniel Defoe
Dal Titanic fino ai più recenti avvenimenti, le grandi navi sembrano perfino meno sicure della barca dei tre amici pasticcioni del romanzo di Jerome K. Jerome. Per i lettori particolarmente suggestionabili e vagamente ansiosi, la lettura di un classico come Robinson Crusoe potrebbe essere considerata poco opportuna. Invece, se assunta nella giusta modalità, può risultare molto efficace. Come quasi tutti sanno, anche solo per sentito dire, il celebre romanzo di Daniel Defoe racconta le avventure di un uomo che, dopo un naufragio, sopravvive da solo su un’isola deserta. Naufragare non è una prospettiva allettante, tanto meno passare ventotto anni su un’isola in quasi totale solitudine (sparire su un atollo in mezzo al mare è il sogno di molti in periodi di particolare stress, ma nella realtà si trasformerebbe in un incubo, anche perché l’esperienza non sarebbe di certo quella paradisiaca di Laguna blu). Probabilmente vi state ancora chiedendo quale sia lo scopo terapeutico di Robinson Crusoe e perché dovreste leggerlo proprio d’estate. Non è una cattiveria simile a quella dei palinsesti televisivi che, in prossimità delle partenze, si divertono a programma-re film su disastri aerei, treni che deragliano e navi che affondano. La somministrazione preventiva di Robinson Crusoe è consigliata in tutte le condizioni caratterizzate dalla necessità di aumentare il fabbisogno di ottimismo e intraprendenza, con l’obiettivo di ripristinarne i depositi in modo da esserne sufficientemente provvisti nel malaugurio caso in cui la vacanza naufragasse (in senso lato) e non andasse secondo i piani. Dopo la lettura, invece di abbandonarsi alla disperazione, il lettore dovrebbe essere naturalmente portato a rimboccarsi le maniche come Robinson, cercando di trovare sempre il modo di aggiustare le cose. Se lui riesce a cavarsela su un’isola deserta per ventotto an-ni, noi possiamo sopravvivere a una vacanza mal riuscita. Se la cura ha effetto, si può anche sperare di arrivare al raggiungimento degli stessi livelli di ottimismo del protagonista, i cui valori sono così alti da convincerlo che, sebbene sia difficile pensare a una condizione più miserevole della sua, c’è sempre qualcosa di positivo per cui essere grati. Se la medicina viene correttamente assimilata dall’organismo il lettore è vaccinato contro il pessimismo anche nella vita, che è un viaggio ben più impegnativo di qualsiasi vacanza.
Un consiglio in più, per non affondare
A proposito di vacanze che non vanno secondo i piani, litigi, convivenze coatte con familiari, isole, mare ed estate, consiglio la lettura di Gita al faro di Virginia Woolf. La numerosa famiglia Ramsay è in villeggiatura nelle isole Ebridi in compagnia di amici. Una sera organizzano, non sen-za contrasti, una gita al faro che poi sono costretti a rimandare a causa del maltempo. Solo dieci anni dopo, alcuni dei Ramsay riusciranno a realizzare il vecchio desiderio della gita al faro in una giornata in cui riaffioreranno ricordi e vecchie ferite. Come la gita è solo un pretesto usa-to dall’autrice per compiere un intenso viaggio nel cuore di una famiglia, così l’estate è solo un pretesto per consigliarvi la lettura di questo romanzo di Virginia Woolf e suggerirvi di trovare l’audacia di avventurarvi nella mente caleidoscopica, diligente, ironica, tormentata, introspettiva, lucida e dolente di questa impareggiabile autrice. Virginia Woolf si è suicidata annegando in un fiume, ma la sua opera è un flusso di coscienza in grado di salvare un lettore che si sente affondare trascinato dalla corrente.

Commenti

Alcuni di questi libri li ho letti ed a volte riletti già da molti anni. Lessi di Robinson ancora giovinetto, e lo rilessi l’ultima volta nel 2001. Lessi l’impareggiabile Virginia prima della caduta del muro di Berlino, nel 1988, e poi nel nuovo Millennio, nel 2003. In vece non sono mai riuscito a leggere (ancora) David Foster Wallace. Ho letto qua e là che alcune sue cose sono stupende, ma devo ancora vincere l’ostacolo della sua morte. Speriamo di esserne capaci. Intanto, dedichiamo alcune righe ad una trama intrecciata dedicata all’umorismo inglese.
[trama pubblicata il 28 novembre 2007]
In questo novembre da camino, castagne e camomilla (non mi veniva in mente nessuna tisana con la C), affronto quindi un quartetto composito. Sul versante classici ho riletto
Jerome K. Jerome "Tre uomini in barca” Rizzoli euro 6,80
perché, appunto, ogni tanto bisogna immergersi nei classici ed io Jerome l'avevo letto da dodicenne e mi ricordavo dei sorrisi. Ora, seppur molto datato, ne trovo l'infinita vena comica (e molta della comicità successiva viene da lì, per cui a volte sembra obsoleto, ma è solo precursore). Seguendo la corrente del fiume, infatti, i tre amici Jerome, Harris e George, assieme al fido cane Montmorency, viaggiano per giorni sulla loro fragile imbarcazione, scorrendo lungo le campagne inglesi, e vivono sempre nuove e inattese avventure. Una serie di gag comiche sulle gioie e sui dolori della vita in barca, unite a divertenti divagazioni che costituiscono storie a sé stanti, nel miglior stile dello humour inglese, e dove divagando si passano pagine e pagine, e poi si ritorna al fiume. Il tutto condito da descrizioni realistiche delle regioni attraversate dalla simpatica brigata e brevi notazioni di filosofia per non addetti ai lavori. Se volete fare uno sforzo però, vi consiglio di leggerlo nella versione originale inglese scaricabile gratuitamente da Wikipedia.

Finalino


Continuo a ritenere (ed a maggior ragione dopo queste letture) che la barca non sia un mezzo a me consono. Né tanto meno che io riesca a fare una crociera seria prima di raggiungere il crepuscolo dei miei anni. E quindi va bene così, io leggo e voi andate pure per mare. Ci si manderà una cartolina…

domenica 12 marzo 2017

Etica per K.H. - 12 marzo 2017

Questa settimana ci dedichiamo ai saggi, e per fare onore a quelli che più ho apprezzato, ne ho messo nel titolo. Perché ho cominciato a luglio con “Ética para Amador” di Savater (che consiglio in toto) e terminato a gennaio con “Cambiare idea” di Zadie Smith, dove c’è un bellissimo mini-saggio su Katharine Hepburn. Nel mezzo, due onesti saggi, che potevano essere più interessanti ed incisivi, su viaggi verso terre insolite e viaggi verso parole insolite, quelle della lingua araba. Insomma, una settimana per pensare e farsi venire il mal di testa. Per poi curarsi leggendo l’allegato.
Fernando Savater “Etica per un figlio” Laterza euro 8 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 01/10/2015– I: 10/07/2016 – T: 20/07/2016] - &&&& e ½
[tit. or.: Ética para Amador; ling. or.: spagnolo; pagine: 125; anno 1991]
Non ci si meravigli per la lunga lettura di questo breve testo. Il testo è breve, ma intenso, quando si parla di etica. Inoltre, stavo gironzolando con il mio gruppo avventuroso per i parchi americani, avendo ben poco tempo (ed energie) da dedicare alla lettura. Comunque è una lettura intrigante, scritta con un piglio tranquillo, a volte sanamente umoristico. Anche se, ed è ovvio, risente dei venticinque anni trascorsi dalla sua stesura. Sicuramente ci sarebbe esempi più “moderni” da portare a spiegazione delle affermazioni che costellano il libro di Savater. Ma l’impianto di base, le domande e le esortazioni di fondo sono e rimangono utili ed attuali. Qualcuno, parlandone e recensendone, ha tirato in ballo l’Etica aristotelica, quella postuma redatta dal figlio Nicomaco, quasi a fare un parallelo con questa che il filosofo spagnolo dedica al figlio Amador. Ma, paralleli a parte, forse il punto forte di convergenza è la visione che l’attività dell’uomo a per fine il bene, che il sommo bene è la felicità, che la felicità non è né può essere isolazionista, ma è solo in quanto condivisa. Quindi fare bene, essere felici, vivere una vita etica, porta a considerare il consesso globale in cui ci muoviamo, quindi, banalmente e forse riduttivamente, la politica. Intesa come lo sforzo comune affinché tutti si viva meglio. Facendo quindi salti su e giù per il libro, Savater ci porta a ragionare come per l’appunto l’etica non sia altro che il tentativo razionale di indagare su come vivere meglio. Vivere meglio qui, vivere meglio ora. Vivere la vita. Perché (e scusate se a volte riporto il pensiero di Savater non virgolettato, ma cerco di cavarne un mio sunto personale) quello che ci deve interessare non è tanto se ci sia o meno la vita dopo la morte, ma che ci sia anche (e sottolineo anche) prima. Qui siamo già in mezzo al guado, ed allora torniamo sulla riva, la prima, quella del primo capitolo, dove Savater ci spiega e ci fa comprendere che non è facile capire di cosa si occupi l’etica. Infatti la vera difficoltà consiste proprio in quella comprensione, che non arriverà neanche nell’ultimo capitolo, sul qual torneremo più avanti. Intanto, capiamo che etica implica la libertà di decidere cosa fare. Ma anche porsi delle domande, fondanti e difficili (e non solo per i giovani). Perché sto facendo questo? È bene quello che faccio? Perché bisogna essere responsabili delle proprie azioni, saperne accettare i premi e le punizioni. Nessuno può essere libero al posto nostro. Aprendo un inciso, perché, come si è detto sopra, etica è politica, come la mettiamo con le decisioni dei “politici” (questi sì tra virgolette, in quanto categorie di persone e non in quanto servitori del bene comune, servitori della “polis”), che fanno tutto per il loro tornaconto. Senza alcuna visione delle conseguenze, anche personali, di quello che si fa. Mi viene in mente un solo esempio, di un’illuminante nitidezza. Dopo aver preso delle decisioni personali che si sono rivelate sbagliate, ed hanno messo in difficoltà il proprio popolo, la propria nazione, il primo ministro islandese Sigmundur Gunnlaugsson si è dimesso. Non faccio altri commenti. Via via che leggiamo, capiamo sempre meglio alcuni facce dell’etica. Abbiamo detto etica come libertà, ma anche etica come scelta. Come negli scacchi dobbiamo sempre cercare una mossa che ci consenta più sviluppi, così le nostre scelte devono portare all’apertura e non alla chiusura. Perché Savater ci esorta fino alla noia di non chiedere ad altri come vivere, di chiederlo a sé stessi. Lo abbiamo visto in politica. Lo dobbiamo vedere anche nella sfera personale, nel sesso ad esempio. Sono e sarò sempre convinto che non c'è niente di male in quello che fa piacere a due persone e non danneggia nessuno altro. Anche se non si tratta di accanirsi a volere tutto insieme e subito, ma di trovare il lato piacevole di quello che si ha. Se si è liberi, se si è politici, se si è etici, come fin qui ci guida Savater, abbiamo quindi il dovere di rispettare la diversità delle forme di vita delle scelte personali. Tolleranza, rigetto del razzismo, dei nazionalismi, delle ideologie fanatiche, religiose e laiche, ne sono come i logici corollari. Finisco con un’ultima considerazione, che riassume, per me, il concetto sopra espresso, di etica e felicità. La vita umana è buona, è felice, se è tra esseri umani, se è condivisa, altrimenti può essere vita, ma non sarà né buona né umana. Ricordo infine che, utili per i giovani, ogni capitolo termina con degli spunti, con delle citazioni, con dei rimandi, utili per opportuni approfondimenti. Certo, alla fine, si lascia forse troppo peso sulle spalle dei giovani, e forse li si lascia troppo soli, nelle decisioni, nelle scelte. Ma se noi, adulti, si è fatto un percorso simile, consono, etico, forse consegue naturalmente che una persona in dubbio, in difficoltà, possa iniziare un colloquio. Proprio perché, domandosi di sé, non potrà fare a meno di non isolarsi. È certamente un libro, per com’è scritto, per com’è impostato, utile ed alla portata dei giovani che stanno attraversando gli anni più belli, ma anche più complicati, della loro vita. Ma è utile (come lo è stato per me) anche degli adulti, per riflettere su argomenti cui, magari, fino ad ora hanno dato peso ma non attenzione. Ed allora, con Savater, ripeto: “Abbi fiducia in te stesso”. Tu giovane, tu amico mio, tu mio distratto lettore.
“Non siamo liberi di scegliere quello che ci succede … ma siamo liberi di rispondere a quello che ci succede.” (10)
“Nessuno può essere libero al posto tuo.” (52)
“Il rispetto e l’amicizia che ci legano agli altri esseri umani sono per me … la cosa più preziosa al mondo.” (74)
“Bisogna essere capaci di lasciarsi andare al gusto del presente … questo non vuol dire … cercare oggi tutti i piaceri, ma … cercare tutti i piaceri dell’oggi.” (89)
Don George (a cura di) “Dove sono finito? (Storie inaspettate da luoghi inaspettati)” EDT s.p. (proveniente da via Tolemaide)
[A: 06/06/2015– I: 01/10/2016 – T: 21/10/2016] - && e ½ 
[tit. or.: Tales from Nowhere; ling. or.: inglese; pagine: 236; anno 2006]
Uno dei tanti libri recuperati dal trasloco “librario” dello scorso anno. Ma uno dei pochi che era rimasto non letto per anni. E che, devo dire, non ricordo neanche come e perché sia entrato tra gli scaffali. Posso solo ipotizzarne una provenienza viaggiante, visto che, benché in Italia sia edito da EDT, la fonte del libro è “Lonely Planet” e le sue pubblicazioni. E proprio da qui cominciamo, che l’editore italiano ha pensato bene di inserire un titolo “capzioso” (nel senso che cerca di catturare il lettore), che, probabilmente, sarebbe stato attratto anche da “Racconti da nessun luogo”. Che l’idea di LP, e del curatore Don George, era di chiedere a scrittori di viaggio di parlare del senso di spaesamento che si può provare quando ci si trova in un luogo “da nessun posto” (confesso che comunque, “nowhere” non è facile da tradurre). Tant’è vero che il sottotitolo è rimasto inalterato, almeno per farci capire di cosa stiamo parlando. Come sono rimasti inalterati i titoli dei brevi racconti, così che capiamo che, una volta comperato il libro, c’è poco interesse a fare i “capziosi”, meglio mantenersi sul sicuro. Purtroppo la lettura dei brevi “resoconti di viaggio” (che peraltro questo sono), non comunica quel senso di spaesamento che la prefazione pretenderebbe attraversare tutti gli scritti. Ci sono sì dei momenti in cui l’autore sembra non capire dove sia finito (da qui forse il titolo italiano), ma per lo più si parla di luoghi strani altri, in cui si è capitato, per caso o per scelta. Ma dove stanno i nostri trenta scrittori? Che per altro risultano a me abbastanza ignoti, a parte uno di cui ho amato un bellissimo libro di viaggi letto tanti anni fa. Parlo di Rolf Potts e del suo “Vagabonding” (e di certo capite come un titolo del genere non possa che starmi di molto caro). Dicevo stanno a Guandong (l’odierno nome di Canton), Timbuctu nel Mali, Perth in Australia, stradine dello Sri Lanka, strade montuose del nord Vietnam, un bar di fronte al lago Malawi, una passeggiata a Gerico, una chiesa nel Chiapas, lezioni di inglese a Beijing, una traversata atlantica su di un cargo, gli animali meravigliosi di un’isola subantartica, altre strade disastrate ma questa volta in Thailandia, giornate ventose nell’Isola di Pasqua, giornate abborracciate nella Slovenia appena liberalizzata, una visita nel “peggior paese del mondo”: la Guinea Equatoriale, la ricerca dei medici che diagnosticarono la SARS in Cina, l’uragano Katrina nella baia del Mississippi, un’intervista con una donna scampata ai lager nazisti in quel di Lidice nella Repubblica Ceca, una foto di gruppo da un villaggio azero, la visita agli orrori di Pol Pot in Cambogia, un ristorante un tempo famoso poco distante da Mosca, in quel di Valdaj (e qui ci ritorniamo), alcuni giorni nella polinesiana isola di Pig, un abborracciato museo in Kansas, un viaggio metropolitano nel cuore di Londra, per trovare Kensington abitata da immigrati arabi e asiatici, una cena a Hat Yai in Thailandia, dal ritorno dalla Malaysia, un safari nel Botswana, una gita in Toscana, un perdersi (come solo sanno fare gli americani) nella Death Valley, una jeep rotta alle pendici del monte Kenya, un ultimo giro di barca nel Borneo. Spero di avervi fatto fare anche a voi un bel “giro del mondo”, con queste toccate qua e là sul mappamondo. Riprendo solo al volo il ristornate e la gita a Valdaj, per ricordare che se ne parla in un libro non famoso (il “Viaggio da San Pietroburgo a Mosca” di Aleksandr Radiščev del 1790) che ha il pregio di aver messo i primi mattoncini di tutto quello stravolgimento planetario che cominciò allora pian pianino, e che solo 200 anni dopo si è fermato. Bello spaesamento, nevvero?  Che è poi quello che ho fatto io, anche se non mi sono perso, e delle trenta mete “spaesanti”, ne ho toccate già 20! Forse l’unico commento serio potrebbe essere indagare su quel senso di comunità che io sento, insieme a gente di tutti i colori, a gente che proviene da ogni dove. Possono essere cristiani o indù o musulmani o ebrei o pagani o atei. Possono essere giovani o vecchi, uomini o donne, soldati o pacifisti, ricchi o poveri. Con tutta questa gente condivido valori comuni di umorismo e di comprensione reciproca. Insieme a loro non mi preoccupo di razza, di fede, di sesso o di nazionalità. E neanche e soprattutto di nessun atteggiamento “politicamente corretto”. Siamo sempre una minoranza vagante, ma in fondo una nazione potente, se avessimo il senso di essere una nazione. Siamo quelli sempre felici se montano su di un aereo, se entrano in un vagone ferroviario. Siamo la nazione del “nessun luogo”. Peccato che il libro non riesca ad esprimerlo.
“Avevano acceso un falò attorno al quale si stava riscaldando un gruppo di uomini, tra cui molti membri del gruppo musicale tuareg dei Tinariwen.” [allora, Emilio?] (11)
“Si impara guardando e ascoltando, non parlando. Per questo abbiamo due occhi, due orecchi ed una sola bocca (proverbio vietnamita).” (32)
“Cercavo un posto sereno, senza arrivi né partenze.” (219)
Alessandro Vanoli “Storie di parole arabe” Ponte alle Grazie s.p. (regalo di Silvia)
[A: 25/12/2016 – I: 27/12/2016 – T: 30/12/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 145; anno 2016]
Come ormai sapete, i regali ed altri omaggi “fuori contesto” vengono messi in una lista prioritaria di lettura, poiché ho piacere che il mio giudizio ritorni all’omaggiante prima che questi si sia scordato di avermi fatto un regalo. Così, solo per ordine di pagine, inizio le letture post-natalizie da questo dono di Silvia, al solito dedita alla ricerca di libri particolari. Come questo, in effetti, da cui, tuttavia, dal titolo e dal contesto mi aspettavo qualcosa di più e qualcosa di diverso. Il saggio è agile, l’autore (non ancora cinquantenne, beato lui) scrive in modo facile e sufficientemente accattivante. Tuttavia prima di leggerlo mi aspettavo vuoi una disamina di parole e di come esse possano influenzare il modo di vedere e di sentire del mondo arabo, vuoi un’analisi delle contaminazioni che le parole di origine araba anno indotto nel nostro modo di parlare. Certo questa sarebbe più propria di un libro magari intitolato “Arabismi”, con il quale, secondo una traccia che l’Enciclopedia Treccani ci fornisce in modo sintetico ed esauriente, si poteva individuare il nostro parlare attraverso l’arabo. Mi vengono in mente, citando alla rinfusa e pescando nel mondo siciliano (uno dei più vicini e più a lungo a contatto con la cultura araba) toponimi vari come Racalmuto (da “rahl” casale), Calatafimi (da “qal’a” castello), Gibellina (da “Jabal” monte) fino a Pantelleria (da “bin’t al-rayi” figlia del vento). Ma sarebbe un elenco bello e compendioso che può spaziare dall’algebra (“al-giabr”) ai facchini (“faqih”), dagli alimenti (albicocche “al-barquq”, carciofi “kharshuf”, arance “narangia”, limoni “limum”, asparagi “aspanakh”, zibibbo “zabib”, zucchero “sukkar”, zafferano “za’faran”) che trasportavano le carovane (“carwan”) sino al signorotto che seduto sul divano (“diwan”) giocava a scacchi (“schiah”) sorseggiando caffè (“kahvé”). Ma non è questo il libro di Vanoli, che, subito dalle prime righe, ci porta in altro contesto, come dice il sottotitolo (“Il racconto di un mondo mediterraneo”). Perché non si parla solo e soltanto di parole arabe, ma di parole che associamo al mondo arabo, e che tuttavia vengono, nascono, maturano, anche in altri contesti. Il percorso di Vanoli è sì circolare, che parte dagli arabi e finisce nel mare, ma è un percorso (direi ad ostacoli) che ci narra di elementi del contesto. A volte, purtroppo, sembra quasi una riproposizione dotta e meglio elaborata di schemi provenienti da Wikipedia. Certo si parte da una grande affermazione, condivisibile e spesso dimenticata. Quella che confonde, soprattutto ora nel nostro presente storico, arabi e musulmani. Arabi ce ne sono tanti, spaziando dal Marocco all’Indonesia, ma è una questione di lingua e non di religione. Quanti ne abbiamo incontrati nella nostra vita viaggiante di cristiani arabofoni? La religione è invece l’islam (come dice bene e con correttezza il Corano), una parola dalla radice “slm”, la stessa di pace (“salam”), che in questa forma significa “sottomissione”. Ciò che si sottomette, che segue, la vera religione. Da qui si parla della scrittura utilizzando il calamo (parola d’origine greca, e di cui ricordiamo la favola dell’amore gay tra Calamo figlio di Meandro e Carpo) e citando la bellissima “Sura del Calamo”, si parla degli idoli (anche qui dal greco “eidolon” simulacro) e del loro sostituirsi al vero dio (con tutta la propaggine di iconoclastia che ne è derivata nel tempo). Viaggiamo per le oasi del deserto, anche se in antico Egitto oasi era un nome proprio del sito di Dakhla, con la parola derivante dal copto “ouahe”. Oasi dove riposavano i beduini, questo sì un forte derivato arabo, da “bedawiyyin”, cioè abitanti del deserto). Avrebbe avuto necessità di migliore e più approfondita analisi l’hammam, che nasce storicamente fin dai tempi dei greci (o almeno i greci sono i primi ad istituzionalizzare una pratica presente nell’antichità fin dai tempi faraonici) per poi passare a modalità irreggimentate con i calidarium romani (nonché i suoi frigidarium e tepidarium), tanto che il termine “spa” si fa derivare dal “salus per aquam”. Ma sarà il mondo arabo, e poi quello turco in particolare a far diventare questi bagni un elemento cardine della vita sociale. Si passa poi a termini architettonici, quale minareto (da “manar” faro), o le coperture alle finestre (siano esse persiane o veneziane) che separano interno ed esterno. Ad alcuni termini gastronomici (pepe e zafferano). Per terminare con i tulipani (e sarebbe bello anche qui potersi introdurre nella famosa bolla speculativa dei tulipani nell’Olanda del 1600) e con il divano. Che non è altro che un elenco, che poi diviene un luogo dove si ascoltano elenchi di cose (lagnanze o merci) seduti comodamente. Tanto che il luogo prende il posto della funzione. Inciso, da “diwan” deriva anche un elemento della nostra frontiera, la dogana (diwan à doan). Terminando come dicevo all’inizio (circolarmente e vi spiego perché) con il mare. Cioè con quel Mediterraneo, che tanti nomi ebbe nella sua storia, da Mare Nostro (perché era l’unico conosciuto) a mare Bianco (che era il colore del sud), fino a consolidare questo “Medium terrae” cioè che sta tra le terre. Che proprio gli arabi solcarono abilmente nel momento del massimo fulgore (ecco la fine del cerchio). Mare che sta tra le terre note, tripartite e tridivise, tra le terre dei discendenti di Noè: i giafetici in Europa, i semitici in Asia ed i camitici in Africa. Purtroppo l’analisi di Vanoli è troppo rapida, soprattutto in quest’ultimo passo che ben altra andatura ha avuto (anche nella mia mente lettrice) nei bellissimi libri di Predrag Matvejević (“Breviario Mediterraneo”) e Fernand Braudel (“Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione”). Spero che queste righe vi abbiano incuriosito abbastanza per andare ad approfondire i vari elementi, e magari per convincermi a riprendere gli “Arabismi” sopra citati.
Zadie Smith “Cambiare idea” Minimum Fax s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 25/12/2016– I: 13/01/2017 – T: 25/01/2017] - &&& e ½ 
[tit. or.: Changing Minds: Occasional Essays; ling. or.: inglese; pagine: 387; anno 2010]
Altro libro entrato come regalo durante il festoso Natale, e per questo presto letto. Anche se con lentezza, non tanto per la mole di pagine, ma per la loro densità. Questi saggi occasionali (come sottolinea il titolo inglese) della scrittrice britannica spaziano dalla letteratura al cinema e dal quotidiano di nuovo alla letteratura, offrendo non pochi spunti di riflessione. Allora perché non qualche libricino di gradimento in più? Perché ci sono parti che sembrano un po’ riempitive e che danno al tutto un carattere leggermente disomogeneo rispetto a quanto servirebbe per un saggio ben organizzato. Penso ad esempio al reportage sulla Liberia, interessante per alcuni spunti sulla vita quotidiana in quella sperduta parte africana (una delle tante dell’Africa Centrale che ancora non ho visitato), ma con poco ritorno in pensieri e meditazioni. Intanto ritorno dopo quasi dieci anni alla scrittura dell’anglo-giamaicana Zadie, anche con piacere, visto che il primo libro che di lei lessi mi piacque anche se non mi entusiasmò. Con il piacere dato proprio dalla molteplicità degli spunti che queste pagine sparse fanno nascere. Fin dall’idea iniziale, quella che voleva come titolo “Fallire meglio”, in omaggio alla frase di Beckett “Try again. Fail again. Fail better” (Prova ancora. Sbaglia ancora. Sbaglia meglio). Titolo che, in corso e finale d’opera è poi diventato “Cambiare idea” perché gli scrittori, e noi con loro, non devono aver paura di cambiare idea. Cambiare idea su come scrivere, cambiare idea su cosa scrivere, cambiare idea su cosa vedere. Anche cambiare idea sul libro che, dalla copertina, pensavo parlasse di Spencer Tracy, mentre poi scopre (e con piacere) che invece parla di Katharine Hepburn. Ma anche di Anna Magnani e di Greta Garbo, di momenti intimi della sua vita famigliare e dei fastosi soggiorni a Los Angeles durante la settimana degli Oscar; e parla molto di letteratura, e di scrittura, finendo in crescendo con degli acuti mini e micro saggi su Franz Kafka, su Vladimir Nabokov e su quello che lei preferisce (ma su cui torneremo più avanti) David Foster Wallace. Il libro si apre con il saggio “Sentirsi del mestiere”, nato da una conferenza alla Columbia University, dove Zadie Smith racconta agli studenti del corso di scrittura i vari momenti della gestazione di un libro, del diverso modo che hanno gli scrittori di affrontare la pagina, del momento in cui si passa dal panico di non scrivere a quello di scrivere troppo. Qui, ma anche in altri punti, Zadie da un consiglio fondamentale: che siate scrittori o meno, leggete, che le parole altrui sono molto importanti. Anche se, ma questo è il mio vissuto, spaventano: ti danno la sensazione che sia stato scritto tutto. Ed allora perché farlo ancora? Poi si cambia registro, ed io mi immergo in una delle sezioni più belle e sentite. Il cinema, Katharine, Greta. Ma su tutto e su tutti, il ritratto di Anna Magnani e della genesi di “Bellissima”, un film capolavoro, che dovreste vedere (o rivedere). Non è spiacevole, anzi è molto coinvolgente, anche il passaggio personale, i ricordi familiari, la rivisitazione della figura del padre dalle molte vite. Nonché quell’ombra di fratello che passa sulle pagine e resta sul palcoscenico. Poi si finisce con le sezioni dedicate direttamente ai libri. A Zora Neale Hurston ed a “I loro occhi guardavano Dio” (che se avrete pazienza tra qualche mese verrà a condire le mie trame). A E.M. Foster, a George Eliot, a Nabokov, a Kafka. Come detto poi, si finisce con una lettura, lunga, bella, appassionata, di David Foster Wallace e del suo “Brevi interviste a uomini schifosi”. Un saggio che mi è piaciuto, che secondo molti già vale l’acquisto del libro. Peccato però che io non riesca, da sempre, a leggere nulla del compianto David. Sarà la morte che mi spaventa, soprattutto quella vicina. Sarà il fatto di averla scelta e non subita. Non so, ma non sono ancora riuscito ad aprirne una pagina. Speriamo che Zadie mi convinca. Come, alla fine, mi ha convinto a cambiare idea. Non sulla letteratura, ma su Spencer Tracy, un attore che da sempre ho ammirato per la bravura, ma che, devo riconoscere con la nostra scrittrice, è stato non poco “stronzo” nella vita reale. Fortuna che Katharine era bella ed intelligente per tutti e due. Ed io mi metterei a leggere e rileggere quanto ne scrive Zadie a proposito di quel film che, personalmente, mi fece innamorare di lei. “Susanna” con lei e Cary Grant. Se non lo conoscete, è un film culto, da ricordare per quella camminata sincronizzata che ha fatto la storia del cinema. Grazie Zadie, bastava questo per farmi innamorare della tua scrittura. Poi si è aggiunto il fatto che il libro me l’ha regalato Alessandra. Beh, ho finito le parole!
“La possibilità del piacere fra due persone non può far passare in secondo piano la certezza del dolore altrui.” (139)
“Non sono mai stata capace di sopportare la vista di qualcuno che sale su un palco e ci lascia le penne, figuriamoci poi se è un mio parente di sangue.” (202)
“La vita è infinita, finché non si muore – Edith Piaf.” (210)
“Con i mariti la terza volta è quella buona.” [e con le mogli?] (221)
“Il bene che ci sforziamo di raggiungere non dovrebbe essere altro che ciò che sappiamo con certezza che ci sarà utile.” (257)
“Oggi capisco che il vero motivo per cui leggo è che voglio sentirmi meno sola.” (283)
Seconda trama del mese, quindi vi meritate il solito allegato dei libri curativi. Che essendo cripticamente dedicato al mal di testa, ho unilateralmente elevato ad omaggio ad uno dei primi autori usciti dalle mie trame, il francese Maxence Fermine (sperando che vi sia noto, altrimenti leggete quello che ne scrivo).

Anche qui, i misteriosi modi che assegnano viaggi fanno sì che mi ritrovi una “gita” in Israele tra fine maggio ed inizio giugno. Ancora è presto per dire se si concretizza, ma io sono sempre interessato a tornare in quei luoghi, vederne bellezze, e rattristarmi per l’involuzione dei rapporti umani. Ma tutto questo è di là da venire.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2017
Devo dire che questo mese le mie libropeute sono particolarmente criptiche, tanto da farcelo venire a noi.

MAL DI TESTA

Maxence Fermine         “Neve”
Neve, capelli, fuoco.
Ghiaccio, letto cieco.
Mente pura.

Bugiardino

Ripeto, mi sembra uno dei commenti più oscuri che abbia mai incontrato. Tanto che, per farmi perdonare, invece del solo “Neve”, vi butto lì tutta la “mia” trilogia di Fermine. Un autore che mi fu consigliato (e praticamente imposto) da una mia cara amica, che ancora ringrazio per tutti i consigli che mi ha dato, sperando che io sia riuscito a restituirne qualcuno.
Trittico di Fermine
[pubblicato l’11 giugno 2007]
Indeciso tra il dire e il fare, l’andare e il venire, per rompere il cerchio ed anche esorcizzare le paure, mi dedico a un trittico.
Tre libri che da ben lungi ho letto, ma che non mi sentivo pronto per condividerli.
Tre aspetti diversi ma collegati dell’amore e della visione di vita.
Unificati, comunque dal fatto di essere stati scritti dallo stesso autore, Maxence Fermine.
Forse hanno un senso anche nell’ordine della scrittura. Per me hanno significato nell’ordine della lettura.
Primo venne
“L’apicoltore” Bompiani euro 9
Ambientato nella Francia del Sud, alla fine dell'800. Il giovane Aurèlien si dedica alla raccolta del miele insieme ai due amici Lèopold e Pauline, una ragazza segretamente innamorata di lui. Sconvolto dal fugace incontro con una donna di colore, Aurèlien decide di partire per l'Africa, alla ricerca dell'oro. Sarà un viaggio pieno di avventure e rischi, al termine del quale, ritornato in Francia, il giovane scoprirà il vero oro. Lieve come un sorriso. Scorrevole come una favola. Dove riusciremo a trovare concreti i nostri sogni?
Alla fine, più che un disegno unico mi sono sembrati tanti piccoli quadri che scivolano verso la costruzione della propria vita.
“Ebbe l’intuizione che si ha in punto di morte: la vita è appesa a un filo. Un filo d’oro tessuto dai giorni, in cui si capisce che il bisogno di placare la propria sete sarà sempre più forte del piacere di bere.”
Con il secondo passiamo in quel di Giappone con
“Neve” Bompiani euro 9
Fine Ottocento. Yuko, diciassettenne ribelle, lascia la famiglia per diventare poeta. Ma la sua poesia, dedicata interamente alla neve, è troppo bianca, e per imparare a darle colore Yuko deve seguire gli insegnamenti del vecchio poeta Saseki, ormai divenuto cieco. Saseki, attraverso il racconto della sua passione per Neve, una ragazza bellissima venuta dall'Europa e scomparsa mentre cercava di attraversare un precipizio sospesa su una fune, insegna a Yuko la forza e la potenza dell'amore. E con questo insegnamento Yuko diverrà non solo un grande poeta ma - cosa più importante - un essere umano capace di amare.
La poesia come pittura delle parole. Come insegnano gli haiku, eliminare tutto per arrivare all’essenza. Con un finale di speranza, mista ad un velo di tristezza.
Il mio trittico si è chiuso con
“Il violino nero” Bompiani euro 9
Ecco la musica irrompere a Venezia. Johannes, genio musicale precoce, rimane ferito nel corso della campagna napoleonica in Italia. Accolto e curato dal liutaio Erasmus, il giovane apprende nuove notizie su Carla Farenzi, una misteriosa dama fugacemente incontrata tempo prima. Il liutaio gli rivela poi il segreto di un violino nero, da lui stesso costruito, che canta con la voce suadente e incantatrice della donna. Dopo averlo sentito suonare la vita di Johannes, come uomo e come artista, resterà incatenata a quella di Carla Farenzi. Questa volta c’è solo disperazione, anche se con tanto amore: coltivare il proprio, sempre e comunque, a dispetto delle avversità. E se si rimane solo con il proprio amore, se è amore, è comunque più di molto altro.
“Era un grande musicista: sapeva ascoltare e sapeva sentire”
Forse un trittico che finisce in tristezza (ed è per questo che ho impiegato quasi un anno a digerirlo). Ma di quella tristezza di cui sono fatti i sogni al mattino, poco prima dell’alba. Tristezza più per il doversi svegliare che per il sogno in sé.

Conclusioni

Sono sicuro che il mal di testa ha altri e più allopatici rimedi. A voi, lascio scervellarvi per saper dell’autore e delle sue lievi scritture. Con la certezza che i prossimi mesi si passerà a curare malanni più seri.