domenica 27 ottobre 2019

Una trama scontata - 27 ottobre 2019

Ebbene sì, questa settimana un poker di libri quasi tutto arrivati gratuitamente. Due graditi prestiti del mio amico Roberto, un regalo natalizio ed uno sconto niente male presso un mercatino. Peccato che Faber sia molto al di sotto delle aspettative e che Wu Ming sia a volte troppo complicato per i miei pochi neuroni. Rimangono i prestiti, per diversi versi, come vedrete, entrambi interessanti.
Michel Faber “Sotto la pelle” Einaudi euro 13,50 (in realtà, scontato a 3 euro presso il “Mercatino di San Giovanni”)
[A: 27/11/2016 – I: 27/05/2019 – T: 30/05/2019] - & ½
[tit. or.: Under the Skin; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 2000]
Ci sono momenti in cui mi capita la lettura di una serie di libri che non mi soddisfano, e che porto a compimento solo per parlarne (male) con voi. Sperando, magari, che la vostra percezione, se li avete letti, sia diversa dalla mia, e mi possiate convincere che no, ne vale va la pena, era un libro non dico capolavoro, ma con almeno dei punti di interesse. Peccato allora, che dopo Palahniuk, mi sia capitato questo libro dell’olandese-australiano-scozzese Faber. Di cui avevo letto, e con interesse quello che viene considerato il suo libro migliore (“Il petalo cremisi ed il bianco”), seppur ne avevo letto una decina di anni fa. Girovagando in attesa di Alessandra presso il Mercatino, ho invece scovato questa copia in ottimo stato del suo primo libro. Beh, prendiamolo, che prima o poi si legge. Purtroppo, si legge e si esce dalla lettura dicendo: ma cosa diavolo ha scritto? Una storia in cui vediamo una bella donna, Isserley, andare su e giù per le campagne scozzesi, prendere ogni tanto degli autostoppisti, e far loro una specie di terzo grado. Chiede la provenienza, la famiglia, se c’è qualcuno che li attende, poi com’è la loro vita, qualcuno che possa notare la loro scomparsa. Dopo l’interrogatorio, se si ritiene soddisfatta, li droga e li rapisce. Dopo aver subito un inizio spaesante, quasi fossimo sulle soglie di un giallo, Faber ci porta con un salto mortale in un racconto di Arthur C. Clarke (quello di 2001 per chi non fosse fantascientifico). Perché Isserley è sì bella, ma anche un po’ strana. Ha una scollatura profondissima, ma vestita con abbinamenti improbabili. Certo gli autostoppisti sono perplessi, che al posto di Isserley non avrebbero preso nessuno. Ma qui si scopre il mistero: Isserley è un’aliena con il corpo modificato per sembrare una donna attraente in modo da poter svolgere bene il suo lavoro di rapitrice. C’è tutta una banda di alieni che si è trasferita sulla Terra, in quella fattoria scozzese, ma solo lei ed il suo capo, che deve andare in giro, hanno il corpo modificato. Questa banda aliena, in realtà, seppur evoluta, viene da una razza quadrupede, vagamente canina. Nel pianeta natale, il cibo comincia a scarseggiare, ed allora, per rifornirsi di proteine, i quadrupedi prendono gli umani, li mutilano, li mettono all’ingrasso, e, una volta bistecchizzati, vengono spediti al pianeta d’origine. Tutta la storia, in sé, si trascina ripetitivamente su questo filone. Isserley va in giro, c’è la storia con l’autostoppista, a volte liscia, a volte con qualche problema, che magari l’incauto passeggero vorrebbe fare delle avances alla bella guidatrice, ma alla fine questo viene drogato e portato nella fattoria. Isserley ha qualche pensiero di ribellione, a questa routine immutabile da troppo tempo, anche perché soffre spesso di dolori articolari (d’altra parte ha subito modifiche profonde). Ci sono poi due crepe, nella banale routine. Viene il figlio del capo dallo spazio, che incautamente libera degli autostoppisti, che però vengono presto presi, e subito uccisi. La polizia, inoltre, comincia a domandarsi, anche se i rapiti sono pochi, dove finisca la gente. Il tutto porterà ad un collasso, anche perché Isserley ha dei problemi con la macchina, forse ha un incidente. Mentre arriva la polizia deve solo decidere se farsi curare o far saltare tutto in aria. Questa storia bislacca, che si legge fino alla fine senza troppa partecipazione, nella mente “politica” dell’autore, probabilmente doveva servire ad innescare appunto problemi politici: l’identità e l’autonomia corporea, sessismo e genere, rapporto uomo – animale da macello. Sul primo tema, ci si domanda quanto il corpo governi il modo di essere, la vita nostra. Se quindi ci possa essere una corrispondenza tra corpo ed identità percepita. Il secondo tema riguarda l’esterno. Isserley è vista come una donna, ed allora Faber si chiede: è possibile diventare donna? Una domanda che molti di genere incerto si domandano, senza, io credo, una risposta certa. Infine, c’è l’orrore della mutilazione e dell’ingrasso. Se i bovini fossero senzienti (o i maiali o le oche o qualsiasi animale allevato in attività), come reagirebbero al fatto di diventare carne da macello? Quello che fa la razza di Isserley agli uomini non è altro quello che noi facciamo alle vacche. Ma se Isserley ed i suoi ci indignano, quanto ci manca per diventare vegetariani? Il libro alla fine pone molte domande, e Faber evita accuratamente di fornire una sola risposta diretta. Ma la sua lettura è faticosa, non si empatizza né con Isserley né con gli umani. Si arriva in fondo a fatica e si spera di leggere qualcosa di meglio nel futuro. Come direbbe un critico migliore di me, “un libro serenamente evitabile”.
Wu Ming “Proletkult” Einaudi s.p. (Natalino di Nico&Benny)
[A: 25/12/2018 – I: 28/05/2019 – T: 31/05/2019] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 333; anno 2018]
Situazione complessa questa del libro e dei giudizi a lui relativi. Prima di tutto, un grazie molto esteso a chi, sprezzante del pericolo e dei miei strali, mi ha fatto questo regalo. Non credo avrei mai comprato il libro, ma sono contento di averlo letto. Secondo punto, il contesto, che è stimolante, che mi ha coinvolto, che mi ha consentito di andare alla ricerca di spunti e di apprezzamenti vari, sui protagonisti del romanzo, sulle loro azioni, su chi erano realmente e su come potessero essere disvelati in altro una volta inseriti in un contesto diverso. Terzo punto, infine, e per contrasto, la scrittura ed il testo, che invece non si sollevano in maniera palese da una lettura difficile e non coinvolgente. Il tentativo di mascheramento fantascientifico di alcuni punti della trama è forzoso e non facile, né da leggere né da decrittare. Quindi un testo che sarebbe perfetto per una disamina molto intellettuale e cerebrale, ma che, proprio per questo, rimane con un giudizio che non può essere sufficiente. Un libo deve avere la forza di ergersi sul cuore e sulla pancia, sulla testa e sugli apparati sessuali, tutto in modo armonico. Qui, purtroppo, anche se con una bella capacità e felicità di invenzione, è tutto e solo di testa. Tanto per fare un esempio, uno dei temi centrali è la “Tectologia”, cioè la “Scienza generale dell'organizzazione”, il pallino del protagonista del libro. Ed allora, Wu Ming decide di organizzare il libro stesso in maniera tectologica: il libro viene diviso in tre parti, ogni parte in undici capitoli, per portare il computo totale a 333 pagine. Qui, ad esempio vediamo la tectologia contrapposta alla matematica, perché (e non chiedetemi di farvi tutto il ragionamento, ma cercate di intuirlo), in modo corretto, Wu Ming avrebbe dovuto scrivere un libro di 363 pagine. Comunque, venendo alla trama oggetto di queste mie scritture, rileviamo come questo sia un nuovo e forse più coinvolgente capitolo delle riflessioni del collettivo bolognese intorno al concetto di “rivoluzione”. Non entro negli altri testi di Wu Ming che ne parlano (qualcuno più bravo di me lo potrà fare). Qui, rispetto ad altri contesti di riflessione, parliamo della Rivoluzione russa, di cosa poteva essere, di cosa è stato. Cioè si passa da un “periodo ipotetico dell’irrealtà”, ad un “periodo ipotetico della possibilità. Perché Proletkult fu realmente un progetto culturale imbastito agli inizi del secolo scorso dal politico, filosofo e medico russo Aleksandr Aleksandrovič Malinovskij detto Bogdanov. Il Proletkult si basava su principi organizzativi “tectologici”, vale a dire, nella formulazione teorica di Bogdanov, secondo un modello di sviluppo sociale cooperativo, collettivo e a-gerarchico. In particolare, Bogdanov non credeva che una rivoluzione proletaria potesse essere veramente efficace se non si fosse fondata sulla capacità delle classi lavoratrici di produrre una loro cultura e un differente sistema di relazioni sociali. Tale approccio fu osteggiato dalla fazione leninista del partito, proiettata verso la centralizzazione del potere negli apparati statali. Se il progetto di Bogdanov avesse prevalso sulla centralizzazione burocratica leniniana come si sarebbe evoluta la Rivoluzione Russa? La trama ideata da Wu Ming vede una trasposizione della realtà di Bogdanov, in una possibilità diversa. Bogdanov, nel 1908, scrive il romanzo di fantascienza “La stella rossa”, dove descrive l’applicazione tectologica ad una vita di comunismo realizzato, ovviamente su Marte, il “pianeta rosso”. Wu Ming ipotizza che non sia un romanzo, ma una narrazione di quanto sia avvenuto ad un sodale di Bogdanov, il buon rivoluzionario Leonid Voloch, che dopo i fallimenti delle velleità rivoluzionarie del 1905, sparisce misteriosamente, per andare a trascorrere del tempo sul pianeta Nacun, dove genera la piccola Denni. Poi Leonid scompare, ed ora Denni scende sulla terra per cercare il padre (che non troverà) e per confrontarsi con Bogdanov ed il suo scritto, proprio per fargli (e farci) toccare con mano le differenze tra il comunismo russo ed il comunismo nacuniano. Perché su Nacun si stanno esaurendo le risorse e bisogna trovare un nuovo modello di sviluppo. Perché in Russia, e più in generale sulla terra, il comunismo prende una piega di fossilizzazione che lo porterà altrove. Un esempio eclatante, quando ad esempio Bogdanov e Denni guardano il manifesto pubblicitario di “Notti Bianche”, un profumo che, per Bogdanov, rende tutti, anche i poveri, sani ed eleganti come i principi. E Denni replica: «a me pare che venda un modello di bellezza… quello dei parassiti del vecchio mondo». Saltando tutti gli avvenimenti, ma non i rimandi di cui parlerò più avanti, la conclusione, del libro di Bogdanov, dei discorsi di Denni, e dei Wu Ming riguarda proprio il motivo per cui Denni è partita da Nacun, e non solo per ritrovare il padre. La prospettiva dell’esaurimento delle risorse appartiene ad un futuro che è il nostro futuro, il futuro del nostro modello di sviluppo dominante. Domandiamoci, in maniera ridanciana, come interpretare l’affermazione di Denni “La verità è che siamo troppi, viviamo troppo a lungo, siamo troppo vecchi e abbiamo quasi esaurito le nostre risorse. Stiamo valutando la strategia migliore per espanderci nella vostra galassia, perché non si può fare il socialismo in un solo pianeta”. Cioè, domandiamoci, come farebbe WU Ming se fornisse delle soluzioni: che cosa succederà se non lavoriamo insieme per trovare forme di sviluppo più sostenibili? Ma se questo è (potrebbe essere) il senso del libro, il testo è percorso da rimandi e rinvii ad elementi di realtà, che vengono trattati come fossero un romanzo di Philip José Farmer (di cui parlerò prima o poi, magari controllate i saggi). Ad esempio, veniamo trasportati nella Villa di Capri di Maxim Gorki, dove assistiamo, tra l’altro, ad un’avvincente partita di scacchi tra Lenin e Bogdanov. La partita, realmente avvenuta e documentata da una nota fotografia, serve a rievocare la polemica filosofica tra i due rivoluzionari legata alle teorie dell’Empiriomonismo (il primo libro filosofico di Bogdanov del 1904, dove l’autore si scaglia non solo contro l’individualismo ma anche contro l’autoritarismo). Polemiche che spinsero Lenin a scrivere “Materialismo ed Empiriocriticismo”. Una polemica, che in fondo percorre tutte le idee del romanzo. Romanzo ci porta anche sui campi di battaglia dei Laghi Masuri, dove Bogdanov è dislocato come ufficiale medico e nella piazza centrale di Tifliis in Georgia (così scritta in una delle grafie dell’epoca cirillica, mentre sappiamo che il nome coretto è Tbilisi), dove assistiamo alla sanguinosa rapina, condotta dai rivoluzionari russi nel 1907. Una rapina organizzata dal Georgiano Stalin per finanziare la Rivoluzione, e che lasciò 40 morti nelle strade della capitale. Ma come detto, i passaggi fondamentali sono le discussioni, sono legati al passaggio dalla libertà e dalla sperimentazione ad un conformismo burocratico che strangola chi pensa con la propria testa. Ci sono le riflessioni tra Bogdanov, Lunaciarskij e Nadezhda Krupskaja, vedova di Lenin, sulla natura dell’arte sotto al socialismo, sul carattere “proletario” della nuova cultura statale, sul ruolo e sulla libertà dell’individuo nella produzione artistica. Sul terreno politico, il contesto è dominato dalle conseguenze del disastro della rivoluzione cinese del 1927. In quel periodo il Partito Comunista Cinese fu costretto da Mosca e dalla Terza Internazionale ad allearsi con i propri aguzzini del partito nazionalista del Kuomintang. Questo fallimento spinse la nascente burocrazia sovietica ad attuare una decisa virata a destra e a teorizzare definitivamente l’impostura del “socialismo in un paese solo” (vediamo allora come rileggere la frase di Denni sopracitata). In quei giorni, l’opposizione unificata, che aveva in Trotsky, Zinoviev e Kamenev i suoi esponenti principali, vede i suoi comizi dispersi a randellate e i suoi militanti dispersi o perseguitati. I vecchi bolscevichi e i militanti rivoluzionari dell’epoca d’oro sembrano impotenti ad arrestare l’ondata controrivoluzionaria. Alcuni di loro come Alexandra Kollontaj scelgono l’esilio volontario in Norvegia altri sono spediti nelle regioni più inospitali come Smilga, altri ancora come il protagonista del romanzo, si alienano dall’attività politica e si concentrano su studi scientifici. Bogdanov dirigerà infatti l’istituto di trasfusioni di Mosca dove studia e applica il “collettivismo fisiologico”. Poi, poco dopo le celebrazioni, nella realtà cercando di salvare un malato di tubercolosi, nel libro cercando di salvare Denni, Bogdanov cerca di utilizzare le sue capacità trasfusionali, con il risultato finale, in entrambi i casi, di lasciarci le penne. Insomma, come detto, un libro dal contesto affascinante, ma non sempre sorretto da un testo all’altezza.

[A: 22/12/2017 – I: 01/06/2019 – T: 04/06/2019] - &&& e ½
[tit. or.: A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again; ling. or.: inglese; pagine: 149; anno 1997]
Confesso che continuo ad avere difficoltà nella lettura di Wallace. Non per la scrittura, né per i libri in sé, ma per il modo in cui ci ha lasciato, e che non mi fa affrontare serenamente la lettura. Cercando allora di estraniarmi il più possibile, devo subito dire che questa è stata una lettura decisamente rilassante. Leggera, eppure sempre con qualche spunto (o più fi qualche, forse). Leggendone, mi veniva in mente il tentativo di Francesco Piccolo, in “Allegro occidentale”, di rinverdirne i fasti pochi anni dopo, anche senza crociera, ma con uno spirito affine. Ma veniamo al libro. Intanto, rilevo la solita poca cura nella titolazione italiana. Perché leggendo il titolo sembra che quanto faccia Wallace nel libro sia “divertente”, e che quindi per lui sia un dispiacere non farla più. Il titolo originale parla invece di una cosa “presumibilmente divertente”, cioè che è divertente per molta gente, non certo per lui, che dopo questa esperienza non la ripeterà più. E lo posso capire. Che personalmente sono assolutamente concorde: la crociera è una cosa che molti trovano interessante, e non io. Che ho fatto anni fa in Norvegia, e che, come Wallace, non ripeterò. Wallace intraprende una crociera “7 notti ai Caraibi” per conto della rivista Harper’s. Guarda con la sua acuta intelligenza, scrive, appunta, elabora. Ovviamente la rivista non pubblicherà il resoconto, che risulta tutt’altro che “attirevole” per i mondani lettori. Allora, Wallace riprende, allarga e ne fa un breve libro (questo) dove riesce a farci entrare nello spirito del 7NC, ed a farcene uscir presto. Perché sulla nave (e siamo nel 1995) bisogna divertirsi, bisogna rilassarsi. Quindi i gitanti sono in spirito per farlo, e tutto il personale si adopera per farvi sentire a vostro agio. Ogni momento è riportato con lo spirito con cui anch’io lo vedrei: le enormi masse, quasi greggi votate al macello, che attendono in una specie di hangar a duemila gradi di essere chiamati verso la propria nave e la propria crociera. Con un’età media elevata (e conseguenti malori ed altre avversità). Ed è un bene che Wallace la faccia 25 anni fa, che ora avrebbe anche un’invasione insopportabile dei neoricchi ex-sovietici. Wallace analizza il dépliant che magnifica il benessere ed il lusso atteso. Ma non ne troverà traccia, per lui, nei sette giorni. Anche se gli anziani, e tutti quelli che salendo a bordo lasciano a terra cervello e remore, si sentiranno coccolati. Anche se faranno la fila ai ristoranti, la resse alle piscine, brontolii e lamentale se si decide di fare una gita a terra. Badate bene, e lo sappiamo ora che le crociere sono diventate un oggetto del desiderio anche per una fascia di noi europei, ogni cosa, ogni azione, ogni spazio è stato pensato, calcolato e installato affinché il “ricco” passeggero (o almeno, anche se non ricco, tale che la servitù lo faccia sentire così) si riduca ad uno stato di vizio quasi materno, quasi si fosse ancora nella culla. Non è neanche il caso di cercare chi siano i membri dell’equipaggio che vi servono, come il professionale Àgoston, cameriere del tavolo di Wallace, serio, impeccabile, anti-umoristico, refrattariamente ironico. Wallace si domanda, nei suoi ritiri in cabina lontano da tutti chi siano i personaggi alla Àgoston  e si ripete che forse non è proprio il caso di porsi simili domande. Sono lì per coccolarvi, anche se, e Wallace lo sente, forse siete loro neanche tanto cordialmente antipatici. Anzi, Wallace ha la sensazione che tutto tenda a farlo sentire così. Ne escono fuori pagine di una tristezza unica, con degli spunti di feroce ironia, che, purtroppo, sono anche molto datati. Certo, si legge, certo siamo con Wallace a detestare tutta la massa intorno. Ed ovviamente apprezziamo il suo stile, fatto anche di tante note 8quasi alla Nabokov) che sono una parte integrante e complementare al testo. A me, tra tante spigolature, è rimasta impressa, e ne ho cercato per approfondire, tutta la disquisizione sull’angolo di Brewster, con quella particolare incidenza della luce sul piano del mare, che ne permette la polarizzazione, con effetti visuali notevoli sulla superficie marina. Se capita, si leggerà ancora di Wallace, anche se non lo andrò a cercare direttamente. Troppa è la tristezza, ed il rimpianto.
“Il modo migliore per descriverlo … è questo: perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.” (131)

Imre Kertész “Essere senza destino” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/12/2017 – I: 05/06/2019 – T: 16/06/2019] - &&&--
[tit. or.: Roman eines Schicksallosen; ling. or.: tedesco; pagine: 220; anno 1975]
Nonostante tutte le premesse, ed anche una serie di considerazioni che andrò facendo, questo pur bel libro non riesce a superare lo scoglio dei libri di gradimento. Perché alla fine risulta un po’ lento ed irrisolto nel finale. Forse sono anche io che mi sono legato troppo alla pagina che scorre poco, rispetto ad un contenuto che invece è un continuo pugno nello stomaco. Intanto, penso che una parte della colpa sia nella scellerata scelta della Feltrinelli sulla traduzione del libro. Kertész lo scrive nel 1975, ma in Ungheria ancora nel turbine sovietico ha poco spazio. Spazio che avrà dopo la caduta del muro, spazio che l’autore prenderà con questo ed altri scritti. Che convincerà l’editore a pensare, 24 anni dopo l’uscita, alla sua pubblicazione in Italia. Peccato che invece di “Sorstalanság” (senza destino in ungherese) che era il titolo originale, Feltrinelli ne traduce la versione uscita in Germania con il titolo “Romanzo di un indigente”. Per quanto poco sappia delle lingue, il doppio passaggio ha fatto di certo perdere qualcosa al libro. Non all’autore, che 3 anni dopo riceverà meritatamente il Premio Nobel. Con una lucida chiarezza, ed un linguaggio veramente senza punte di orrore, l’autore ci racconta dei campi di sterminio e dell’Olocausto. La cosa che colpisce è la scorrevolezza delle ruote del destino del quindicenne protagonista, alter-ego dell’autore che si proietta nel corpo e nella mente di Gyurka, l’io narrante, che passo dopo passo, da una vita diciamo normale (anche se sembra difficile etichettare normale vivere in Ungheria occupata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale) rotola verso i campi di concentramento. Gyurka ha quindici anni ed è ebreo, ma non capisce cosa voglia dire “essere ebreo”. Non ha una particolare propensione religiosa, sembra vivere una vita, pur in tempo di guerra, da quindicenne in crescita. Vorrei riportare l’attacco del libro per mostrare il modo piano con Gyurka racconta e poi affronta quanto gli capita: «Oggi non sono andato a scuola. O meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero per motivi famigliari. Il professore ha chiesto quali fossero questi motivi famigliari. Io gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni». Lavoro obbligatorio nel senso di campo di concentramento. Per sostenere la famiglia allora Gyurka comincia a lavorare alla Shell, indossando la stella gialla (è pur sempre ebreo) e sottostando a tutte le possibili difficoltà di lavoro per un ebreo in terra nazista. Poi una mattina avvengono controlli in fabbrica, e lui con altri ebrei viene avviato ad Auschwitz. Con una lucidità allucinante, Gyurka ci fa passare le visite di controllo, l’avviamento verso le docce che puliscono di lui e di alcuni sui compagni, mentre altri, non in buone condizioni, vanno verso le docce “a gas”. La fatica del quotidiano, il capire che il pezzo di pane ricevuto al mattino sarà anche la sua cena, l’adagiarsi, giorno dopo giorno, a routine insensate, perché quello gli viene chiesto. Con l’unica preoccupazione di arrivare al giorno dopo, di evitare di essere morso dagli animali, di avere incidenti che lo porterebbero verso le “altre docce”. Il trasferimento di campo in campo, fino a Zeitz, un campo di concentramento piccolo dove più facile sembra poter sopravvivere. Ma quella che tormenta maggiormente Gyurka, nell’anno trascorso nei campi di concentramento tra la primavera del ’44 e quella del ’45, furono i problemi del quotidiano, quelli affrontati ad uno ad uno, per cercare di essere vivi il giorno successivo: le fatiche quasi insopportabili del lavoro quotidiano, la fame, il freddo, ed infine la scabbia, che lo ridusse in condizioni pietose e gli fece passare giorni e giorni in ospedale, con la paura di essere avviato alle famose “altre docce”. Poi la liberazione, il ritorno alla vita di quelli rimasti lì, e la difficoltà, quasi l’impossibilità di comunicare cosa sia stato questo anno terribile a chi non l’ha vissuto, a chi non è ebreo. Una impossibilità che i sopravvissuti porteranno dentro per sempre, e che li porterà, vedi Primo Levi, anche a gesti estremi. Gyurka si scontra con chi non crede alle camere a gas. Poi con chi parla di “atrocità” come se Auschwitz fosse “un errore, un incidente”. Invece era una scelta operata da uomini, cui altri uomini non sono riusciti ad opporsi. Come non pensare allora, agli armeni del 1915 o ai curdi di oggi? Un libro imperdibile, dunque, che non riscatta tutte le premesse, che a volte è stato di lenta lettura, che, e forse questo l’autore lo voleva fortemente, lascia un senso di amaro in bocca, che non si toglierà mai.
Mi sembrava troppo “easy” questo fine ottobre. Ovvio che si è andato complicando, per colpa di una quadrotta che non sa guardare e che speriamo si riesca a portare a buon fine. Per il resto, tanta confusione sotto il cielo. Quindi la situazione è eccellente.

domenica 20 ottobre 2019

Abasso il Pulitzer - 20 ottobre 2019



[A: 01/11/2016 – I: 08/03/2019 – T: 10/03/2019] - &&& -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 330; anno 2013]
Leggo sempre con piacere i libri di Paola Mastrocola, che sono sempre discretamente pieni di spunti. E che spesso mi fanno ripensare a tempi ormai passati da anni ed anni, ma dove la barca nel bosco aveva un suo peso ed un suo posto. Peccato che, a volte, pur nell’impeto di cose nuove, e nella piacevolezza degli intrecci, si torni spesso alla barca, come idee soprattutto. Come momento in cui si è se stessi, o si ritrova se stessi, e si segue col proprio essere contro tutto e tutti. Qui, il percorso si fa un po’ contorto, prende le mosse da lontano, e segue sentieri che a volte sembrano perdersi. Che poi l’idea di fondo, è un’idea interessante, che esula un po’ dal romanzo, e su cui tornerò più avanti. La nostra scrittrice per il momento, introduce i suoi personaggi, e li fa avanzare su di un’onda che ricalca il titolo. Si riuscirà mai a sapere qualcosa di un’altra persona, se questa non ha intenzione di dirtelo, di mostrartelo? Così, il brillante studente Filippo Cantirami, dopo anni di duro inseguimento delle direttrici lavorativi familiari, decide di staccare, di fare il “sé stesso”. Studiare economica, certo. Ma non per il sistema produttivo. Lavorare a delle teorie interessanti (quella di cui sopra e poi sotto), ma con poca intenzione di comparire. Così che Filippo decide di nascondersi dietro il suo alter-ego Jeremy Piccoli. Per la famiglia, per il padre e la madre, quelli con un po’ di puzza sotto il naso, lui continuerà ad andare avanti e studiare e produrre e laurearsi. Ma sarà la vita di Jeremy che proporrà ai suoi. Tanto Jeremy se ne va in America, a Stanford (che ricorda ai meno forti in geografica, è San Francisco, praticamente). Lui vivrà finalmente la sua vita, cercando di adeguarsi ai suoi ritmi e non a quelli degli altri. Così Jeremy fa il front runner, e Filippo rimane in Inghilterra, va a vivere in una tenuta con tanti pioppi, campando come aiutante pastore, sotto la protezione del buon Duca. Ovvio, che la farsa non potrà andare avanti all’infinito. Così, ci si inventa una serie di congiunture che contribuiscono a portare tutto alla luce. Una presentazione pubblica della teoria dei tetti e dell’algoritmo JerFil (già capite da dove viene…). Una ex di Fil che lo vede con le pecore, lo dice alla sorella di Fil, che ne parla con la famiglia. Padre e madre che cercano di parlare con lui che, invece, spento il cellulare torna ai suoi boschi. Sua zia Giuliana, la mitica GiaGiu, che vola a Stanford per incontrarlo ma senza avvertirlo. Non lo trova, ma trova Jeremy, che le racconta la storia di Fil. Così che Jer sembra anche preso da questa zia pazzerella (vi prego di leggervi le pagine a lei dedicate, che sono di una lievità benefica), anche se più grande (ma l’amore potrebbe…). Mentre quindi Zia Giu vola a Londra per cercare Fil, Jeremy torna a Milano perché ha bisogno di comprendere, i genitori di Fil volano in California allarmati. Dove, ovviamente, non trovano Fil, non trovano Jer, e non trovano neanche Giu. Inciso: non vi sorprendete dei nomi strani e/o storpiati, vezzo di Cantirami sr., che chiama Gheri la figlia Margherita, Nisina la moglie Annalisa, e via discorrendo. Anche seguendo tutte le tracce, Giu ed i Cantirami arriveranno alla tenuta del Duca, dove, ovvio anch’esso, Fil è partito alla ricerca di un suo sogno privato: un giorno di tre anni prima, aveva incontrato una norvegese, operatrice ecologica part-time, avevano parlato tutta la notte, poi l’aveva perduta. Ora, raggiunto il punto di non ritorno familiare, decide di andare alla ricerca di Stine, seguendo l’unica traccia che ha: il nome di uno sperduto villaggio norreno. Così, tutto andrà nel verso giusto. Fil trova Stine, la sposa, fa un figlio, e vivrà il resto della sua vita in Norvegia. I genitori decideranno di diventare dei nonni comprensivi e lo saranno. Zia Giuliana ogni tanto fugge dall’opprimente Torino per prendere una boccata d’aria presso il Duca. Jeremy continuerà a fare il front runner delle teorie economiche. Nessuno sa niente degli altri, e tanto meno Daniel, il figlio di Fil, che non sa la vita del padre prima della sua nascita. E noi, ne sappiamo? Se i nostri genitori, parenti, amici non ne dicono, quanto veniamo a sapere delle esistenze che non sono la nostra? Certo che torna sempre in mente il magistrale libro di Barnes su “La fine della storia”. Qui, l’altro elemento che citavo sopra era quel discorso economico, da approfondire. Non tanto sulla decrescita, quanto sulla teoria dei “tetti”. I cicli economici hanno dei tetti dove, arrivati, si comincia a scendere. Il problema è che ogni generazione, per virtù delle capacità di quelle precedenti, comincia la sua storia in un punto sempre già più vicino al “tetto”, accorciando così i cicli di benessere. Certo, non siamo in un libro di Baumann che cerca di darci risposte alle crisi economiche, ma questo fa riflettere. Perché non è una decrescita forzata dei paesi ricchi che possa portare a miglioramenti, ma la coppia “da dove cominciamo – dov’è il nostro tetto”. Per tornare al libro, si sente che sempre dalla barca nel bosco si parte e si torna. C’è sempre la voglia di trovare mondi, sentimenti, situazioni pulite, senza compromessi. Anche a costo di buttare tutto o molto all’aria. Il tentativo è comunque onesto, con alcune punte di interesse (di situazioni, anche se non approfondite, di paesaggi, anche se solo accennati, di personaggi, che incontriamo brevemente e vorremmo vedere di più), ed una sempre più che fruibile scrittura e conseguente lettura.
“Che cos’è la vita che si vuole? … perché … c’è tanta gente che fa una vita non sua? … Quante ne conosceva, di persone che passavano la vita a lamentarsi della vita …” (144)
“L’intima soddisfazione di piacere agli altri … era una particolare forma di felicità, che secondo lei si poteva dire ‘sociale’ … La felicità sociale prende avvio dagli altri, e poi dagli altri si riverbera sull’individuo, e dall’individuo rimbalza ancora sugli altri: una specie di onda che, nel suo incessante andirivieni, infonde benefici tutt’intorno, contribuendo a quella reciproca soddisfazione tra esseri umani che poi consolida gruppi, crea appartenenze, insomma riempie di senso tutto un vivere che correrebbe il rischio di parere, altrimenti, vuoto.” (189)

Chiara Gamberale “L’isola dell’abbandono” Feltrinelli euro 16,50 (in realtà, scontato a 14 euro)
[A: 18/03/2019 – I: 18/03/2019 – T: 20/03/2019] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217; anno 2019]
Con questo libro, si inaugura una nuova sezione di lettura, dedicata a libri “novità”. Libri usciti da poco, che stanno avendo successo di gradimento, per cercare, anche, di svecchiare il panorama di lettura. Per questo, almeno per ora, cercherò mensilmente un libro nuovo cui dedicherò una lettura ed una trama immediata. Inauguro questa nuova idea con l’ultimo libro pubblicato da Chiara Gamberale, scrittrice comunque già presente con molti titoli nella mia biblioteca. Che spesso, nelle sue prime uscite, mi è piaciuta anche per quelle incursioni psicologiche che hanno toccato corde a me vicine. Cito soprattutto “La zona cieca” che qualcuno dei miei sodali ricorderà nel quadrante di Johari. Pur sempre presente, il lato psicologico si è andato allontanando dai miei interessi, ed anche qui, sebbene una delle spine dorsali del romanzo, non mi ha coinvolto come un tempo. La scrittrice, sia a seguito dei programmi radiofonici sia delle frequentazioni con il pur ottimo Massimo Gramellini, si rivolge sempre più ai rapporti interpersonali, alle dinamiche specialmente di coppia, ma non mi ha dato, anche in questo caso, un grosso coinvolgimento. Certo, l’idea è interessante, la scrittura abbastanza piacevole, eppure qualcosa è rimasto per strada. Pur sapendo che la scrittura riflette, direttamente o in modo criptico, ma riflette la vita dello scrittore, ho affrontato questa lettura volutamente ignorando la storia di vita di Chiara, ed i suoi mutamenti. Ho preso il libro, ho iniziato a leggerne, e sono rimasto piacevolmente coinvolto da alcune situazioni. Innanzi tutto, perché la protagonista Arianna mi ha rimandato alla mia amica Luana, anche lei, seppur in modo diverso, nel mondo dei fumetti. Di diverso tipo, di diversa attitudine (c’è chi scrive e chi disegna), ma molto rivolti ad un pubblico giovanile. Ma questa è la storia di Arianna e non di Luana. Una storia che, per mio dispiacere, si svolge spesso con su e giù temporali, cosa che non sempre riesco a digerire nei romanzi. Ma che ormai risulta una modalità molto in voga. Per far tornare la mia trama in modo lineare, vedo Arianna in un rapporto assolutamente distorto con Stefano. Lei succube, lei innamorata delle luci che ogni tanto cadono dal “mondo Stefano”. Ma Stefano è fondamentalmente concentrato solo su sé stesso, sul suo piacere, dove dà per scontato che, qualunque cosa faccia, Arianna c’è. Stefano tuttavia ha anche bisogno di cure, ed è qui che entra in gioco lo psichiatra Damiano, che lo prende in cura, che riesce, non sempre, non totalmente, a farlo uscire dalla ciclotimia endemica che lo attanaglia. Sembra andare tutto bene, e Stefano e Arianna decidono di andare in vacanza a Naxos. Che sarà il punto centrale della vicenda. Perché Naxos è l’isola dell’Arianna di Teseo, l’isola da cui nasce il detto “piantare in asso” (guardate bene l’assonanza asso-Naxos, come corruzione di “piantare in Nasso”). Non entro nel ben noto mito di Teseo, ma è a Nasso che Stefano, smesse le medicine, ha una crisi esistenziale, e pianta lì la povera Arianna, fuggendo a Londra con la sua nuova amante Cora. Arianna cerca di raccogliere i suoi cocci, rimanendo basita nell’isola, ed uscendone quando trova il surfista Di (citato sempre con l’iniziale). Con cui intreccia una nuova ed appagante storia. Una di sesso e condivisione senza tutte le paturnie “stefanoidi”. Dura quattro-cinque mesi, poi (noi già lo sappiamo dai su e giù temporali, quindi niente anticipazioni immotivate) Stefano muore, Arianna fugge da Naxos, va in cura da Damiano, e dopo poco ne diventa amante. Benché questi sia sposata e non abbia intenzione di lasciare la moglie. La crisi, che dà origine al libro, e che viene descritta nelle prime pagine, avviene quando, dopo nove anni di questa storia, Arianna rimane incinta e partorisce Emanuele (inciso, perché questo lo so, Emanuele è il nome del primo marito di Chiara). Damiano lascia formalmente la moglie, ma Arianna si accorge che poi continua a frequentarla (forse anche ad andarci a letto). Arianna ha bisogno allora di riflettere, su sé stessa, su Emanuele, su Damiano. Così dopo dieci anni manda una mail a Di, che (incedibile!) risponde (e dopo dieci anni ha ancora la stessa mail…). Lui è rimasto a Naxos, dove si è sposato ed ha tre figli. Ma Arianna pensa (e con giustezza) che debbano rivedersi. Cosa che fanno a Naxos, dove, anche se ognuno con la sua vita diversa, hanno un lungo rapporto verbale e fisico che mette (dovrebbe mettere) i puntini su tutte le “i” del romanzo. La fine del romanzo è una fine reale, ma non vi dico quale tra le diverse possibili: Arianna e Di vanno a vivere insieme, Arianna e Di continuano le loro vite, Arianna lascia Damiano e va a vivere da sola mentre Di rimane con la moglie. E tanti altri possibili intrecci. Quello su cui torno, al contrario, è l’esame dei rapporti e l’idea del titolo che porta un senso a tutto il testo. Perché è tutto giocato su Naxos e sull’abbandono: Stefano abbandona Arianna, Arianna, partorendo Stefano, abbandona il suo egocentrismo da sofferenza per aprirsi ad un altro, il figlio, Damiano abbandona la moglie, Di non abbandona Naxos, dove rimane per dieci anni a gestire ristoranti. Quindi Naxos diventa l’emblema dell’isola in cui si abbandona, con buona pace anche dei miti di Teseo, non sempre concordi. L’altro grosso problema sono i rapporti. Soprattutto quelli di Arianna con… Che con Stefano vive una passione “succube”, dove si aspetta un momento di luce per rischiarare anni ed anni di buio. Che con Di vive una passione “solare”, senza se e senza ma, ma anche senza futuro. Momenti magici, che se si ha la fortuna di vivere è ben e bello lasciarli lì. Che con Damiano vive una passione “piana”, che si alza e si abbassa solo quando il corpo di Arianna diventa materna, quando arriva Emanuele, quando c’è una persona che, realmente, dipende solo da lì (come sono i bambini nei primi mesi di vita). Penso che alla fine sia un libro la cui lettura non guasta, che stimola qualche neurone, anche se in modo traverso, e che Chiara è un po’ come il suo personaggio dei fumetti: “Pilù che va su e giù”.

[A: 25/12/2016 – I: 01/07/2019 – T: 11/07/2019] - && --
[tit. or.: The Goldfinch; ling. or.: inglese; pagine: 892; anno 2013]
In effetti, sono rimasto abbastanza deluso da questo libro, di cui mi aspettavo qualcosa in più. In primis, perché avendo vinto il Premio Pulitzer per la letteratura nel 2014, ed avendo io letto altri libri insigniti da questo premio, ho sempre avuto un ritorno quanto meno interessante, in termini di lettura e di stimoli, da questi libri. E secondariamente perché avevo letto che l’autrice essere una prominente, benché poco prolifica autrice, utilizzante nei suoi scritti uno stile neoromantico, contrastante la tendenza minimalista degli ultimi grandi autori americani. Ma le mie aspettative sono rimaste deluse. Il libro non ha certo il respiro e la presa dei precedenti premiati (citando quelli da me letti, “La strada” di Cormac McCarthy nel 2007, “La breve favolosa vita di Oscar Wao” di Junot Diaz nel 2008, “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout nel 2009 o “Il tempo è un bastardo” di Jennifer Egan nel 2011). Né la lunghezza riesce a sopperire la mancanza di coinvolgimento con il lettore. Non ultimo, nel mio poco incline giudizio, il passaggio “fittizio” che genera il romanzo, ruotante al dipinto “Il cardellino” di Carel Fabritius. Perché se il dipinto è reale, nel corso del tempo non si è mai mosso dall’Olanda, quindi ipotizzarne la presenza all’interno del Museo dove la vita del protagonista subisce il suo dramma fondante è quanto meno azzardoso. Perché il tredicenne Theodore Decker detto Theo, in attesa di essere sospeso per aver fumato a scuola, va con la madre al Museo. Lì, rimane solo un istante, a guardare una bella ragazzina con il nonno, ed il quadro di Fabritius. In quel mentre scoppia una bomba, muoiono la madre ed il signore anziano. E Theo si salva fuggendo non si sa come, ma portando con sé il dipinto del maestro olandese. Maestro che avrebbe potuto avere una lunga carriera, ed onorata, se non fosse morto per lo scoppio di una fabbrica di munizioni in quel di Delft nel 1654, a soli 33 anni. Fabritius era uno dei più promettenti allievi di Rembrandt, e di sicuro esercitò una forte influenza sui pittori basati a Delft, in particolare su Vermeer. “Il cardellino”, forse il suo ultimo lavoro, dopo vari acquisti, si trova ora nel museo de L’Aja. Theo avrà delle grosse difficoltà a riprendersi dalla morte della madre, prima di tutto perché il padre è da tempo scomparso, e lui si ritrova solo. Verrà ospitato dalla famiglia di un suo coetaneo, Andy. Lì, nella famiglia Barbour, pur risentendo della morte della madre, comincia a ricostruirsi. Sempre tenendo con sé, seppur senza dirlo a nessuno, il quadro. Un po’ lavorando su sé stesso, un po’ aiutato da Andy, un po’ dalla madre Barbour, ed un po’ dalla piccola sorella di Andy, Kitsey. Riesce anche a ritrovare la signorina fugacemente incontrata al Museo, quella con il signor anziano morto. Pippa è ferita seriamente, ma in via di guarigione, anche se dovrà andare via, prima dalla zia antipatica, poi in un collegio in Svizzera. Theo, con tutti questi piccoli incontri, sarebbe quasi avviato alla normalità, se all’improvviso non si presentasse il padre, che vive di espedienti in quel di Las Vegas, insieme alla procace Xandra. Padre che prende Theo, lo sradica dalla costa Atlantica, e se lo porta ai margini del deserto. Dove l’unico modo di sopravvivere per Theo è legarsi all’unica persona decente di tutto il circondario. Il suo coetaneo immigrato russo Boris. Che ben presto gli insegna a bere, a farsi le canne, a riempirsi di pasticche. Insomma, i due si divertono, anche se non con una direzione “pulita”. Anche qui Theo dovrà ben presto prendere una decisione, che il padre muore d’infarto. Che fare? Rimanere o tornare? Ovvio la scelta è la seconda, anche se deve abbandonare Boris. Tornato a New York, trova finalmente la sua strada nel negozio di antiquariato di Hobie, il socio dell’anziano morto. Lì cercherà di far capire a Pippa il suo amore, non riuscendoci mai. Lì comincerà traffici loschi vendendo falsi ben congeniati. Lì verrà ritrovato 8 anni dopo da Boris. Che gli confesserà candidamente che 8 anni prima gli aveva rubato il quadro, senza che Theo se ne accorgesse. Boris che è entrato a piè pari nel business della mala vita, e che ora cerca di coinvolgere il nostro nel recupero del quadro. Qui cominciano un paio di centinaia di pagine di una inutilità straordinaria. Intanto, Theo si è fidanzato con Kitsey e tende a sposarsi, anche preso dal rimorso di aver abbandonato anche Andy, morto inopinatamente in mare insieme al padre. Boris convince Theo a venire con lui in Olanda, dove, al netto delle canne di Amsterdam, si inscena un lungo braccio di ferro tra malavitosi, comprese fughe e sparatorie. Dove Theo, ogni tanto, si ferma e comincia a rifare pippe su pippe sulla sua vita miserrima. Alla fine della parte finto-thriller, “Il Cardellino” viene recuperato, con i soldi del recupero che Boris cede a Theo, questi inizia un giro di quasi un anno per recuperare tutti i falsi da lui venduti. Farà la pace con Hobie che quasi lo aveva buttato fuori dopo la scoperta dello scandalo, non si rassegnerà mai al fatto che Pippa non lo ami, e probabilmente prima o poi sposerà non amandola Kitsey. Ma a che serve tutto ciò? E soprattutto, perché dobbiamo sorbirci quasi 900 pagine per seguire vicende strampalate, forse ben descritte, ma di sicuro poco coinvolgenti. Vediamo tutto il percorso scoiale di Theo, dalla semi-indigenza quando sta con la madre senza soldi, ma contento, all’agiatezza con la famiglia Barbour, ma dove non è contento. Alla precarietà della vita con il padre (e verso il quale non farà mai pace), rimarcata dalla instabilità che gli crea Boris. Alla serenità del lavoro con Hobie, ma anche all’irrequietezza che lo porta sulla strada della vendita dei falsi e dell’inganno verso i clienti di Hobie. Rimangono tutte quelle pagine tra Amsterdam e Francoforte che si fa fatica a leggere. Ed alla fine ci si domanda, dopo tutto quello che ha passato, chi è realmente Theo? È un buono sfortunato o un coglione patentato? Quale senso recondito ha il suo talismano iconico, quel quadro che forse rappresenta la bellezza che ci può salvare dalle brutture del mondo? Ma tutte le riflessioni che Donna mette in bocca a Theo non mi smuovono dal giudicarlo un libro sopravvalutato e sovradimensionato. Sono comunque curioso di vederne il film che uscirà a fine anno.
“Il vincolo che fa di noi dei padri e dei figli risiede nel cuore, e non nella carne e nel sangue. (Schiller)” (495)
“Quello che ti serve per vivere ed essere felice è una donna che abbia la sua vita e ti permetta di vivere in pace la tua.” (689)

Simona Vinci “In tutti i sensi come l’amore” Einaudi s.p. (prestito di Fako)           
[A: 22/12/2017 – I: 28/08/2019 – T: 07/09/2019] - & e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 196; anno 1999]
Sono sempre grato al mio amico Roberto che mi offre spunti di riflessione in tutti suoi prestiti, anche qui, in un libro che non ho amato e che non mi è piaciuto. Lo avevo portato in un viaggio guatemalteco, ingannato dal titolo, pensando che nel caldo e nel colore centroamericano avrei avuto modo di riflettere sull’amore, come dice il titolo. In tutti i sensi, e con tutti i sensi. Peccato che io non legga mai prima la quarta di copertina, e che quindi sia stato sorpreso, lì nel sole di Antigua nel trovarmi tra le mani un libro di racconti. Perché, e lo sapete, i racconti sono difficilmente una cifra consona alla mia lettura, mi lasciano spesso spaesato, mi lasciano troppo presto, prima che ne prenda il ritmo. E pensare che avevo idea di trovarmi con la Simona Vinci di quel bellissimo racconto lungo letto più di dieci anni fa. Un libretto sulla solitudine e sull’isolamento, un libretto sulla differenza tra questi due estremi, che mi trovò consono ed assiduo difensore di quell’immagine espresse in quelle pagine (se non si sta bene con sé, non si sta bene con gli altri). Qui temporalmente, rispetto a quello scritto, facciamo quasi un passo di altri dieci anni all’indietro. Vinci ha 29 anni, ha scritto un ottimo libro di esordio, e sta esplorando tutte le potenzialità della scrittura. Cimentandosi, allora, con una cosa che lei stessa confessa di non riuscire a definire: l’amore. Allora, per non definirlo, si cerca di aggredirlo in qualche modo, ad esempio con i sensi. Con il tatto, con il gusto, con l’olfatto. Così che spesso, aggredito e sezionato, l’amore può non essere quel dolce compagno che affianca “i buoni sentimenti”. Così che, e la scrittrice qui certo riesce a farcelo vedere, spesso si accompagna con il suo alter ego. Eros e Thanatos, quasi nell’accezione freudiana, dove si contrappongono ma si sostengono a vicenda l’impulso vitale e l’autodistruzione. Uniti e diversi per ricreare il reale. Così come, saltando altrove, nei dolentissimi dipinti di Schiele, dove il pittore sa che tutto ciò che vive è anche morto. Si pensi al dipinto “La madre morta”. Ma torniamo al libro ed ai suoi racconti. Che esplorano il corpo umano, lo spirito dell’amore. Per arrivare a dirci che conoscere i sensi (quindi l’amore) non è il trionfo dei sensi (cioè gioia e felicità). Rimangono immagini dei tredici passi verso l’infelicità. Non tutti, che alcune pagine si sono rifiutate di entrare nella mia memoria, per l’alienità del loro discorso. Penso alla trasfigurazione corporea operata dal chirurgo sulla ragazza. Altre, appunto, restano. Il viaggio lunga una costa marina, credo toscana se ben ricordo (e le coste toscane evocano sempre pensieri positivi nel mio immaginario personale) di una madre ed una figlia, in un’estate che sta scolorando nell’autunno. La figlia tattile, che raccoglie conchiglie in una busta gialla. La madre che osserva e pensa a tutto quanto possa accadere di male alla figlia: di vederla annegare, di vederla andar via. Lacerata tra la paura del pensiero e la voglia di libertà. La stanza d’ospedale dove un ragazzo viene consumato a morte da una malattia che non conosciamo ma sappiamo letale. Così che non può far altro che aggrapparsi ai ricordi, alle visioni, magari a quella ragazza che abitava vicino. Con la sensazione che avvicinandosi l’addio definitivo, tanto vale fare quel gesto che non aveva mai osato fare. Se non parlarne, almeno scrivere. E lo stupore quando la ragazza si affaccerà alla soglia. Il musicista che scopre le fotografie che la moglie fa al suo corpo, così da poterne vedere i cambiamenti nel corso degli anni. Guardando le foto, il nostro si domanda cosa la moglie vede in lui, cos’è che di lui, del suo corpo lei ama. La donna che sa di essere poco piacente (qualcuno politically incorrect direbbe brutta decisamente) che sa cosa vuole e sa cosa vuole l’uomo che sta di fronte a lei. Un difficile esercizio di estraniazione ed immedesimazione. A volte sappiamo cosa vogliamo, anche dall’amore, anche dal sesso. Ma non sempre riusciamo a tirarlo fuori, ad esprimerlo. Con quella franchezza ed ingenuità di cui direbbe la mia mentore di venti anni fa, laddove cosa di meglio che porre domande, così da poter affrontare risposte. Ecco, piccole visioni che affiorano, in una tavolozza complessa che, e lo ribadisco, non mi è piaciuta, ho faticato a leggerne, pur nella brevità. Perché, ed è un mio limite, se non trovo un elemento in cui trasferire il me stesso lettore, non riesco ad assaporare tutto il gusto della lettura. Chissà se la scrittrice di Budrio in altro è riuscita a ridarmi quanto mi aspettavo desse.
Terza trama di ottobre, ed eccovi allora qualche rimedio veloce per sintomatologie poco profonde.
Per il resto continuiamo ad andare avanti nel mese compleannico, con un numero spropositato di bilance (anche se, fortunatamente, è anche il mio ascendente), ed un accenno di scorpioni. Ricordando, molto nella memoria, in fondo, che ieri mamma avrebbe fatto 95 anni, ed augurando a tutti di raggiungere quel traguardo, vi saluto.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
OTTOBRE 2019
Citazioni veloci di libri che servono a curare (in modo forse troppo palliativo) malumori momentanei.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO

LIBRI CITATI:
MATILDE di ROALD DAHL (1988)
“Il giardino segreto” di Frances H. Bumett (1910)
“Il leone, la strega e l’armadio” di C.S. Lewis (1950)
“Nicholas Nickleby” di Charles Dickens (1838)
“Oliver Twist” di Charles Dickens (1837)
“Jane Eyre” di Charlotte Bronte (1847)
“Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austin (1815)
“Tess dei d’Urberville” di Thomas Hardy (1891)
“Kim” di Rudyard Kipling (1901)
“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway (1952)
“L’uomo invisibile” di H.G. Wells (1896)
“L’urlo e il furore” di William Faulkner (1929)
“Furore” di John Steinbeck (1939)
“La roccia di Brighton” di Graham Greene (1938)
“La fattoria degli animali” di George Orwell (1945)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.
MATILDE di ROALD DAHL

Dato che lo scetticismo è una malattia da combattere fin da bambini, cominciamo le iniezioni di fiducia nella biblioterapia con questo classico per l’infanzia di Roald Dahl. Matilde è una bambina fuori dal comune, dotata di una grande intelligenza e una profonda sensibilità nonostante un padre disonesto, una madre che pensa solo a giocare a bingo e un fratello teledipendente, come tutta la famiglia. La piccola, invece, ha sviluppato fin dalla più tenera età un’altra forma di dipendenza considerata un vizio dai genitori: la lettura. A tre anni ha imparato a leggere, da sola ovviamente, e da allora è diventata una divoratrice di romanzi (adora in particolare Dickens) con cui cerca di soddisfare la sua insaziabile e curiosa sete di conoscenza. Assidua frequentatrice della biblioteca, quando arriva a scuola lascia di stucco la maestra Dolcemiele per la capacità di fare calcoli complicatissimi. Detestata a casa perché diversa, angariata a scuola insieme agli altri compagni dalla perfida direttrice Spezzindue, per difendersi la piccola Matilde può contare sull’unica arma a sua disposizione, la più potente: l’intelligenza, con la quale orchestra scherzi punitivi. Quando poi la sua rabbia verso ogni forma d’ingiustizia e prevaricazione sfocia in una sorta di elettricità che le guizza dagli occhi, un potere magico che le consente di spostare gli oggetti con lo sguardo, la piccola si trasforma in una paladina contro tutti i prepotenti. Con il suo inconfondibile stile diretto, semplice e ironico, Roald Dahl racconta come intelligenza e cultura siano le uniche armi pacifiche con cui dichiarare guerra all’ignoranza e alla cattiveria. I libri aprono la mente e lo sguardo, rendendoci più forti, coraggiosi e capaci di cambiare le cose. Leggere è una forma di ribellione che può salvarci ogni volta che ci sentiamo deboli o piccoli, un antidoto contro ogni forma di cattiveria che deriva sempre dall’ottusità e dalla miopia. Notoriamente Roald Dahl è uno scrittore dalla parte dei bambini e nei suoi libri cerca in tutti i modi di difenderli dal contagio di quei virus di cui gli adulti sono portatori insani: mancanza di fantasia, egoismo, prepotenza e supposta onniscienza. Matilde si rivela efficace anche per rassicurare i bambini che la diversità è un bene, per convincerli che la teledipendenza rende ottusi e lenti come gli adulti e per aiutarli a capire che bullismo e violenza sono le armi degli stupidi. Per queste ragioni e per il modo impietosamente sincero ed esilarante con cui Dahl descrive i grandi, se ne prescrive la lettura anche agli adulti. Se i piccoli lettori ci prendono gusto, proponete loro altri romanzi dell’autore a cominciare, parlando di gusto, da “La fabbrica di cioccolato”. Occhio perché i romanzi dello scrittore inglese possono dare dipendenza anche nei bambini al di sopra degli otto anni, rappresentando una bombola di ossigeno e di gas esilarante.
Matilde passa interi pomeriggi a leggere in compagnia di una tazza di cioccolato. Questo potrebbe essere un goloso éscamotage per invogliare i bambini a trascorrere il tempo in maniera diversa, traendo piacere perfino dalla solitudine della lettura. Ma se verranno contagiati dal morbo dell’inguaribile lettore, scopriranno presto che chi legge non è mai solo. Matilde, per esempio, è un’ottima amica e compagna di viaggio perché, come dice Roald Dahl, «i libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. [...] Girava il mondo seduta nella sua stanza».
Nel 1996 Danny De Vito ha portato il libro sullo schermo con alcune differenze ma mantenendo intatto il suo messaggio.

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Dei 15 citati ne ho letti poco più della metà, e molti in tempi molto antichi. Vediamo cosa rimane.
John Steinbeck “Furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 12 febbraio 2012]
Sono ben due settimane che mi porto appresso questo librone del Premio Nobel 62. Certo, le 400 e passa pagine hanno il loro peso. Ma anche la scrittura e la trama in sé. Non che siano pese, come direbbero i miei amici toscani. Di certo non sono agili, ma lo sforzo meritava questa interessante lettura. Non lo inserisco nel mio olimpo privato, che molto risente dei settanta anni trascorsi. Pur tuttavia ha fascino. E da certi punti di vista, permette di guardare al mondo odierno e di darne qualche chiave di lettura. Cosa chiedere di più ad un, tutto sommato, buon libro? Cominciamo dal titolo, forse il punto più dolente. Certo, “Furore” è entrato nell’immaginario collettivo, ed è inscindibilmente legato alla tipologia di vicenda delle rivolte dei poveri senza futuro. Ma anche “I frutti della collera” come recita il titolo originale, non è che fosse lontano da una bella descrizione del contenuto. Tra l’altro con cognizione, essendo una citazione tratta dall’Apocalisse. La scrittura di Steinbeck, poi, consente di capire al meglio un grande numero di scrittori, o tipologie di scrittori, americani di oggi. C’è questo suo alternare i capitoli: quelli dispari parlano in generale, esaminano teorie e fatti universali, mentre quelli pari seguono le vicende della famiglia Joad, presa a campione di tutte le famiglie americane che attraversano questo grande momento di crisi, che saranno gli Anni Trenta sul suolo americano. E queste due scritture, ci fanno capire le tirate morali di DeLillo, la scrittura dura di Cormac McCarthy, l’impegno sociale dei radical, il minimalismo post-carveriano. Insomma, si potrebbe prendere il libro e tenerlo come antologia di migliaia di scrittori americani che hanno scritto dal ’40 ad oggi. La parte sociale pecca a volte di ingenuità e buonismo, ma pone domande forti ed apre grandi piaghe: banche, grandi società, con la forza del denaro e con l’industrializzazione forzata delle campagne, invece di riconvertire i modi di produzione, preferiscono creare nuovi poveri, che sono più facili da manovrare, da mettere uno contro l’altro. E far arricchire di più i già ricchi. Che quando queste masse di senza lavoro, scacciati dalle loro terre, come i Joad dall’Oklahoma, cercano nuovo lavoro nelle piantagioni californiane, i grandi produttori non fanno altro che sfruttarne la miseria per avere mano d’opera a basso prezzo. E poiché se si ha fame si accetta di tutto, questi nuovi poveri non hanno la forza, la capacità, di organizzarsi, che solo facendo fronte comune potrebbero arginare l’arroganza del potere. Arroganza ribadita dal potere costituito. Che polizie ed altre istituzioni da una parte applicano la legge, facendo sì che i poveri non accedano a strutture di sussidio. Dall’altra si schierano comunque con il potere, con il più forte, con il denaro, e quindi arrestano e spesso uccidono chi tenta di ribellarsi, chi tenta di unificare le debolezze. Come non leggere in controluce (e fatte le debite proporzioni dovute al cambiamento della società da agricola ad industriale; o a preindustriale, che se leggiamo bene, sacche di arretratezza italiane e greche attuali, ancora lì sono ancorate) guasti dei modelli attuali. Lì il denaro comperava le terre, e se ne serviva per altro. Qui il denaro compera il denaro, ma anche qui il risultato finale è identico. Certo, la critica di Steinbeck è ancorata al New Deal rooseveltiano. Ma fatta salva la prospettiva storica, il suo anelito a far fronte comune è sempre attuale. Tutta la storia poi, è riversata nel concreto con l’epopea della famiglia Joad. Espropriata della terra, come molti agricoltori dell’Est decide la grande traversata verso la California, attraversando su macchine di fortuna più di 3000 km. La maestria di Steinbeck è di far vivere alla famiglia tutti quei momenti di cui parla nei capitoli dispari. L’arroganza delle banche, il depredare povero su povero vendendo macchine scadenti, la fame, il ladrocinio dei proprietari californiani. Ed anche le miserie private: la morte di dolore dei nonni, il ribellarsi di Tom, il maturare di Al, la sfortunata gravidanza di Rosa Tea. Su tutto, quasi ad ergersi come baluardo, la presa di coscienza della madre, che a poco a poco diviene il bastone della famiglia, senza la quale tutto potrebbe andare a rotoli. Ma è lei che tiene uniti (appunto l’unione di cui sopra), ed è lei che fa vedere la possibilità che in fondo al tunnel ci sia la luce. Sempre e soltanto se si tiene in vita la luce della solidarietà. Insomma, è un bel libro, faticoso non nego, ma pieno di parole che ci fanno riflettere. E cosa chiedere di più? Due notazioni per finire: la prima è musicale, come non ricordare il bellissimo album di Bruce Springsteen dedicato all’eroe del romanzo (“The Ghost of Tom Joad”); la seconda è di scrittura. Chi, se non un alto conoscitore delle lingue, per descrivere i rovi che si attaccano alla lana delle pecore potrebbe usare le seguenti parole: “i raffi rovi roncigli”? E come sarà l’originale?
William Faulkner “L’urlo e il furore” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 10 giugno 2012]
Come dice sempre il nostro buon Baricco, la sua è una scrittura potente. Ma riconosciuto questo pregio, non posso proprio dire che il libro mi sia piaciuto. Soprattutto l’impostazione del flusso di parole, che è debitore, e tanto, del travolgente modo joyciano di portare le ondate di parole che fluiscono in testa sulla carta. Non riesco a seguirlo in Joyce, come non riuscivo a seguirlo nel più tardo, ma di analoga impostazione, ‘Cassandra’ della Wolfe. Certo, Faulkner si dimostra un maestro in questo ma io fatico ogni volta ad arrivare al fondo della pagina. Dicevo maestro che, anche se ribadisco le difficoltà, ti fa capire quello che succede, quello che vuole dire. Certo, ben difficile è il primo brano dove entriamo nella testa di Benjamin, il figlio “disabile” come si dice ora. In realtà, muto e con problemi psichici. E Faulkner riesce a buttare di getto (per noi lettori) 60 pagine che ci fanno entrare con tutte le scarpe nella difficile testa di Benji, dove gli avvenimenti si accavallano, i tempi della vita non seguono il loro ordine, ma arrivano a sprazzi, e poi, noi, ordinati lettori, li ricomponiamo in una descrizione di quanto avviene in quei tre giorni di aprile. Più lineare il flusso di Quentin, quando facciamo un salto di quasi venti anni indietro, e, pur nell’accavallarsi di parole, capiamo che quel Quentin lì, anche lui dovrebbe avere dei problemi. Certo, non è matto come un cavallo come il fratello, ma qualche turba, tra lui e la sorella Candace ci deve essere stata. Tanto che prima intuiamo, poi ci viene detto, che di lì a poco, il buon Quentin si butta a fiume. Ancora più lineare, proprio perché pare sia l’unico non disabile della famiglia, sarà seguire i ragionamenti di Jason, il fratello rimasto. Che diventa, per me, il centro di tutto l’odio che si poteva concentrare sulla pagina, non mi piace quello che fa, non mi piace come lo fa, non mi piace come ragiona. Insomma, è l’unico che vedrei soffrire con piacere, ed alla fine, invece, è l’unico che sembra uscirne fuori con la testa sulle spalle. Poi un penultimo capitolo in forma descrittiva, dove si tirano un po’ le fila dei discorsi. In cui vediamo agire in primo piano anche i negri di Jefferson, quelli che servono la famiglia Compson. E che sembrano avere, nella loro umiltà, gli unici piedi per terra di tutto il lungo urlo. Perché è tutto un grande urlo il libro. Un urlo pieno di furore, per la vita, per le difficoltà, per l’ignoranza. Faulkner ci mette di tutto, di più. Perché vediamo lo sgretolarsi di una cosiddetta grande famiglia dell’America del Sud. Siamo anche all’avvicinarsi della grande crisi del ’29, che finirà per dare mazzate a chi non ha avuto lungimiranze di tirarsi su le maniche e cominciare dal basso, da molto in basso. Una famiglia piena di problemi psicologici. Un padre debole, che si ritira ben presto intorno alle bottiglie. Una madre che prende i colpi della vita con mestizia senza reagire, anzi quasi a voler esserne contenta (si fa per dire), come se ci fosse un grande disegno di castigo divino in tutto quello che succede. Che hanno quattro figli. Il primo ritardato, turbato e mai aiutato (anzi, il più delle volte lasciato alla pietà dei servitori). Il secondo, quello intelligente, ma ossessionato dal peccato, dalla morte e dalla sorella minore, con la quale non si sa se commette o sogna di commettere atti impuri. Fatto sta che poi si butta nel fiume. La terza, la sorella, che, come dice il fratello minore, “essendo donna è una puttana”, diventa di facili costumi (sembra o si dice), ha una figlia fuori dal matrimonio cui mette il nome del fratello suicida (ci sarà un motivo?) e poi, in seguito ad un paio di divorzi, viene bandita dalla famiglia. I critici ben informati ci dicono che lei è il vero centro del libro. Sarà… E poi c’è l’ultimo, il piccolo Jason, che fa una serie di azioni per me ignobili, ma che essendo l’ultimo maschio di casa “deve” essere servito e riverito. Finché la madre muore, lui Jason, prende il potere, si sbarazza del fratello matto, ed avrà una serena (per lui) seconda parte della vita. Ma questa fine la ritroviamo solo nell’appendice, dove Faulkner decise (su pressione degli editori) di scrivere le storie dei vari personaggi così da dare ordine al flusso di coscienza. Ed è la parte peggiore. Perché spiega! Non si può spiegare un’emozione. O la si capisce, o non è un’emozione da ricordare. Insomma, certo alla fine viene fuori un potente quadro della pessima vita del Sud degli Stati Uniti, così come in (pare) tutte le opere di Faulkner. Di cui ho letto con questo un paio di cose. E mi basta. Non credo che tornerò a frequentarlo.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[pubblicato il 03 settembre 2017]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla zia morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scoprono essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?

Finalino

Farei solo un commento: a parte Dahl, gli altri libri sono tutti anteriori alla mia nascita. Forse la signorina in 35 anni poteva trovare qualche altro buon libro. E giuro che ce ne sono. 


domenica 13 ottobre 2019

Simoni calante - 13 ottobre 2019


Gianni Simoni “Il filosofo di Via del Bollo” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 0,81 euro)
[A: 15/02/2016– I: 26/09/2017 – T: 28/09/2017] - &&& ---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 278; anno 2013]
Come ho detto trame e trame fa, l’ex-magistrato Simoni, intraprendendo la via della scrittura, dopo essersi dedicato molto al duo investigativo e di ragionamento Petri – Miceli (di cui ho già tanto parlato), ha inserito un nuovo personaggio e delle nuove storie nella vita dei suoi romanzi. Per dare poi un taglio netto a tutta la vicenda, ha preso come protagonista l’ispettore Andrea Lucchesi, un poliziotto di colore figlio di un italiano e di una donna eritrea, sempre in rotta di collisione con le autorità, e di stanza non più nella Brescia da lui amata, ma nella più caotica e complicata Milano. Ho già tramato il primo dei libri dedicati a Lucchesi, che terminava con un bell’infarto di cui non si sapeva bene l’esito. Un tentativo poco originale di dire: se il romanzo va male, Lucchesi muore, altrimenti troviamo il modo di farlo uscire dall’ospedale. Potete quindi immaginare che il primo episodio ha avuto un discreto successo, ed eccoci qui al secondo. Con due grossi punti interrogativi che mi sono sorti a valle della lettura: il titolo ed il sottotitolo. Nel secondo, infatti, si dice “un’indagine del commissario Lucchesi”. Ora il nostro è ispettore al momento dell’inizio del libro. Parlare di “commissario” significa anticiparci che la materia di cui si occuperà Lucchesi andrà a buon fine (per lui) ed otterrà una (desiderata o meno non interessa) promozione. Altro elemento è il filosofo del titolo, che entra nella storia perché Ambrogio (questo il suo nome) discetta a volte con Lucchesi, intercalando frasi normali con lunghe tirate, principalmente da Cartesio, ma nel finale anche un bel Platone. Ma nella vicenda è, tutto sommato, un elemento spurio. Al solito infatti, questa serie è caratterizzata, al momento, da molte vicende personali, e poche vicende di scoperta, di indagine o altro vicino al noir o al thriller. È sicuramente un bel modo di presentare uno spaccato di vita milanese, ma ci si aspetta qualche cosina in più. Perché la maggior parte del romanzo è intrecciato sulle vicende di cuore di Lucchesi. La moglie (che molto da stronza si comportava nel primo libro) dopo l’infarto sembra aver pensato che, dopo tutto, Lucchesi non è male. Anche perché pressata da Alice, la figlia, che vuole stare più tempo con il padre (sta nel mezzo del teenaging, quindi c’è bisogno di una figura maschile positiva). Ed abbastanza stufa del nuovo marito, bravo, onesto, ma discretamente insignificante. Moglie che cerca di circuire Lucchesi, senza però, al fondo, scalfirne i motivi dell’ovvio precedente divorzio. Lucchesi è invece irretito dalla collega Carolina, piacente e spigliata, con la quale, dopo molti tentennamenti, dà vita a scene di sesso, amore ma non rock’n’roll. Purtroppo, Simoni ha letto troppo il norvegese Nesbø, per cui le storie d’amore del protagonista non vanno mai veramente a buon fine. E per cui il protagonista è dedito ad un abuso costante di super-alcolici. Ne avevo già accennato Lucchesi che mi sembrava un piccolo clone di Harry Hole. Ovvio che dopo l’infarto elimina il bere. Ma l’impronta scandinava si nota e si rimarcherà alla fine, non dico come e non dico perché. Mentre quindi scorre la vita al commissariato Centro di Milano, la squadra di Lucchesi è coinvolta di nuovo in furti di opere d’arte. Questa volta, incisioni tedesche del Cinquecento. Purtroppo, la mano di Simoni calca poco questa via, limitandosi a parlare più volte di Luca da Leida (che tra l’altro è olandese). Beh, fa nulla. Il fatto è che la storia in gran parte ricalca il primo episodio, tanto che è di facile lettura. Ci sono diversi furti, ovvio su commissione, ovvio che uno degli elementi trainanti sia la presenza di una conoscenza comune tra i derubati. Ovvio infine che uno dei derubati abbia inscenato il furto per non essere subito individuato. La piccola zeppa che Simoni inventa questa volta, è la casuale scoperta, da parte di tal professor Niccodemo, di un colloquio tra la contessa Elena (che compariva anche nel primo libro) ed uno strano tipo, che ben presto capiamo sia proprio il capo di Lucchesi, il commissario Pepe. Alla morte violenta di Niccodemo (in cui viene coinvolto l’Ambrogio di cui sopra, ma senza che ne ricaviamo particolari patemi), Lucchesi infittisce le indagini, capendo che “c’è del marcio in Danimarca”. Scoprendo che il suo ufficio, quello dei suoi collaboratori, nonché quello di Carolina sono pieni di microspie, per cui qualcuno (ed è ovvio chi) sa sempre cosa sta per fare, quando e come. Spulciando i movimenti dei derubati, qualcuno capisce chi è l’assassino, ma non sa proteggersi le spalle a sufficienza. Lucchesi inoltre ha un incontro-scontro con Elena, in cui capisce che la contessa (minata da un male incurabile) ha fatto giochi più grandi di lei. Tutto finirà in un verso corretto, se non piacevole. Colpevoli scovati, inchiesta risolta, Lucchesi, anche se con la testa qua e là, sugli onori. Tanto che, come detto, verrà promosso, verrà riportato alla Questura. Ci meravigliamo forse che il prossimo libro della serie si intitoli “Sezione Omicidi”? Piacevole soltanto, alla fine, il rapporto con la figlia Alice, con la loro lettura incrociata de “Il rosso e il nero”, e l’uso corretto ed a me congeniale dei libri. Ma non dico altro. Un’altra lettura per passare un po’ di tempo, aspettando … Godò (citazione volutamente errata).
Gianni Simoni “Sezione Omicidi” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 26/01/2017 – I: 25/02/2019 – T: 27/02/2019] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 270; anno 2013]
Eccoci allora, dopo un anno e mezzo, a riaprire un nuovo libro di Gianni Simoni. Come al solito gradevole, nella scrittura e nello scorrere. Anche se la parte “noir” o “gialla” è relegata a poche battute, spesso arrivando a sbrogliare matasse senza che il lettore ne sia coinvolto. Che, come ho detto nella trama precedente, molto del libro si basa sulle vicende personali del commissario (e questa volta per davvero visto che è stato promosso) di colore Andrea Lucchesi. Con tutte le sue paturnie e tutti i suoi difetti. Nonostante l’infarto del primo libro, il nostro continua a bere ed a fumare (come dice verso la fine del libro, che ad un certo punto si arriverà al capolinea, ma perché arrivarci tristi?). Sempre poco attento il sottotitolo, che continua a riportare “Un’indagine” quando qui ce ne sono almeno due o tre. Ma questa è la mia solita mania di puntualizzazione. Comunque, Lucchesi ritorna ad occuparsi di Omicidi, presso Milano Centrale, mettendo su una bella squadra: alcuni agenti locali, rinforzati da Miccoli e Serra che lavoravano con lui, e dalla bella ispettrice Lucia Anticoli, con cui aveva avuto a suo tempo una storia. Visto che quella con la collega Carolina è finita com’è finita (leggete il precedente libro se lo volete sapere), Lucchesi si trova libero e pensoso. Qualche divagazione qua e là con l’altro sesso, molte battaglie non solo verbali con l’ex-moglie Adele. Ma soprattutto, il pensiero se Lucia possa diventare qualcosa di serio. Ed il rapporto con la figlia Alice. Bello spigliato, e con la solita virata “alla Nesbo”, quando, per sua insipienza, ha un incidente di macchina, dove ad Alice non si apre l’airbag. Tutta la parte finale è permeata da ospedali e coma vari, da cui non si sa se Alice si riprenderà o meno. O meglio, chi ne legge lo sa, ma io non lo dico. Per quanto riguarda la vicenda puramente poliziesca, tutto nasce dalla scoperta di un cadavere di donna nudo, steso su di un plaid tra le piante. Nel cercare di scoprire chi sia la donna misteriosa e perché avesse fatto l’amore su di un prato, sopra un plaid di cashmere, Lucchesi ed i suoi si imbattono in altre storie. Sfogliando tra le denunce di donne scomparse, si imbattono in alcune storie collaterali, di cui due hanno un certo spessore. Oltre ovviamente a quella centrale della morta. Uno si risolve in fretta, che la donna scomparsa è una trentina che si è innamorata di un’altra donna, ed ha problemi a parlarne con i genitori. Altri sono solo problemi di corna più o meno palesi. Il sotto caso più complicato viene da un finto geometra, in realtà poco più che capomastro, con una propensione alle maniere forti, che per pararsi il c…, denuncia la scomparsa della moglie, quando noi, e Lucchesi e Anticoli, capiamo subito che la realtà è diversa e, purtroppo, poco piacevole. Così, con poche mosse, il nostro commissario “coloured” balza agli onori della cronaca, tanto che finalmente viene salutato per primo nelle presentazioni, dove in genere si pensa che il più alto in grado sia il marziale Serra. Rimane il caso che ha originato tutta la buriana. Donna uccisa, che si scopre anche essere incinta, che ha avuto un rapporto sessuale prima di morire (grandi analisi del DNA alla CSI New York). Con difficoltà, ma anche con tanta pazienza, Lucchesi risale all’ambiente in cui si poteva muovere la morta, poi alla casa ed al marito. Nonché all’amica più cara della morta, che la copriva in alcune sue uscite “fuori dai ranghi”. Il grande mistero che avvolge l’indagine è che il DNA dell’atto sessuale coincide con quello prelevato al marito della vittima. Peccato che il marito sia affetto da impotenza, non solo generandi ma anche coeundi. Con un piccolo tocco di magia giallistica, utilizzando una possibilità che poteva venire in mente, soprattutto se si fosse conosciuto prima l’entourage della vittima, il mistero si dipana. Inoltre, con un piccolo tocco alla Maigret, mi sia consentito il paragone un po’ aulico, Lucchesi decide di aggiustare le cose per rendere minimi i dolori altrui. Tanto che la verità avrebbe solo fatto del male a tutti. Inoltre, il tutto avviene mentre lui è perso nelle preghiere per la salvezza della figlia in coma. Quindi perdendosi nei meandri di avvenimenti più grandi ed importanti. Anche perché serviranno di base per le prossime avventure del commissario e della sua banda. Come detto, Simoni sa scrivere, sa anche dare toccatine di giallo, anche se qui i misteri non nascono, e le soluzioni, spesso, vengono fornite senza coinvolgere il lettore nell’unico lavoro che dovrebbe fare: quello di pensare. Ma Lucchesi è moderatamente simpatico (a parte quando beve), e di più lo è la figlia Alice e le altre figure femminili (esclusa l’odiosa ex-moglie). Aspettiamoci nuove avventure, allora.
“È questo il tuo problema, o uno dei tuoi problemi: quello di pensarci sempre dopo.” (178)
Gianni Simoni “Troppo tardi per la verità” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 26/01/2017 – I: 08/09/2019 – T: 10/09/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264; anno 2014]
Eccoci ancora nell’alternanza tra le due serie immaginate dall’ex-magistrato Gianni Simoni: da un lato quella “storica” (cioè la prima) con il commissario Miceli e l’ex-giudice Petri a darsi manforte l’un l’altro nell’analisi e nella soluzione di casi vari in quel di Brescia, e dall’altra quella del commissario Andrea Lucchesi, l’unico commissario di colore nella “Sezione Omicidi” di Milano. Questo tiolo appartiene alla prima serie, anche se, ormai, mettere il sottotitolo, come si ostina a fare l’edizione TEA, “Un caso di Petri e Miceli”, sembra abbastanza pleonastico. Visto che la scena è sempre più occupata dal neocommissario Grazia Bruni. Miceli c’è, un po’ in un angolo, di supporto, con qualche tocco qua e là. Petri spazio un poco tra le pagine, lo seguiamo in alcune delle sue attività quotidiane da buon pensionato, ma anche lui, e seppur ben seguito dall’autore, alla fine, ha solo qualche sprazzo (seppur a volte decisivo). L’economia del testo si sposta, e molto, su tutto il contorno. Su Brescia, sulle persone coinvolte e, soprattutto, sui poliziotti che intervengono. In particolare, sul nuovo entrato, il sovraintendente Salvatore Armiento che inizia seguendo il caso come poliziotto della Stradale, ma, dotato di buon acume e perseveranza, viene aggregato alla squadra della Bruni. Con gran preoccupazione di Maccari, il poliziotto che ha una finora bella seppur tormentata storia proprio con il commissario, e che non vede di buon occhio il bel giovane. Mentre Grazia Bruni sembra solleticata dal non felice momento con Maccari e della bella presenza ed acume di Toto. Che tuttavia, essendo anche di molto giovane rispetto al commissario, rivolge le sue attenzioni alla giovane dottoressa Laura, causalmente coinvolta nelle indagini ed ivi conosciuta da Armiento. Questa tutta la storia al contorno, cioè riepilogando: Petri con la simpatica moglie Anna a fare da pungolo e memento delle indagini, Micheli, messo all’angolo e pronto a lavorare di sponda, Bruni che dovrebbe prendere in mano le indagini, ma è anche preoccupata dal suo personale, che si istanzia in Maccari e nel difficile momento che attraversano, Armiento, il nuovo arrivato con le forze fresche e forse capace di dare nuova linfa ad una situazione statica, ed i soliti poliziotti della Sezione Omicidi, che questa volta lavorano solo nell’ombra senza particolari acuti. Su questo contorno si muove la vicenda che nasce da un incidente stradale: una persona, risultata priva di documenti, viene investita di notte, ed una coppia che passeggiava lì intorno avverte la Stradale. Armiento prende in mano la situazione, anche perché la dottoressa Laura, inavvertitamente, travolge il corpo morto. Questo innescherà la trama “rosa” di cui sopra e che cercheremo di capire nelle prossime puntate se andrà avanti. Ma farà anche in modo che Armiento si interroghi su alcune risultanze dell’incidente che risultano poco chiare. Tanto che coinvolge la Omicidi per andare a fondo alle indagini. Lì la Bruni interroga la coppia, che però risponde svogliatamente, e che, quando la si cerca per approfondire alcuni aspetti, risulta introvabile. Pare sia andata nella casa in montagna e non si riesca a rintracciarla. Intanto, spunta fuori anche un nuovo testimone, un anziano che portava a passeggio il cane, e che ribalta la prospettiva. La coppia non era sul marciapiede dove diceva di passeggiare, il marito della coppia sembra aver dato una spinta al morto, la macchina ha accelerato più del dovuto. Tutti fatti che consigliano i nostri di indagare meglio sulle persone coinvolte, sul morto, sul guidatore, sulla coppia. Una ricerca semplice ma non facile, che alla fine porta alla luce molti incastri a prima vista poco probabili. Il guidatore della vettura è noto alla coppia, ma forse più per problemi di soldi che altro. Così come alla coppia è noto il morto (di cui alla fine si riesce a trovare l’identità), ma qui i soldi non c’entrano. L’anziano che passeggiava con il cane risulta più affidabile di quanto sembrava a prima vista, anche se non ha visto tutto e non l’ha visto bene. In mezzo a tutto ciò, Armiento, aggregato alle indagini, scopre man mano tutta una serie di incongruenze che lo portano ad ipotizzare una chiave di lettura del caso. Chiave di lettura che sarà avvalorata quando, alla fine, si riuscirà a rintracciare la coppia in quel di Bormio. Ci sono un paio di colpetti di scena finali, che rendono quanto meno gustosa, benché amara, la rivelazione finale di come sono andati i fatti in realtà. Insomma, la scrittura si è mantenuta ad un discreto livello, il nuovo entrato (se rimarrà) risulta simpatico. I soliti personaggi invece no. Speriamo che, se la serie avrà un seguito, riesca a risalire nell’intreccio. Per finire, comunque grazie a Simoni per le belle immagini di Brescia, una città che, in effetti, non conosco per nulla.
Gianni Simoni “Contro ogni evidenza” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 27/05/2017 – I: 30/09/2019 – T: 01/10/2019] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 219; anno 2014]
Qui invece siamo sul lato “Lucchesi”, e, purtroppo, sembra che la vena di Simoni da questo versante si stia inaridendo un po’. Come se, in mancanza di idee originali, Simoni si avviasse a compore un libro prendendo spunti altrove e poi cercando di rielaborarli. Intanto, il protagonista, il commissario Lucchesi, si avvia sempre più ad essere un clone italiano di Harry Hole di Nesbo. Intelligente, preparato, ma sempre ai limiti delle vicende. Sempre più attaccato alla bottiglia, anche se Harry lo fa con metodo e rimpianti, mentre Lucchesi sembra voglia accelerare il processo di autodistruzione (non a caso è da poco uscito da un infarto ed altri malanni, ma continua ostinatamente a non volersi curare). Sempre con rapporti familiari difficili. Alle prese con una ex-moglie pervicacemente ostile (anche se qui non compare molto) ed una figlia che non sa gestire. Sempre invischiato in rapporti sentimentalmente complicati. Qui sembrava trovare un suo sbocco con l’ispettore Lucia Anticoli, ma il suo tria e molla non fa presagire nulla di buono. Dopo aver clonato Hole, Simoni immagina anche una specie di vicenda clone del precedente libro. Una morte apparentemente spiegabile in modi preterintenzionali, che ben presto si rivela nascondere altro. Lì, da Miceli e Petri, era un incidente d’auto. Qui abbiamo una rapina, dove i due banditi, senza nessun vero motivo di pericolo, invece di continuare la rapina in banca, uccidono a sangue freddo l’impiegata Giusy e fuggono. I grandi capi vorrebbero chiudere al più presto la vicenda, ma Lucchesi subodora del marcio. Non a torto, perché le modalità della sparatoria sono alquanto misteriose. Lucchesi, ma soprattutto Anticoli, cominciano ad indagare ad ampio raggio, cercando di capire chi sia realmente la Giusy assassinata. Scoprono che si era formalmente lasciata dal suo storico fidanzato solo pochi mesi prima. Scoprono che ha avuto una breve storiella con un funzionario della banca stessa. Scoprono, in particolare, che Giusy era incinta. Questo ribalta tutte le prospettive. Unito al fatto della misteriosa sparatoria, Lucchesi si convince che il vero bersaglio era uccidere Giusy. Fatto salvo che i possibili imputati sembrano avere un alibi, chi poteva essere il mandante? Il fidanzato che si è sentito tradito dalla gravidanza? Il funzionario che avrebbe visto in pericolo la sua onorabilità? Un terzo elemento, che uscirà fuori durante le indagini e di cui non vi dico nulla, anche lui preoccupato per le conseguenze? L’analisi dell’ambiente di vita di Giusy, della sua famiglia, delle sue frequentazioni, porterà i nostri alla soluzione del caso, anche se con poca suspense. Almeno per i lettori, mentre a voi lascio un’aura di mistero. Anche perché, visto che la storia è fragilina, Simoni pensa bene di “incasinarla” con le vicende personali di Lucchesi. Ricordo, per chi non avesse letto i precedenti testi, che il commissario Lucchesi, italianissimo e toscano, è nero di pelle, avendo la madre etiope. Questo, come ovvio, lo rende sensibile alle critiche. E quando un passante lo apostrofa “nero di merda”, pensa bene di spaccargli la faccia a pugni. Ovvio che non è un comportamento corretto per un commissario di polizia, anche se giustificato. Motivo per cui Lucchesi viene trasferito altrove, lontano dalla Omicidi (che lascia in mano e con abilità all’ispettrice Anticoli). Nell’insediamento periferico, altre magagne ed altre indagini si troverà ad affrontare. Un tentativo di mobbing da parte del dirigente (che Lucchesi risolve leggendo fior di libri, e questo, non solo è bello, ma mi ricorda piccole e ben lontane vicende personali). Un tentativo di abbordaggio da parte di un’altra ispettrice dalle belle forme, che però Lucchesi sembra schivare (e sottolineo sembra che non si sa mai). Una richiesta del procuratore di indagare proprio verso il dirigente mobizzatore, che le alte sfere sospettano (e con ragione) essere dedito a propri e personali elementi di lucro sfruttando le pieghe lavorative poco controllate. Ci sono molti elementi al fuoco, le idee, anche se riciclate, assumono contorni interessanti. Inoltre, Simoni, così come nell’altra serie riesce a farci incuriosire di una Brescia ignota, qui non manca di portarci in giro per una Milano poco nota, e degna di essere visitata. Ritengo infatti, che spesso, Milano venga liquidata con molta superficialità. È una città variegata, molto più complessa di uno stereotipo di “Milano da bere”. Ricordo le passeggiate per Brera, ricordo le cene sui Navigli, ricordo le atmosfere di Porta Ticinese, ricordo i passaggi nei dintorni dell’Università. Una città che, prima di conoscerla, mi resta come un punto interrogativo, e che invece si è rivelata più interessante ed anche più stimolante di quanto poteva essere restando lontana. Tanto per chiudere, che dire del Teatro Parenti o del Teatro alle Erbe? Ma per tornare al libro ed a Simoni, concludo: qualche idea, una scrittura agile, ma poco, pochissimo mordente.
Seconda trama del mese di ottobre, e visto i tanti compleanni, perché non dedicare un allegato ai libri che curano una malattia incurabile: l’età?
Come detto, tanti i compleanni di questo mese tra la bilancia e la campagna. E sono troppo pigro per elencarli qui, ma non così pigro da non ricordarli e festeggiarli. Chi ne è coinvolto lo sa, e sa che io vi penso. Soprattutto in un giorno speciale, molto calcistico. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE  2019
Quale miglior mese se non ottobre, per un ricordo di compleanni, dati i tanti festeggiamenti di queste mese castagnolo!
SESSANTANNI, AVERE
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER SESSANTENNI
Chinua Achebe         “Il crollo”
Elias Canetti             “Auto da fé”
Federico De Roberto  “I viceré”
Charles Dickens        “Il circolo Pickwick”
Natalia Ginzburg       “Lessico famigliare”
Agota Kristof            “Ieri”
Philip Roth               “Il teatro di Sabbath”
Graham Swift           “Ultimo giro”
Tiziano Terzani         “Un altro giro di giostra”
Ivan Turgenev          “Padri e figli”

Bugiardino

Diciamo subito che Achebe e Canetti sono in lista d’attesa sui miei scaffali, che De Roberto, Dickens, Kristof e Turgenev sono stati letti tantissimo tempo fa, e che di Roth non ho molto altro di quanto tramato, e di sciuro non questo. Swift ha una copia elettronica del libro che non mi risolvo di leggere. Rimangono l’ottimo libro della Ginzburg, letto in gioventù e riletto meno di dieci anni fa e il superlativo Terzani, che non commento con altre parole se non l’affetto che ho sempre avuto per i suoi scritti. E per questo in particolare.
Natalia Ginzburg “Lessico famigliare” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 2 ottobre 2011]
L’avevo letto in gioventù, quando razziavo i libri nella libreria di mio padre. Trovandolo di fronte mi sono chiesto se lo volevo rileggere. Così ho fatto, ed ho fatto bene. Mi ricordo che a suo tempo mi piacque l’affastellarsi di vite di personaggi che ritenevo mitici. Sentir parlare di Pavese così come io parlavo di Magnus o Geppo, mi sembrava favoloso. Ora l’ho letto con una diversa consapevolezza, e mi è piaciuto per motivi diversi. Diciamo per quell’aria familiare, forse per quelle cose che un dì avevo tralasciato. Le frasi, che diventano come delle madelaine proustiane. Le piccole situazioni quotidiane. Le colazioni, i pranzi, il girare per case. L’invidia, forse, per quelle case piene di gente (ah, l’esercito dei miei cugini, rispetto alla nostra desolata casa con solo me e mio fratello), che vanno, vengono, si incontrano. E tutto scorre, si cresce, ci si fidanza, ci si sposa, si va via di casa, si fanno figli. Ma rimane l’appartenenza. Ecco, questo è l’altro dato forte che mi rimanda. Un senso di appartenenza. Le varie figure del libro, chi più chi meno, appartengono a qualcosa. A un mondo. Ad un’idea. Ad un modo di essere. Ad un modo di rapportarsi. Bella di più la prima parte, ancora tutta familiare. L’andare in montagna (pendant del nostro andare al mare, anche quando non si voleva più), le passeggiate. Il burbero padre Beppe (grande figura di cattedratico-ricercatore, e, soprattutto, coltivatore di talenti, dentro e fuori casa; non a caso, nel suo istituto, passeranno ben tre premi Nobel italiani) con le sue docce gelate, le colazioni a base di yogurt prima che lo yogurt diventasse una moda. La madre Lidia sempre pronta ad uscire e a contornarsi di giovani signore. La levità rimane anche per tutta la seconda parte, che viene però segnata dalla ferita del fascismo e dal loro essere ebrei. Qui ritorna un po’ la punta di curiosità gossippesca, in particolare nelle vicende intorno alla casa editrice, la mitica Einaudi degli anni d’oro. Alla figura di Felice Balbo ed i suoi conciliaboli con lo scienziato Giacomo Mottura. E Pavese (amichevolmente accompagnato fino alla morte). I passaggi ad Ivrea, con Adriano Olivetti (sposo poi divorziato della sorella Paola). E l’amore, forte (anche se espresso con poche e sommesse parole) per Leone, che Natalia seguirà ovunque, anche al confino. E di cui conserverà il nome, anche dopo la sua morte torturato in carcere a Regina Coeli nel ’44. Anche dopo che si risposerà con Gabriele. Ma poi tutto ritorna alla dimensione privata, anche in presenza di avvenimenti pubblici. Per chiudere in un bellissimo, intenso, lungo colloquio tra i genitori, che saltabeccano di qua e di là, tra figli e nipoti, tra “sbrodeghezzi” e “sempiate”, che fanno riaffiorare alla memoria tutto il senso di una vita, loro che immaginiamo ormai ottantenni, in un viale del tramonto che non è tristezza, ma gioia interna e consapevolezza di una vita vissuta. In fondo, vissuta con dignità e con pienezza. Con i figli ormai grandi (la piccola Natalia si sta avviando verso i cinquanta anni). Insomma, c’è qualche puntata alta e bassa (non nego che a volte la ritrosia della citazione rendeva difficile distinguere Lisetta Giua e Lola Balbo), qualche condiscendenza, ma, come sopra riportavo, un modo per far affiorare i miei lessici familiari (soprattutto quello dei nomignoli, che ancora adesso avviati sulla soglia dei novanta anni i miei zii si portano appresso). Un romanzo familiare, per fare strada a nuove generazioni. A cui si passa volentieri il bastone di altre avventure. Anch’esse, perché no, famigliari.
“Sono miei amici, e gli voglio bene e non me ne importa niente se le loro opinioni siano vere o false” (204)
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” TEA euro 7,50
[tramato il 16 dicembre 2018]
Per me, tutto il senso del libro, e tutto il mio senso per il libro, è chiuso in quella frase che riporto in fondo. Il più grande viaggio, quello immancabile, ad un certo punto. E se vogliamo quello che vorremmo fare con la coscienza di farlo. Un viaggio verso sé stessi, per trovarci in fondo alla strada, dopo aver girato, anche con Terzani (ma anche no) da New York all’India, dal Tamil Nadu all’Himalaya. Terzani gira il mondo e le sue diverse situazioni per cercare di capire il rapporto tra il sé stesso malato ed il cancro. All’inizio, anche, e soprattutto, per capire se e come fosse possibile una cura. Se e come si potesse uscire dal tunnel. Terzani comincia con la medicina tradizionale, con il centro antitumori di New York. Con i bombardamenti chemioterapici. Ci colpisce la serenità con cui inizia ad affrontare questo viaggio. E la tranquillità di affidarsi alla allopatia. Quando il primo ciclo finisce, ed i dottori gli danno tregua, Terzani decide di cominciare a spendere il suo tempo in altre ricerche. Intraprende allora anche un viaggio fisico, oltre che mentale, che lo porta in India, in Tibet, nelle Filippine. Dialoga con tutti, parla con tutti, non si tira indietro, non esaurisce mai la sua curiosità. Dalle sue pagine escono fuori maghi, saggi, santoni. Prova tutte le medicine cosiddette alternative: le diete con le erbe, i digiuni, i canti sacri, la meditazione yoga, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la pranoterapia, fino al Qi gong ed al Tai Chi. Sono bellissime tutte queste pagine dove il nostro fiorentino errante non mette mai il tono del ridicolo in nessuna possibile cura. Come laicamente facemmo noi, durante gli studi sugli approcci psicoterapici, la medicina buona è quella che ti fa sentire bene. Lo psicologo buono non dipende da questa o quella branca di pensiero, ma se quel pensiero arriva al tuo corpo, al tuo cuore, alla tua mente. Come diceva sempre allora uno dei miei mentori “Il corpo non mente”. Terzani è tuttavia sempre stato scettico su tutte le cose che ha incontrato nella vita, adottando sempre ed ovunque il motto di capire prima di riproporre (non di giudicare, che mi sembra sia sempre stato alieno a questo metro di espressione). Quello che trova in Oriente, non è, non sarà una cura al suo male, ma il modo di rovesciare il problema, di accettarlo. Di trovare una sua pace interiore. Quando anche l’ultima medicina ha rivelato la sua fallacità, Terzani ci fa capire che il suo viaggio attraverso tutti i possibili modi di curare il proprio corpo malato, è in realtà un viaggio che deve servire a curare LA malattia (scusate l’uso del maiuscolo ma qui ci vuole). Una malattia che colpisce tutti, la paura della morte. Quindi non siamo in cerca, soltanto, di una cura per il corpo, ma di una cura per l’anima. Una cura che devo portare a cambiare il proprio punto di vista, che ci deve portare ad essere in armonia con tutte le cose, visibili ed invisibili, animali e minerali. Terzani, con la sua barba bianca, con il dhoti gandhiano, assume un andamento “naturalmente” francescano. Dopo aver girato il mondo, dopo aver salutato i suoi amati monti himalayani, si ritira per l’ultima fase della vita ad Orsigna, nell’Appennino Toscano, chiudendo il cerchio vitale con la sua nascita fiorentina. Lui ha ritrovato il senso del vivere e del morire. E non finisce mai di esserci utile, quando continua, ricordando anche i suoi trascorsi giornalistici, a farci ragionare sui rapporti umani. Ci parla delle guerre che ha visto, sperando di portarci verso quella pace che non vede e non vedrà. La bellezza dello scritto è che in ogni elemento che incontra nella vita vede qualcosa e ce lo comunica. Dal piccolo al grande. Chi è malato, chi vede da vicino, in sé o in altri, le malattie, anche le più terribili, sente, con me, una terribile angoscia leggendo queste pagine. Non perché facciano vincere quella malattia invincibile che è la paura della morte stessa. Ma perché sappiamo, so, che non saprò mai affrontarla. Il grande merito di Terzani, ed il grande “odio” che provo per lui (e capitemi perché l’ho virgolettato), è che mi ha ricordato che non possiamo dimenticarci della morte. In questi anni, dove molte persone a me care ci hanno lasciate, papà, mamma, Gastone, Paolo, Carlo… In questi anni dove anche noi stiamo accumulando anni e mesi. E di sicuro, anche se non so come né con quale angoscia, è più vicina una fine che un inizio. Ti odio Terzani che me lo ricordi. Ti amo profondamente, perché so che non ne sarò mai capace, ma so che qualcuno ci prova e forse ci riesce. Ti voglio infintamente bene per come hai saputo mostrare il tuo amore per Angela. Così bello che non voglio parlarne di più. Caro Tiziano, infine, il tuo libro è talmente denso, che lo citerei tutto. Ma per ora tante e tante sono le frasi che mi rimangono, che solo alcune riesco a condividerle. E qualcuno leggendone ne saprà.
“In Ladakh le malattie di cuore sono pressoché sconosciute perché la gente vive all’aria aperta, mangia cibi biologici e non ha bisogno di andare in palestra per tenersi in forma.” (62)
“La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i rapporti tra le persone.” (70)
“La caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotta da internet ha creato quell’ormai diffusissimo sapere a metà che è la peggiore e la più pericolosa forma di ignoranza.” (90)
“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. … L’India … fa sentire ognuno parte del creato.” (153)
“Viaggiare mi esaltava, mi ricaricava, mi dava da pensare, mi faceva vivere.” (196)
“Non c’è felicità per chi non viaggia.” (204)
“L’apparente indifferenza [degli indiani] mi colpì ricordandomi quello che mi è sempre sembrato il buco nero dell’induismo: l’assenza di compassione.” (223)
“Nel corso della ita tante cose possono andarci storte, e di solito lo fanno.” (297)
“Il problema sono io e io sono la soluzione … L’onda non ha bisogno di diventare oceano, deve solo rendersi conto di essere oceano.” (350)
“Il Kathakali [è] la vecchia forma teatrale del Kerala … Sulla sinistra del palcoscenico stavano i tamburisti, capaci con le mani o le bacchette di ricreare il frastuono di una battaglia, lo scorrere di un torrente o il quieto tic-tic di una goccia d’acqua che cade su una foglia. Sulla destra stavano i cantanti. Con l’aiuto di cimbali, di un gong e di un’orchestra d’una ventina di uomini, tutti a torso nudo, allineati dietro, loro raccontavano la storia e pronunciavano le battute dei vari personaggi, perché nel Kathakali gli attori sono muti, al massimo emettono dei suoni gutturali. Gli attori «parlano» coi loro movimenti; comunicano pensieri ed esprimono stati d’animo coi gesti delle mani; ‘dicono’ con le smorfie e con gli occhi.” (400)
“La malattia è una forma di disarmonia con l’ordine cosmico.” (450)
“Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.” (516)
“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.” (Prologo)

Conclusioni


Terzani è stato il must dei miei sessanta, e rimane e lo sarà per molto tempo ancora. Le altre scelte mi convincono poco, in particolare Dickens e Kristof. Ma se avete un Terzani tra le mani, potete scordarvi tutto il resto.