domenica 29 marzo 2015

Mario, Inés e altro - 29 marzo 2015

Metà delle trame di oggi, arrivano in fatti da un gradito ed inaspettato regalo dei miei due amici. Le unisco ad altri due saggi, confezionando un pacchetto di trame che si eleva ben al di sopra della media. Una lezione di civiltà di Pintor, un ricordo ed un pensiero vagabondando per il Mugello. E poi un inusuale libro di cucina caraibica ed una raccolta di interventi sul tema della tradizione, guidati dallo storico Hobsbawm (e si sa che anche gli storici mi sono simpatici). Una bella lettura, in attesa della Pasqua.
Luigi Pintor “Servabo” Bollati Boringhieri s.p. (regalo di Sara e Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 04/09/2014 – T: 05/09/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 91; anno 1993]
Che bella lettura! Che lezione di civiltà, e ovviamente non mi aspettavo di meno, da una persona che ho comunque incrociato nella mia vita, e che mi è sempre sembrata adatta a se stessa. Non so se le mie parole rendono quello che sentono verso la figura di Pintor, ma, talvolta, più che la parola stessa, è il senso che ne esce fuori, dal suono, dal modo di esistere lì, in quel momento. Come questo titolo, che ci spiega l’autore vuol dire, principalmente, conserverò. Ma vuole anche dire sarò utile. Utilizzando tutte le accezioni della parola “servo”. E Pintor ci conserva, rendendosi utile a noi, la sua vita in brevi pillole che ne percorrono i momenti che lui stesso ritiene per sé significativi. E lo fa con quel tono di spigliato giornalismo che me lo rese caro nelle letture dei primi anni del “Manifesto”. Come ripeteva, quello che devi dire, lo puoi dire in 40 righe. E se non lo fai capire in 40 righe, forse non è chiaro neanche a te che scrivi. Ed allora di poche righe in poche righe (raramente i capitoli superano le tre o quattro paginette del formato in sedicesimo dell’editore) in quei rapidi quattordici capitoli, scorrono le memorie di questo “servitore” e delle sue vicende di vita. Dalla giovinezza sarda all’adolescenza romana. Dalla lotta partigiana, intrapresa quasi come fosse un gioco, al mestiere di giornalista, quasi che ci si dedicasse per non saper fare altro. Attraversato dalla morte per lo scoppio di una mina del fratello Giaime. Dal matrimonio alla paternità. Dall’impegno sociale sempre presente alle turbe prima per i fatti d’Ungheria del ’56 poi per la primavera di Praga del ’68. La rottura con il Partito e la nascita del Manifesto. Ricominciare tutto di nuovo, diventando lui, che sempre si sente inadeguato, un punto di riferimento dei giovani. E la voglia, “carico d’anni” ma non di sventura, a voler baciare non la sua petrosa Itaca come Ulisse, ma questi episodi della propria vita, per tenerli lì accanto, ora che la fine si fa ogni giorno più vicina. Leggo e rileggo queste brevi righe. Ed ogni volta continua a stupirmi la lucidità con cui Pintor diceva tutto, il piacevole e lo spiacevole. Mi viene di ripercorrere quei momenti che per lui furono intensi, formanti, quelli della lotta partigiana, dell’incoscienza dei 18 anni, dove, pur incoscienti, si sente che si sta facendo qualcosa. Ed in quella Roma che lottava, clandestina seppur palese, con tutte quelle coincidenze di vita, di leggerezza, di follia, che ritornano nella mia memoria familiare, che ben si intreccia con i Pintor, i Rodano, i Tatò, e via discorrendo. Mia zia che pedala per il viterbese portando in canna di bicicletta partigiani alla macchia. Mio zio che esce fischiettando da Regina Coeli mentre lo stavano arrestando e lui fa finta di essere lì per caso. Mia madre cui casca la borsa con le armi mentre attraversa Ponte Sisto, ma i militi non se ne accorgono. Ecco che mi è presa la mania del narrare in poche righe, quasi a togliere un po’ di spazio all’autore, che altrimenti lodo troppo. Ma come non pensare a lungo all’ultima frase che riporto sotto. A questo fatto che i libri servano più a che li scrive che a chi li legge. Certo, servono molto allo scrivente che vi riversa le sue gioie e le sue paure. Pur tuttavia basta una persona che per qualche suo personale motivo trova un giovamento anch’esso personale nel leggere queste righe. Ebbene, anche se io autore non lo verrò mai a sapere, basta questo per giustificare la scrittura. Per ringraziare Luigi Pintor di questo piccolo gioiello di parole, che avevamo lasciato più in alto sulla soglia dei momenti duri, ma che termina, così come comincia, nel privato. Con il dolore, pudico eppure immenso, per la morte della moglie. Con il dolore, mai sopito, mai vinto, della morte del fratello Giaime, che pur tuttavia rimarrà stella del suo personale firmamento. Metro sul quale misurare le proprie azioni. Testamento pesante, che, dal ’43 in poi, l’allora diciottenne Luigi porterà sempre con sé. Ed io ora dico, fortunatamente. Sono contento che sia esistito un “servitore” attento e discreto come Luigi. Una persona eccezionalmente normale, capace di tante cose che ammiro, ed anche di tanti errori. Perché umani siamo, non divini.
“Fu semplicemente una questione di circostanze, alla fine è sempre una questione di circostanze.” (32)
“Non cesserò di pensare che i mondi sono due ma imparerò che la linea divisoria non è segnata su nessun atlante e passa fin dentro il cuore dell’uomo. Stare da una parte diventerà più complicato, ma più necessario.” (66)
“Un libro serve a chi lo scrive, raramente a chi lo legge, perciò le biblioteche sono piene di libri inutili.” (89)
Simona Baldanzi “Il Mugello è una trapunta di terra” Laterza euro 12 (in realtà, scontato 10,80 euro)
[A: 05/05/2014– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 150; anno 2014]
Ancora una buona e convincente prova della collana di Laterza, anche se il sottotitolo del libro (“A piedi da Barbiana a Monte Sole”) pur accattivante non dice tutto del libro. Anzi ne sottende una metà, mentre la seconda metà (che devo dire ha un interesse ed una valenza pari alla prima) riguarda la triste e dolorosa storia di una che era a suo tempo una fabbrica italiana di punta, la Emmelunga di Barberino. Simona Baldanzi è una giovane scrittrice radicata nel territorio intorno a Firenze, figlia di operai, attenta alle lavorazioni locali. In questo libro, che come al solito si colloca tra il racconto, la geografia e la storia, unisce con sapienza i tre elementi. Il racconto che dà il filo allo srotolare dei ricordi durante la camminata montana di 120 chilometri è appunto la storia di una fabbrica di mobili. Storia esemplare, simile a molte storie di fallimenti e sconfitte del non maturo capitalismo italiano. Storia di una fabbrica che utilizzava gli alberi dell’Appennino per i suoi mobili, che per prima aveva anche utilizzato i venditori. E che non ha saputo gestire la crescita. Che vuol dire avere un approccio industriale, gestire fornitori, montatori, ed altre maestranze. Invece si delega senza controllo, facendo scelte assurde quanto improbabili: colorare le fabbriche di blu e giallo per fare il verso ad Ikea, poi acquistare i mobili in Cina, che costano meno ma che vogliono essere pagati prima. Per finire con l’improvvida vendita di baracche e burattini niente di meno che ad… Aiazzone! Così che nel 2010 non può far altro che dichiarare fallimento e vendere tutto il vendibile. Che tristezza! Ma altrettanto interessante è il secondo aspetto del racconto di Simona: la camminata ed i luoghi che si attraversano. La camminata come fatica, come mezzo di stare: sono venti chilometri al giorno, che si possono fare, ma non è proprio una passeggiata. Comunque si pensa, mentre si cammina, e si sta con se stessi (almeno questo è quello che faccio io). Per poi essere con gli altri quando ci si ferma, quando si arriva la sera. Camminare è parlare con il proprio corpo, ma anche vagare con la testa verso il proprio modo di essere. Questo fanno gli intrepidi camminatori del Mugello. E quanto sono belle e comunitarie le sere che si passano a curare i muscoli doloranti, a bere vino schietto, a parlare di tutto e di niente. A me poi, soprattutto i primi momenti geografici, mi han riportato indietro in tempi neanche troppo lontani, ma così densi di ricordi. Che dire di Barbiana, che fu una grande emozione la prima volta che ci sono andato, ed ogni volta che ci sono tornato. E non era solo lo spirito, la presenza enorme di Don Milani, ma anche l’eco delle parole di mio padre, di tutto quello che veniva detto negli anni, e che solo nella piena maturità ho compreso e fatto mio. E poi la salita verso Vicchio. La Madonna del Sasso. Simona parla dei luoghi, io ripenso alle mie gite da Calenzano verso l’interno. Ci parla di sassi che erano case e che ora sono ricordi. Ci parla di chiese. Ci parla di natura, di campagna. Di incontri e di sedute ai tavoli di osterie campagnole. Io ripenso alla stagione del BarBerinese un bar stupendo, pieno di ragazzi vogliosi di fare, sulla strada verso il Lago di Bilancino. E ricordo anche il lago, e qualche pomeriggio speso sulla sua riva a guardare anatre e godere di sole e compagnia. Il finale del libro è dedicato al Monte Sole, punto d’arrivo anche della camminata. E qui Simona Baldanzi ci dà anche un altro saggio di mescolanze tra geografia e storia, soprattutto storia dimenticata o mal riportata. Perché il Monte Sole è poco sopra Marzabotto, ed è stata teatro di altrettante carneficine. Ricordandole, l’autrice ci riporta anche al cimitero tedesco che si incontra per via. Quanti morti, quanti eccidi, quante storie, anche, per le valli e per i massi. Quanto potrebbe ancora (e dovrebbe) ricordare l’Appennino. Perché come diceva un saggio greco, le guerre finiscono solo per chi ci muore. Noi le continuiamo a sentire, nella pelle coloro che c’erano, nei luoghi, noi che non c’eravamo, ma sappiamo. Ed è in finale un bell’inno alla terra questo che esce fuori dalla giovane scrittrice mugellese. La terra per camminare e ricordare. Ricordare le sconfitte, sia delle guerre che degli operai, ricordare gli alberi tagliati, ma anche i massi portati via, i buchi fatti alla terra stessa per congiungere Firenze e Bologna. Siamo arrivati al Monte Sole, ed è con il suo calore si ripensa alla strada percorsa. Io torno subito all’inizio, che non mi sarei mai mosso da Barbiana. Ma io non sono lo scrittore.
“C’è una cosa che ho imparato … si mangia tutto, perlomeno si assaggia tutto, poi ci si scusa se si rifiuta qualcosa.  … Se c’è qualcuno che lo mangia, ha dignità di essere considerato cibo. Dare onore al cibo, a tutti i tipi di cibo, vuol dire avere il primo rispetto per gli esseri umani, la prima vera battaglia culturale contro la miseria e anche contro il razzismo.” (95)
Melani Le Bris “La cucina della filibusta” Elèuthera s.p. (regalo di Mario e Inés per il loro viaggio)
[A: 26/09/2014– I: 09/10/2014 – T: 14/10/2014] - &&& e ½
[tit. or.: La Cuisine des Filibustiers; ling. or.: francese; pagine: 223; anno 2002]
Un regalo che si è rivelato gradito e stimolante, da parte dei carissimi Mario e Inés, che avevo aiutato a programmare e prenotare il loro mega viaggio in Perù e Galapagos. Anche perché non è facile regalarmi libri. Loro hanno trovato questa (ed altra che vedremo in futuro) chicca. Un libro di cucina. Direte voi, ma che si legge, un libro di cucina? A parte che è piacevole (almeno per me) leggere di ricette, anche se poi delego ad altri più in grado di me la loro realizzazione. Ma in realtà questo è un libro tripartito e mescolato. Cioè, diviso in tre filoni, che sono sapientemente mescolati dall’autrice. Da un lato si segue la genesi e l’evolversi della pirateria nei mari caraibici, anche dietro l’esempio del super citato libro del padre di Melani, Michel. Il secondo filone è l’utilizzo del cibo da parte di questi “signori”, quale cibo utilizzano, come lo utilizzano, e, soprattutto, come lo fanno viaggiare per tutti i mari. In ultimo, c’è la ricetta vera e propria, magari con qualche particolarità e qualche spigolatura. Detto che questo terzo filone lo lascio a chi voglia cimentarsi con le ricette, e ribadito che l’unico stimolo reale che mi ha dato, qui ed ora, è la voglia di andare nei paesi caraibici, per provare, localmente, quello di cui qui si è narrato, passo alle altre due parti, che mi hanno incuriosito e, come detto, stimolato. Partendo sempre dalla premessa, che faccio non qui, ma ogni volta che viaggio e mi trovo in un posto diverso dall’usuale. Capire la gente è comprendere quello che mangiano, come lo mangiano e, possibilmente, mangiarlo insieme a loro. È un modo non solo di entrare in comunione con l’altro, ma anche di capire, sulla propria pelle, le sensazioni della vita quotidiana in posti che non saranno poi oggetto della nostra vita giorno per giorno. Per questo ho mangiato scorpioni fritti in Cina, vermi degli alberi in Namibia e porcellini d’India in Perù. Qui, nei Caraibi, poi c’è una componente fondamentale che mi fa amare questa cucina: l’uso, sapiente ma potente, del peperoncino e delle salse piccanti. Sono curioso di vedere se troverò mai, quando vi andrò, una salsa più potente della “tricolor” messicana (base di pomodoro, cipolla e peperoncino verde). Ma la brava Melani non solo ci fa vedere la nascita del cibo nelle isole caraibiche. Ma anche la sua diffusione: da Europa verso America e da America verso altre parti del mondo. Vediamo canna da zucchero e noci di cocco viaggiare sulle navi di Colombo (e non solo) e diventare un elemento di base ed insostituibile della vita locale (tanto che soprattutto la canna ha trovato un suo habitat talmente proficuo che sembra essere quasi nata lì, per produrre, tra l’altro, una delle cose migliori che conosco: il rum; ed ho anche capito, finalmente, la differenza tra il rum normale e il rum agricole, ma non ve la dico). Ma anche i percorsi inversi, per cui alla fine troviamo pietanze e ricette caraibiche che, con opportuni adattamenti, sono vive e vegete in Madagascar piuttosto che nell’isola di Réunion (ed un saluto ad Elena anche se si è trasferita). E non ci si meraviglia poi che saranno i pirati quelli che riusciranno a sopravvivere meglio, utilizzando la cultura locale per adattarsi. I colonizzatori, i tronfi signori spagnoli ed inglesi andavano laggiù volendo riprodurre la vita vissuta in patria, riuscendo il più delle volte quasi a morire di fame, non volendo usare il cibo autoctono. Che invece, dal peperoncino alle verdure, dai pesci alla frutta, è ottimo ed abbondante (a saperlo ben utilizzare). Infine c’è il filo conduttore dei pirati. E della loro diversità: abbiamo, prima dei pirati veri e propri, bucanieri e filibustieri. I primi erano i pirati dell'entroterra mentre i secondi erano i pirati del Mar dei Caraibi. I primi, vivendo lontano dal mare, derivano il loro nome dal francese “Boucanier” e indicava cacciatori di frodo che affumicavano la carne su una graticola di legno. Loro erano gli affumicatori (boucanes) ed utilizzavano un metodo che localmente si chiama barbicoa, e che ha originato il moderno barbecue. I secondi venivano chiamati “freebooters”, cioè "saccheggiatori", nome composto da "free" cioè libero e "booty" che significa "bottino", cioè «colui che fa liberamente bottino». E nel libro ne passano tanti, da quelli più noti come Jean David Nau, meglio noto con il soprannome di François l'Olonese, famoso per la sua crudeltà, o Sir Henry Morgan (che in realtà era gallese e si chiamava Hari Morgan) che all'apice della carriera fu addirittura nominato governatore della Giamaica. A quelli meno di grido ma capaci di gesta memorabili: William Dampier (preso a prestito dall’abate Prévost per il suo “avventuriero errante” e che in realtà ci fornisce una mappa idro-geologica del territorio caraibico tuttora valida), Thomas Gage, Lionel Wafer fino a Jean Lafitte (che diventò il tipico “corsaro” nel racconto di Byron). Per finire con personaggi che magari non erano direttamente pirati, ma che vi si accompagnarono per lunghi tratti, e che spiccano per le loro peculiarità: padre Jean-Baptiste Labat (che ci fornisce il maggior numero di ricette nel suo memorabile “Viaggio alle Antille”) o Alexandre Olivier Exquemelin o Oexmelin (il chirurgo della filibusta, ma anche scrittore che ci ha lasciato uno dei primi resoconti sui pirati caribici, ma soprattutto nato ad Honfleur, di cui conservo sempre un ricordo incancellabile). Tanto che viene la voglia di leggere di più e meglio su questo fenomeno sviluppatosi dalla fine del 1500 alla metà del 1700. Questa però sarà forse oggetto di altri libri ed altre riflessioni. Rimaniamo con Melani, con il suo interessante libro, e con un sentito ringraziamento ai donatori.
“Chi ha assaggiato il fuoco delle salse al peperoncino, ben presto non potrà più farne a meno.” (20)
“La radice del recao … sprigiona un aroma inebriante … che ricorda un poco quello di cimice schiacciata.” (32) [il recao si chiama anche cilantro, da non confondersi però con il coriandolo; il suo nome scientifico, poi, è “Eryngium foetidum”, e non dico altro]
Eric J. Hobsbawm (a cura di) “L’invenzione della tradizione” Einaudi s.p. (regalo di Mario e Inés per il loro viaggio)
[A: 26/09/2014– I: 15/10/2014 – T: 11/11/2014] - &&&&
[tit. or.: The Invention of Tradition; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1983]
Un interessante, seppur datato, saggio che, sull’onda delle idee di fondo che hanno da sempre spinto il suo curatore, si avventura nella non difficile operazione di smontare quelle che noi chiamiamo “tradizioni”. Spesso sono operazioni recenti (e non a caso quasi tutte nate a ridosso del “secolo breve” come ci ricorda in altri scritti Hobsbawm). Spesso sono addirittura inventate di sana pianta, perché funzionali ad un momento storico, ad un’impresa commerciale, ad una situazione politica e sociale. Per come nasce (frutto di ricerche sponsorizzate dalla rivista inglese “Past and Present”) il libro è anche maggiormente focalizzato sulle tradizioni anglo-sassoni, anche se, come brevemente illustra lo storico nelle conclusioni finali, è stato proprio l’Impero Britannico a fungere da volano per molte delle tradizioni attuali, che appunto partono dall’isola, o nell’isola hanno avuto un modello di riferimento. Sono quattro i passi fondamentali che questo saggio ci fa ripercorrere, per poi coagularsi nelle conclusioni dello storico che ne danno una visione d’insieme ed un tentativo di spiegazione coerente (oltre che uno stimolo ad approfondirne i vari aspetti). I quattro punti sono: la nascita delle tradizioni scozzesi, la costruzione simbolica del passato gallese, la monarchia britannica di fronte all’India, le invenzioni delle tradizioni nell’Africa Coloniale. Se volessimo fare un paragone con il presente, soprattutto le prime due “storie” ci fanno venire in mente il tentativo (ahi quanto ridicolo) della Lega di Bossi di “inventare” una tradizione padana utilizzando simboli e manifestazioni tanto anacronistiche quanto decontestualizzate. Così fu per la Scozia, dove i famosi “tartan” vennero introdotti a seguito di una spinta industriale, ed a valle di una costruzione fantasiosa (ma che fece presa) quella dei “canti di Ossian” di Macpherson. In realtà, gli Scozzesi, nelle alte terre, usavano pantaloni e non gonnellini. E sappiamo bene come Macpherson scrisse (inventandola di sana pianta) una “falsa” traduzione dei canti di Ossian, mescolando frammenti, favole, ed invenzioni di sana pianta. Ma data la mancanza di diffusione delle informazioni (certo nel Settecento non c’erano giornali o televisioni) il passaparola fece diventare plausibile tutta la falsa costruzione di queste tradizioni. Analogamente per i gallesi, dove, nel tentativo di riscattare una sottomissione atavica, si fece finta di poter far risalire gli attuali abitanti locali ai druidi dell’antichità, inventando lingue, tradizioni, araldiche, ed altri luoghi finti, per compiacere un’aristocrazia locale che cercava una sua libertà d’azione verso la monarchia centrale inglese. Ma sia Scozia che Galles misero in piedi questo castello di invenzioni nel Settecento, per poi consolidarlo nell’Ottocento. E senza alcun reale collegamento con quanto fu, bene o male, vissuto nella reale antichità di queste popolazioni. Ovviamente i nostri storici del libro (e si tornerà sul ruolo dello storico) non risparmiano neanche la monarchia inglese, dimostrando, con dovizia di particolari, che la cosiddetta “regalità inglese” è di fatto un tentativo che nasce nella seconda metà del regno della Regina Vittoria, e si consolida solo nel secolo scorso. C’è una specie di convergenza tra l’espansione dell’Impero e la necessità di “mostrare i reali”. In effetti, il punto di svolta si ha con la grande manifestazione della sottomissione indiana del 1877. Da quel punto in poi, ogni manifestazione regale diventa occasione di rinsaldare la coesione nazionale utilizzando simbolismi assolutamente privi di “tradizione” (gli stessi francobolli commemorativi saranno realmente usati solo con Elisabetta II). Parlando di Imperi, gli storici passano in rassegna tutta la panoplia di invenzioni (a volte veramente ridicole e decontestualizzate) che l’Ottocento mise in piedi come specchietti per le allodole in Africa. Senza farci poi mancare quelle ancora più recenti (tipici esempi la Marianna francese o lo zio Sam americano) che servivano appunto a rinsaldare sentimenti altrimenti molto laschi. Non è mio compito (non sono né storico né antropologo) andare oltre questi leggeri cenni di un processo che, in ogni caso, va smascherato e di cui se ne devono comprendere le finalità dell’invenzione. Ritorniamo quindi all’importanza (che ovviamente Hobsbawm stesso sottolinea) del ruolo dello storico. Questi, con la sua opera, partecipa, anche inconsapevolmente, a disegnare il retroterra cui l'invenzione della tradizione potrà attingere e fare riferimento. Deve quindi avere consapevolezza del fatto che, indipendentemente dalla sua volontà e dagli obiettivi che si prefigge, i suoi risultati finiranno per poter essere usati anche in modo politico e strumentale nella sfera pubblica della vita quotidiana. Per finire, quindi, un libro di non facile lettura (ho impiegato un mese a digerirlo), ma che ho letto con gusto per le scoperte che facevo e per la gentilezza di chi me ne ha fatto omaggio.
“Il controllo … della Repubblica era in mano agli uomini del centro camuffati da estrema sinistra … gente proverbiale per essere come il ravanello, rossi di fuori e bianchi di dentro, e sempre rivolti dalla parte dove soffia il vento.” (260) [lo storico non sta parlando dell’Italia attuale ma della Francia intorno al 1875… ma non mi sembra cambi molto!]
Non lasciatevi sfuggire questa ultima perla di Hosbwbawm. Per oggi, un segno di pace a tutti in questa domenica che prelude una Pasqua ancora di riposo e di preparazioni. Niente viaggi immediati per me, spero qualcosa per tutti i miei amici. Ad ognuno un segno di pace (che se ne ha bisogno).

domenica 22 marzo 2015

Langdon, Haller o Bosch? - 22 marzo 2015

Cioè, oggi ci si scontra con due maestri del genere, autori di best-seller l’uno (Connelly) e di un long-seller l’altro (Brown). Si attendeva il ritorno di quest’ultimo sulla “scena del crimine”. E, come immaginavo, il ritorno è in minore, ben scritto forse, ma un pochino sotto la sufficienza. Il grande Michael, invece, viaggia un po’ più in alto, anche se, dopo più di venti romanzi, mi aspettavo sinceramente qualcosa di meglio. Comunque, Connelly ai punti, e Bosch per l’affetto, sono decisamente avanti.
Michael Connelly “Il respiro del drago” Piemme euro 13
[A: 03/08/2013– I: 29/08/2014 – T: 30/08/2014] - &&&
[tit. or.: Nine Dragons; ling. or.: inglese; pagine: 357; anno 2009]
Siamo al ventesimo libro del maestro che entra nella mia libreria e che leggo con immutato piacere. Avrete però notato qualche punto di gradimento in mano, che, in effetti, mi sembra un libro per così dire “di passaggio”. In tutti i seriali (libri, tv, ed altro) ogni tanto c’è quasi la necessità di mettere a posto qualcosa, di chiudere dei capitoli, insomma, “di far pulizia”. Ovviamente Connelly è maestro anche in questo, e ci confeziona comunque un libro gradevole, con qualche spunto interessante. Ma in fondo deve trovare il modo di risolvere il nodo Eleanor, la fiamma ex-moglie di Harry. Che si è trasferita ad Hong Kong con la loro figlia Matilde. Allora, andare su e giù tra HK e LA appesantisce le trame. L’autore allora comincia confezionando una finta rapina ai danni di un negozio gestito da un immigrato cinese, che maschera almeno (se non altro) le vessazioni che la mafia cinese detta Triade infligge alle comunità all’estero. Muovendosi al solito come un elefante, il nostro Harry Bosch riesce ad emarginare il suo socio Isaac (la Omicidi in America gira sempre in coppia) troppo permissivo, prendere contatto con il dipartimento di poliziotti d’origine cinese per capire i traffici della Triade e mettere in difficoltà figlia ed ex-moglie di là dall’Oceano. Qualcuno, infatti, rapisce Matilde, ed Harry, pensando sia collegato alle morti americane, si precipita ad HK, dove, in un giorno di 37 ore, tra l’arrivo e la partenza di un aereo della Catahy, riesce a risolvere molto ed a fare molto casino. Con l’aiuto delle sue conoscenze nei vari dipartimenti, decifra un video con le immagini del rapimento di Matilde, aiutato da Eleanor e dal suo nuovo compagno, irrompe nell’hotel del rapimento, dove vengono assaliti da una banda di vietnamiti. Nel conflitto a fuoco, la donna muore (e così ce la togliamo di torno). Nella confusione, riesce ad ottenere l’indirizzo del ragazzo presunto rapitore della figlia. Ma nella casa troverà solo altri morti, ma non la figlia. Seguendo le tracce di un cellulare trovato per caso, risale ai veri rapitori, che volevano la ragazza per trapianti illegali di organi. Prima che venga imbarcata clandestinamente per chissà dove, uccide un altro po’ di cattivi, libera Matilde e con lei ritorna a LA. Dove capisce che la Triade c’entra poco con il morto, e che quindi le due vicende sono scollegate tra loro. Tramite tutta una serie di ragionamenti con il cino-detective e con l’aiuto di una nuova tecnica per il riconoscimento delle impronte anche sui bossoli delle pallottole, comprende che il vero responsabile della morte del negoziante è il figlio. Anzi, per essere esatto, i figli, che la mente è la sorella maggiore. Ovviamente mentre capisce tutto ciò, Isaac, ignaro del più, nel tentativo di arrestare il giovane, viene coinvolto in un conflitto a fuoco ed ha la peggio. C’è tempo anche per vedere un cammeo in cui compare Mickey Haller, il fratellastro di Bosch, che usa le sue capacità da avvocato di prima linea, per sbaragliare i tentativi di ingabbiare le attività di Harry e di accusarlo di una serie di uccisioni in quel di Cina. Quindi, come si diceva, un episodio di transizione, alla fine del quale ci troviamo: Harry senza un socio ingombrante che ne rallenta l’azione, Harry senza più una ex-moglie di difficile gestione, Harry con una figlia che si trasferisce con lui a Los Angeles (e qui vedremo come riuscirà a cavarsela Connelly nel futuro, sparirà anche Matilde o Harry troverà una nuova fiamma?), Mickey che compare nelle vicende di Harry così come Harry in quelle di Mickey (e forse in un futuro lavoreranno insieme?). Per finire, due note, una positiva una no. La prima deriva dalla passione di Connelly per il jazz, e dalla citazione di un trombettista che avevo amato nei primi anni Settanta, e che pensavo pochi ricordassero: il polacco Tomasz Stanko, le cui incisioni ricercavo nelle prime incursioni polacche con il grande Giuzzo. La seconda è una bella tirata d’orecchi a chi ha deciso il titolo italiano, che stravolge il senso dell’originale (e forse chi ha deciso il titolo non ha avuto imbeccate da chi ha letto il libro). Perché i Nove Dragoni sono la traduzione in inglese di Kowloon, nome di uno dei malfamati quartieri di Hong Kong, dove si svolge molta parte dell’azione cinese di Harry, dove vive la figlia Matilde, dove la stessa conosce il poco raccomandabile Qing, diciassettenne che inscenerà il rapimento, per poi esserne travolto (ed ucciso). Ed i nove sono rappresentati dagli otto picchi montuosi che circondano il quartiere, essendo il nono l’imperatore stesso. Allora, da dove viene il respiro del titolo? Ed un drago non è un dragone! Inoltre nella copertina viene raffigurato un “9” che brucia. Quale ne sarebbe il significato recondito? Insomma, come mai, nel 90% delle volte, il marketing italiano prende delle toppe così clamorose?
Michael Connelly “L’uomo di paglia” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 08/10/2013– I: 27/09/2014 – T: 29/09/2014] - &&&
[tit. or.: The Scarecrow; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 2009]
Alla fine dello stesso anno in cui pubblica la precedente storia con Harry Bosch al centro (anche se come ho detto non eccelsa), Connelly esce con un altro libro. Che ha per protagonista quello che alla fine direi potrebbe essere il suo alter-ego letterario. Ritorna, infatti, al centro dell’azione Jack McEvoy, il cronista di nera al centro del quinto libro di Connelly, il magistrale “Il Poeta”. Anche Connelly, infatti, ha svolto per lungo tempo l’attività di cronista per il “L.A. Times”, per poi staccarsene e cominciare a scrivere libri. Come comincerà Jack, che inizia questo romanzo con il suo licenziamento dal giornale per riduzione di organico. E che finirà, dopo non poche peripezie, non a tornare al giornalismo ma a dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Tuttavia prima di andarsene vuole fare un ultimo scoop, un’ultima inchiesta che lo faccia ricordare e rimpiangere. Affiancato da un’apprendista, Angela, comincia a seguire le piste di un ragazzo negro accusato di aver ucciso una donna bianca per poi nasconderla nel bagagliaio di una macchina. Ci sono delle incongruenze nell’arresto, ma è solo quando Angela, navigando in rete, scopre un delitto simile avvenite due anni prima a Las Vegas che cominciano a suonare dei campanelli. Qui la vicenda si biforca, che mentre seguiamo in soggettiva Jack, ci mettiamo sul collo (metaforicamente) del cattivo, e questo in terza persona. In questa parte, e prendendo spunto da questa, Connelly fa un tuffo, anche se non profondo, nel mondo della rete e delle sue connessioni. Carver, il malvagio “spaventapasseri” (poi ci torneremo sopra questo nome), è infatti addetto alla sicurezza di un centro di gestione dati per conto terzi. Ed è anche un “mago” della rete. Facciamo così un giro tra tecnologie (a me note, ma non è detto per tutti) dove ci sono siti ombra, indirizzi IP nascosti, phising, spamming ed altre “diavolerie” moderne. Carver ha appunto un sito ombra, dove incappa Angela, e da quello scopre che Jack si sta avvicinando a deduzioni per lui pericolose. Con l’aiuto del suo scagnozzo Freddy, tende una trappola ad Angela e la uccide. Nel frattempo manda Freddy a Las Vegas per uccidere Jack. Che però aveva chiesto aiuto alla sua amica Rachel, quella dell’FBI, con cui aveva lavorato ne “Il Poeta”. E Rachel lo salva dalla trappola, anche se Jack si trova isolato da tutto: Carver gli blocca le carte di credito, le password della mail, il telefono. Con l’aiuto di Rachel, tuttavia, riesce a collegare i due casi (la donna di Las Vegas è stata uccisa con le stesse modalità di quella di Los Angeles e nascosta anch’essa in un bagagliaio di una macchina). E quindi a far liberare sia il giovane accusato a Los Angeles, sia il marito dell’altra donna che da un anno stava in prigione. Storia nella storia, Jack e Rachel riannodano il vecchio legame che avevano, e che porterà di nuovo la donna sull’orlo del licenziamento dalle forze dell’ordine. Tuttavia, i collegamenti vari, nonché alcune imperizie di Freddy, consentono di restringere il cerchio verso il sito in Arizona gestito da Carver. Benché controllato dalla polizia, il nostro cattivone riesce a camuffare tutte le eventuali prove a suo carico. Rigirandole verso il suo capo e Freddy. Ucciso e sepolto il capo nel deserto, durante un controllo dell’FBI, manda allo sbaraglio Freddy per cercare di uccidere Rachel. Mossa che (una volta per uno, via) sventa questa volta Jack che, per amore di Rachel, era rimasto in Arizona invece di tornare in California. Ovviamente Freddy muore. E tutto sembra andare nella direzione prevista da Carver. Sennonché, una locandina del Mago di Oz, con i personaggi che ballano, fa scattare una lampadina a Jack. Come ricorderà chi ha visto il film, uno è lo Spaventapasseri, con la faccia coperta da un telo. E con una maschera sono coperti i volti delle donne uccise. E Carver (questo lo sappiamo da Rachel) era chiamato Spaventapasseri in ufficio perché doveva tenere lontano gli uccelli cattivi dai dati informatici. Unite le cose, ci si avvia verso il solito finale “mozzafiato”, anche se meno di altre prove di Connelly. I cattivi vengono messi fuori gioco, Rachel continua la sua carriera in FBI, e Jack (come fece tanti anni fa Connelly) si chiama fuori dal giornale e comincia a scrivere le storie “criminali” che ha vissuto. Non ha una grande suspense, pur riconoscendo la bravura di Connelly. Ed i meccanismi informatici sono a volte trattati in modo un po’ naif per essere avvincenti. Non manca qualche auto-citazione di contorno. Quando Jack va in giro con una Lincoln della televisione, ripensa, e noi con lui, al primo romanzo con protagonista Mickey Haller. Rachel, senza nominarlo, parla della sua storia finita con Bosch. Ma su questo versante credo siamo alla frutta (Connelly dice da alcuni anni di aver messo “Jack nel dimenticatoio”). Aspettiamo allora altre avventure, con il nostro amato Bosch che possa tornare in primo piano. Una notazione finale, come vi avevo promesso: il titolo, ancora una volta. È vero che nel film lo Spaventapasseri viene chiamato anche uomo di paglia. Ma mantenere il titolo originale costa forse tanto? Anche perché, “uomo di paglia” in inglese si dice “Straw man”… Parliamone.
Dan Brown “Inferno” Mondadori euro 5 (in realtà, scontato a 4,25 euro)
[A: 05/05/2014– I: 14/10/2014 – T: 17/10/2014] - && e ½   
[tit. or.: Inferno; ling. or.: inglese; pagine: 712; anno 2013]
Solita, periodica, operazione furbetta di un maestro delle vendite, anche se non un maestro della scrittura. Dopo la costruzione, lunga e mediaticamente ben riuscita, del “Codice Da Vinci”, e dopo alcuni episodi in minore, una lunga gestazione porta Dan Brown a prodursi in una nuova opera pseudo-storica, dove, fortunatamente, il nostro buon Dante è usato come chiave senza farlo intervenire in vicende che poco hanno a vedere con il maestro fiorentino. Ritorna, come protagonista e motore della vicenda, Robert Langdon, lo storico dell’arte esperto “un po’ di tutto”. In questo caso, è diventato anche un grande conoscitore di Dante, di cui sa quasi “a memoria” molta parte della Commedia. Sarebbe interessante, per uno studioso più fine di me, leggere il libro in inglese, così da vedere come e qualmente vengono tradotte le terzine dantesche. Ma come detto, Dante diventa un accidente della storia, un elemento utilizzato per due motivi: l’uso delle terzine come metafora di una caccia al tesoro e la rappresentazione che Botticelli dette delle Commedia nel suo bellissimo dipinto “Mappa dell’inferno”. Qui, ovviamente, si esplicano le maggiori capacità di Langdon, che, da storico dell’arte, conosce a menadito non solo il dipinto, ma tutte le sue sfaccettature. Comunque ci si torna tra poco. Che la storia è invece imperniata su di un dilemma scientifico di stampo malthusiano: la terra si va sovrappopolando (e questo lo sanno anche i sassi), e le curve di accrescimento sono tali che le risorse terrestri stanno andando in rapido esaurimento. Come fare per fermare tutto ciò? Evitando di ritornare alla proposta di Jonathan Swift (quello di Gulliver, per intenderci) che suggeriva di mangiare i bambini, così da sfamare la popolazione e fermare l’elevato tasso di natalità, la proposta più sensata sarebbe quella dell’OMS (l’organizzazione della sanità) verso l’uso massiccio di metodi contraccettivi. Tuttavia, ostacolati da destra e da sinistra per motivi religiosi. Ecco allora che esce fuori uno scienziato non pazzo, ma un po’ fuori di testa, che percorre una via nuova. Pieno di soldi, si fa aiutare da una banda di ricchi “fuorilegge” per sparire dalla circolazione e mettersi a studiare il problema. Di cui trova una soluzione, aiutato da una bella ragazza, Sienna, dall’alto Q.I., che, una volta saputo lo scopo finale del tipo, si mette paura e comincia a remare contro. Nasce quindi una lotta di tutti contro tutti, perché il nostro scienziato pensa bene di uccidersi poco prima dell’inizio dell’evento fatale. E di lasciare una serie di indizi che portano tutti a pensare che la sua idea sia quella di scatenare un’epidemia, tipo la Peste Nera medioevale. Un’epidemia capace di distruggere un terzo della popolazione, numeri che porterebbero ad un riequilibrio della popolazione. La lotta di tutti contro tutti deriva dal fatto che i fuorilegge tentano di onorare il contratto che avevano con lo scienziato (fino però ad accorgersi che sarebbero finiti male e quindi allearsi, almeno formalmente, ai “buoni”). L’OMS ingaggia Langdon per decifrare i misteri dello scienziato, a cominciare dal una pseudo-riproduzione del dipinto botticelliano. Langdon si accorge subito della presenza di lettere non comprese nell’originale, e con una sciarada di facile soluzione (forse in italiano è più semplice dell’inglese), ricostruisce la parola. Che lo porta alla stessa frase contenuta in un dipinto del Vasari di Palazzo Vecchio. Dove è anche contenuta la maschera mortuaria di Dante. Con una serie di peripezie, riesce a ritrovarla dopo che questa è stata sequestrata e nascosta nel bellissimo Battistero di San Giovanni. E dietro la maschera una nuova sciarada, che, per qualsiasi persona normale, unita ad un video dello scienziato, avrebbe portato a collocare il centro del misfatto nella Basilica Cisterna di Istanbul. Invece, Brown porta Langdon su false piste. Prima a Venezia, in un inutile giro per San Marco. Poi alla ricerca della tomba del doge Dandolo, che tutti sanno (o almeno lo so io, che l’ho visitata varie volte) si trova in Santa Sofia ad Istanbul. Dove finalmente arrivano, ma dove l’epidemia è stata già scatenata. Il tutto condito dall’aiuto non-aiuto che a Langdon viene dato da Sienna, che gli si mette alle ruote, non si capisce se appunto per stare con i buoni o con il cattivo. Alla fine, Sienna è l’unica che avrà la chiave, forse, per capire se e come debellare la pandemia. Ma qui il libro finisce, sull’interrogativo velato che pone Brown rispetto all’uso della scienza e delle tecnologie. Bisogna utilizzare le scoperte come avanguardie rivoluzionarie che decidono in nome delle masse? Oppure cercare di trovare un modo per coinvolgere una più ampia platea nei possibili benefici di un uso non distorto della scienza stessa? La bravura di Brown sta ovviamente nel sorreggere la trama per 700 pagine, e tutto per uno svolgimento di un paio di giorni (più ovviamente i soliti flashback). E la capacità di creare percorsi da “caccia al tesoro” utilizzando strumenti molto letterari. Poco convincente il dibattito sull’uso della tecnologia. Ed assolutamente carente la parte su Istanbul, che sembra scritta da una persona che poco conosca la città. Infine un po’ smaccato il finale aperto che lascia intravedere possibili nuove puntate delle avventure di Langdon. Onesto, ma non coinvolgente, con alcune notazioni finali. Condivido la citazione compiaciuta alla cantante Loreena McKermitt, un’icona della musica celtica. Sottolineo il cenno al libro “La fuga di Logan” che penso di essere uno dei pochi ad avere letto. Ed infine, pur convergendo sulla citazione di Marx fatta da Langdon in piazza Taksim (piazza bellissima tra l’altro), l’avrei completata per sottolineare meglio l’intento. Marx diceva “la storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Brown ne cita solo la prima parte. Perché? Dimenticanza voluta o sottile intento ironico? Ai postumi l’ardua sentenza.
Michael Connelly “La svolta” Piemme euro 13
[A: 09/11/2013– I: 25/10/2014 – T: 27/10/2014] - && e ½ 
[tit. or.: The Reversal; ling. or.: inglese; pagine: 365; anno 2010]
Mi aspettavo qualcosa di meglio da questo quasi ultimo libro tra quelli pubblicati in Italia dal maestro americano del thriller. Cominciamo, al solito e spesso, con un appunto sul titolo, che, sebbene in Italia la parola “svolta” può avere sinonimo di cambiamento, qui è intesa meglio proprio nel senso letterale di “rovesciamento” o “inversione”. Perché il protagonista Mickey Haller accetta di cambiare posto in tribunale passando dalla difesa a quella di pubblico ministero. Indipendente (come talvolta si usa fare in America), cioè non legato all’amministrazione, in quanto si tratta di portare in giudizio dopo 24 anni un condannato che è riuscito ad ottenere la revisione del processo in base ad una prova di DNA, che, all’epoca dei fatti, non era considerata probatoria. Jason Jessup è accusato dell’uccisione di una ragazzina di 12 anni, forse per motivi sessuali (ma non ne ha avuto il tempo, sembrerebbe). Ora si trova traccia di DNA sul vestito della piccola, ma non è di Jason (bensì del patrigno). Si va quindi ad un nuovo processo, e, dati gli errori commessi a suo tempo dal pubblico ministero, si chieda ad Haller di “make a seat reversal”, e di passare all’accusa. Cose che accetta, chiedendo come aiuto l’ex-moglie che fa parte del pool del PM, e come aiuto per le indagini il nostro benamato Harry Bosch (che ricordo ai meno attenti, è anche il fratellastro di Haller). In un romanzo con i due ci si aspetterebbe la somma delle due bravure a tener in piedi trama e tensione. Purtroppo invece l’unione delle due caratteristiche tende a smorzare proprio quella tensione che nelle prove singole appariva meglio distribuita lungo tutto lo scritto. Intanto, anche l’artificio di usare i capitoli alternati, uno scritto alla maniera di Bosch in terza persona ed un in quella di Haller nella prima, dopo un po’ suona forzato e senza mordente. Certo, ognuno dei due sfodera quello che dovrebbe essere il meglio delle proprie capacità: Bosch con le indagini, lo scovare testi ed indizi che sembrano nascosti, con l’incaponirsi su elementi che sembrano marginali e non lo sono, e Haller con la conoscenza dei sistemi processuali americani, sfruttandone tutti i possibili risvolti. Tutto però si smorza, che non si riesce a fare il “tifo” per uno o l’altro (anche se lavorano insieme, c’è sempre qualcuno da favorire, no?). Comunque, sia Mike che Harry mettono a segno punti a favore ed un punto negativo forte a testa. Mike che, per far cadere in trappola il violento Jason, concede, contro il parere della ex-moglie (che ricordo viene chiamata Maggie la Spietata!!), la libertà sotto cauzione. Harry, che fa seguire Jason dalle Squadre Speciali, ma non lo arresta quando questi si procura una pistola, proprio per cercare al solito di farlo cadere in un tranello. Intanto si sviluppano le fasi preprocessuali: capiamo meglio il contesto dell’omicidio della piccola Melanie, ci mettiamo sulle tracce dell’unico teste ancora in vita, dopo tanti anni, cioè la sorella Sarah, vediamo le manovre dell’avocato difensore (chiamato Charlie l’Astuto e si capisce bene perché) che cerca di presentare il caso sui media per creare un clima favorevole a Jason. Harry coinvolge anche la (a me simpatica, ma spesso ormai fuori contesto) profiler Rachel, che dà una sua versione dei fatti più convincente di quella del primo processo. Mike, in aula, riesce a dribblare le trappole di Charlie, anche se, quando inizia il processo, sembra che ci si avvii verso un pareggio, con un colpo all’uno ed un all’altro. Intanto, nottetempo Jason si aggira per la città, sembrando da un lato confermare i sospetti di Rachel, dall’altro (non vi dico come) mettendo paura ai due fratellastri su possibili coinvolgimenti delle loro figliole (che si dovrebbero chiamare “cuginastre”?) oppure cercando di farli concentrare su elementi marginali. Il coup de theatre di Charlie è un ex della tossica Sarah che avrebbe detto come questa confessasse essere stato il patrigno l’artefice del tutto. Ma l’ex lo fa per soldi, e, scoperto da Harry, ritratta tutto, lasciando nelle peste la difesa. Se ne accorge anche Jason, che decide di farsi giustizia da solo, spara a destra e sinistra, uccide (non vi dico chi), scappa e viene a sua volta eliminato. Peccato che in questo modo il processo non possa concludersi (per la morte dell’imputato) quindi anche se sappiamo come sono andate le cose, non se ne ha la prova sul campo. Ed i cattivi burocrati hanno modo di farla pagare a tutti: a Maggie, a Mike ed a Harry. L’unica “consolazione” è che le due ragazzine fanno conoscenza e, si spera, in un futuro abbiano modo di frequentarsi. Ma il tutto non è sorretto dalla solita tensione cui ci aveva abituato Connelly. Speriamo che ci siano miglioramenti in future puntate delle diverse storie del nostro amico scrittore (che sappiamo esserci altre scritture, anche se ancora non pubblicate in Italia), magari ritornando ai cammei dell’uno nelle storie dell’altro, che è meglio.
Insomma, aspettando di capire se si sblocca la situazione viaggi, un’altra trama dedicata a vicende poliziesche ed affini, così da far riposare non solo le stanche membra, ma anche lo stanco cervello. In attesa anche che si avvicini Pasqua, i suoi momenti di stasi e perché no qualche rilassante gita in campagna. Magari, infine, utilizzando al meglio il libro di Marie Kondo, che sia una piccola caccia al tesoro onde capire di cosa si parla.

domenica 15 marzo 2015

Marco vs. Carmine - 15 marzo 2015

Oggi mettiamo a confronto due autori italiani, di cui ho letto molto, e che, di conseguenza, potete capire che mi sono a cuore. Per diversi e variegati motivi. Carmine Abate è un calabrese (primo motivo) di cultura arbëreshë, cioè immigrati da secoli dall’Albania (secondo motivo) che mi prende spesso per i suoi lunghi excursus lungo il filo del tempo. Marco Malvaldi è della piana del Magra (primo motivo) ed ha inventato il BarLume e Massimo il finto detective, matematico mancato e vero “barrista” (secondo motivo). Qui si mantengono entrambi sopra la media, tuttavia Malvaldi fa un piccolo scatto in avanti, vincendo di un’incollatura con il suo telefono.
Carmine Abate “La collina del vento” Mondadori euro 13 (in realtà scontato a 9,75 euro)
[A: 03/08/2013– I: 06/08/2014 – T: 09/08/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 260; anno 2012]
Torno sempre con piacere alla lettura del vate di Carfizzi. Peccato non siamo nelle saghe degli arbëreshë, ma la penna di Abate vola per i monti ed i mari calabri. Qui siamo in un libro che ha anche avuto un successo editoriale notevole (Premio Campiello 2012), anche se, personalmente non lo trovo al top della produzione di Abate. È una storia di persone che lottano per la loro dignità, per mantenere l’equilibrio della natura che gli uomini cercano di stravolgere. Una storia contadina lunga molti anni, cui si intrecciano le Storie di un’Italia che si allungano per molti decenni. Ed anche se trattate come “note ai margini” (ma d’altra parte, per molta gente questo sono state), si attraversano le guerre mondiali ed il fascismo un po’ in sordina, mentre seguiamo la saga della famiglia Arcuri. Ma anche della collina del Rossarco, quella del titolo, di proprietà della famiglia e che cercherà di mantenerla nel corso degli anni, nonostante i molti tentativi di toglierla loro. La narrazione, che viene affidata a Rino, ultimo rappresentante degli Arcuri, procede su due piani temporali: uno passato, fatto di oscuri segreti, ed uno presente, in cui, al temine del romanzo, affiorerà ogni verità. E sebbene cominci come un “giallo” (l’uccisione di due giovani sotto gli occhi di Sofia, moglie di Alberto, il capostipite degli Arcuri), questo non è che un accidente che serve per dare qualche tocco di peperoncino (calabrese) alla narrazione. La visione dei due giovani ammazzati resterà impressa nella memoria di Arturo, uno dei figli di Sofia, che, temendo per la propria vita e per quella dei suoi piccoli, non racconterà a nessuno i fatti di cui è stata testimone, anzi, porterà per sempre nel suo cuore quel terribile segreto. Intanto, alla vigilia della prima guerra mondiale, Paolo Orsi, il celebre archeologo triestino, si reca sul Rossarco alla ricerca della mitica città greca di Krimisa. Inizia la campagna degli scavi che porta alla luce tesori di inestimabile valore, ma presto Paolo Orsi sarà costretto a sospendere gli scavi a causa della riesumazione dei corpi dei due giovani sconosciuti. Nel frattempo, nel corso della prima guerra mondiale, Alberto perde due dei suoi tre figli, gli rimane solo Arturo. Segue il periodo del fascismo, durante il quale aumentano la prepotenza e l’arroganza dei latifondisti locali, specie di don Lico, ricco proprietario terriero che, interessato alle ricchezze sepolte nel Rossarco, intende appropriarsi della collina degli Arcuri. Arturo si oppone a don Lico ed alle sue minacce, allora il regime lo punisce mandandolo al confino a Ventotene. In questa occasione, sia Arturo, al confino, sia Michelangelo, il figlio rimasto a casa con la mamma Lina, maturano una propria coscienza politica, decisiva negli anni della seconda guerra mondiale e della lotta contro il nazifascismo. Nello stesso tempo Michelangelo stringerà buoni rapporti con l’archeologo e da questi, per emulazione, sarà spinto a proseguire gli studi. Cosa che farà, e che costringerà a fare anche al figlio Rino. Ed insieme si opporranno anche all’ultimo scempio, quella di trasformare la collina in parco eolico, ma solo per fare in modo che qualche politico locale abbia il suo tornaconto. Ribadito quindi che Abate e la Calabria hanno un loro ben preciso posto nel mio cuore, non sono convinto che questo sia la migliore prova di Abate. Intanto, quell’andare su e giù per il tempo, forse funzionale alla storia, riesce difficile per la memoria. Lo sapete, io sono per i tempi dritti, e per le storie ordinate. Comunque rimangono due belle cose, alla fine del libro. L’amore per la terra e per la famiglia che sono il filo conduttore di tutto il libro (e di molto altro in Abate). E la potente figura storica dell’archeologo Paolo Orsi. Uno dei tanti, umili ma infaticabili uomini che hanno fatto grande il nome della nostra cultura e della nostra capacità di vivere con rispetto verso il proprio passato. Così si può guardare con fiducia al proprio futuro. Purtroppo, da molto tempo non se ne sente più parlare. Peccato!
Marco Malvaldi “Argento vivo” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 08/10/2013– I: 20/09/2014 – T: 22/09/2014] - &&& e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272; anno 2013]
Torniamo a leggere dopo molto tempo uno scritto del nostro simpatico amico pisano. Purtroppo non ancora una nuova avventura del BarLume e dei suoi vecchietti. Una storia normalmente altra, che scorre con la consueta verve che Malvaldi mette in tutti i suoi scritti (anche in quella guida turistica di Pisa da me recensita tempo fa). Anche se qui c’è qualche ambizione in più (il messaggio, amici, c’è il messaggio) e qualche risultato in meno. La storia è la solita giravolta di caso e necessità di cui in genere sono piene le scritture di Malvaldi. Ci sono avvenimenti che si concatenano e casualità che si inseriscono apoditticamente. Il filo conduttore è quello dello scrittore Giacomo e del suo ultimo libro. Giacomo ormai da anni continua a scrivere la stessa storia di una persona con un chiodo fisso e la sua sconfitta, storia ormai bollita, ma si sa che gli editor non rischiano e quindi… ma questa è un’altra storia. Su questo filone si inserisce la vicenda di una banda di ladri eterogenea, composta da ladri veri e da Costantino, sbandato specialista in debellare sistemi di sicurezza (gustose le divagazioni su come rubare le automobili moderne dotate di telecomandi a distanza). Ladri che rubano una macchina e svaligiano la casa di Giacomo, trafugando il computer con l’unica copia dell’ultimo romanzo. L’automobile (color argento vivo, da cui il titolo) è di proprietà di Leonardo, lettore bulimico (che io comprendo a meraviglia) e sbadato dipendente di una piccola industria informatica. Dopo qualche peripezia, che vi tralascio, Leonardo viene in possesso del MAC di Giacomo e ne legge il libro. I ladri veri, intanto, tartassano Cosentino che ha perso il PC. C’è anche una simpatica agente di polizia, Corinna, di origine rumena che cerca i bandoli delle matasse. C’è il di cui sopra Leonardo che riesce a mettersi in contatto con lo scrittore, gli dice senza fronzoli tutto il male del libro ancora inedito. Così che Giacomo è costretto ad interrogarsi sulla scrittura e sul suo editor. Costantino, tentando di recuperare il PC per calmare i ladri, riesce invece a rubare il PC di Leonardo, facendolo licenziare. I ladri pensano che i due siano in combutta, per cui minacciano Leonardo. Costantino tenta un ricatto alla ditta di sicurezza del PC, ma viene sbeffeggiato e per vendetta, trafuga 20 computer e li regala ai ladri. Leonardo denuncia i ladri che Corinna bellamente arresta. Costantino si defila e non verrà coinvolto nella bagarre. Leonardo, senza lavoro, viene alla fine convinto da Giacomo ad accettare un nuovo lavoro: diventare il suo editor. Tutta questa è, più o meno, la storia, che detta così (ed arricchita dal sarcasmo toscano) potrebbe essere un romanzo in minore degno di poca nota. Quel che ne alza un po’ il mio personale gradimento sono gli intermezzi del libro di Giacomo. Di cui sentiamo parlare (per capirne gli errori) e poi ne vediamo dei frammenti. E comprendiamo altro. Perché il libro nel libro è la storia di un matematico (un punto a favore) che narra la sua vita (non vi dirò come e perché). Matematico ossessionato dalla musica e dalla ricerca, nel tempo libero dal lavoro di studioso, di un algoritmo per comprendere di chi sia una determinata musica. Qui esce fuori la natura scientifica di Malvaldi con una piccola trattazione (sopportabile) sui frattali. Con l’idea che si possa classificare uno spartito con un numero che ne denoti la dimensione frattale (mezzo punto in meno per la difficoltà). L’idea illuminante che Leonardo riesce ad introdurre nella testa di Giacomo è che questa ossessione debba essere completata da qualcosa d’altro. Si inserisce così una simpatica digressione trasversale sulla necessità del silenzio. E sull’importanza (nella musica come nella vita) di considerare non solo quanto si emette (il rumore, la musica, la parola) ma anche quanto si tace (il silenzio tra un punto e l’altro). Silenzio che riuscirà a completare la descrizione di un qualcosa. Come tutti penso possano capire, io sono me stesso, io mi rappresento, per quanto dico, ma anche per quanto e per come taccio. Ecco il messaggio, e l’altro punticino in più per il nostro simpatico scrittore. Infine l’ultimo quarto di libro in più è solo un vezzo personale, dovuto al fatto che c’è un avvenimento a pagina 264 che accade il 7 di maggio dell’anno 2013, giorno di un compleanno indimenticabile. Il mio, ovviamente. Spero comunque che Malvaldi possa tornare, e presto, a farci rivivere le sue avventure nella pineta versiliana insieme ai suoi personaggi da me più amati.
“[Leonardo tiene un blog di recensione e] con tutta evidenza, sapeva il fatto suo. A parte il fatto che compariva una nuova recensione ogni tre - quattro giorni, spia del fatto che evidentemente il tipo si asciugava un paio di libri alla settimana, gli articoli rivelavano una cultura da uomo rinascimentale, con una evidente passione per la matematica e l’informatica.” (195)
Marco Malvaldi “Il telefono senza fili” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato a 7,80 euro)
[A: 07/10/2014– I: 08/10/2014 – T: 10/10/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 192; anno 2014]
Questa, visto che ogni regola ha la sua eccezione, è l’eccezione al quadrato (e non potrebbe essere di meno, se il protagonista oltre ad essere un barrista, è soprattutto un matematico). Perché una volta visto in libreria un nuovo Malvaldi con al centro il BarLume (e chi mi legge sa quanto sia legato a questa serie) è stato subito acquistato. E nel tragitto in autobus verso casa si è iniziato a leggere, per passare il tempo. Beh, non l’ho praticamente lasciato sino alla fine. Non è che sia un capolavoro nascosto che bisogna svelare. No, è che a me diverte, mi piace l’umorismo che Malvaldi mette in queste pagine (meglio delle opere senza Massimo il barrista), ed anche se la trama non è travolgente, non ho potuto fare a meno di “divorarlo”. Come detto, nei libri della compagnia dei vecchietti del BarLume la trama è un di cui, a volte neanche tanto importante. Serve soltanto a far muovere i personaggi. E siccome in genere si parla di morti e di indagini, serve anche a tenere un po’ sveglio il lettore (se ce ne fosse bisogno….). Qui, gli strali del nostro amico pisano si scagliano contro uno dei vezzi più diffusi nella nostra maldestra Italia. Il pettegolezzo, la notizia che vola di bocca in bocca, gonfiandosi ad ogni passaggio e riuscendo a provocare cataclismi orrendi. Appunto come il telefono senza fili della nostra gioventù (ora, il telefono senza fili è diventato un cellulare, e non entro nel merito) dove si cominciava bisbigliando una parola, per arrivare ad un finale scoppiettante, in genere per mettere alla berlina qualcuno di noi che, in quel momento, aveva qualche “cotta”. Nella nostra Pineta, “o boatos”, come dicono in portoghese, sono generati dalla vicenda della coppia Vanessa e Gianfranco. Finti divorziati, gestori di un agriturismo con problemi mica male. Vanessa compra una quantità improbabile di carne, poi scompare dopo una lite con il marito. Ovviamente i nostri ottuagenari gridano subito all’assassinio. Unendosi al coro, anche un altrettanto improbabile mago televisivo dice e non dice di sapere qualcosa della vicenda. Gianfranco lo affronta ed il mago inopinatamente muore. Non c’è modo di fermare la valanga, ed il sanguigno finto divorziato finisce in cella. Intanto, la moglie del mago lo denuncia come impostare (lo stesso giorno della morte). Praticamente, il mago, dal nome fantasioso di Atlante il Luccicante, con un po’ di parlantina, riusciva a mettere una app dentro i cellulari delle sue clienti, per poi effettuare i suoi trucchi di magia (e magari qualche ricatto di contorno). Nella fattispecie, aveva captato che Vanessa e Gianfranco stavano facendo qualcosa di losco. Peccato che il motore di tutta la vicenda fosse la moglie del mago, che, scoperto il fatto che Atlante era anche fedifrago, escogita un modo (e non ve lo spiego se no che gusto c’è) per poterlo eliminare senza destare i sospetti su di lei. Ricompare quindi Vanessa, per tirar fuori il suo Gianfranco di galera, e per far ciò deve confessare il tentativo di frode che stavano cercando di fare, sfruttando delle leggi italiane che io manco sospettavo, ma che il nostro Malvaldi ci sciorina con la sua solita grande classe. Tutta questa è trama, il resto è … goduria. Il BarLume con l’astio per i cappuccini pomeridiani, ma dove Massimo sta cedendo alle richieste del nuovo commissario, la bella e simpatica Alice. Lo stesso Bar, con le tresche tra Tiziana ed il suo ex-marito. Il nome locale di aperitivi e ristorante, messo su da Aldo e Massimo, il Bocacito. I nostri quattro impegnati in una carambola a biliardo, o in una briscola. E soprattutto, impegnati ad aiutare il commissario Alice sia a risolvere il caso, sia, e molto importante per loro, a metterla sulle piste di Massimo, che magari si accorge che esistono anche donne intelligenti e frequentabili. Il tutto condito da interventi e digressioni, che non entrano nulla nella trama, ma che, come detto, fanno il sugo della storia. Come la storia dei ciclisti dilettanti e dei loro doping. Come le storie delle etichette sbagliate dei quadri. Come la possibile storia tra Massimo e Alice, ma come sicuramente la storia della vicina di casa di Massimo. Ed altre amenità, che vi lascio scoprire. Prima di finire un appunto “matematico” o a Malvaldi o alla Sellerio o a tutti e due. I capitoli sono numerati progressivamente (tipo due, tre, eccetera). Se il capitolo 6 è chiaramente riconducibile al suo titolo “trentasei diviso sei”, il capitolo 9 è indicato con l’equazione “X2-19+90=0” (pag. 141). La cui soluzione tuttavia non è 9, ma un improbabile 711/2. Forse la corretta equazione doveva essere probabilmente X2-9+90=0. Comunque, viva i vecchietti, via il BarLume, e viva Malvaldi quando ne scrive.
“Ogni cosa ti può far ridere o piangere, dipende se ti riguarda o meno.” (106)
Carmine Abate “Il ballo tondo” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 8,08 euro)
[A: 08/10/2013– I: 14/10/2014 – T: 16/19/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 218; anno 1991-2005]
Chiarisco subito il mistero della doppia data di pubblicazione. Questo è stato il primo romanzo scritto da Abate, che più di dieci anni dopo la prima scrittura, in vista dell’uscita presso Mondadori, lo riprende, sfoltendo qualche parte, andando verso una narrazione più veloce, ed anche più convincente. L’impianto però è quello originale, e giustamente. Che qui si parla per la prima volta della saga degli arbëreshë, gli albanesi d’Italia, fuggiti dalla terra natia nel xv secolo, dopo la morte di Giorgio Castriota Skanderbeg, l’eroe nazionale della difesa contro i turchi. Essendo lo stesso Abate nato nell’enclave calabra, ed in particolare a Carfizzi (Karfici in arbëreshë), ed usando questo ed altri scritti, di cui ho già parlato, per parlare della vita e delle gesta di questo popolo che vive chiuso all’interno di un mondo altrettanto serrato. Il motivo conduttore che parte da qui è la tradizione locale, come il ballo del titolo, quello che si balla nelle occasioni ufficiali, ed in particolare per fidanzamenti e matrimoni. La narrazione segue poi le gesta, da adolescente a giovinetto, di Costantino e della sua famiglia. Illustrandone, al meglio, i “topoi” caratterizzanti della vita locale durante direi gli anni ’60 (anche se non viene detto esplicitamente, ma trasversalmente si ricostruisce con l’unico accenno fuori contesto, con le canzoni dei Ricchi e Poveri). C’è il nonno paterno, emigrato in America, e mai più tornato. C’è il nonno materno, nani Lissandro, custode di alcune tradizioni, intagliatore di legno e unico rifugio delle turbe di Costantino. C’è il padre, che andò a cercare suo padre in America, senza trovarlo, per poi emigrare in Germania come molti all’epoca. La prima vicenda lo farà chiamare sempre “Mericano”, la seconda gli porterà dei frutti: un marito trentino, seppur attempato, per la figlia maggiore, e i soldi per comprare fondi da ristrutturare per quando, finiti i lavori oltre cortina, si ritirerà in paese per la vecchiaia. C’è la madre, angelo del focolare, sempre presente, ma anche con tutta la discrezione della sua generazione. Dolce, cuciniera, ma, quando serve, dura e sostegno ai problemi familiari. Oltre la sorella sposa in trentino, c’è la seconda che ha un lungo e tormentato fidanzamento con Carmelo, il maestro del paese. Maestro che però non è autoctono, e proprio come tutti gli immigrati, l’unico che si infervora delle tradizioni, dei canti, dei balli. Tormentato che quando sembra volino verso le nozze, Carmelo decide di andare ad insegnare in Somalia. Dove farà i soldi, come si dice al paese, e svilupperà la sua voglia di aiutare i meno fortunati. E nella scena finale, finalmente, avrà modo di far ballare il ballo tondo a tutto il paese, sposare Lucrezia e portarla in Africa. E ad attraversare tutto il decennio c’è Costantino. Bambino decenne che scopre il mare con il nani. Che scopre il cantore Luca ed il suo strumento albanese, la “lahuta” (in italiano “gusla”, con un’unica corda, una cassa di risonanza, ed un archetto per suonarla, strumento tipico dei Balcani). Che, in giro per i monti col nani, sostiene di aver visto un’aquila a due teste. L’aquila bicipite, presente nello stemma albanese, e che la leggenda vuole aver indicato la strada ai profughi fuggiti dall’Albania invasa dai turchi e rifugiatisi in Calabria. E che nella seconda parte del romanzo ha una bella storia di innamoramento con Isabella la Romana. Così chiamata che, benché calabrese, vive a Roma e torna a paese solo per l’estate. Delicata storiella di avvicinamenti e litigi, di prendere e lasciare. Storia nella storia, che questa di Costantino ripercorre poi una storia tradizionale albanese, quella, guarda caso, di Costantino il piccolo che s’innamora di una ragazza “bianca come la ricotta”. Tuttavia la bellezza e la sostenibilità del romanzo sta nella riproposizione delle atmosfere locali, nel confronto tra lingua e dialetto, nelle mentalità di chi usa l’uno o l’altro, nella descrizione degli emigrati, nelle tradizioni più forti della ragione, nel rimpianto dei costumi che si perdono, e nella volontà opposta di superarli e di “integrarsi”. Con le scene campestri che però non cadono mai nel rimpianto bucolico. C’è sempre un sottofondo di “basso dolente”, come una musica non allegra che accompagna tutta la storia. Ma sempre musica, che anche quando non è allegra, da forza. Quando muore il rapsodo. Quando morirà (ne siamo sicuri) anche il nani. Quando nella fiera si sente il richiamo del “Mago di Rossano che legge il destino nella mano” (vero Rosa?). Anche quando (spero) Costantino raggiungerà Isabella a Roma per andare all’Università. Al solito, nella narrazione di Abate, alti e bassi, con un piacere fino di lettura che mi spinge a tenerlo fra i buoni esempi d letteratura italiana moderna. E con la spinta poi ad approfondire i miti di cui tratta.
“Perché questo è il destino dei figli … capire i padri, che non riescono mai a ricambiare, o non ne hanno il tempo, la voglia.” (132)
Notizie al contorno: se avete voglia, passate in via della Vite 100 a Roma dove c’è una nuova buona gelateria. Noi intanto si aspetta passi il freddo e si guarda se nasce qualche nuovo viaggio.

domenica 8 marzo 2015

Otto marzo - 08 marzo 2015

Casualità vuole che, nella cabala delle mie trame, siano capitate oggi quattro interessanti scrittrici che scrivono di donne. Poiché sono contrario a celebrare la donna un solo giorno all’anno, termino qui la polemica, e mi dedico alla loro scrittura, tutta superiore alla media, con un divertente romanzo di Winifred Watson (che ho cercato di “trasportare” in film) ed uno duro di Alice Walker sulla condizione dei negro-americani (da rileggere anche oggi, per pensare ai continui morti neri in America). In realtà, mi aspettavo di più da Audrey Niffenegger ed i suoi “viaggi nel tempo”. Degno chiusura (per il tema e per il giorno), il libro di Susan Vreeland su di un’altra donna interessante, la pittrice Artemisia Gentileschi.
Winifred Watson “Un giorno di gloria per Miss Pettigrew” BEAT euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 02/04/2014– I: 29/08/2014 – T: 31/08/2014] - &&&&
[tit. or.: Miss Pettigrew Lives for a Day; ling. or.: inglese; pagine: 207; anno 1937]
Un piccolo gioiellino di quasi ottanta anni, poco noto (a me) così come lo era l’autrice. Ma che esemplifica in letteratura quello che al cinema in quegli anni veniva indicato come “il tocco di Lubitsch”. Un sottile mix di umorismo ed erotismo (anche se mai esplicito e mai volgare). Un romanzo che ci fa vivere con Miss Pettigrew le 24 ore fondamentali della sua vita, e che io mi svolgevo in testa appunto come un film in bianco e nero degli Anni Trenta. Ovviamente con Katherine Hepburn nel ruolo di Miss Pettigrew, che incontriamo la mattina alle 9, dimessa nel suo cappotto marrone, cercare un lavoro in una tipica agenzia di collocamento americana, e da questa mandata a casa di Miss Delysia LaFosse (nome d’arte tipico per una soubrette londinese dell’epoca). Qui comincia la commedia degli equivoci che ci segue per tutto il romanzo. Miss LaFosse (interpretata da Jeanette MacDonald, visto che deve anche cantare) è una finta svampita, che però non sa resistere al fascino maschile. Ed è sballottata tra tanti amori “da un giorno” (cose che scandalizza la nostra, che ben presto confessa anche di chiamarsi Ginevra). Ginevra riesce a buttar fuori casa con uno stratagemma l’inconcludente Phil, dato che sta arrivando chi mette i suoi soldi per mantenere la bella al suo tenore di vita. Ecco Nick (un ottimo Clark Gable), rude, ma di un fascino intenso, tanto che Delysia cade sempre ai suoi piedi a bocca aperta. Ginevra però si accorge del pericolo insito in lui, e riesce a posporre le sue attenzioni di almeno un giorno. Ginevra si muove con quel suo tocco di perbenismo ma anche con quel pizzico di follia che le viene dal contatto con un mondo che aveva visto solo al cinema o letto in qualche romanzo d’appendice. Ma la sua capacità camaleontica di appropriarsi di questi personaggi la fa comportare come se avesse sempre vissuto “nel bel mondo”. Facciamo quindi la conoscenza con Michael (un giovane Gary Cooper) indeciso fra la rudezza e la gentilezza. Michael ama Delysia, ma non ha il fascino di Nick. E la soubrette, ogni volta che vede Nick, cade in deliquio. Arriva anche Edythe Dubarry (particina disegnata apposta per Lucille Ball), l’estetista, che ha litigato con Tony (una caratterizzazione di David Niven)  e non sa come fare la pace. Ormai Ginevra viene presa nel vortice degli avvenimenti. Edythe le trasforma il volto, Delysia le presta un vestito di seta, e tutte si recano al Pavone in Rosso, il locale dove la soubrette canta. E dove si ritrovano tutti. Aiutata da qualche bicchiere di sherry, Ginevra impartisce una lezione di bon ton al malcapitato Tony, in uno scambio di battute “da film”, alla fine del quale lo riappacifica con Edythe. Al tavolo dei nostri gaudenti, si presenta anche il maturo Joe (Spencer Tracy al meglio), venditore di corsetti per donne, arricchitosi con le vendite, e che prova a spendere tra i fumi del lusso gli anni prima di un inevitabile declino fisico. Nel bel mezzo delle schermaglie, arriva anche Nick, e Delysia sta per cadere ai suoi piedi, come tutte le volte che lo vede. Fortunatamente, Ginevra sobilla Michael che lo prende a pugni. Momento epico: se Nick reagisce, Miss LaFosse sarà perduta e tornerà con lui. Ma Nick è un neo-ricco e non vuol perdere la faccia in un locale in cui è ben noto. Se ne va. A questo punto tutti si danno “alla macchia”. Tony ed Edythe spariscono subito, che il loro momento di gloria è passato. Anche Delysia e Michael se ne vanno, così che Ginevra si trova nel taxi con Joe. Dove finalmente riesce a confessare la sua giornata “misplaced”. In un film moderno, Ginevra tornerebbe nell’angolo da dove è partita. Ma siamo nelle commedie sofisticate, nel tripudio dei telefoni rosa. Joe riaccompagna Ginevra da Delysia. Qui la nostra trova i due piccioncini che tubano, confessa anche a loro la sua mistificazione, ma i nostri ormai le vogliono talmente bene che le propongono di diventare la governante della loro futura casa, ora che si sposeranno. Ginevra è già in Paradiso, ma forse salirà anche più in alto che Joe le sta per telefonare e … Sipario. Ovviamente il romanzo non fu trasportato sullo schermo, e le parti sono una mia invenzione (anche se plausibile, spero). Rimane la scrittura della Watson, fresca ed accattivante. Il suo prendere in giro il perbenismo londinese, inventando situazioni nuove ad ogni volgere di ora. Tanto che arriviamo alle 3 di notte senza accorgercene. Certo, molte situazioni sono datate e/o tendono a ripetersi. Penso che molto sia anche dovuto al fatto che in questo romanzo siano espressioni poi diventate celebri in altri film. Una specie di capostipite. Con la nostra scrittrice che, poco dopo, si sposa e smette di scrivere. Lasciandoci questo piccolo gioiello che mi ha consolato dei miei dolori epicondiliaci.
Alice Walker “Il colore viola” Sperling euro 9,50
[A: 01/02/2014 – I: 14/09/2014 – T: 16/09/2014] - &&&&
[tit. or.: The Color Purple; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1982]
Un bel libro, certamente non facile, e sicuramente ravvivato nei ricordi da chi (ma non io) ha visto il bel film che ne ha tratto Spielberg. Anche questo, come altri che leggo in questo periodo, vincitore di un Pulitzer, pur se un premio avuto or sono trenta anni. Ed anche questo, come il coevo della Morrison, ambientato nell’universo nero. E di non facile lettura, perché si configura come un romanzo epistolare. Seguiamo le vicende di Celie attraverso le sue lettere, prima a Dio, quando giovane e spaventata, non sa a chi rivolgere le sue parole e come affrontare una vita molto complicata. Poi alla sorella Nettie, da cui viene separata a forza. Finendo poi nelle risposte che la sorella invia e che non sappiamo se arrivano. Quindi mai una narrazione diretta, sempre una ricostruzione attraverso le parole dei protagonisti. Siamo nella prima metà del ventesimo secolo, nel più profondo Sud degli Stati Uniti, dove i neri si sposano solo per avere una persona che curi i numerosi figli che nascono dentro e fuori il matrimonio. Celie, abusata dal patrigno, vede sparire i suoi due figli. Poi, per salvare la sorella Nettie dagli stessi abusi, accetta di sposare l’anziano (ma non vecchio) Albert, e di fare la cameriera per tutti. Così Nettie riesce a fuggire lontano, tanto che se ne perderanno le tracce per buona parte del libro. Celie fa crescere i figli di Albert, aiuta Harpo, il maggiore, a sposare la ribelle Sofia. Poi tutto cambia con l’arrivo di Shug, una cantante (professione quanto mai peccaminosa) che è stata per anni l’amante di Albert. La ventata di una donna indipendente comincia a far maturare Celie (e lo vediamo dal tono delle lettere che cambia). C’è all’inizio diffidenza tra le due, poi comprensione, poi qualcosa in più, forse amore. E grazie all'aiuto di Shug, Celie trova le lettere che Nettie aveva continuato a spedirle, e che il marito le aveva occultato in tutti quegli anni. Scopre così che la sorella, seguendo le sue indicazioni, aveva raggiunto i missionari a cui erano stati affidati i suoi due figli, e con loro si era recata in Africa, per un programma di evangelizzazione ed assistenza nelle zone più arretrate di quel continente. Attraverso le lettere recupera il suo mondo, abbandona la scrittura con Dio, e si affida alla sorella, seguendo la crescita dei figli ed assistendo alla progressiva demolizione dell'ambiente e delle tradizioni tribali del luogo da parte della rapace civiltà occidentale. Intanto Sofia ha l’ardire di schiaffeggiare il sindaco, viene incarcerata, poi allontanata dai figli e dal marito. Celie, attraverso la forza che le ha dato Shug, tenta di affrontare tutto e tutti. E quando è messa alle corde, decide di andarsene a Memphis, con Shug, mettendo a frutto il suo talento, creando una piccola attività di sartoria. Sembra un bel momento, poi Shug irrequieta riparte e tornerà anni dopo, sposata con un ragazzo che ha un terzo dei suoi anni. Decidono tutti di tornare al paese natio, che il patrigno è morto lasciando una cospicua eredità a Celie. Anche Albert è cambiato, non picchia più Celie come faceva all’inizio, si cura dei figli e dei nipoti. Intanto Nettie cerca di tornare con i figli di Celie, ma nella traversata vengono affrontati da navi tedesche (siamo ormai in guerra) e se ne perdono le tracce. Il mondo sembra crollare, ma è proprio l’ex-marito che la sostiene nel piccolo e le da quella pur poco consistente serenità per andare avanti. Per far ricongiungere Harpo e Sofia. Per farsi avanti al ritorno di Shug, e finalmente dichiarare apertamente l’amore che da sempre provava, e di viverlo. E quando meno se lo aspetta, arriva Nettie con la sua nuova famiglia. Portando definitivamente la felicità nella casa in cui tanti anni prima, tutto era cominciato. Si sente molto che Alice Walker è un’attivista dei diritti delle donne, ma lo fa in un modo corretto verso tutti. Si sente molto, e ne viene una grande rabbia, il modo come i bianchi (che poco entrano direttamente sulla scena) tengono i neri sotto il tallone. Si sente molto la capacità che può avere una donna quando viene messa in grado di poter sfruttare al meglio le proprie capacità. Si sente molto la bravura di una scrittrice che ha ragione di esistere anche solo per aver scritto questo libro (probabilmente ne ha scritti molti altri, ma per ora questo mi è sufficiente).
“Siamo qui … per far domande. Per chiedere. E … facendo domande, interrogandosi sulle cose grosse, si impara molto sulle piccole, quasi per caso. … Più mi faccio domande … più amo la gente.” (307)
Audrey Niffenegger “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” Mondadori euro 10
[A: 04/01/2014– I: 25/09/2014 – T: 02/10/2014] - &&& 
[tit. or.: The Time Traveler’s Wife; ling. or.: inglese; pagine: 503; anno 2003]
Avevo delle aspettative strane basendomi sul titolo e sulle immagini che poteva evocare. Purtroppo tutte fallaci. Non che mi aspettassi un libro di fantascienza, ma l’idea di base del romanzo avrebbe dovuto trovare, da qualche parte, una sua soluzione e/o spiegazione. Invece rimane lì, per tutte e 500 le pagine, lasciandomi, alla fine, discretamente insoddisfatto. Non si saprà mai perché Henry, il protagonista, sia una PCD (Persona Cronologicamente Disturbata) e che quindi i suoi geni lo trasportano qua e là nel corso del tempo. Visto poi soggettivamente, in effetti, Henry sembra un essere immortale, perché, andando su e giù per gli anni, vive la sua vita un numero considerevole di volte. Tanto che, in alcuni momenti, è presente in un luogo con due età differenti (tipo “Ritorno al futuro”). E questo contrasta con l’assunto, che anche l’autrice fa, che non si posso alterare il tempo ed i fatti. Tanto che, quando viaggia nel tempo, Henry si ritrova sempre nudo, che portare vestiti in epoche diverse creerebbe alterazioni. Inoltre Henry non è consapevole del suo potere genetico, cioè lo subisce, per cui, ogni tanto, senza che lui sappia perché né come (a parte accusare stati di stress emotivo ed altre concause) si trova da un'altra parte. La storia, vista nel suo scorrere lineare, ci presenta appunto questo Henry, figlio di due musicisti, cui muore la madre a 6 anni in un incidente d’auto. Il padre un po’ lo accudisce, un po’ delega la vicina, la simpatica coreana Kim. Henry cresce, trova lavoro come bibliotecario, ha un po’ di avventure con diverse donne, fino ad incontrare LA donna della sua vita, Clare. Che sposa, e con cui costruisce una vita dignitosa, almeno nel presente di Clare. Diventa amico dei suoi amici, Gomez e Charisse. Aiuta Clare nel suo lavoro di artista. Poi passano un lungo periodo nel cercare di avere una prole. Che arriverà ma solo dopo sei aborti. Nasce Alba, che eredita, ma questa volta in modo consapevole, il dono paterno. Poi, almeno nella cronologia di Clare, Henry morirà. Ci sono anche altri sviluppi sentimental-buonisti, come la redenzione del padre di Henry che, sprofondato nell’alcool, ne uscirà per insegnare il violino ad Alba. Come lo spacciatore Ben, malato non terminale di AIDS, che aiuterà Henry con droghe varie a tenere, talvolta, sotto controllo il suo ondivagare. Ed altri avvenimenti minori. Ma detto così, il romanzo non è che un modello americano alla Casati Modignani (senza togliere nulla a Sveva, che ha scritto anche cose leggibili seppur non eccelse). L’incasinamento, e talvolta la bellezza, del romanzo deriva da due modalità narrative usate dalla scrittrice. La prima è quella delle due voci. Tutto il libro è narrato a due voci da Henry e da Clare. Spesso narrandoci lo stesso avvenimento dalle due prospettive. Spesso facendo proseguire la storia da una voce all’altre. Ed in questo, devo dire, quando la scrittrice da voce a Clare si sentono meglio sofferenze e gioie. E forse non è un caso che nel titolo si parli di “moglie dell’uomo”. Mi piace di più quando parla Clare, che vive una strana vita, ma la vive sua. Non Henry, che, andando su e giù, si intorcina spesso. Si mette in situazioni imbarazzanti, soprattutto perché si ritrova sempre nudo da qualche parte. E facilmente la risolve quando trova dei vestiti. Non altrettanto quando si trova in un magazzino al gelo sottozero (e subirà forti danni) o quando verrà preso a fucilate comparendo improvvisamente in un prato (e non vi dirò né chi gli spara né le conseguenze di ciò). La seconda, che invece rende (o almeno ha reso a me) difficile la lettura, è il fatto che ogni capitolo, a volte anche ogni paragrafo, è preceduto dall’indicazione temporale di quando siamo (giorno, mese ed anno). E di quanti anni ha in quel momento Henry e di quanti ne ha Clare. Perché, e qui c’è il gioco magico iniziale che da spunto e vivacità a tutta la prima parte, Henry conosce Clare quando lei ha 6 anni e lui 30. E non si capisce come, ma il luogo dove si incontrano (il giardino di casa di Clare) sarà quello più visitato da Henry durante i suoi viaggi. Come se ci fosse un buco temporale che lo porta lì. Peccato che, mentre Clare cresce linearmente, Henry si presenta ogni volta con età diverse. Questo è il gioco, come detto, che poi si ripercuote per tutto il libro. Dove Henry incontra a volte persone che in qualche su e giù ha già incontrato. A volte non si ricorda lui, a volte la persona che gli sta di fronte. Ma è tutta un’immane fatica, capire chi sia Henry in quel momento, chi sia Clare, tanto che a volte dovevo tornare indietro per rileggere la data. Certo, l’assunto finale di un amore che vada al di là dello spazio e del tempo, e che lega per sempre i due, è piacevole. Ed anche sentimentalmente ben congeniato. Ci vuole però tutta la pazienza e l’amore di Clare per sopportare una vita siffatta. Quindi, onore al merito della scrittura. Onore ai buoni sentimenti. Peccato per un’opera che, nelle premesse, avrebbe potuto meritare di più.
“Quando vivi con una donna impari ogni giorno qualcosa.” (275)
“A Chicago ci sono così tanti esempi di ottima architettura che ogni tanto l’amministrazione comunale si sente spinta a distruggerne qualcuno per costruire edifici orrendi che ci aiutino ad apprezzare quelli belli.” (329)
Susan Vreeland “La passione di Artemisia” BEAT euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 02/04/2014– I: 04/10/2014 – T: 07/10/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: The Passion of Artemisia; ling. or.: inglese; pagine: 326; anno 2002]
Per chi non ha avuto l’occasione, o forse la fortuna, di leggere il bello ed ormai introvabile libro di Anna Banti sulla grande pittrice e donna italiana, un buon libro che ha due meriti fondamentali. Ne ripercorre con passione, come sottolinea il titolo, le tappe principali della vita. E ci fa entrare nella genesi delle opere dei pittori dell’epoca, nel come e nel perché dipingono quello che dipingono, cosa vogliono (o sperano) di mostrare a noi miseri fruitori passivi delle loro opere. La scrittrice americana fa una buona opera di collage e di invenzione sulla vita e soprattutto sui pensieri di Artemisia Gentileschi, una delle prime donne pittrici (anche se non la sola) ma sicuramente la prima ad entrare nella ristretta cerchia dell’Accademia del Disegno di Firenze. Ed a cimentarsi con un personaggio scomodo, sia per la sua vita così come si è svolta, sia per il simbolo di rivolta cui assurge, giustamente anche se al solito forzosamente, di emancipazione femminile. Artemisia nasce a Roma nel 1593, e morirà a Napoli nel 1653. Figlia di un buon pittore dell’epoca, Orazio, e ben presto in grado di cimentarsi con il disegno, ha una svolta epocale, nella vita e nella carriera, con lo stupro su di lei perpetrato dall’assistente del padre Agostino e sul processo che dal padre fu intentato allo stupratore che non intendeva risarcire “il danno” attraverso un matrimonio riparatore. Questo episodio viene preso, giustamente, dalla Vreeland come inizio della storia della donna, per i motivi, per il processo, e per gli atteggiamenti che Artemisia dovrà subire, incolpevole. Artemisia ha 17 anni al momento dello stupro, e nel processo (come logico dato il tempo, ma dato il fatto che, allora come ora, la donna è sempre considerata un po’ puttana, e qui si aprirebbero cascate di discussioni, che comprendiamo e sottoscriviamo) non solo si cerca di farla passare come adescatrice, facendole subire anche torture per vedere se, sotto tortura, continua a sostenere le accuse. Ma il padre non la protegge minimamente. E quando Agostino restituisce i quadri rubati ad Orazio, questi lascia cadere le accuse. Per cui ad Artemisia viene riconosciuto il danno, ma il colpevole non viene condannato, ma solo esiliato da Roma. Questo aprirà, come è logico, un solco mai più colmabile con il padre. Che per riparare la “vende” in matrimonio ad un sodale fiorentino (che quindi la può portare lontano da Roma), ben sapendo che questi aveva bisogno della dote solo per continuare a mantenere le sue amanti. La prima consolazione della vita fiorentina è la nascita della figlia, Palmira. Poco del resto. Non l’amore del marito, che non solo continua la sua vita libertina, ma è geloso del successo della moglie. Che viene presa a benvolere da un nipote di Michelangelo, e sotto la sua spinta entrerà, come detto, in Accademia. E ad un certo punto comincerà la sua vita errabonda per la penisola. Con i suoi quadri e con la figlia. Prima, anche se questa parte è poco storicamente documentata, a Genova. Poi, dopo un nuovo litigio con il padre che si era rappacificato con lo stupratore, fugge a Venezia. E dopo un rapido passaggio a Roma, per salutare le sue “tate”, le suore di Trinità dei Monti, svolgerà l’ultima parte della vita a Napoli. Dove troverà un benefattore nel marchese Ruffo, e troverà un buon sposo per la figlia. Farà in tempo, in una parentesi di due anni, a salire a Londra, per assistere alle ultime ore del padre morente, cercando di capire le motivazioni delle azioni del genitore, cosa che non sembra sicuramente facile. Finirà la sua vita, come detto, nella città campana, dipingendo per la prima volta anche tele per delle chiese. Certo Artemisia è una personalità complessa, e la scrittrice ha i suoi momenti migliori quando ci fa partecipe dei motivi per cui decide di dipingere più e più volte la sua “Giuditta che uccide Oloferne”. E ad ogni dipinto, come cambia la prospettiva della pittrice (e di noi osservatori). Altri momenti ben resi sono le difficoltà di una donna all’epoca di affermare la propria sensibilità e la propria sessualità. Non sapremo mai, anche leggendo i resoconti del processo, come si svolsero i fatti dello stupro. Certo, e questo non lo dimenticheremo mai, deve essere stata una prova ben ardua da sostenere per una donna, dove anche il proprio padre non la difende a spada tratta. E vediamo anche bene come verrà trattata dai suoi contemporanei in seguito. Tuttavia, Artemisia, con la forza della propria arte, riesce ad uscire dal tunnel delle cattiverie. Ora di lei rimangono i suoi quadri. E sono mirabili. Ed è mirabile, anche se non un capolavoro, il libro della Vreeland. Grazie infine a Roberta della segnalazione, anche se con la mia lentezza ho impiegato più di qualche anno a soddisfarla.
“È strano come crescano i figli… Quello che più ci aspetteremmo da loro, quello che più desidereremmo per loro … non li interessa minimamente.” (224)
Seconda domenica di marzo, ed eccovi anche un allegato un po’ triste dedicato alle persone tristi che vogliono intristirsi un po’ di più.
Mentre noi, al contrario, pur nella stanchezza del periodo pre-primaverile, nell’incertezza di prossimi viaggi non ancora avvenuti, o soltanto immaginati, non si è tristi. Magari un po’ affamati di cene e compagnie, che vennero, vengono e verranno.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2015
Ed ecco un altro mese dedicato alla depressione, questa volta però vengono indicati non romanzi per tirarsi su, ma letture per chi è molto triste.

DEPRESSIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CHI È MOLTO TRISTE

Guillermo Cabrera Infante   Tre tristi tigri
Javier Marias                        Un cuore così bianco
Gabriel Garcia Màrquez       La incredibile storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata
Carson McCullers                La ballata del caffè triste   
Arturo Pérez-Reverte           Capitano Alatriste
Francoise Sagan                   Bonjour tristesse    
José Saramago                      L'anno della morte di Ricardo Reis
Osvaldo Soriano                   Triste, solitario y final        
Edward St. Aubyn                I Melrose/Speranza 
Richard Yates                      Revolutionary Road 

Bugiardino

Questa volta sono pochi i libri già letti, di cui il primo, quello sulle “Tre tristi tigri” risale a tanto tempo fa che non ricordo altro che di averlo prestato al mio amico Luciano, e che anche a lui non piacque. C’è inoltre da segnalare un primato tra questi dieci, quello di Saramago, il cui libro sulla morte di Ricardo Reis fu il primo che non riuscii a terminare, e detiene il triste primato di essere il capostipite di una seppur corta serie di libri. E se il libro di Soriano aveva alcuni spunti di interesse, ora, riletto, lascia molto del suo fascino sul tavolo. Dove al contrario, Pérez-Reverte, pur nella sua semplicità, almeno lo trovo rilassante.
Osvaldo Soriano “Triste, solitario y final” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 22 luglio 2012]
Ricorrendo il trentennale della prima lettura del libro dell’argentino Soriano, ho voluto rileggerlo per vedere cosa cambiava, che nuove e diverse impressioni mi lasciava. Anche perché ne avevo una traccia labile nella memoria. Qualcosa di interessante, ma poi i ricordi finivano. Basiamoci allora su questa lettura. E devo dire che gli anni sono passati per tutti. Il testo è datato, la scrittura l’ho trovata stanca e poco coinvolgente. Una sarabanda nel mito americano, con l’idea di metterlo in crisi, di minarlo. Forse era così, ma ora non mi coinvolge affatto. La storia prende l’avvio con uno stanco Stan Laurel, che ormai vecchio e solo (essendo nel frattempo morto il suo sodale Oliver Hardy) si rivolge ad un detective per sapere come mai nessuno lo vuole più nei film. Ovviamente il detective è Philip Marlowe, di cui gustiamo il tratteggio che ne fa Soriano, saltabeccando tra i libri di Chandler. Già qui poteva esserci dell’interesse, dell’ironia. Ma lasciamo ben presto Stanlio, e ritroviamo Marlowe quindici anni dopo, che visitando la tomba del mingherlino, si imbatte in un giornalista argentino, tal Osvaldo Soriano, venuto in America per scrivere una storia sui due comici. Philip e Osvaldo si industriano per trovare notizie, e si imbattono nel mondo della celluloide americana. Si scontrano con una banda di gaglioffi capitanata da John Wayne. Hanno una brutta storia cercando di risolvere un problema di adulterio. Si intrufolano nella cerimonia degli Oscar, dove rapiscono Charlie Chaplin. Dove Soriano bacia una stralunata Jane Fonda. Dove si susseguono sparatorie ed inseguimenti. E bevute. E tristi serate giocando a scacchi e consolandosi con il gatto di Marlowe. Ma tutto senza un vero perché. Sembra una brutta copia di un hard boiled americano, dove incontriamo tanti personaggi noti. Dove Soriano l’autore prende in giro (o cerca di farlo) sia i tic dello star system americano, sia la mania argentina di guardare al Nord America come fonte di soluzione di tutti i problemi. Ma se vediamo le date, ci accorgiamo che da poco c’è stato il golpe in Cile. Ed in poco tempo, anche l’Argentina sarà travagliata da colpi di stato militari ed altre nefandezze (basta rileggersi qualche pagina delle Irregolari di Carlotto per ricordarsene). Tanto che Soriano stesso sarà costretto a fuggire e riparare per almeno quindici anni in Europa. Tornato, finalmente vede premiati i suoi sforzi di scrittore. Premi, riconoscimenti. Magistrali scritti di calcio, la sua grande passione. Per poi morire a soli 54 anni di cancro ai polmoni. Certo, questo scritto triste e solitario è anch’esso un paradigma di Soriano, della sua visione del mondo (e del suo amore per i gatti). Ma non ha più la freschezza di trent’anni fa. Ne esce una storia stanca, piena di allusioni (e forse illusioni), che si legge e si apprezza legata imprescindibilmente con la vita di Soriano stesso. Non è un caso che vi si ponga dentro la storia. Ed in una parte di azione in prima persona, mentre il libro veniva scritto nei sei mesi di mobbing che il suo giornale gli imponeva. Gli veniva pagato lo stipendio, ma non veniva pubblicata una riga dei suoi articoli in quanto era considerato troppo di sinistra. Leggendo il romanzo in controluce con Soriano stesso e le sue illusioni, se ne rivalutano aspetti e risvolti. Capacità stilistiche di parodiare gli americani. Tristezza per essere lasciato lì, solitario anche lui. E senza una spalla su cui innescare le sarabande comiche di Stanlio e Ollio. E quindi, pur con tutta la benevolenza di testa che gli tributo, mi lascia un po’ deluso. Mi consola solo aver scoperto che nel mondo spagnolo la coppia comica era chiamata “El Gordo y el Flaco”. Muy hermoso!
Arturo Pérez-Reverte “Capitano Alatriste” Il Saggiatore s.p. (regalo)
[trama del 27 febbraio 2015]
Mi è sempre sembrato di piacevole lettura, questo strano spagnolo a metà tra scrittore e giornalista (che spesso, per campare, soprattutto ai tempi di Franco, era meglio scrivere sui giornali, come faceva “el mi amigo” Manuel). E mi piacque a suo tempo il primo che ne lessi (“Il club Dumas”, naturalmente) che mi rimase nell’orecchio di leggere altro. Vennero così il primo da lui scritto (che riuscii a leggere in originale, e fu facile e divertente), ed altro. Scoprendo tra l’altro che Arturo non è che la versione spagnola di Jean Reno, un attore che amo. Mi restava di iniziare, prima o poi, la saga del Capitano Alatriste (cui l’autore, nel corso degli ultimi venti anni ha dedicato ben sette libri). Ed eccoci allora qui, dopo la lettura veloce di un libro che scorre gradevole senza tanti intoppi. Certo un libro non eccelso, senza particolari elementi avvincenti nella trama. Eppur tuttavia con qualche spunto qua e là da tenere in considerazione: le descrizioni della vita quotidiana durante quello che per gli spagnoli è chiamato “El Siglo de Oro”, la presenza, tra i personaggi al contorno, di alcuni elementi storici (e che rimarranno nel corso degli altri libri) come Francisco de Quevedo ed il marchese di Guadalmedina, altri che, altrettanto storici, sono presenti solo in questo, come i due inglesi che citiamo sotto o un pittore, tal Diego da Silva y Velázquez. Torniamo allora alla trama. Il capitano Diego Alatriste y Tenorio è un reduce da mille campagne militari, e tira avanti alla buona, usando quello che meglio sa: la sua arte militare e le sue doti di spadaccino. Certo, in tempi di magra, magari assoldato per qualche “aggiustatina”. La storia delle sue gesta ci viene narrata dal giovane Iñigo, un basco figlio di un compagno d’armi di Diego. Alatriste viene assoldato da altolocate figure incappucciate per “malmenare” due inglesi che stanno arrivando a Madrid. Ma questi ordini vengono stravolti dal capo dell’Inquisizione, e da quello che doveva essere il suo aiutante sul campo, l’italiano Gualtiero. Gli inglesi vanno uccisi. Durante l’assalto, però, Diego si accorge che c’è qualcosa di strano, e decide di opporsi al massacro. Ben gliene incoglie, da un lato, che i due non sono altro che Carlo principe di Galles e il duca di Buckingham. Che, da lui salvati, avranno modo di ripagarlo. Male dall’altro, ovvio, che con questa alzata di testa si inimica i suoi mandanti, sia il cattivo frate Emilio Boccanegra sia il meno cattivo, ma potente, duca di Olivares. Da questo attacco si dipana un po’ della storia picaresca: il potere cerca di far fuori con tutti i mezzi il nostro capitano, che, altrettanto con tutti i mezzi a sua disposizione, cerca di mantenersi in vita. Il tutto, come detto, inserito nel momento e nell’epoca storica, anche ben documentata e di piacevole inserimento nel contesto. Che in realtà, è vero che il principe di Galles si recò a Madrid per cercare di sbloccare la situazione di un suo possibile matrimonio con l’Infanta di Spagna. E che il duca di Olivares, in pratica reggente del giovane re Filippo, si opponeva al matrimonio, in quanto ritenuti eretici gli anglicani inglesi. Nella realtà, poi, dopo alcuni mesi di traccheggio, il principe inglese tornerà in patria senza la moglie spagnola, ma, dopo poco, sposerà l’erede al trono di Francia, instaurando alleanze che saranno deleterie per il futuro della Spagna stessa. Ma qui entriamo nella storia, invece di rimanere nel romanzo. Iñigo ci narra alcune vicende in cui Diego Alatriste sta per soccombere, ma da dove poi si salva, attraverso insperati aiuti dell’ultimo momento. Come quello dei due inglesi durante la rappresentazione della commedia “El Arenal de Sevilla” di Lope de Vega (che è una commedia reale, di cui ho trovato anche il testo nella Biblioteca Spagnola online). Alla fine ci sarà un redde rationem tra Alatriste ed il duca di Olivares, dove il nostro, negando di aver riconosciuto alcuno dei mandanti incappucciati, e forte delle raccomandazioni del principe Carlo, avrà salva la vita, nonché un piccolo appannaggio mensile (sempre utile per i mercenari squattrinati). La prima avventura di chiude così con i nostri protetti da una parte della nobiltà, ma rimasti sotto le mira di fra’ Boccanegra e del cattivo Gualtiero. Nelle more, inoltre, il giovane Iñigo fa in tempo ad invaghirsi di una ragazzina della buona società, che, come tutte le relazioni squilibrate, secondo lo stesso Iñigo, non porterà nulla di buona. Vedremo, se avremo voglia di leggere altro. anche se, rispetto a romanzetti e scritturine, la penna di Pérez-Reverte non mi dispiace. Un ultima chicca: per caratterizzare il nostro capitano, l’autore si rifà ad un cavaliere, semi-nascosto da un cavallo, presente nel grande quadro “La resa di Breda” dipinto da Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (tanto per non farci mancare altri stimoli ai nostri bistrattati neuroni).

Conclusioni


Non so, ma credo che le autrici si siano fatte fuorviare dalla tristezza presente nel titolo di molte delle storie suggerite a chi è molto triste (buongiorno tristezza, tre tristi tigri, triste solitario y final, capitano Alatriste, la ballata del caffè triste). Poiché non credo molto nell’omeopatia un po’ raccogliticcia (diverso il caso di quella seria e meditata), mi sembra che si dovesse affrontare la cura per chi è molto triste con qualcosa, non dico di comico, ma quanto meno di ironicamente stimolante. Mi sa questo mese i miei malati di libri rimarranno malati.