domenica 10 marzo 2013

Tutto quel giallo - 10 marzo 2013


Tanto per parafrasare la metà dei libri tramati. Quelli di Cristiana Astori, per capirci, pieni di buona volontà, ed anche di spunti, ma che mi hanno convinto di meno. Interessanti per i cinefili, ma a noi piacciono anche i “gialli” puri. Più sul versante dell’esordiente Parri, tanto per rimanere in tema, piuttosto che su quello del pur leggibile Riccardi. Comunque una settimana dedicata al relax, che devo dire ci voleva dopo un travagliato inizio di anno, per i noti lavori casalinghi.
Cristiana Astori “Tutto quel nero” Mondadori euro 4,90
[A: 07/10/2011 – I: 29/09/2012 – T: 02/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 311; anno: 2011]
Premessa indispensabile: non mi è piaciuto, l’ho trovato lento, ripetitivo, con una scarsa capacità/volontà di portare a compimento il romanzo. Ed è un peccato, che Cristiana Astori sa usare la scrittura, e ci sono pagine che meriterebbero altri contesti, e che il filo narrativo prometteva ed era potenzialmente interessante e foriero di almeno una bella lettura. L’idea di fondo, infatti, è quella di seguire le tracce di un film perduto nei meandri del tempo. Invece di darsi a libri maledetti, come sembra essere la mania del momento, o simili orpelli, la scrittrice costruisce un’ipotesi di trama partendo da alcuni dati reali: il cinema erotico sperimentale dello spagnolo Jess Franco, che negli anni ’60 incontra una sua musa ispiratrice, Soledad Miranda. Dopo 3-4 film, purtroppo, nel 1970 (e non nel 1969) a Lisbona, sulla corniche dell’Estoril, Soledad, a soli 27 anni, muore in un incidente di macchina. Ma viene sostituita da quella che diventerà la moglie di Jess, Lina Romay. La trovata è ipotizzare che esista un film girato con la Miranda, poi inglobato in altro film “di serie B” italiano, ed a sua volta scomparso. Questo il fondo. Alla luce, veniamo alla storia dove seguiamo la ventisettenne Susanna Marino, in cerca di laurea ed occupazione, che viene ingaggiata per ritrovare la pellicola scomparsa. Susanna comincia allora ad aggirarsi nel mondo delle pellicole horror e dei cacciatori di film perduti. È ingenua e sprovveduta, e continua, per tutto il romanzo, a fare disastri ed a non trovare appigli per svolgere il suo lavoro decentemente. Pare solo che l’oscuro Steve, un cacciatore di pellicole, riesca ad aiutarla, sfoderando trucidità alla “Pulp Fiction”. Mentre intorno tutti fanno una brutta fine. L’amante dell’horror Paolo che, dopo aver ritrovato un’oscura “comparsa scomparsa” viene strangolato. Così come viene strangolata a Madrid tale Elena, della Cineteca Nacional, anche lei imbattutasi in una piccola rara. Susanna frequenta con Steve il mondo underground del “Blue Velvet”, dove incontra Ewa (poi torneremo sui nomi), che la convince ad eseguire una danza come quella di Soledad nel suo ultimo film “Il diavolo viene da Akaswa”, dove l’attrice eseguiva un fantomatico strip-tease, senza spogliarsi (almeno così si dice sulla rete, che pare anche questo film sia sparito nei meandri del nulla). Ma prima del ballo, anche Ewa muore. L’idea (lo spunto horror) è che tutte queste morti siano suscitate da qualcuno che esce fuori da quella famosa pellicola. Ed è il produttore di allora, tale Omar, che ha innescato il tutto, quasi ad aver paura delle conseguenze. O a tirarne le fila? Questo il dubbio che non solo non sciolgo io, ma, in realtà, non scioglie neanche la scrittrice. Perché per 300 pagine si va su e giù nel tempo, tra le quinte dove girava i film il famoso Jess Franco di cui sopra, Lisbona come set cinematografico, intarsi su Madrid, e poi Torino ed anche Manziana. Facendo entrare nomi noti o meno, ma mescolandoli in uno zibaldone che ci vuole un libro a parte per tenerne conto. Non solo con la ripetizione delle iniziali (Susanna-Soledad Marino-Miranda), ma con Ewa che era anche il nome della partner di Soledad in un film dal titolo “Vampyros Lesbos”. E poi con le apparizioni di Christopher Lee (interprete del “Conte Dracula” sempre di Franco), di Jack Taylor (altro attore di film horror). Ma Cristiana punta in alto, e fa intervenire anche il negromante Alistair Crowley, di passaggio a Lisbona dove incontra Pessoa. Ed altre chicche cinefile. Questi gli aspetti divertenti. Peccato che l’andar su e giù nel tempo non giovi alla comprensione della trama. Come non giova il tentativo di usare una scrittura “sulfurea”, cercando di creare mistero, dove invece si sparge noia a piene mani. I caratteri moderni sono poi senza mordente. E la fine scivola via senza un vero perché. Tante possibili buone idee annegate in un lago di insensatezze: ripeto, troppe citazioni tra il vero e l’inventato, e, soprattutto, nessuna idea di come possa risolversi, oscillando tra un horror da King di serie B ed un tentativo di razionalizzare gli avvenimenti, che purtroppo non riesce. Peccato.
Roberto Riccardi “I condannati” Mondadori euro 4,90
[A: 15/03/2012 – I: 22/10/2012 – T: 26/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 197; anno: 2012]
Secondo episodio del giallo carino ma leggerino imperniato sulla figura del capitano dei Carabinieri Renato Roversi. Dal punto di vista narrativo, riprende tutti gli stili che aveva introdotto nel primo romanzo, acuendo, se possibile, alcune delle caratteristiche, quasi portandole ad un punto di rottura. Ma sono solo le caratterizzazioni personali, mentre, purtroppo, la vicenda non si aggiorna più di tanto, risultando non dico scontata, che non è vero, ma di certo un poco piatta. Inoltre si cerca di mescolare un po’ le carte, con qualche luoghetto comune sulla Sicilia e sulla mafia (certo, ambientare qualcosa in Sicilia e NON parlare di mafia risulta ormai un azzardo). Separiamo quindi i due piani: la vicenda ed il contorno. Il paese (inventato) di Villafranca ha il suo bravo boss locale, Don Michele, con il suo bravo consigliere (l’avvocato) e con i suoi bravi (più o meno) scagnozzi e con tutti quegli equilibri di relazioni interpersonali che reggono tali paesi. Fatto sta che scompaiono due ragazzi, figli di un pastore, che ne chiede ragione all’avvocato. Poi cominciano a morire i bravi di Don Michele. Nel frattempo, l’avvocato alleva un nuovo picciotto per fare le scarpe al capo dei picciotti (troppo fedele a Don Michele). In tutto questo, si muovono i Carabinieri. E soprattutto il nostro Roversi, che, sebbene preso da altre “grane” (vedi oltre) e con poca lucidità iniziale, riesce a vedere la trama che si cela dietro a tutta questa confusione. E riesce a portare a termine la missione di collocare tutti i pezzi al posto giusto, e quelli più esposti anche in prigione. Non certo Don Michele o il rampante Gaetano. Che anzi, lasciando una serie di punti in sospeso, fa presagire la possibilità di nuove avventure nel futuro. E poi c’è il contorno. I bravi Carabinieri del presidio di Villafranca, dal maresciallo Mandalà che conosce tutti al nuovo entrato Antonio, che si fa presto ben volere. Ma un passo avanti, l’appuntato Pasquale, una specie di alter ego in minore del capitano, ove sembra quasi che ogni due per tre, l’autore cambi il punto di vista della scrittura in soggettiva, passando dal capitano all’appuntato, e viceversa. Sono sicuro che ne farà di strada. Infine, last but not least, ci sono “le donne del capitano”. La romana Laura, di lui sempre innamorata, che tenta di toglierselo dalla mente promettendosi in sposa all’amico Giulio (solito trenino: Giulio che ama Laura che ama Roberto che invece non sa a chi vuole bene). Ed anche Roversi, pur conscio che Laura non è per lui, non riesce a staccarsene completamente. La palermitana Rosalba, giornalista di punta, che già dall’altro romanzo stava puntando al Capitano. Ma che deve fare anche i conti con il mescolarsi dei sentimenti privati, con i bisogni pubblici. E non può fare l’errore di cercare di circuire il capitano per estorcergli notizie per il giornale. Anche se questo va a scapito della carriera. E poi c’è il nuovo entrato, il tenente dei RIS Milena, che, uscita da una disastrosa storia, cerca di capire se Roversi possa essere una nuova alternativa. E ci prova subito, anche se un po’ goffamente. Il nostro capitano, pur lusingato, non sa come muoversi. Certo la romana è assai lontana. Ed un legame interforze può essere pericoloso. Alla fine sembra indirizzare le proprie antenne verso la giornalista. Ma dico sembra, che non porta avanti molto questo ragionamento, travolto dall’incalzare della vicenda. E quando Roversi risolve il caso, il libro si tronca presto. Una scusa in più per tirare fuori altro materiale e pubblicare un nuovo libro. Che magari uscirà da qualche altra parte, evitandoci di doverci sorbire le tiritere finali dell'un tempo ottimo Costanzo, ma che ora risulta noiosetto anzi che no. Insomma, nel finale, un buon momento di relax notturno, dopo giorni di stress diurno.
“Non riusciva a togliersi il vizio di arrivare in anticipo, per quanto si sforzasse” (78)
Carlo Parri “Il metodo Cardosa” Mondadori euro 4,90
[A: 06/10/2012 – I: 26/12/2012 – T: 28/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 233; anno: 2012]
Un buon esordio, veramente gradevole, di un veterano, come dicono i lanci pubblicitari. Poiché Carlo Parri è sì al suo primo romanzo, ma è un pubblicitario di vecchia data (visto che è anche più grande del vostro tramatore), che dalla Pisa natia, ormai da anni vive in quel di Castiglion del Lago. Ma non è il suo fare versiliese che mi ha preso, quella mistura di ironia e buon senso di cui sono piene le pagine dell’ottimo Malvaldi. Mi ha deliziato il modo trasverso con cui attraversa il giallo, mescolando molto Maigret con qualche puntata (rapida ma efficace) oltre oceano. E soprattutto, quel continuo irrompere di citazioni, ahi quanto dotte, che sembrano infilarsi nel testo senza scopo. Ma chi mi hanno fatto sentire vicino lo scrittore. Si sentono le tante letture, e la capacità di distillarne i succhi per riempire le pagine di profumi diversi. Ha certo qualche mancanza, qualche scivolata, ma nel complesso il romanzo tiene e si legge. Anzi, più che un romanzo, direi un romanzo ed un racconto, che, in effetti, sono due le storie che si intrecciano, oltre al delinearsi dei personaggi, ed in primo luogo del protagonista, il vice questore Ludovico Cardosa. Che tra l’altro si aggira in una Roma che ho imparato a conoscere negli ultimi anni, tra Piazza Crati e Piazza Gimma, nella terza sezione della Mobile di via Acherusio. E che ragiona per modi traversi, riprendendo, oltre l’amato Maigret, anche i pensieri alla Adamsberg della Vargas. Ha anche una vita sentimentale complicata, pur essendo single. Ha un rapporto lasco con l’ispettore capo Francesca. Rincontra nel corso delle indagini il magistrato Caterina (con cui ebbe trasporti focosi ai tempi pugliesi). Si interessa sempre più dell’ispettore Gemma. E comincia ad indagare sulla morte di un ricco costruttore, inspiegabilmente freddato e derubato nei dintorni proprio di via Acherusio. Indagini a tutto campo, scoperta la passione del morto verso il collezionismo in generale e l’occultismo in particolare. Rivelando tutto un tessuto di ricerche gravitanti intorno ad un testo cinquecentesco del crittografo Giambattista Della Porta. Che avrebbe nascosto nel testo una mappa che consentirebbe il tele-trasporto. Rischiando di cadere nelle fanfaluche alla Dan Brown, Parri non si inoltra più di tanto su questo terreno minato. Fatto salvo far intervenire un santero brasiliano (con il quale organizza una cerimonia di “mate” che mi ha subito riportato in Argentina). Ed una strana barbona italiana. Mentre ci si inoltra nelle parziali scoperte, intanto, i morti aumentano. Si scopre la presenza di un killer sudamericano, forse legato alle cosche di Pinochet. Insomma, frizzi e lazzi che scorrazzano per il globo. Tuttavia Cardosa, saltando di palo in frasca, ragionando di traverso, trova una serie di possibili fili di Arianna da seguire. Qualcuno non porta a nulla. Uno porta alla soluzione, che viene solo accennata un po’ di traverso. Che quello che interessa a Parri sono i personaggi, le situazioni, il quotidiano del nostro Ludovico. Le sue cene con gli ingredienti comprati al mercato di piazza Gimma, i convitati diversi, le possibili o effettive storie d’amore. Esploriamo quindi il “mondo Cardosa”, e devo dire che mi è piaciuto aggirarmi con lui tra le pagine. Rischiando al fine di scontrarsi con poteri troppo forti (in una delle sette segrete è presente un ministro del governo…), ma riuscendo a trovare l’artefice principe di tutta la macchinazione, con citazioni questa volta alla Patricia Highsmith piuttosto che alla Simenon. E mentre come Baudelaire si dibatte tra le sue conquiste femminili, deve risolvere un diverso problema (il racconto nel romanzo appunto), che coinvolge la sorella (simpatica presenza con la sua compagna Giovanna) e la casa avita in quel del mare intorno a Catania. Anche qui morti, un po’ di mafia, un rinvangare le vicende giovanili e la scomparsa del padre. Ma il buon Cardosa trova la soluzione anche qui, soluzione che porterà ad altre agnizioni, personali e collettive che non vi delucido. Ne parlerei ancora, ma preferisco lasciare il testo alla pazienza di chi lo vuole leggere, ritornando sui punti dolenti di qualche spiegazione mancante e di qualche passaggio forse volutamente monco. Che anche Maigret, a volte, trova soluzioni senza che il lettore capisse come. Pur tuttavia Simenon si industriava nel finale a rimettere tutte le caselle a posto. Ma va bene anche cosi, caro Parri. Mi è senza dubbio piaciuto.
“Prima o poi, avrebbe dovuto affrontare se stesso e le sue sensazioni. E finiva sempre per scegliere il poi.” (10)
“Si ricordò che aveva promesso a Francesca di comprare un televisore. Nessuno vive in casa senza il televisore. Non è normale.” (148) [NdT: io si!]
“Il saggio in ogni cosa guarda al proposito, non all’esito. Cominciare dipende da noi, il risultato invece lo decide la sorte.” (190) [parafrasi da Seneca]
Cristiana Astori “Tutto quel rosso” Mondadori euro 4,90
[A: 05/12/2012 – I: 23/02/2013 – T: 25/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 250; anno: 2012]
Ripeto la fine della prima trama: oscillazioni pericolose tra uno Stephen King di serie B ed un giallo “moderno”. La solerte Astori dimostra che si muove bene nell’ambiente cinematografico, soprattutto che conosce (e non superficialmente, come potrei fare io da puro spettatore) a fondo i film di cui parla. Tanto a fondo, che, appunto, noi poveri spettatori a volte ci perdiamo nella raffinatezza delle citazioni. Qui, dagli snuff movie del romanzo precedente, passiamo nel rosso pieno (tanto per non ripetere un profondo rosso che sarebbe troppo in linea con il fatto che le 250 pagine sono una lunga ed articolata citazione di Dario Argento). Ritroviamo, e con un pizzico di simpatia, la distratta Susanna del primo romanzo, inconsapevole perno delle vicende, che esce dalla vicenda precedente un po’ malconcia, con una sindrome di narcolessia acuta (che ovviamente esplode nei momenti topici della vicenda). Qui l’attacco è diretto, che Susanna vuol portare avanti la sua tesi, come nel primo romanzo, passando alle ricerche sulle location di Dario Argento, ed in particolare su quelle di “Profondo Rosso” (che indicherò con PR visto che si ripete ogni due pagine). Siamo quindi a Torino, galleggiando tra piazza CLN e Villa Scott. Ritroviamo anche l’ambiguo Steve, il cacciatore di pellicole rare, che fa la parte del “tuttologo”: conosce tutti, sa di tutto, e per soprammercato, sa guidare l’auto meglio di Alonso e fa lo stunt man, ma solo per divertirsi. Come ci si aspetta, le morti fioccano da far impallidire anche Django di Tarantino: prima la bella Clara Pardi, uccisa come la medium di PR, poi Rudy il robivecchi, ucciso per avere una copia pirata di PR, e poi Solange la sorella di Clara, uccisa come Amanda Righetti in PR, e Rosselli, il relatore della tesi di Susanna che muore alla maniera del prof. Giordani di PR, e Daniele il giornalista. Almeno questi son quelli che ricordo. E ad ogni morte, primo Susanna si trova sempre nei pressi e secondo sembra sempre più colpevole, tanto che il commissario Tommasi la vuole incriminare, e si salva solo dopo una lunga fuga in macchina con una Opel Manta guidata da Steve. Soltanto verso la fine, la casta Susanna si sveglia (o sembra) e ce n’è voluto di tempo. Ha dovuto: trovare il diario di Clara in cui si parla di uno strano tipo (che si rivelerà uno degli attori della vicenda) che le fornisce coca, farsi rubare da due squinzie filo-escort alla Ruby di Berlusconiana memoria, coinvolgere Solange nella ricerca, rimanere impressionata dalla di lei morte, coinvolgere il giornalista, con identica fine, capire che tutto ruota intorno ad un cinema di Torino, andato in fumo alcuni anni prima del cinema Statuto, che era un covo di film horror et similia. Ed è proprio quando finalmente trova il cinema Z, e parla con il custode (al tempo proiezionista e maschera) che ricostruisce la vicenda. Quel giorno al cinema si proiettava PR, al cinema era andato l’undicenne Rosselli, con la madre cui il custode faceva il filo. Poi era scoppiato l’incendio, il custode era andato al bagno per salvare chi c’era rimasto, e vi aveva trovato due hippie che scopavano (e che non erano altro che i genitori delle sorelle Pardi), nonché una donna incinta, che per il fumo poco dopo morirà, dopo aver partorito un bimbo settimino. Forte di tutta questa ricostruzione, Susanna capisce tutto, da appuntamento al killer nella Villa Scott, e dopo agnizioni e colluttazioni, il cattivo (o la cattiva, che tanto non vi dico di che sesso sia) muore come il colpevole di PR: si incastra un ciondolo nell’ascensore, qualcuno preme il pulsante e chi aveva il ciondolo si strangola. La vicenda inoltre si arricchisce (un bell’eufemismo) di alcune avventure laterali, che servono solo a riempire le pagine ed arrivare alla fine. Ripeto, ancora, il modo di scrivere della Astori non mi coinvolge: nel primo c’era un andare avanti e indietro nel tempo che sconcertava, qui ci sono parti in corsivo che sembrano essere i pensieri di chi poi farà una brutta fine, ma anche questi per un po’ stufano, poi li ho saltati a piè pari, che già il tutto mi sembrava assai lungo. L’autrice conosce e molto bene i film di Dario Argento, nonché le vicende ad essi collegate (le vicende del regista, degli attori, delle location, insomma un wikipedia di PR da paura), ma ha due difetti di fondo: non riesce a coinvolgere il lettore in queste sue trame pseudo-oniriche ma fondamentalmente razionali e presuppone nel lettore stesso una conoscenza di PR che non tutti hanno. Perché non consentire a qualche personaggio, ogni tanto, una digressione sulla trama di PR tanto da far seguire meglio la vicenda, anche senza anticiparne i modi e le conclusioni? Un solo concorde plauso, nel finale, ai ringraziamenti al negozio PR di via dei Gracchi in Roma.
Che altro dire? Tornato in casa (e con un po’ di dispiacere che i miei amici ospitevoli già mi mancano un po’), non si fa in tempo ad iniziare a sistemare le casse e casse di libri e carabattole, che già il viaggio ci chiama, e (fatto salvo imprevisti) il prossimo sabato si vola di nuovo verso Bangkok. Ed anche da lì continuerò a pensarvi. 

domenica 3 marzo 2013

Ma le stelle quante sono? - 03 mar 13


Qualcuno dice siano solo le 5 che hanno volato alto sette giorni fa (e le ricordo per gli smemorati: acqua pubblica, mobilità sostenibile, sviluppo, connettività, e ambiente; e sono cinque temi che, pur con diverso grado di adesione, sono condivisibili). Altri dice che siano milioni e milioni. Io, in questo inizio di marzo pazzarello propongo, ed il caso qui si unisce alla speranza, alcune riflessioni. Che cadono di peso, anche in un momento che l’Italia è senza governo, la Chiesa è senza papa, ed il mondo guarda attonito (anche senza scomodare Manzoni). Sono riflessioni che ho fatto i mesi scorsi, e che culminano con le grandi ed ispirate parole di Simone Weil, quasi fosse un monito che sentivo già nascere. Leggetele, e spero si possa suscitare un dibattito (e sottolineo che la trama l’ho scritta il 9 gennaio).
Enzo Bianchi “Ogni cosa alla sua stagione” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 11/11/2012 – T: 12/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2010]
È sempre difficile imbastire una trama su di un libro del priore di Bose. Ma non perché non sia pieno di cose da discutere e condividere e ribattere e accettare o rifiutare. La (mia) difficoltà sta nel non avere, in realtà, una trama. A volte, come nei saggi nel rapporto con il prossimo, con l’altro, c’è comunque l’idea che sviluppa e sulla quale si può tramare. A volte, come nei libri un po’ di memoria, c’è il filo autobiografico che si segue. Qui, in realtà, sono di fronte ad un libro di sensazioni, di stati d’animo. Forse di memoria, ma con una difficile estrapolazione dal contesto. Tanto che, per rendere una trama fedele, dovrei forse riscrivere tutto il libro. Apro una parentesi: sarebbe un libro ben “denso” uno che non si potesse riassumere se non ripetendolo, perché ogni parola ne è momento essenziale, e la sua scomparsa ne renderebbe la costruzione instabile. Tra l’altro, per tornare a Bianchi, fin da quando l’avevo visto sugli scaffali la prima volta (un paio d’anni fa), sia quando l’ho comperato e l’ho inserito nelle mie liste librarie, ho sempre sbagliato il nome. L’ho sempre pensato e memorizzato come “Ogni cosa HA LA sua stagione” invece che “Ogni cosa ALLA sua stagione”. Facendo un po’ di confusione tra l’appartenenza delle cose e la loro fruizione. Inoltre, Bianchi utilizza stagione come luogo di un qualcosa. Non stiamo parlando delle stagioni temporali, ma di quelle private, interne ed eterne. La stagione della memoria, del riposo (anche se lui lo chiama del focolare), del presepe, degli aromi. Ed il messaggio che ne ricavo è sempre legato alla mia doppia interpretazione. Ogni cosa, ogni attività, ogni pensiero è giusto / si deve sviluppare quando è il suo momento. Non si agisce nel riposo, non si riposa nella meditazione. Ma, di converso, l’azione, il riposo, la meditazione hanno ognuno la loro stagione. E fioriscono, e danno i loro frutti migliori quando li usiamo in quel momento. Ahi, quant’è difficile trovarlo, a volte. Ahi quant’è bello lasciarsi trasportare dagli altri momenti, in modo che ognuno vada al proprio posto, trovi la sua stagione, e lì, nasca, cresca, e si sviluppi. Al meglio per noi. Per arricchirci, per farci crescere. Certo, benché poco più grande di me, sviluppa meglio anche alcune sensazioni fisiche. Non si è più quelli dei venti anni. Ci sono cose che si fanno con difficoltà. Altre che non si riesce proprio a fare (se mai ci si è riuscito). Ed anche in questi momenti che parrebbero di debolezza, ogni azione è sempre vista nel suo lato positivo. Come ne narravo, tramando il bel libro sull’invecchiamento di Hillman. Stagioni che suscitano affetti. Che riportano, come bolle, brandelli di memoria. E mentre padre Bianchi racconta, io mi perdo ogni tanto nei miei giri per il mondo, nelle tante persone incontrate, e nella ricchezza che mi hanno dato. E come sono contento che qualcuno abbia il dono di mettere le sue parole sulla carta e suscitare pensieri. Altri sicuramente. Ma che mi hanno felicemente cullato. Ed allora lascio un po’ a lui la parola, con alcuni brandelli che sorgono. Aspettando prima o poi di leggere altre ed altrettanto calde parole.
“Ricordo ancora oggi il primo viaggio che feci da solo, quand’ero adolescente: paure, ansie, timori, e, insieme, il desiderio, l’eccitazione di uscire di casa, di partire; tutti sentimenti che ciascuno ritrova in se stesso ogni volta che si accinge a un nuovo viaggio.” (15)
“I padri rabbinici … dicevano che Dio, nel cacciare Adamo ed Eva dall’Eden, aveva comunque concesso loro di portare con sé una vite, in modo che si consolassero con il suo succo.” (33)
“Molte cose non ci saranno più, ma ci sarà il vino e ci saranno gli amici.” (39)
“[Mio padre mi ripeteva] in ogni famiglia nasce un figlio stupido, e io ho avuto un figlio solo.” (81)
“Ormai anziano, devo confessare che … ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me … Avere qualcuno che crede in noi è decisivo affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare un senso nella vita.” (97)
“Se c’è una sofferenza in questa mia anzianità, lo confesso, è che gli amici si sono rarefatti: la morte, certo, ne ha portato via alcuni, ma anche la vita ne ha sottratti altri, con le sue vicende e l’evolversi di situazioni famigliari o di lavoro. Eppure per me la fedeltà nell’amicizia è più che un dovere, è una disciplina che non si finisce mai di imparare: quando l’amico sembra venire meno o scompare davvero, è l’ora in cui tener vivo il fuoco sotto la cenere e riattizzare con cura le braci perché il fuoco ancora divampi.” (104)
“Chi, come me, ha sognato un mondo più abitabile, segnato da maggiore giustizia e pace, oggi si ritrova a volte smarrito … Nonostante questo, mi sento ancora di rinnovare la mia fiducia negli altri, nell’essere umano, mi sento di riaffermare la mia fedeltà alla terra, e di proseguire con rinnovata lucidità la battaglia ingaggiata da tanto tempo: se ho combattuto e combatto perché il mondo cambi, oggi più che mai mi ritrovo a combattere perché il mondo non cambi me.” (110)
“Insegna a credere, ad avere fiducia, ad andare avanti … perché così l’uomo si umanizza sempre più, così può fare della propria vita un’opera d’arte.” [cfr. Hillman citato sopra] (125)
don Andrea Gallo “Se non ora, adesso” Chiarelettere euro 8 (in realtà, scontato a 4,16 euro con Feltrinelli +)
[A: 01/12/2012 – I: 06/12/2012 – T: 10/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 155; anno: 2011]
Un libro difficile per un personaggio, una persona altrettanto difficile. Un libro difficile da sunteggiare, tratteggiare, ridurre in pillole. Perché fatto di niente e di tutto. Fatto soprattutto di lui, del più che ottantenne prete genovese. Controversa figura, questa di don Andrea. Prima di tutto intellettualmente pronto e vivo, attento agli studi filosofici prima che teologici. Ma nel contempo, contemporaneamente, uomo e prete. Dove non vede la separazione tra i due momenti, e porta avanti la carica religiosa all’interno di una carica ed un impegno civile. In fondo, forse è meglio parlare di lui che del libro, e qualcosa ne verrà fuori. Ordinato già sulla trentina, subito in rotta con le barriere clericali, trova un suo spazio appoggiandosi all’allora cardinale di Genova Siri, che lo inviò al carcere di Capraia a far da cappellano nel carcere. Già questo mi suonava, che chi si occupa di detenuti ha sempre un posto aperto nel mio cervello. Da lì a dedicarsi a tempo pieno agli emarginati, il passo è stato breve e facile, tanto da poter fondare, nella metà degli anni Settanta, in congiunzione con il coetaneo don Francesco Rebora, la comunità di San Benedetto al Porto. Una comunità da sempre dedicatasi agli emarginati, e per la quale conia, parafrasando il titolo del libro di Primo Levi ed attualizzandolo, lo slogan del titolo. Non più quando, allora, ma adesso. Perché don Gallo riporta tutto all’immanenza, non perché non ci sia l’aspettativa e la forte idea del dopo, ma la sua lettura delle parole evangeliche lo porta a vedere la necessità di combattere (e uso la parola combattere, perché ogni sua iniziativa è proprio una battaglia) affinché si possa migliorare la propria condizione umana, qui, ora. Da qui le prime battaglie per l’emancipazione di prostitute e trans dei carrugi genovesi (affiancato dall’allora combattivo De Andrè). Poi le battaglie per la legalizzazione delle droghe leggere. Per l’uso del preservativo in funzione anti-aids. Per il riconoscimento dei gay. E via discorrendo, con un curriculum di vita che si ingrossa ad ogni volgere di mese. Tutto questo è condensato nei brevi capitoli di questo che non può che definirsi “pamphlet”, pieno di ricordi, di accuse, di storie. Tripartito, dedicando l’attacco alla ricerca della libertà, per tutti, ma soprattutto per le donne. La parte centrale è per i giovani, intesi come risorse e non come problemi. Il finale è dedicato infine alla Chiesa, o, per meglio dire, al suo modo di vedere la Chiesa. Appunto schierata. Appunto interpuntata da pilastri forti e ben saldi: la scuola di Barbiana e don Milani, il Concilio Vaticano II, l’attività di anti-psichiatria di Franco Rotelli (uno dei più stretti collaboratori di Basaglia), don Ellena ed il Gruppo Abele. Con quel grido verso tutti coloro che vogliono parlare in nome di Dio (vescovi, imam, rabbini) e non agire nel nome di Dio. È un libro che ha molti alti e bassi, che a volte mi ha colpito basso, quasi che don Gallo avesse proprio l’intenzione di “spaventare” per far riflettere. Non dico un libro di eccessi (che già troppi, forse, ne ha con sé la sua vita). Ma senza dubbio delle pagine che non lasciano indifferenti. Anche quando parla di cose minime, quando ricorda la madre, l’infanzia, gli amici. Sempre con un rigore che ammiro, anche non condividendo tutte le sfumature. Insomma, non è un inno completo, puro e duro, come mi è rimasto nelle pagine e nelle parole di Arturo Paoli. È comunque un libro pieno. E lo confesso, talmente pieno che come avete visto non l’ho affrontato se non di traverso. Ed ho impiegato, cosa strana per la mia prolificità, quasi un mese per capire come redigere queste note. Vi lascio con alcune note, sottolineando quella che più mi è vicina: tu da che parte stai?
“Le paure non si possono eliminare, ma la paura è un sentimento che interpella le nostre coscienze ed esige risposte.” (14)
“Le donne sono le prime vittime di un’impostazione che vede il sesso come problema da risolvere e loro come un pericolo o una tentazione.” (39)
“Un vescovo del Brasile aveva scritto sulla facciata della sua chiesa: caro cristiano, tu che stai per entrare, sappi che il mondo si divide in oppressori e oppressi. Tu da che parte stai?” (83)
“Non esiste il problema giovanile, esistono le nostre città e nelle nostre città, guarda caso, ci sono i giovani.” (109)
Dolores Prato “Scottature” Quodlibet euro 7 (in realtà, scontato a 5,95 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 07/01/2013 – T: 07/01/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 49; anno: 1996]
Un libro, o forse meglio, uno scritto, di piccola meditazione. Inscindibile dalla figura della scrittrice, ed altrettanto invece scindibile tra testo, breve e intenso dell’autrice, e postfazione, inutilmente verbosa del pur volenteroso Alejandro Marcaccio. E comincerei proprio da qui, dicendo di come io soffra le parole inutili, il sentirsi parlare, l’inutile rumore che suscita la voglia di farsi sentire bravi e dotti. Il testo di Dolores Prato, al più, meritava un’esegesi storica, su come nasceva e sulle sue vicende editoriali. Come altrimenti etichettare una persona che, per tratteggiare la vita dell’autrice parla di “un procedimento a intarsio … che sa trovare … nel fonosimbolismo come nell’analogia o addirittura nella rabdomanzia … una miriade di connessioni … tra micro e macrocosmo”. Leggi una frase così, ed il cestino sarà il luogo più atto a contenerne i resti. Quindi, non leggete la postfazione. Ma leggete invece le poche pagine scritte nell’unico testo compiuto dell’autrice. L’ho ripescato dando fondo ad una serie di suggerimenti (negli ultimi anni ne ho accumulati un migliaio ma pochi ne ho seguiti) che presi da quell’inserto benemerito di Repubblica, che da troppo tempo ormai è stato eliminato. In particolare, questo era nella “Seconda”, la pagina in genere dedicata a riprese di testi scarsamente riediti. Così anche per questo, che vide la luce nel lontano 1965, l’autrice essendo già oltre la settantina. Perché Dolores Prato è una strana figura di letterato che attraversa buona parte del secolo scorso. Nata illegittima nel 1892, laureatasi a forza a Magistero negli anni in cui vi studiava mia nonna, ha insegnato per buona parte della sua vita, terminandola come giornalista di libri sulle pagine di quel bell’esperimento romano che fu “Paese Sera”. Ed in tutta la sua vita non ha fatto altro che scrivere, accumulando libri che mai pubblicò, e che il fondo a lei intitolato, una volta spentasi nel 1983, ha iniziato ad elaborare e pubblicare. In vita pubblicò scarse poesie, e, a sue spese, queste poche pagine. Che sono tuttavia perfette. Che non hanno bisogno di aggiunte o di eliminazioni. Sono la fotografia del passaggio di Dolores da un’inconsapevolezza dolorosa ad una consapevolezza altrettanto dolorosa dell’esistenza, nel momento di aggancio verso un esterno che fino ad allora le era stato (forzatamente) precluso. Un esterno dove, di necessità, ci si può far male, ci si faranno enormi “scottature”. Ma queste potranno essere curate, volendo. Dolores ci parla (con delle frasi che immagino tornite e passate al setaccio per anni) del periodo di passaggio tra l’ultimo anno delle superiori e l’inizio dell’avventura a Magistero. E con maestria ci fa partecipe: del dolore per non essere stata riconosciuta dai genitori naturali, del tempo passato presso lo zio prete e della sua partenza per l’America, carica di promesse e foriera di delusioni, della difficoltà di rapportarsi alle altre ragazze del Collegio, del suo sentirsi in dovere di fare di più come si sentisse sempre in debito, dell’empatia con la Vecchissima Religiosa, unica ad intuirne potenziali, della scoperta del mare, del rapporto con la preghiera e con la religione, dell’idea di entrare in Convento, della bellezza di una rosa. Insomma, tante piccole parole, ognuna piena del suo mondo, che ce lo fa intuire piuttosto che vedere. Le sue parole mi sono piaciute, le sue frasi mi hanno rapito. E se fosse solo questo, avrebbe un posto più prominente nel mio immaginario libresco. La fine, di cui ho già mal parlato sopra, lo fa arretrare di qualche passo. Pur rimanendo un libro che sono contento di aver letto in un bel mattino di sole in questo inizio di gennaio del duemilatredici (un anno di cifre diverse, come non accadeva da 26 anni!).
“Disse la bellissima: - A far del bene si sbaglia sempre -. Io non capii. Meglio non capire: non mi è mai piaciuto.” (20)
Simone Weil “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” Castelvecchi euro 6 (in realtà, scontato 5,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 09/01/2013 – T: 09/01/2013]
[titolo: Note sur la suppression générale des parties politiques; lingua: francese; pagine: 60; anno: 1950]
Un altro breve libro da “meditazione”, questa filosofica e perché no politica, piuttosto che intimistica e personale. Anche questo viene dal “monte consigli”, me lo ero segnato dopo averne letto su l’Espresso e sulla sezione “Filosofia e Idee” dell’inserto Libri di Repubblica. In realtà, è più che altro un articolo lungo, scritto intorno al ’40, ma pubblicato postumo ed a sé prima nel ’50 e poi nell’opera completa di Simone Weil nel ’57. Qui Castelvecchi riprende il testo del ’50, coniugandolo con un’inutile prefazione di Andrè Breton, che in tante altre prove avevo trovato interessante e stimolante, mentre qui, sbilanciato sul lato politico, lo trovo un po’ tronfio e poco incisivo. Come poca significativa mi è parsa anche la post-fazione di Alain (pseudonimo del filosofo Émile-Auguste Chartier, insegnante della Weil al liceo, ed anche di Andrè Maurois, Raymond Aron, Julien Gracq e altri), benché pervasa del sentimento di stima e rispetto verso la sua ex-allieva. Se non si conoscesse per altri versi la Weil, certo queste note poco ci sarebbero di aiuto. Mentre sarebbe stato utile tratteggiarne meglio la figura. Nata nel 1909, laureata in filosofia, ebra non praticante, comunista anti-stalinista, insegnante, sindacalista, a 26 anni va per due anni in fabbrica (dove mina una salute già cagionevole), poi nelle Brigate Durruti durante la Guerra Civile Spagnola, ritorna a scrivere, mette in salvo la famiglia in America prima dello scoppio della guerra (in particolare, il fratello Andrè, grande matematico, fondatore, nota per i miei sodali dei numeri, del gruppo Bourbaki e poi collaboratore a Princeton di Einstein), lei rimanendo in Inghilterra a lavorare per la liberazione. Irrimediabilmente colpita da tubercolosi, muore in sanatorio a 34 anni, avendo passato gli ultimi quattro anni ad interrogarsi sulla religione e su Dio. Niente sarà pubblicato in vita, ma il suo padre spirituale conserverà tutti i suoi quaderni e la loro pubblicazione postuma rivelerà una profondità di pensiero insospettata, anche se tutte le sue azioni portavano a comprendere un rigoroso impegno personale guidato da un’etica fuori dal comune. Questo avrebbe permesso di cogliere, anche in questo scritto, la passione presente in ogni suo pensiero ed azione. E certo è uno scritto, o meglio un pamphlet agile e che va diritto allo scopo. Seppur se ne colgono molte inflessioni (che meriterebbero un pensiero ed una penna più agile della mia), rimane il nucleo centrale dello scritto. Valido settanta anni fa come ora. L’agire politico (cioè per la polis, per la comunità) deve essere un agire, appunto, per il bene della comunità stessa, teso alla verità ed alla giustizia. La degenerazione della politica, cominciata a valle della Rivoluzione Francese del 1789, porta ad irrigidire le proprie posizioni, appiattendole nel sentimento dell’appartenenza. La nascita della Rivoluzione non avvenne per partiti, ma da club, persone che erano accomunate da un’idea e da un sentire. Ma che a loro volta potevano dissentire. Dovendo difendersi dagli attacchi esterni, i club si sono ben presti trasformati in partiti, in consorterie che non son più tese al bene comune, ma al bene del partito stesso. Nasce una spirale di degenerazione per cui si cercano più voti per incidere di più, ma in realtà per consolidarsi come partito. E giustamente si domanda la Weil quando si aderisce ad un partito, si conoscono forse tutte le sue implicazioni? Così come, aderendo ad una Chiesa, si possono conoscere tutte le sfaccettature dei testi sacri? La presenza dei partiti priva il cittadino di un discernimento verso il bene comune, per cui si fanno scelte dettate più dalla ricerca di una riconferma del partito come ente che verso azioni che potrebbero innalzare il bene della comunità stessa. Parole che vedremmo stampate a chiare lettere ed affisse verso tutti i nostri nanetti attuali, che so, non dico solo i Maroni o i Bersani, ma i Casini, i Fini, financo all’attuale Monti (che invece sembrava apparire diverso). Chissà cosa avrebbe pensato la Weil di un governo di tecnici non legati ai partiti? Ecco, aderisco, fino all’ultima goccia, al distillato delle parole di Simone. E chissà che non trovi il tempo di leggerne altro in futuro. Per ora finisco con un rimando al mio amico storico e storico amico, che della storia dei partiti politici ben più di me ne conosce.
“Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa sia giusta perché il popolo la vuole, ma che a determinate condizioni il volere del popolo abbia maggiori possibilità di qualsiasi altro potere di essere conforme alla giustizia.” (25)
“[Il personaggio politico ideale dovrebbe prendere in pubblico il seguente impegno] Ogni qualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, mi impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia.” (33)
“Non c’è nulla di più confortevole del non pensare.” (43)
“Quasi dappertutto … l’operazione … di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero.” (49)
Come al solito, alla prima trama del mese diamo anche conto dei 18 libri letti nell’ultimo mese dello scorso anno. Un mese un pochino piatto, con solo il libro di Giartosio su Roma che è riuscito ad emozionarmi ed il finto Noir di Banville che è riuscito a farmi innervosire.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Michael Connelly
Il ragno
Piemme
11,50
3
2
Jonathan Coe
La pioggia prima che cada
Feltrinelli
7,50
3
3
Erri De Luca
La doppia vita dei numeri
Feltrinelli
8
2
4
Hakan Nesser
L’uomo con due vite
TEA
9
3
5
Fabio Stassi
È finito il nostro carnevale
Minimum fax
9
3
6
Michael Connelly
Vuoto di luna
Piemme
11
2
7
Don Andrea Gallo
Se non ora, adesso
Chiare lettere
8
3
8
Asa Larsson
Il sangue versato
Marsilio
12,50
3
9
Tommaso Giartosio
L’O di Roma
Laterza
12
4
10
Nicolas Barreau
Gli ingredienti segreti dell’amore
Feltrinelli
8
3
11
Jo Nesbo
Nemesi
Piemme
11,50
3
12
Grazia Verasani
Cosa sai della notte
Feltrinelli
13
3
13
Paolo Rumiz
La cotogna di Istanbul
Feltrinelli
8,50
3
14
John Banville
Dove è sempre notte
Repubblica – Noir
7,90
1
15
Asa Larsson
Sentiero nero
Marsilio
12,50
3
16
Esmahan Aykol
Divorzio alla turca
Sellerio
14
3
17
Carlo Parri
Il metodo Cardosa
Mondadori
4,90
3
18
Giuseppe Pederiali
Camilla e i vizi apparenti
Garzanti
9,90
2
La Thailandia non si avvicina ancora, ma i lavori in casa vanno avanti discretamente spediti. E si spera che la prossima trama si possa inviarla dalla nuova postazione domestica.