domenica 29 agosto 2021

I consigli di Robinson - 29 agosto 2021

Quattro consigli di libri al femminile che provengono da “Robinson” il supplemento letterario di Repubblica. Il quale, ogni settimana, pubblica una sua Top Ten, dalla quale io pesco libri casualmente. Il risultato non è sempre di livello come mi aspettavo dalla lista. Anche perché, in fondo, i gusti degli scrittori di Robinson sono di fondo diversi dai miei. Qui, dopo un inizio decente, si va in calando, sia con autrici straniere che con autrici italiane di non chiarissima fama. Sono tentativi, questa volta poco riusciti. Ma ci si riproverà

Naoise Dolan “Tempi eccitanti” Atlantide euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 12/01/2021 – I: 04/02/2021 – T: 07/02/2021] - &&&--- 

[tit. or.: Exciting Times; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 2020]

Continua con questo libro la lettura di suggerimenti non usuali presi dalla rivista “Robinson” di Repubblica. Qui abbiamo un risultato non direi a gambero, ma suggerirei a lumaca. Cioè due passi avanti ed uno indietro. Gli elementi positivi del suggerimento sono innanzi tutto la scoperta di una nuova casa editrice, almeno per me. “Atlantide” che mi sembra avere un iniziale catalogo di interesse per nuovi spunti (nonché avere la sede non distante dalla mia abitazione). Il secondo punto è la scoperta di una nuova autrice, irlandese di Dublino, con un nome impronunciabile, giovane e quindi con possibili aspettative positive, per lei e per noi.

Il passo indietro è il romanzo nel complesso, con spunti interessanti, momenti linguistici da “pensamento”, eppur tuttavia irrisolto nelle sue pieghe maggiori. Quasi la Dolan volesse lasciare zone d’ombra e d’interpretazione, per far sì che poi, il lettore farà proseguire il testo oltre l’ultima pagina. Nella sua immaginazione.

Intanto, altro elemento di curiosità è il nome stesso dell’autrice. Ovvio che sia gaelico, meno ovvio che, generalmente, Naoise (che si pronuncia “Nisha” come ha riferito l’autrice) sia un nome maschile, riferito al marito dell’eroina Deirdre, ed ucciso, nelle saghe locali, da suo zio Conchobar (che sembra invece tanto un nome di un locale sudamericano).

Andando poi a spulciare nella vita di Naoise, oltre che di Dublino, laureatasi al Trinity College, dove aveva come collega Sally Rooney (di cui ho da non molto tramato un libro), ha poi girato molto (Italia, Singapore, e soprattutto Hong Kong), per poi rimpatriare e continuare a scrivere.

Se traguardiamo il testo nel contesto possiamo di certo vedere similitudini, ma noi, oltre che congiunzioni astrali non indaghiamo, e quindi ci immergiamo in questo triangolo scaleno asiatico. Dove seguiamo la vicenda della protagonista, Ava, e dei suoi due principali interlocutori: Julian e Edith. Ci sono altri personaggi al contorno, ma da espungere quando vogliamo concentrarci sul testo e sulla sua resa.

La prima cosa che salta agli occhi è la continua irresolubilità di Ava. Pur essendo la protagonista, nonché il soggetto parlante (o scrivente), pur essendo moderatamente (o almeno, personalmente) simpatica, dotata a volte di battute fulminanti e di pensieri caustico-ironici, non sembra mai fare un passo avanti. Si lascia trasportare dagli eventi, piccolo vascello senza guida. E per duecentonovanta pagine si incarta sulle sue paranoie: paure, bellezze, slanci, tutto nella sua testa. Ci vorranno le ultime quattro pagine per farci capire che, forse, qualcosa è scattato nella sua testolina.

Ava, dopo il diploma, decide di emigrare ad Hong Kong, una città ormai cinese, dove per vivere insegna inglese ad una scuola privata di ricchi cinesi. Questa, tra l’altro, credo sia stata la prova più ardua per la traduttrice, la bravissima Claudia Durastanti, che nel battibeccare con gli alunni, Ava si immerge in discussioni su forme grammaticali inglesi e irlandesi, che solo salti pindarici riescono poi a farne capire il senso. Ad esempio, c’è tutta una pagina sulla pronuncia di “what” e “things” (84) o un’altra sulle differenze tra perfect, past, past perfect, present perfect e present perfect continuous (198).

Comunque, conosce Julian, un consulente finanziario di livello medio-alto, di stipendio e mezzi altissimi. Dopo strane schermaglie, Julian le offre una stanza del suo mega appartamento. E dopo altro poco tempo, i due finiscono a letto. Non è amore, è solo sesso. Anche perché i due continueranno a trattarsi male (verbalmente) in fondo solo perché innamorati delle loro relative schermaglie verbali.

Quando Julian deve tornare a Londra per qualche mese, lasciandole l’appartamento, Ava conosce Edith. Anzi, Edith Mei Ling Zhang, visto che è hongkonghese, poi laureata a Cambridge. Tra le due nasce subito un’amicizia, di cui seguiamo i divertiti passi. Che poi sfocia in amore (sì, anche sesso, ma questo è vero amore). Il problema è che Ava è lì sul crinale. Non dice a Edith di Julian ed a Julian di Edith.

Ovvio che poi ci sarà un redde rationem. Anche se Ava mette in chiaro (almeno in sé stessa) che con Julian era sesso e con Edith amore. Il punto di crisi arriva prima quando Edith chiede ad Ava di lasciare l’appartamento di Julian, cosa che lei non fa (perché si lascia vivere). Come conseguenza, le due si lasciano. Facendo nascere pagine e pagine di tormenti amorosi solitari dell’indecisa Ava.

Il secondo e definitivo punto arriva quando Julian viene trasferito a Francoforte, chiede ad Ava di venire con lui. Ed Ava deve decidere: partire? Restare sola a HK? Restare a HK e tentare di ricucire con Edith? Tutte strade possibili, che avrete il gusto ed il piacere di leggere, spero.

Che anche se non eccellentissimo, è un romanzo di gradevole lettura, e di apertura di finestre sul mondo dei venti-trentenni degli Anni Venti di questo Millennio. Con la sua scrittura tutto sommato accattivante (con tutti i limiti evidenziati per il mio gusto). Non lo ritengo, come esprime “Robinson”, un libro da Top Ten, ma sono contento di averne letto.

Carmen Barbieri “Cercando il mio nome” Feltrinelli euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 01/02/2021 – I: 31/03/2021 – T: 01/04/2021] && --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 218; anno: 2021]

Ancora una segnalazione di “Robinson” di Repubblica. Questa volta di gradimento medio, mentre speravo qualcosa in più. Certo, Carmen è interessante, come personaggio, è gradevole (abbastanza gradevole) nella scrittura, è sapiente nel dosare frasi e situazioni. Ma il libro prende poco, pur se è tutto incentrato su di un sentimento. Che è amore, ma quello di una figlia verso il padre.

Su questo trasporto (che tutto sommato, ho difficoltà a recepire, in quanto maschio) si svolge tutto il dramma di Anna, la protagonista. Dramma perché non è tanto e solo l’amore per il padre che vediamo scorrere nelle pagine, ma il dramma di una ragazza di diciannove anni cui muore il padre, come si dice ora, per un male incurabile.

E di certo, questo non favorisce la mia personale serenità, che in questi tempi di malattie, sono molto sensibile a tutto: ai virus, ai tumori, ma anche alle coxalgie, o a qualsiasi cosa che alteri il funzionamento di ognuno di noi.

Il racconto di Carmen si indirizza subito su due binari. C’è Anna napoletana, che viene dai Quartieri Spagnoli, uno degli angoli più caratteristici ed intensi di napoletanità. Molto legata al padre, cosa ovviamente reciproca, che si sente in quell’intercalare paterno dove ad ogni frase si aggiunge la chiosa “apapà”. Inciso: c’è un interessante studio sulla “Comunicazione parlata” coordinato dall’Università di Napoli, che contiene un articolo sull’utilizzo di questa forma parlata, definita “allocuzione inversa”, in uso nel Meridione, da Roma in giù, e generalmente nella comunicazione verso i bambini (“baby talk”). Ma questo “moto a luogo” (“viene, apapà”, cioè “Vieni da papà”) si trasforma presto in “alfa privativo”. A/papà, cioè senza papà, che Giosuè, il padre, muore, e con lui muore tutta una struttura vitale di Anna.

Alternato, dicevo, c’è il binario romano. Anna ha diciannove anni, vuole fare l’attrice, e vuole studiare. Per cui si trasferisce a Roma, dove però trova subito delle grosse difficoltà. Tutto quello che vuole fare (vitto, alloggio, studio, teatro) è legato al denaro che, mancando il padre, non c’è più. Ma ad Anna è giovane e bella, e lo stesso “Prete Nero” che aveva trovato lavori domestici alla sua coinquilina, la indirizza invece verso il mondo notturno dei night club. Così Anna si sdoppia, diventa Bube, diventa la ragazza della pole dance, degli spogliarelli, degli occhi che la scrutano, delle mani che la vogliono toccare. Bube è insensibile, ma quando torna Anna sale addosso tutto il dolore del mondo. Neanche il rapporto con Alessandro riesce a sanarlo, anche perché Anna non riesce a dire agli altri di essere Bube.

Anna-Bube a Roma è sostanzialmente sola, e nel racconto la sua solitudine spesso si scontra, più che si incontra, con la moltitudine napoletana: la nonna, i due inseparabili gemelli amici fin dall’infanzia, la madre (che però non entra mai in quella dura corazza), la folla del quartiere ed anche i defunti, che la nonna gli fa frequentare fin da bambina. Pur nella durezza dei momenti che vive, il sogno di diventare attrice rimane sempre dentro la sua anima, e quando un evento, potenzialmente tragico (o forse realmente tragico) la spinge a lasciare il mondo notturno, è questo sogno che dà forza alla sua voglia di ricominciare a vivere la sua vita, e non quella di qualche altro.

Così, quando la sua duplicità si ricompone, quando ritroviamo la sola ed unica Anna, noi lettori spettatori capiamo che lei ha ritrovato la sua unità, la sua centralità. Certo, il futuro potrà essere incerto, soprattutto se non abbiamo superato dentro di noi i bagliori di un passato che non siamo mai riusciti ad accettare. Forse Anna lo farà, o almeno noi glielo auguriamo.

Seppur interessante, l’accenno di trama che mi rimane in testa, non riesce a farmi superare la faticosità di certi momenti di lettura, la frammentarietà di certi momenti espositivi. Per cui rimane un interessante esperimento, tuttavia iniziale.

Ringrazio solo, al fine, l’autrice che nella parte ambientata a Roma, spesso ci si muove in questo mondo che sto cominciando a conoscere. Che non sempre capisco, ma che vedo crescere intorno a me: piazza Sempione con i cornetti dell’Angolo Russo, l’autobus “60”, Conca d’Oro e viale Eritrea, Arion e Romoli. Quasi un’aria di casa ormai.

Chiara Mezzalama “Dopo la pioggia” E/O euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 22/03/2021 – I: 17/04/2021 – T: 19/04/2021] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 213; anno: 2021]

Anche questo è uno dei libri consigliati settimanalmente da Robinson. Mi era ignota l’autrice, a posteriori scoperto essere una cinquantina romana che vive a Parigi, autrice di libri per l’infanzia e di un pamphlet sulla vicenda di Charlie Hebdo.

Il libro scorre abbastanza facilmente, con qualche spunto, ma anche con una vicenda che, stretta all’ossa, è forse un po’ semplicistica. Tuttavia, affronta, a suo modo, il tema del disastro ambientale, ipotizzando “sacche di resistenza” umana che si oppongono con le loro iniziative a qualche calamità, umana e/o naturale.

Pur essendo edito in tempi di pandemia e parlando di pioggia senza fine e dei suoi disastri, l’autrice ha detto di averlo scritto prima del virus, e poi di aver passato del tempo a “limarlo”. Operazione fondamentale, anche se non sempre riuscita.

La trama parte piano ed in una direzione familiare: c’è una famiglia composta da Ettore, ingegnere, Elena, traduttrice, con i figli Susanna, una tipica (e per questo simpatica) “Friday for Future” e Giovanni, appassionato di balletto e “poco virile”. Quando Elena scopre l’ennesimo tradimento di Ettore, lascia tutti e si rifugia nella loro casa vicino Orte. Inciso: quando parla delle valli tra Orte, Amelia, Umbria e Viterbese, mi si apre il cuore e penso alla nostra Soriano.

Ettore si arrovella un po’ (ma non tanto), e, sotto la spinta dei figli, decide di muoversi alla ricerca della moglie “scomparsa” (ma tutti sanno che sta o sta andando al casale).

Il tutto complicato da una pioggia torrenziale, che travolge Roma, fa crollare ponti, trasforma in laghetto la bella Piazza Margana dove i nostri (un po’ radical chic, ovvio) abitano. Certo, il diluvio è fonte di riflessione e motore di azioni per i nostri protagonisti. E, ma solo da lontano, eco di quello che succede. Si odono notizie di disastri che sembrano cambiare tutta la geografia della capitale, ma poi ci si concentra su quanto succede in campagna, e tutto il resto tace.

Sperduti nella campagna della Tuscia, con le auto in panne, vicini seppur distanti, con i telefoni che funzionano a singhiozzo (o non funzionano in quanto scarichi) i nostri quattro “eroi” devono proseguire con mezzi di fortuna, e adeguarsi all’incontro con i personaggi alternativi che colà vivono le loro vite “altre”.

Ettore ed i figli incontrano il giovane Ove, un norvegese che come tanti nordici, s’innamorano dell’Italia e si stabiliscono in quelle campagne, conducendo una vita vegetariana e alternativa. Ove li presenta ad una comunità di suore, di clausura, forse, ma ben operose. Che, oltre a disquisire con Susanna di agricoltura alternativa, consentono a Giovanni di esibirsi in un ballo liberatorio, anche per le fobie omofobiche del padre.

Elena, dal canto suo, è slavata da un disastro automobilistico tra pantani e fiumi in piena da Guido, altro “fattone alternativo”, che vive in campagna alla ricerca di fungi e tartufi. Tramite questi, mette in contatto Elena con una strana giapponese, sopravvissuta al disastro di Fukujima, e lì in Umbria riparatasi con il marito cuoco. E tutti cominciano a disquisire sulle vicinanze e sulle diversità tra tartufi e matsutake (inciso: quest’ultimo è un fungo dal forte odore speziato-aromatico, che cresce con difficoltà, tanto che ad inizio stagione l’originale giapponese ha un costo intorno ai mille euro al kilo, circa la metà del costo di un tartufo bianco), entrando nel merito della cultura giapponese, di cui Elena è un’estimatrice.

È anche ovvio che Guido, la giapponese, Ove e le suore si conoscano, così che alla fine c’è una bella “reunion”. Anche se nel frattempo, Guido ed Elena hanno saggiato una loro piacevole intimità. Alla fine, dopo giorni e giorni, la pioggia cessa, ognuno potrebbe riprendere la propria vita. Ma dopo duecento pagine di riflessioni ecologiche, quanti lo faranno? A voi la lettura.

La critica e l’intento “morale” della scrittrice è di portare alla luce un modo di vivere individualista e contro natura (nel senso di andare contro la natura), incentrato su Ettore ingegnere poco sostenibile, viaggiatore in aereo, inquinatore senza rendersene conto. Ma, senza cadere in facili preconcetti, il viaggio campagnolo dei nostri è costellato da figure maschili e femminili positive. Per farci capire che tutti, se prendiamo coscienza, possiamo cambiare, migliorare, fermare, forse, il disastro. O comunque, attuare una micropolitica di resilienza sostenibile: utilizzo di pannelli solari, sistemi di raccolta delle acque, struttura composite che consentono di avere energia anche con un’intera regione in blackout. Tanto che il grido di dolore dell’autrice sembra portarci alla richiesta di non accettare compromessi, ecologici, etici e sentimentali. È di certo una forzatura soggettiva, ma lo spunto di dire basta, di cambiare vita, c’è. Bisogna solo accoglierlo. Soggettivamente. Grazie per lo spunto, Chiara tra le tante Chiare.

Juliet Lapidos “Talento” Bompiani euro 17 (in realtà, scontato a 16,15 euro; consigliato da Robinson)

[A: 06/04/2021 – I: 29/04/2021 – T: 01/05/2021] - && 

[tit. or.: Talent; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 2019]

Ulteriore consiglio di Robinson, questa volta meno riuscito del solito. Di certo ben pensata la trama nel complesso, lascia invece a desiderare il modo in cui si evolve (o si involve) nel finale.

Non conosceva l’autrice, che vedo essere di origini ebraiche e per anni, dopo la laurea a Yale, giornalista ed opinionista per diversi giornali, su entrambe le coste americane. Ciò le dà una facilità di scrittura, come spesso accade ai giornalisti, anche se rende più vivide le descrizioni ambientali che il tratteggio dei personaggi. Tutti quelli che si muovono sulla scena sono forse un po’ troppo “tagliati con l’accetta”, mentre risalta meglio lo scrittore al centro della vicenda, quello che forse (o forse non) ha talento. Anche perché Frederick Langley è morto e su di lui si riversano le congetture della protagonista Anna, e delle persone che lo hanno conosciuto.

Facendo un po’ d’ordine, quindi, abbiamo la protagonista Anne Brisker, ventinovenne dottoranda, Helen Langley, rilegatrice di libri, casualmente incontrata che la introduce alle notizie sullo zio Frederik, il professor Davidoff, relatore di Anne, accademico e tronfio, ed Evan, già dottorato e forse amico di Anne (o forse no). Poi, ovvio, Frederik Langley, poco prolifico scrittore, autore di tre raccolte di racconti in gioventù, poi cessa di scrivere, vive qualche decennio in Europa, per tornare in America, vivere alle spalle del fratello, morendo presto in un incidente d’auto avendo (o forse no) scritto altro, senza pubblicarlo.

Anne sta facendo la tesi sulla “Storia intellettuale dell’ispirazione”, con alcuni spunti interessanti, ma un po’ arenata. Tanto che Davidoff la sprona ad altro. L’incontro casuale con Helen, la porta sulle tracce di Langley. Soprattutto, sul possibile contenuto dei suoi taccuini, custoditi in una biblioteca, ma rivendicati da Helen. Anne trascorre le sue giornate ciondolante, beandosi del lascito del nonno, così che non ha fretta di scrivere. Viene però coinvolta nelle elucubrazioni di Helen, legge i taccuini, capisce una verità fondamentale: Langley scriveva perché era l’unica cosa che non potesse essere governata dal padre prepotente e autoritario. Un padre che metteva in ogni instante in competizione lui ed il fratello Thomas, premiando sempre Thomas. Tipico momento, ad esempio, la richiesta di pulire l’orto, col premio al migliore. Ovvio che sia Thomas, che viene premiato con le figurine dell’album di Frederik. Io un padre così lo strangolerei sulla porta di casa.

Langley è anche paradigmatico per la storia sull’ispirazione. Non che la finisca, ma smette di scrivere quando il padre commenta positivamente il suo lavoro. Riprenderà a scrivere, anche se di nascosto, solo alla morte del padre. Farà anche altre cose per scrollarsi freudianamente il macigno, ma queste ve le lascio leggere.

Helen apre un mondo a Anne, che ci si precipita dentro. Ma quando da questo cilindro, tira fuori lo scrittore Langley, la mancanza di supporti adeguati (non vi dico certo perché) lascia tutto un po’ poco credibile. O almeno, credibile se si dà credito ad Anne. Cosa che, con momenti terribilmente astiosi, non fa il professor Davidoff, in questo supportato dall’atteggiamento di Evan. Anche Helen, alla fine, e non vi dico né come né perché, si tira indietro. Lasciando al centro della scena, un Anne sconfitta, e senza particolari velleità di risollevarsi.

Mentre allora, tutta la prima parte scorre piacevolmente, così come sono interessanti gli intarsi che Juliet inserisce qua e là: brani del taccuino, note alla Nabokov che aprono microracconti, anche su più pagine; la parte finale va alla deriva anche con poca originalità. Non dico che le tesi di Anne dovesse trionfare, ma se ne seguiamo le gesta per duecento pagine, empatizzando con lei, non possiamo, non posso pensare che sia, alla fine, un personaggio negativo. O sconfitto dall’insipienza altrui, magari con il contributo della propria apatia. Ripeto poi, che l’ambiente universitario, il campus, financo la mansarda di Langley entrano nella memoria, mentre troppo stereotipati sono Anne, Helen e gli altri.

Un passaggio divertente è quando, a pagina 11, si cita il gioco introdotto dallo scrittore David Lodge nel suo libro “Scambi”: si chiama “Umiliazione”, dove si ottengono punti a fronte della non lettura di classici della letteratura, o libri in genere. Qui Anne fa un grosso balzo in avanti, confessando di non aver letto il “Paradiso Perduto” di Milton. Spero di aver anch’io un buon punteggio, non avendo letto né “Ulysses” di Joyce né “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij.

“Se fai qualcosa perché ti aspetti una ricompensa, allora significa che non vivi il momento presente e che non ti gusterai quello che stai facendo.” (74)

Terza trama, dove in mancanza di “libri felici”, vi lascio una pagina di citazioni.

Come se non bastasse, in questo possibile inizio di un percorso autunnale, vi rimando anche un pensiero di Pino Roveredo che nel suo molto interessante “Capriole in salita” discettava della malinconia, sostenendo: “La malinconia ha la capacità di toglierti il sorriso di bocca e lasciarti in cicatrice il malumore, ti fa vedere tutte le cose sempre dal lato peggiore e riesce a farti credere che anche il niente ce l’ha su con te”.

Noi invece sappiamo che non è mai il niente, ma a volte siamo noi stessi che ci stortiamo su noi stessi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di agosto

Sempre in un momento pandemico, ma pronti ad intraprendere uno dei viaggi più difficili da me organizzato (anche se questa volta non da solo), ritorno a quei momenti dove si stava mettendo le basi a quanto poi sarebbe successo.

La fine di marzo del 2008, ancora calda delle lacrime della morte di mio padre, e pronti, io ed il mio fratellino, a prenderci cura di nostra madre, riporta nelle mie letture Banana Yoshimoto con un Giappone che non mi toglierò più dal cuore. Lei riesce a dare un senso alle mie vicinanze ed alle mie paure. Ne “L’abito di piume” Infatti, prima afferma “sapevo bene che quando si sentono più o meno le stesse cose, si comunica meglio col silenzio”, poi con un colpo di coda mi mette paura dicendo: “le storie troppo belle finiscono sempre con un colpo di scena tragico”.

Ad inizio aprile, affrontai un trittico di letture tra lo slavo ed il teutonico. Iniziai con uno dei pochi russi che ho sempre ammirato. Nelle sue "Umili prose", il grande Aleksander S. Puskin mi suggerisce una riflessione che, tuttavia, negli anni, mi ha portato al contrario. Lui diceva “il mio amore bruciava in solitudine e ora dopo ora diveniva per me più penoso. Persi la voglia di leggere…”. Mentre io la voglia di leggere non l’ho mai persa.

E sulla stessa falsariga del silenzio, mi parlava invece un russo che ho sempre letto con difficoltà. Mai riuscendo a portare avanti il suo “Delitto e Castigo”. Ma Fëdor Dostoevskij ne “La mite” ribadiva “Sono un maestro nel parlare con il silenzio. Per tutta la mia vita avevo parlato tacendo, avevo vissuto con me stesso…”.

Scendendo verso le Alpi, l’austriaco Arthur Schnitzler cercava invece di farmi riflettere sui dolori appena passati. In un passo delle sue “Novelle” sostiene “ci si può riconciliare senza perdonare e si può perdonare senza dimenticare”.

Altro invece mi portò la Pasqua di quell’anno. Il mio vecchio sodale Peppe, per l’inizio degli anni che dall’uscita dal mondo del lavoro mi avrebbero portato alla pensione, mi regalò un inusuale libro di Adriano Sofri che usando il titolo come autoriferimento nel “Chi è il mio prossimo” parlava di come affrontare la fine di qualcosa. Per me, era del lavoro, per altri non so, e lui sosteneva: “è difficile smettere, e smettere bene”.

Fortunatamente, ripresi a viaggiare. E quale viatico migliore di Ryszard Kapuscinski per accompagnare le escursioni intorno al mondo. Mentre organizzavo di andare in Perù (che torna come un mantra quando decido di essere felice), lessi alcune riflessioni che diventarono fondamentali nel bellissimo “Autoritratto di un reporter”. La prima si ricollegava a quanto avevo sempre tentato di fare anche quando lavoravo: “la mia principale ambizione è di dimostrare agli europei che l’Europa non è il mondo intero”. La seconda sottolineava una speranza, una voglia, che forse si è realizzata solo nella mia testa: “vai in giro per dieci anni senza prendere appunti. Poi comincia a scrivere. Le cose che avrai vissute te le ricorderai comunque, e quelle che dimenticherai vuol dire che non valevano la pena di essere scritte”. La terza rendeva palese quello che mi aveva, sempre, motivato: “la curiosità è sempre stata la molla che mi ha spinto a partire”.

Nel mese che si avvicinava ai miei 55, ripresi anche le letture in francese, che mi hanno sempre gradevolmente accompagnato. Il primo fu il mio grande amore dai tempi di Beirut e delle sfortunate imprese libanesi. Amin Maalouf scriveva in “Origines” una frase che spero poter ripetere anche ora a testa altaNotre unique consolation, avant d’aller nous endormir sous terre, c’est d’avoir aimé, d’avoir été aimés …” [la nostra unica consolazione, prima di addormentarci sottoterra, è di aver amato, di essere stati amati].

Mentre, in negativo, leggevo anche un autore che non mi è mai piaciuto, Michel Houellebecq. Nel suo romanzo allora più noto “Les particules élémentaires” sottolineava con una frase quanto io non vorrei mai vivere “Notre malheur n’atteint son plus haut point que lorsque a été envisagée, suffisamment proche, la possibilité pratique du bonheur.” [La nostra infelicità raggiunge il punto più alto, quando si scorge, sufficientemente vicina, la possibilità pratica della felicità].

Finché, verso la fine del mese, prima dall’Indocina, mi arrivano le parole di Marguerite Duras, che nel suo “Occhi blu, capelli neri” ribadisce un sentimento che sono stato sempre il primo a sostenere essere di fondamento dei rapporti d’amore: “Lei gli dice di avvertirla se per caso un giorno lui si metterà ad amarla”.

Infine, l’inqualificabile Charles Bukowski, rozzamente sregolato, nel poco amato (almeno da me) “Storie di ordinaria follia”, anche se lo ritengo uno scritto da leggere, terminava i miei pensieri sparsi arringando la folla: “signori, arriva il momento nella vita di ogni uomo, in cui questi deve scegliere fra resistere o scappare. Io scelgo di resistere”.

Anch’io, e spero di farcela, anche se poi non è che sia tanto sicuro.

Lottiamo insieme, allora.

domenica 22 agosto 2021

Lobosco brucia - 22 agosto 2021

Nel senso che finisce (non che io sia piromane). Abbiamo infatti gli ultimi quattro episodi della saga pugliese – poliziesca, ideata da Gabriella Genisi, che tanto successo ha anche avuto in televisione. Pur nelle differenze tra lo scritto ed il filmato. Una saga che si mantiene vicina ad una onesta sufficienza (forse solo il settimo episodio è un po’ inferiore). Rimane comunque la bella faccia (diciamo faccia) di Luisa Ranieri a tenerci compagnia mentre se ne legge.

Gabriella Genisi “Spaghetti all’assassina” Feltrinelli euro 9,50

[A: 14/02/2021 – I: 09/03/2021 – T: 11/03/2021] &&&--

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 190; anno: 2015]

LOBOSCO5

Quinto episodio, preso, cotto, letto e mangiato (in linea con il titolo). Alla ricerca, magari, di leggerne in parallelo alla fortunata serie televisiva. Purtroppo, questo titolo è già passato sullo schermo, con le solite, poco felici, modifiche, che fanno divergere lo scritto dalla resa televisiva. E con non pochi rimpianti.

La Genisi prosegue nella sua saga barese, e gli sceneggiatori fanno di testa loro. Il punto di divergenza maggiore è la figura del padre di Lolita. Che qui non è un ladruncolo di mezza tacca, ma un poliziotto morto in servizio. Credo che sarà difficile far convergere i due elementi. Poi ci sono le storie sentimentali e sessuali di Lolita, che continua ad innamorarsi di una persona a libro, con le storie che sullo schermo convergono sempre sul povero Danilo. Giornalista che sulla carta poco appare. Infine, nella puntata televisiva doveva fare il suo cammeo Raz Degan, per cui il cuoco franco-algerino viene completamente stravolto.

Il succo della storia, fortunatamente, rimane abbastanza fedele. Punto centrale delle indagini del commissario Lobosco è l’omicidio di Colino Stramaglia, illustre chef, inventore degli Spa-ghetti all’Assassina. Una ricetta che poi troveremo nella coda del libro, in ben quattro versioni, e che io sto cercando di radunare in un piccolo allegato che prima o poi vi regalerò.

Qui c’è anche una divergenza di fondo con la fiction. In tv, Colino viene solo colpito a morte da una padella di ferro, di quelle fondamentali per la ricetta del titolo. In realtà, dopo la morte viene anche “incaprettato”, alla maniera mafioso, di certo per confondere vieppiù le indagini.

I personaggi di fondo sono comunque gli stessi: Geppino Schirone, il capo cameriere sodale di Colino sin dall’apertura del locale, Murolo, lo chef napoletano che copia la ricetta ed apre un locale di fronte a quello di Colino, Pina, la figlia di Colino, con il marito Vitantonio, e la brasiliana Fanny.

Mentre inizialmente, come sempre di fronte ad un morto, tutti si trincerano dietro parole di lodi per la sua vita esemplare, la dedizione verso gli altri, come quella di assumere Fanny benché incinta, Lolita sente puzza di bruciato, anche senza cucinare gli Spaghetti.

Così, indagando nell’ambiente oscuro del mondo di mezzo, ed a fronte della confessione di un’amica di Pina (non di Pina come in tv), Lolita scopre tanti altarini.

Colino era un uomo sanguigno che non disdegna le belle donne, cui piace moderatamente il gioco, ma assai i soldi. Per cui si scopre presto che teneva molte persone sotto scacco per via dei soldi. C’era Vitantonio che doveva rifondere un consistente mutuo, c’era Geppino che copriva i debiti del suo amante. Poi c’è Fanny che nega di aver partorito, cosa che tutti sanno. C’è anche Murolo che, oltre ad aver rubato la ricetta, è anche gay e ricattabile.

Tra l’altro, Colino aveva abusato della figlia fino a quando questa non era andata via di casa. Per ripagarla, e per appianare il debito, le aveva promesso il figlio non registrato di Fanny. Che la brasiliana, con l’abbandono del piccolo avrebbe appianato i debiti del suo uomo, sfortunato gestore di un locale di lap dance.

Insomma, molti sono i sospettabili. Alla fine, il colpevole verrà trovato, anche se, al solito, c’è sempre un po’ troppa fretta in questa parte. Vedremo se la seta puntata metterà un po’ d’ordine nella gran confusione barese.

Intanto, grazie all’accenno che gli avvenimenti sono contemporanei ad una finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, possiamo collocare la vicenda nel 2014 (anno appunto di quella finale vinta dal Napoli con doppietta di Insigne).

Non manca, al solito, anche il piccolo cammeo di un detective proveniente da altri scrittori. Qui istanziatosi in Fabio Montale, il gran marsigliese uscito dalla penna di Jean-Claude Izzo. Bellissime le scene e le chiacchiere tra i due, di cui non accenno altro, meglio leggere.

Rilevo solo in finale un piccolo grande errore. A pagina 17 si parla di Tango e Argentina. La Genisi ci dice che Lolitabella ne legge di scrittori. Va bene Borges, va abbastanza bene Cortàzar, argentino anche se poi naturalizzato francese. Ma Arturo Perez-Reverte è solo e sempre spagnolo. Toppa!

“Femmina piccante pigliala per amante. Femmina cuciniera pigliala per mugliera” (15) [citazione dal film “I soliti ignoti” detta da Ferribotte, e non dico altro]

Gabriella Genisi “Mare nero” Feltrinelli euro 9,50

[A: 14/02/2021 – I: 15/03/2021 – T: 19/03/2021] &&&---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 208; anno: 2016]

LOBOSCO6

Se da una parte sono diventato addicted di Gabriella Genisi e del commissario “Lolì”, devo dire che questo sesto episodio non è che sia riuscito al meglio. Fortunatamente la fiction è finita, e quindi posso leggere le avventure del commissario senza interferenze. Tuttavia, la commistione tra indagini, storia personale e storie reali (e drammatiche) non riesce a raggiungere un buon mix di risultati.

Certo, tutta la parte dedicata ai disastri ambientali che le coste pugliesi (ma non solo) hanno subito nel corso degli anni, è degna di essere scritta. I vari affondamenti di navi cariche di rifiuti tossici ed altri materiali radioattivi, è non solo preoccupante, ma reale e presente. E dovrebbe, avrebbe necessità di essere non solo analizzata, ma affrontata in tutte le sedi opportune. Quando si parla della Cavtat (nave affondata a largo di Otranto il 14 luglio 1974 con 909 bidoni di sostanze tossiche), della Alessandro Primo (affondata al largo di Molfetta il 2 febbraio 1992), della Eden Five (affondata vicino a Foggia il 16 dicembre 1988), un brivido ci percorre la schiena. Per non parlare della “Samuel J. Tilden” (insieme alle altre venti navi affondate il 2 dicembre 1943 nella rada di Bari con più di duemila morti tra civili e militari) e che pare avesse a bordo barili di gas tossico. Ed una preoccupazione di quello che quei rifiuti stanno perpetrando alla vita marina ci deve sempre impensierire.

Tuttavia, rimane esterno alla trama stessa, quasi un esercizio di “buon costume”, comprensibile e sottoscrivibile, ma che non porta gran che alla trama del romanzo. Cioè, ci fa riflettere, mi ha anche costretto a cercare meglio in rete notizie aggiornate su tutti questi guai. O su altri disastri ed altre morti, che lì sapevo già cosa fossero e come si erano sviluppate, ad esempio, le vicende di Ilaria Alpi o di Natale De Grazia.

Che la trama cosiddetta principale muore dal rinvenimento di una giovane sub, Marinella, morta durante una immersione. Laddove poco dopo, anche il suo fidanzato, Luca, viene trovato senza vita. Ovvio che siano vicino ad una delle navi citate sopra (se no che aggancio c’era).

Ci sono le tre coppie di amici che amano fare i sub. Due sono i morti, due è facile tirarli fuori. Rimangono Daria ed il marito, per una serie di ragioni probabilmente implicati. Vieppiù, quando di Daria si sa che la famiglia gestisce un negozio di forniture per subacquei, in special modo bombole e ricariche. Dato che, non ve lo avevo detto, la bombola di Marinella era piena di CO2. Cerchio che si stringe ancora quando, seppur casualmente, Lolita scopre che Daria e Luca erano amanti, che Luca voleva troncare per sposare Marinella, che Daria invece no.

Tutto facile, tutto piano, tutto risolvibile in meno di cento pagine.

Certo, rimangono le storie personali della “famiglia Lolita”: la sorella con il ragioniere ed il catering (non il B&B come da fiction), l’ex-cognato ed una signorina (non la stranierona come da fiction), “l’amicamia” Marietta dilaniata tra il marito Filippo e l’amante “Nicolamio”, lei che vuole bene ad entrambi, seppur in modo diverso. E ci scappa pure una bella discussione sull’amore e su come riversarlo verso chi ci sta vicino.

Ovvio poi che ci siano gli “amanti” di Lolita. Al contrario del costante Danilo della fiction, qui se ne cambia uno a puntata. Così ora spunta fuori Gennaro, fotografo di talento. Che non solo la aiuta nell’indagine, ma le fa delle bellissime foto (che non ci meravigliamo, vista la Ranieri della fiction) e per il momento assurge al ruolo di accompagnatore ufficiale.

Attraverso gli scritti della morta Marinella, algologa in pectore, i due filoni si riuniscono, e Gabriella ci propina una settantina di pagine sulle navi dei veleni, il cui commento lascio a quanto detto inizialmente.

A noi rimangono: il solito cameo con telefonato a Salvo Montalbano, la comparsata di un protagonista di altre storie (che qui veste i panni dell’anatomo patologa Alice Allevi, con anche un marginale aiuto alla risoluzione del caso), e la sorpresa che, a fronte di tutti i successi ottenuti, Lolita viene promossa questore e si deve trasferire al Nord.

Vedremo cosa ci riservano i prossimi due libri. Pur nella normale piacevolezza, sono abbastanza incuriosito, anche perché sto facendo un nuovo approfondimento sui personaggi seriali delle inchieste poliziesche all’italiana.

“L’amore è un’altra cosa … puoi vivere senza sapere perché, non puoi vivere senza sapere per chi.” (183)

Gabriella Genisi “Dopo tanta nebbia” Feltrinelli euro 9,50

[A: 14/02/2021 – I: 23/03/2021 – T: 24/03/2021] && e ¾

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 223; anno: 2017]

LOBOSCO7

Eccoci arrivati alla settima indagine di Lolita Lobosco, lette in modo ravvicinato sotto la spinta della fiction televisiva. Come detto per le altre trame, una fiction discretamente riuscita, pur con delle concessioni televisive che non sempre vanno d’accordo con lo scritto.

Una su tutte, il rapporto di Lolita con gli uomini, dove sulla carta ne cambia uno a romanzo, mentre in televisione Luisa/Lolita gira sempre intorno al giovane Danilo. Altre sono minori (qualche data, qualche spostamento di indagini prima), rimanendo solo questa di questo libro la seconda deviazione maggiore. Che la puntata aveva lo stesso titolo, ma nella fiction veniva saltata tutta la prima parte, che spiega il senso del titolo.

Titolo che non è solo un verso di Ungaretti, inizio della poesia “Sereno”: “Dopo tanta nebbia, ad una ad una si svelano le stelle”, ma è il senso del mini-trasferimento di Lolita al Nord. Che, a fronte dei successi nell’episodio precedente, l’ispettore Lobosco viene promossa questore e spedita a Padova. Dove avrà vita difficile, che c’è ambiente nuovo, paese ostile, nessuna squadra al seguito. Solo il vice Caruso sembra darle una mano. Anche se poi ci saranno scambi anche più consistenti, e che vedremo se avranno seguito nell’ottavo ed ultimo volume.

Genisi ha un bell’agio a descrivere la grama vita patavina di Lolita, che avrà una svolta solo dopo che riesce, con un colpo di mano, a far trasferire con sé i suoi aiutanti principi, Forte ed Esposito. Con loro, affronterà il caso della scomparsa di un ragazzo, che vive con il nonno dopo la morte dei genitori. Ragazzo difficile e difficilmente inserito, essendo la madre nera e lui di colore.

Caso complicato dal fatto che il ragazzo era inserito in una scuola gestita da religiosi, con alunni provenienti da influenti famiglie locali. Con la solita irruenza “lolitiana”, con l’aiuto dei suoi alter ego, con il supporto infine di una ragazzina nigeriana, unica amica dello scomparso, Lolita riuscirà a risolvere il caso.

Una prima parte non particolarmente densa di pathos, a parte qualche rapporto umano. Serve anche ad inserire il solito cameo di altri investigatori seriali. Ovvio che, essendo a Padova, Lolita incontri, in un bar, che beve calvados, il grande Marco Buratti detto l’Alligatore, uscito dalla penna di Massimo Carlotto. Di cui ho letto e scritto di tutto, nelle sedi opportune. Ma è sempre un piacere vederlo in giro.

Il successo permette comunque a Lolita di avere un’arma di richiesta, unita alla cagionevole salute della madre, per chiedere di tornare a Bari, benché demansionata. Cioè declassata a vicequestore. Abbiamo quindi la seconda parte del romanzo di nuovo nel sole e nelle atmosfere pugliesi.

Qui deve indagare sulla scomparsa, e poi sulla morte di una suonatrice di arpa, Bianca. E qui, purtroppo, devo dire che aver visto prima la fiction non aiuta molto. Non ci sono sorprese, se non nella figura dell’invalido, Roberto, che per trequarti del racconto si rifiuta di parlare. Ovvio che in tv un muto avrebbe creato problemi, per cui lo si rende reticente ma comunque loquace.

Occupando solo metà romanzo, il testo scorre troppo veloce verso il disvelarsi dei nodi principali. Si scopre facilmente che Roberto abita di fronte allo studio di Bianca. Che Bianca suonava nuda per lui. Nel testo poi si infioretta con cellulari che scambiano messaggi, e con il soprannome che Bianca dà a Roberto: Ayrton. Come Senna, come nella canzone di Dalla.

Proprio seguendo Dalla, Lolita ha l’intuizione dell’incidente di Roberto, trova il modo di farlo parlare, e capisce la dinamica della morte di Bianca.

Se avete visto la fiction non vi dico altro. Se non l’avete vista, leggete il libro. Che è sempre pieno di piccoli spunti di vita locale, e di tante e tante ricette ed altri suggerimenti gastronomici. Una resa decente, in totale, anche se la ripetizione dei cliché dei personaggi (in particolare dell’amica Marietta e del sottoposto Forte) comincia ad essere poco divertente.

Vedremo come finirà, e come proseguirà (se proseguirà) la storia di Lolita con l’ennesimo uomo che le capita di avere sottomano.

Gabriella Genisi “I quattro cantoni” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 7,80 euro)

[A: 04/03/2021 – I: 29/03/2021 – T: 30/03/2021] &&&----

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 302; anno: 2020]

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Dovrebbe essere l’ultimo libro che l’ottima Gabriella dedica al suo personaggio principe, la commissaria, ex-questore, forse vicequestore, Lolita Lobosco. Vedendo le note biografiche in rete, infatti, sembra che l’autrice si sia dedicata ad un altro personaggio. Tuttavia, dato il successo della fiction televisiva, non escludo che la sua penna possa tornare in questi luoghi.

Certo che, più va avanti la storia, più si fa difficile mantenerla su livelli di sufficienza. In effetti, questa volta il voto è multiplo: 1 librino per il giallo, 2 librini per Lolita ed il suo entourage poliziesco-familiare, 3 librini per le solite ricette finali (che siccome pesano meno, non riescono a far risalire completamente il giudizio). Ma come ho già detto, sulle ricette mi riservo di pubblicare uno spin-off a parte.

Visto che in tanti hanno seguito Luisa-Lolita, liquidiamo subito la parte “personale” del libro. Come sa chi segue le mie trame, sulla carta Lolita cambia partner ad ogni libro. Qui, che siamo ad un punto di svolta, ci sono due novità: la morte, per malattia, di Giovannimio che era sempre rimasto un po’ latente nel pensiero di Lolita, e la presenza di Caruso (quello del settimo libro), quasi a significare (forse) un punto d’arrivo. Certo, Caruso sparisce presto e misteriosamente, certo che qualcuno pensa sia implicato nelle vicende gialle (non io, e da subito), certo che sono sicuro in qualche modo ricomparirà alla fine e darà una spiegazione. Vedremo se sarà convincente, per noi e/o per Lolita.

Gli altri sono più accennati: ci sono poche righe su mamma e Carmela, Antonio Forte, finalmente, si defila un po’ (che sulla carta è molto meno simpatico che dal vivo), Esposito si esibisce in un paio di camei. Fortuna che alla fine i due sotto-eroi hanno l’intuizione che permette di non privarci di Lolita nel futuro. Rimane sempre Marietta, con i suoi poliamori, e la novità del marito Filippo, che non vi spoilerizzo, ma indurrà la nostra ad una riflessione complessa sulla propria visione del mondo. Unica attività costante di Marietta, anche in questa ottava puntata, è cercare un uomo per la sua amica.

Veniamo allora alla vicenda gialla, che è più corposa del solito, tanto che ci sono un centinaio di pagine in più dello standard di Genisi. Ed anche più estesa, non tanto nella poliziotticità, quanto nel numero di problematiche toccate. A fronte di Nanni, il primo morto, infatti, un fotografo probabilmente dedito anche a pornografia e ricatti, si aprono molti fronti.

I primi sospettati sono due rom, che hanno litigato con Nanni, e che la notte della morte sono stati ripresi nel forzare l’appartamento ed entrarvi. Pur non coincidendo gli orari, tutti sono convinti della loro colpevolezza. Tanto che vengono braccati, e nel tentativo di riparare da Bari a Taranto, intercettati, coinvolti in un incidente, dove perdono la vita. Qui si apre appunto il primo grande inciso: rapporto tra popolazione locale e insediamenti nomadi, cultura rom né capita né spiegata, tentativo di demonizzare i gitani da parte della destra, ed altre prevedibili amenità. Tutto porta al coinvolgimento di un commissario della Digos, Daniele Del Giudice, che da un lato si comporta come uno stronzo sul lavoro, dall’altro si comporta come uno stronzo verso Lolita.

Anche se la nostra riesce a scagionare i rom, non si trova traccia dell’assassino di Nanni. Pur avendo avuto una segnalazione da un gruppo di prostitute nigeriane che avevano visto qualcosa. Questo è il secondo, brevissimo, inciso, riguardante la prostituzione e la tratta delle donne di colore affinché si avviino alla professione. Scontato quindi lo tralascio.

Quando poi fioccano altre morti, è facile da un lato per Lolita capire che il filo rosso che unisce i morti è non solo come vengono uccisi (l’assassino riproduce grandi opere d’arte, dal San Sebastiano di Mantegna alla morte di Marat di Jacques-Louis David), ma la pedopornografia in primis, e l’anno di nascita in secundis (sono tutti del 1967). Ma Lolita è stata estromessa dalle indagini perché un morto è un morto “eccellente”.

Sarà però lei, con il suo intuito, e con l’utilizzo di strumenti “social”, che svelerà la trama di tutta la vicenda. Mettendosi in gioco ed in pericolo, anche sul piano personale e fisico.

Così che alla fine ci domandiamo: oltre a svelarla, riuscirà a sventarla? Ne uscirà viva? Oppure ferita nel corpo e nell’anima? E l’eventuale (auspicato) ritorno di Caruso avverrà in modo salvifico o penitente? Spero di essere stato abbastanza criptico così che avrete voglia di leggere il libro (buono soprattutto per le due parti di impegno sociale) e di vedere il probabile telefilm che ne verrà fuori.

Ma se ne leggete, converrete con me che il colpevole è già chiaro fin da metà del libro, motivo questo della mia scarsa valutazione. Comunque, l’autrice mi sta simpatica, a prescindere dai risultati, e spero che produrrà altro da leggere.

Anche se con qualche salto, è pur sempre il secondo invio, quindi vi allego un bel romanzo sui vicini di casa.

Visto che siamo anche in ritardo i citazioni, ma anche in ritardo i tempi, vi dedico solo un breve pensiero di uno dei miei scrittori “must”, Amos Oz, che ne “La scatola nera” mi suggeriva: “Lascia perdere sentimenti lacrime e il resto e comincia a fare qualcosa”.

Beh, penso sarete d’accordo con me che è un pensiero molto attinente a questo momento, e non solo per me. Fare per fare, allora, intanto abbracciare.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

AGOSTO 2021

Nelle more di un cambio, un pensiero ai vicini di casa, sia quelli mai veramente conosciuti, sia quelli anche troppo presenti.

VICINI DI CASA

Jon McGregor              “Se nessuno parla di cose meravigliose”

Tim Winton                 “Cloudstreet”

Se i vostri genitori vi incasinano la vita, i vicini di casa vi danno il colpo di grazia.

Purtroppo, i vicini di casa possono restarlo per un tempo davvero lungo. Litigare con loro può rendere la vostra vita un inferno. Se imparate a conviverci - o addirittura ve li fate piacere - vi sarete guadagnati all’istante una vita sociale. Oltre a uova, latte e zucchero ogni volta che ne avrete bisogno. A volte non è tanto litigare con loro, quanto non averli mai realmente incontrati. La gente vive gomito a gomito per decenni e si scambia poco più che un cenno di saluto. La prima cura che vi proponiamo, dunque, vi farà allungare la testa al di sopra della recinzione, almeno per salutarli. La seconda vi farà abbattere la recinzione.

Se nessuno park di cose meravigliose, il lirico romanzo di esordio di Jon McGregor, ci fa conoscere gli abitanti di un’intera strada di una città dell’Inghilterra settentrionale, non per nome, ma usando il numero civico: “la giovane donna del 24”, “l’uomo con i baffi sempre curati del 20”. Il racconto di McGregor prende alcune immagini da questa miriade di vicini e le assembla in una sinfonia di suoni, un’agitazione confusa, un caos di eventi non collegati tra loro. Però questi eventi sono collegati tra loro. Come il “fremito delle ali inzuppate di pioggia di una falena”, ogni minimo evento all’interno di questa piccola area geografica contribuisce a renderci consapevoli dell’importanza della vita - e della morte. McGregor riesce a catturare le infinite possibilità dell’interazione tra vicini, dalla totale indifferenza all’amore disinteressato al sacrificio - che sono tutte a disposizione nostra e delle persone che vivono intorno a noi. Organizzate subito una festa nella vostra strada, e rendete più ricca la vostra vita.

Cosa succede, invece, se una volta che li abbiamo conosciuti scopriamo di non sopportarli? Non esistono due famiglie di vicini che abbiano tanto poco in comune quanto i Pickles e i Lamb di Cloudstreet, romanzo dell’australiano Tim Winton. Ed è una vera sciagura, o almeno così sembra all’inizio, perché devono dividersi una “casa grande come un continente” a Perth. Sam Pickles, giocatore d’azzardo, può permettersi di far entrare la propria famiglia nella mostruosità che ha ereditato solo se ne affitta metà. Allora prende alcune vecchie insegne di metallo e costruisce un recinto improvvisato per dividere in due il giardino, e così Lester e Oriel Lamb e la loro nidiata di sei figli possono prendere possesso del loro spazio. Poco tempo dopo, Sam Pickles guarda con moderato stupore mentre i Lamb, in ginocchio, piantano ortaggi, allevano polli e sostituiscono la finestra del soggiorno con la serranda di un negozio di alimentari. All’improvviso la casa sembra “un corpo paralizzato a metà, come se avesse avuto un ictus” - un turbine di attività dal lato dei Lamb, lavoratori e timorati di Dio; inerzia totale dal lato dei Pickles.

Mentre Winton - e il suo estro linguistico - alternano il punto di vista delle due famiglie, la linea di demarcazione tra le due metà della casa comincia a svanire. Cloud Street diventa Cloudstreet - una sola entità, un simbolo pieno di vita. Anche se non mancano i motivi per litigare - il rumore, la religione, il gioco d’azzardo - e ogni tanto volano gli stracci, l’atteggiamento comune è quello di vivere e lasciar vivere. Alla fine, i vicini diventano parenti.

La prossima volta che sarete svegliati dal figlio dei vicini che suona la batteria, pensate che noia sarebbe se non ci fossero. Abbattete la recinzione – metaforicamente, se non letteralmente – e sentire il vento caldo che vi soffia addosso.

Bugiardino

Non ho letto McGregor, quindi mi concentro sull’Australia di Winton, scrittore di un buon interesse, e qui, di un’ottima riuscita.

Tim Winton “Cloudstreet” Fazi editore euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)

[tramato il 24 gennaio 2016]

Se non conoscete la letteratura australiana, questo è un buon libro per colmare qualche lacuna. Certo, non parla di aborigeni e bush come faceva Chatwin (che però era inglese). Non parla neanche di grandi distese. Né tanto meno del più celebrato sud (niente Sydney, Melbourne, Adelaide). Tutto concentrato nell’Australia Orientale, e principalmente a Perth. Ed alzi la mano chi c’è stato (io, no, ad esempio).

Si parla di Perth come una cittadina provinciale. Si parla dei corsi d’acqua e magari del mare che bagna quella parte al Nord-Ovest dell’Australia. Ma, soprattutto, Tim Winton ci parla della storia di due famiglie, che intrecciano le loro vite intorno ad una casa, una grande casa nella periferia della grande città, una grande casa in Cloud Street number 1. Che finirà ben presto per diventare Cloudstreet, seguendo le idee sulle ombre malefiche che si porta appresso il padrone di casa.

Piccolo inciso, seguendo la topografia di Perth, si potrebbe, per assonanza e per descrizione ambientale, avvicinarla alla reale Coldstream Street.

Ma torniamo alle due famiglie ed alle loro storie. Famiglie emblematiche, sin dal nome. Da un lato la famiglia Pickles (“sottaceti”) che basa tutta la propria vita sull’antinomia fortuna - sfortuna. In ogni avvenimento c’è un Altro che interviene guidando le sorti delle loro avventure. Non vale tanto la pena industriarsi e lambiccarsi il cervello. Ad un certo punto, la grande ombra del Destino arriverà portando vicende favorevoli o sfavorevoli. L’ombra, appunto, che si cristallizzerà ad un certo punto nella strada (cioè “cloud” – nuvola, sia in senso fisico che in senso metaforico).

Dall’altro la famiglia Lamb (“agnello”) che invece ha tutta una prima parte molto dedicata alla religione, al rapporto (più o meno) diretto con Dio. Che continuerà, anche se in forme diverse, ma che si realizzerà in una totale laboriosità. Sottintendendo il seguente messaggio: con la fatica e la dedizione si può, si deve arrivare alla conquista della propria serenità.

I Pickles sono 5: il padre Sam, la madre Dolly, ed i figli Rose, Ted e Chub. I Lamb invece sono 8: il padre Lester, la madre Oriel, ed i figli Quick, Fish, Lon, Hattie, Elaine e Red.

Sam è uno scommettitore incallito, specialmente sui cavalli. Quando perde deve trovare lavori, anche di bassa lega, per restituire i soldi. In uno di questi, perde quattro dita della mano destra (c’era l’ombra che si avvicinava). Dolly è “la bella” del villaggio, si butta su qualsiasi uomo che incontra, quasi a sfogare un modo represso di vivere la famiglia. E si butta anche su tutte le bottiglie che vede, facendo di tutta la sua vita, anche, un percorso da alcolista che certo non le permetterà mai di avere un buon rapporto con i figli.

Nella sfortuna dell’incidente di Sam, intanto, un cugino di Sam muore all’improvviso, lasciando loro in eredità la casa di Cloudstreet (con il vincolo che non la possono vendere, altrimenti Sam la giocava ai cavalli). Una casa grande, dove, nel momento di ulteriori rovesci, pensano di dividerla in due ed affittarla. Compaiono così i Lamb. Lester, quieto e gioviale, inventore di storie, suonatore di “flauto a naso” (guardate che è uno strumento realmente esistente, diffuso principalmente in Polinesia e tra i Maori). Oriel è la colonna della sua vita e di quella di tutti coloro che le sono intorno.

I Lamb sono stati da poco colpiti da una tragedia: Fish, il figlio mezzano, cade in acqua, dove rimane a lungo, quasi morto impigliato nelle reti da pesca, con un periodo di mancanza di ossigenazione. Si salva ma rimane “ritardato” per il resto della vita. Lui che era il più vitale, e tutta la famiglia Lamb (ma soprattutto Quick) ne rimarrà colpita duramente. Ma nella nuova casa prima mettono ordine alle loro vite, poi (nel bush erano agricoltori) s’inventano un negozio che vende di tutto. E sarà la loro fortuna, ed il sostegno di tutti gli andirivieni della vita di Cloudstreet.

Oltre a Fish, gli altri due personaggi chiave del romanzo sono Rose Pickles e Quick Lamb. Lei ha dovuto fare da balia alla madre per tutta l’infanzia, non riesce ad avere rapporti sereni con gli altri. Vorrebbe studiare, ma non ci sono soldi. Troverà un lavoro fuori dalla casa, da centralinista. Riuscendo anche a vincere un lungo periodo di anoressia che la stava portando alla tomba. Quick invece non vuole studiare, ha un unico talento (quello di sparare con il fucile) ed un grande rimpianto (che voleva essere lui a soffocare al posto di Fish). Così che appena può, scappa di casa, e lo seguiamo nelle grandi distese australiane diventare cacciatore di canguri.

Inciso: noi siamo abituati a considerare docili e simpatici questi animali locali. Niente di più falso, il canguro selvatico distrugge campi e raccolti. Ed è anche pericoloso per l’uomo. Tanto che Quick dovrà tornare a casa colpito quasi a morte proprio da un canguro. Rose, nel frattempo, stava cercando di uscire dal guscio claustrofobico della vita di Cloudstreet. Ma al ritorno di Quick capisce che lo ha sempre amato, sin da quando entrambi erano piccoli.

Altro inciso: la vicenda si spande dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni Sessanta, in pratica durante tutto il lungo governo dei sette mandati consecutivi di Sir Robert Menzies. E tra alti e bassi coroneranno il loro sogno. Ovviamente, c’è anche tutto il contorno. I molti momenti bassi di Sam e le sue rare ma cospicue vincite. La discesa alcolica di Dolly. I comportamenti di Oriel. Ma come una ballata, tutto ritorna alla fine. Si era iniziato con un picnic dei Pickles poco più che decenni. Si finisce con un altro picnic, con le famiglie riunite. E come detto intorno, oltre al governo australiano, c’è la guerra di Corea, la morte di Kennedy, sul fronte internazionale. E la presenza, qua e là, di alcuni aborigeni, tanto per rimarcare che l’Australia è anche loro.

Un buon lavoro. La scrittura è poi un grande punto di forza del romanzo di Winton, in particolare nei toni epici e descrittivi della prima metà del libro. La seconda parte, piegando la scrittura alla storia, perde un po’ di efficacia. Anche se l’autore riesce a dosare ed amalgamare descrizioni, colloqui in terza persona, dialoghi in presa diretta. Un lavoro scritto a 31 anni, dove si sente, e con piacere, l’impeto giovanile della pulsione allo scrivere. Un’opera che può avvicinare a quel mondo “down under” come dicono i locali, tanto lontano nello spazio, ma vicino nello spirito. Seppure, innegabilmente, diverso. Come quando, in modo spaesante, si dice: “era la fine di gennaio, nel pieno dell’estate”. Quest’uguaglianza di sentire nella diversità dell’essere è stata per me uno dei legami affettivi che mi ha ridato la voglia di pensare a tornare laggiù.

“– Le persone … sono quello che sono. – E allora dovrebbero cambiare! Dovrebbero fare qualcosa per sé stesse, e non aspettare che siano gli altri a cambiare le cose al posto loro! – Non si può cambiare la propria sorte. – No, ma una deve costruirsela, la propria sorte. Perché ci siamo solo noi e nient’altro.” (187)

Conclusioni

Winton è centratissimo nel tema del mese. Io vi avrei aggiunto “Patria” di Fernando Aramburu (se non lo conoscete, leggetelo).