domenica 23 maggio 2021

Inghilterra vittoriana - 23 maggio 2021

Oggi, se guardate il riferimento, non abbiamo palindromi ma invece una sequenza numerica in salita. E la dedichiamo ad una scrittrice molto presente nella mia biblioteca, perché mi piacquero i suoi primi libri, e poi ne rimasi “attaccato”, anche quando non sempre gli stessi. Anne Perry ha dedicato la sua scrittura ad una molteplice massa di libri, e di scritture seriali. Io ne segue due, entrambe ambientate nell’Ottocento inglese: la prima con protagonista l’ispettore di polizia Thomas Pitt (che qui riprendiamo in una delle prime avventure), e la seconda con protagonista l’ispettore fluviale William Monk, ambientata una ventina di anni precedentemente alla prima. Purtroppo, una settimana di non eccelsa riuscita.

Anne Perry “Morte di uno sconosciuto” Mondadori euro 3,60 (in realtà, scontato a 1,50 euro)

[A: 28/01/2017– I: 10/09/2019 – T: 11/09/2019] - && --

[tit. or.: Death of a Stranger; ling. or.: inglese; pagine: 282; anno 2002]

MONK 13

Delle innumerevoli storie di Monk avevo letto dalla quindicesima alla diciannovesima. Ecco che il mio buon edicolante egiziano mi trova un vecchio “giallo”, così che mi tuffo nella lettura di un Monk prima di quelli di cui ho già tramato.

Ricordo che la nostra buona scrittrice di origini anglo-neozelandesi dopo una vita di cui ho parlato tanto tempo fa e su cui non ritorno, si dedica alla scrittura, trovando un suo filone di buona lettura ambientando le sue storie nell’età vittoriana. Da un lato c’è tutto il filone dell’ispettore Thomas Pitt, che abbiamo seguito in tante trame, e soprattutto nella sua ascesa nelle stanze del potere, in quelle storie ambientate maggiormente nella middle-upper class londinese. Dall’altro ci sono le storie di William Monk, che ho preso ad un certo punto, dove già il nostro protagonista è immerso nel suo “nuovo” lavoro nella polizia fluviale, sostenuto, fisicamente e moralmente, dall’innamoratissima moglie Hester, ex infermiera in Crimea, ed ora in quel di Londra, a cercare di utilizzare al meglio le sue capacità.

Essendo questo un balzo indietro, torniamo quasi alle prime mosse di Hester e William, con un mistery che, in qualche modo, ci porterà a sollevare qualche velo sul passato di Monk. Perché lui ebbe un incidente dove perse la memoria, e non ricorda nulla del prima. Tuttavia, per arrivare a questi passi, dobbiamo fare un po’ di cammino.

Hester ha aperto una clinica per prostitute a Leather Lane, e l’inizio si svolge proprio nei sordidi quartieri del malaffare. Da un lato c’è un aumento delle donne percosse e malmenate, con grossi sovraccarichi del lavoro di Hester. Dall’altro, contemporaneamente, Nolan Baltimore, un magnate delle ferrovie, trova una morte misteriosa in un bordello della zona. Aumentano i controlli, diminuiscono i clienti, e Monk viene contattato da una bella signorina che gli chiede di indagare se il suo fidanzato possa essere coinvolto in una truffa proprio nell’ambiente ferroviario del morto.

Iniziano quindi due indagini parallele; William che cerca di trovare risposte alla sua cliente, Hester che cerca di chiarire la morte di Baltimore, per far tornare la pace nel quartiere. Si affaccia poi come collaboratore in entrambe le inchieste, anche se con ruoli diversi, l’avvocato Oliver Rathbone, un tempo spasimante di Hester, ed ora, forse, preso da passione per una delle aiutanti della clinica.

Dalla parte di Baltimore, capiscono che il magnate era anche un porcello che investiva parte dei suoi guadagni nell’usura e nel finanziamento di bordelli. Tanto che Hester ed Oliver riescono ad incastrare l’aiutante di Baltimore in questi affari, il losco ma corretto (non onesto) Smokey (che noi già sappiamo dalle successive puntate che cosa farà, come già sappiamo la parabola dell’amore di Oliver ed anche della sua carriera nel foro londinese; e chi non mi ha letto, non glielo dico certo ora).

Quindi si mette a posto una parte del problema, anche se Hester non capisce chi abbia ucciso Nelson. L’altra parte si ingarbuglia sempre più. Il fidanzato della bella non sembra coinvolto, anzi a volte non sembra neanche fidanzato. William comincia ad addentrarsi in posti dove è visto sempre più in modo ostile, tanto che si domanda (e noi con lui) che cosa ci sia dietro. Il tutto per arrivare alla morte della bella signorina, della quale si incolpano prima Monk, poi, scagionato per altri motivi, il finto fidanzato. Alla fine, la matassa si dipana con una serie di colpi di scena, in cui la Perry sfoggia le sue capacità di portarci nelle aule dei tribunali e di sviscerare il bene ed il male dell’ordine giudiziario anglosassone.

Monk ha uno sprazzo di luce sul suo passato, quando scopre che la compagnia ferroviaria è la stessa dove lavorava il suo mentore dieci anni prima, ed è la stessa che fu coinvolta nel deragliamento di un treno in cui persero la vita molti bambini. Nonché scopre che la signorina morta di cui ora si cerca di scoprire come e perché era figlia di uno dei responsabili dell’allora linea ferroviaria, andato in rovina in seguito all’incidente. E forse con un piccolo aiuto di Monk, che, aiutato dal colpevole mentore, riuscì a salvare molte capre e qualche cavolo di quel disastro, anche mandando in rovina diverse persone.

In fondo, si è trattato di un gigantesco tentativo di rivincita e di vendetta, nato però da una serie di coincidenze talmente casuali da essere quasi probabili. Certo, ed è un peccato che la Perry reiterata in molti suoi scritti, la parte finale è sempre troppo affrettata, ed alcuni colpi di scena rimangono tali, in modo che il lettore viene solo sorpreso ma non riesce ad essere coinvolto. E questo non è un bene in un giallo che si rispetti.

Rimane l’ambiente, rimangono i personaggi carini. Soprattutto Hester, sempre un elemento positivo, senza ombre. Ombre che invece, spesso, oscurano il comportamento di Monk. È vero che ha un passato ignoto, ma non per questo deve essere sempre cupo. Anche la Perry non scherza nel mascherare il suo passato, ma noi la pensiamo più serena, ora che scrive con continuità, e che ha da poco superato gli ottantuno anni d’età (essendo del 28 ottobre del ’38). Avrei dovuto parlare anche dei freni del treno, ma non ho voglia di continuare questa trama.

“In passato … figurarsi se avesse permesso a un’altra persona di diventare tanto importante da rendere felice o rovinargli la vita con la sua sola presenza.” (8)

Anne Perry “Sangue sul fiume” Mondadori euro 5,90

[A: 21/02/2017– I: 12/09/2019 – T: 14/09/2019] - &&

[tit. or.: Blood on the Water; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 2014]

MONK 20

Dopo il salto all’indietro, che ci ha fatto scoprire qualche retroscena del passato dell’eroe della serie, con questo, invece, riprendiamo il filo delle avventure, che avevamo lasciato alla diciannovesima.

Ormai sappiamo che Monk, il nostro personaggio principale, ha una storia complicata alle spalle. Figlio di un pescatore, preso a benvolere da un banchiere, da lui poi aiutato in un difficile momento (come abbiamo appena visto), in seguito ad un incidente perde la memoria. Aiutato (ma non ne abbiamo ancora letto nei meandri del passato) dalla bella Hester che poi diverrà sua moglie, si riprende e si arruola in polizia. Entrato in urto con le gerarchie, viene anche licenziato, per poi riprendere l’attività investigativa come dirigente della polizia fluviale. Ed in questa veste lo troviamo al centro di questa fiammeggiante trama.

Ovvio il giuoco di parole, che la storia comincia con un grande botto sul Tamigi. Mentre è di pattuglia, vede saltare in aria una barca dove è in atto un party, la vede colare a picco, e si ritrova con un paio di centinaia di morti senza motivazioni apparenti. Ricordo che, temporalmente, siamo nel pieno dell’era Vittoriana, intorno al 1860, data corroborata dal fatto che una parte delle indagini fa riferimento al costruendo Canale di Suez (iniziato nel 1859 ed inaugurato dieci anni dopo).

E di quest’epoca la Perry, qui e nelle storie di Pitt, è magistralmente interprete, riuscendo a presentarci con esattezza e senza sbavature l’atmosfera dell’epoca. Ovviamente, come detto anche altrove, in questa serie più dalla parte dei poveri che degli aristocratici, anche se i secondi non mancano, essendo sempre un punto di transito nella narrazione dell’autrice un passaggio per le aule giudiziarie.

Tornando allo scoppio, l’indagine viene subito tolta a Monk per ragioni politiche, quando viene incolpato un egiziano, con l’idea che sia una vendetta proprio per la costruzione del Canale. Ma Monk non si tira indietro, e, egiziano malamente condannato, riprende le indagini. Aiutato dal solito contorno di comprimari. La moglie Hester, sempre al suo fianco. Il piccolo Scuff, da loro ormai adottato, che per l’occasione rispolvererà le sue conoscenze nei vicoli della sua infanzia. Dove, tra l’altro, verrà aiutato nelle indagini dal piccolo Worm, un altro trovatello, che non potrà trovare spazio nella famiglia Monk, ma verrà ben presto inglobato nelle persone che gravitano intorno alla clinica per non abbienti e prostitute che Hester ha inaugurato proprio nel volume appena letto (il tredicesimo episodio, ricordo).

Scavando nel fiume, non nel senso letterale, ma andando alla ricerca di testimonianze, anche a costo di mettere in pericolo la propria vita, e scavando nella sua memoria, dove, al fine, riesce a ricostruire gli attimi prima della tragedia, Monk ha una serie di suggerimenti ed illuminazioni. Intanto, proprio in direzione dell’Egitto, ma non del fantomatico colpevole della prima ora, ma di un prezzolato losco figuro, che più testimonianze inchiodano sul luogo dello scoppio. Non solo, ma anche sulle barche confondendosi con i presunti salvatori degli affogandi.

Il coro degli aiuti viene rimpolpato anche dal ritorno da una lunga vacanza all’estero di Sir Oliver, che ricordiamo dal diciannovesimo libro essere stato radiato dall’ordine per i motivi che potete leggere nella relativa trama. Ma che non si tira indietro nel dare una mano al Pubblico Ministero nel sostenere l’accusa, anche perché ha un conto in sospeso con il giudice incaricato del giudizio. Lo stesso che lo aveva, anche se giustamente, cacciato, ma che ha anche una giovane moglie per la quale Oliver ha un certo trasporto.

A questo punto la trama si congiunge, idealmente, con il ventitreesimo libro della serie di Thomas Pitt, dove si parlava di un massacro perpetrato in Egitto da militari inglesi. Lì era un’egiziana che, con le sue arti femminili, cercava di punire il colpevole della strage. Anche qui abbiamo un massacro, ma la diversità è che c’è un militare che potrebbe incolpare i veri colpevoli. Ovvio che il maggiore Stanley sia a bordo della nave esplosa, ed ovvio che il losco egizio è solo l’esecutore della strage. Chi sia il mandante lo scopriamo alla fine, con un piccolo colpo di scena, che sarà proprio Hester a svelarci.

Forse ne ho già svelato troppo, ma al solito, è molto il contorno di quanto si legge nei libri della Perry che ha una sua importanza. Il rapporto genitori-figli, anche qui sottolineato dal bel trasporto di William e Hester verso Scuff, ma anche da altro. Ed ovviamente il ruolo della giustizia, che segue il suo corso, ma che non sempre riesce ad essere giusta come si vorrebbe e come dovrebbe. Che spesso può essere manipolata. Insomma, sempre lì con i rapporti di forza tra i buoni (che sono sempre i nostri, sempre umani, quindi con anche delle ombre) ed i malvagi. Non dispiace il ritorno, anche se in modo defilato, di Sir Oliver, e seguiamo con apprensione la nascita di una sua possibile storia con la moglie del giudice. Ne vedremo delle belle credo.

“L’Italia … un luogo dove non ci si ferma mai abbastanza a lungo. Credo che la costa sia una delle più belle del mondo. Ma sono molte le attrattive che invitano a tronarci.” (182)

“A volte un difetto è più difficile da accettare quando lo scopriamo in qualcuno che conosciamo da sempre, specie se siamo responsabili per lui. … Tutti sono figli di qualcuno.” (268)

Anne Perry “I meandri della notte” Mondadori euro 5,90

[A: 05/10/2017– I: 25/10/2019 – T: 27/10/2019] - && -

[tit. or.: Corridors of the Night; ling. or.: inglese; pagine: 257; anno 2015]

MONK 21

Altro piccolo passo avanti nella saga pluriennale della famiglia Monk, del Tamigi e dell’Era Vittoriana, che la nostra scrittrice riesce a descriverci sempre con facilità di penna.

Qui, abbiamo due piccoli acuti, nel senso di due elementi che si diversificano dal resto della serie. C’è una piccola inchiesta su di un traffico di fucili trafugati e passati senza dazio attraverso dogane. Non è un punto particolarmente interessante della vicenda, ma serve alla Perry per far uscire di scena il sergente Orme che tanto aveva seguito del cammino di Monk, e per far modo che al nostro ispettore fluviale si affianchi il sergente Hooper. Il secondo, è che la scena è ben presto occupata senza possibilità di spostamento da Hester piuttosto che da William. Infatti, si comincia in un ospedale gestito dai fratelli Rand, uno medico l’altro chimico, avviati ad una sperimentazione sulla trasfusione del sangue.

Come sappiamo siamo intorno al 1860, e le prime trasfusioni umane di successo avvennero nel 1814 da parte dell’inglese dr. Blundell. Ma non si conoscevano due cose fondamentali: come congelare il sangue, in modo da poterlo utilizzare in modo differito (pratica scoperta solo nel 1913 negli Stati Uniti) e soprattutto la classificazione del gruppo sanguigno, scoperta dal biologo austriaco Karl Landsteiner solo nel 1901. Per cui le trasfusioni dovevano essere fatte al momento, cioè estratto il sangue e subito immesso nel paziente. Inoltre, intorno al 50% dei pazienti morivano dopo la trasfusione in seguito alle incompatibilità sanguigne.

La nostra infermiera, nonché gestrice della clinica per donne perdute, si trova a sostituire una sua amica nell’ospedale dei fratelli Rand, dove scopre la presenza di bimbi emaciati e in via di consunzione. Da qui si avvia una doppia indagine: chi sono e perché sono lì. La seconda direttamente condotta da Hester porta alla scoperta appunto delle pratiche trasfusionali, spinte all’eccesso perché questi bimbi sembrano avere un sangue che non provoca reazioni nei pazienti. Probabilmente, con le conoscenze attuali potrebbero essere dei donatori universali. Però, William scopre anche che i tre ragazzi sono stati venduti dai genitori, che ne avevano sei. Ma forse i genitori pensavano che sarebbero stati meglio.

Hester affronta a muso duro il biologo Rand, anche a fronte di un paziente, anziano e danaroso, che proprio la cura di sangue dei piccoli sta tirando fuori pericolo. Poiché le azioni di Hester mettono in pericolo le operazioni dei fratelli, il biologo decide di rapire lei, i bambini, il paziente e la figlia di questi, per poterli curare nella sua magione in campagna.

Anche qui si biforca l’azione e la scena. Da un lato i problemi medici e morali di Hester alle prese con la sua professione infermieristica. Dall’altra le ricerche di William per ritrovarla, che un rapimento è un rapimento. Per farla breve, alla fine, con l’aiuto di Scuff e del piccolo Worm, Hester ed i bambini vengono salvati.

Da qui, dopo la parte noir, la parte gialla, ed il medical thriller, la nostra poliedrica romanziera inzeppa anche un legal thriller. Che poi è uno dei suoi pallini, quello di mostrare la fallacità della giustizia, anche a fronte delle migliori intenzioni. Ovviamente, qui è il terreno per un ritorno sulla scena del nostro sir Oliver, non ancor reintegrato, e sempre più preso dall’idea di una futura relazione con la moglie del giudice che lo condannò alcuni libri fa, e che, dopo un ictus, versa in cattive condizioni di salute.

Non vi sto a dire come ed in base a quali cavilli legali, i fratelli Rand riescono a capovolgere il verdetto di rapimento ed altro. Ve ne lascio seguire le fila, per passare all’ultima parte dove Anne Perry si inventa due stratagemmi per portare comunque a compimento vendetta e giustizia. Infatti, viene trovata uccisa la figlia del paziente, e benché non si possa escludere che sia stato il padre per motivi oscuri a farla fuori, molti indizi puntano sul biologo che alla fine viene condannato, alla pena prevista all’epoca.

Senza biologo, e senza i ragazzi donatori, a fronte di una nuova crisi del paziente, il fratello medico, qui deontologicamente corretto, non può che usare il proprio sangue, sapendo comunque con quasi certezza che il paziente sarebbe morto. Così avviene e la giustizia o di dritto, tramite i tribunali, o di storto, tramite l’ospedale, avrà il suo trionfo.

Alla fine, un capitolo in minore, se non fosse per i personaggi storici della saga che ne escono rafforzati nella loro identità. Non William Monk, che ha già fatto grossi passi con tutta l’indagine sul suo passato colmo di amnesie. Ma Hester, anche se era già ben presente. Scuff che vorrebbe dedicare anche lui a professioni d’aiuto e comincia a fare da assistente ad un medico di base (anche se non è questa la sua qualifica, ma a me ricorda tanto il mio amico e medico Emilio). Per finire con il da poco entrato piccolo Worm e con il da poco ritornato Sir Oliver. Aspettiamo pazientemente che arrivi il futuro.

“Pensare a quanta della sua felicità fosse legata alla [sua] presenza, al suo amore, alla sua fede in lui, lo spaventava.” (125)

“Era diventato un uomo migliore per essere all’altezza di ciò che lei aveva visto in lui, e che lui stesso non era stato capace di scorgere.” (126)

Anne Perry “Scandalo a Cardington Crescent” Mondadori euro 2,50 (in realtà, scontato a 0,50 come usato)

[A: 12/01/2021 – I: 15/05/2021 – T: 17/05/2021] - && e ½

[tit. or.: Cardington Crescent; ling. or.: inglese; pagine: 212; anno 1987]

PITT 08

Ho aspettato due anni il futuro, ed invece c’è stato un ritorno, alla grande, al passato, ed anche alla serie primaria di Anne Perry. Dal mio amico giornalaio egiziano ho, infatti, recuperato un vecchio “Giallo Mondadori” (usato ma non troppo), relativo ad una delle prime avventure di Thomas Pitt nella Londra successiva al 1880 (il primo libro si apre con la morte di Benjamin Disraeli nel 1881, qui un appunto di un poliziotto colloca l’inizio delle indagini al giugno 1887). Quindi, prima di continuare a leggere altre avventure di Monk (come quelle di cui sopra), ed anche perché sono passati quasi venti mesi dall’ultima lettura, ho preferito fare un doppio balzo all’indietro, leggere questo libro, e ripartire dai cicli della nostra scrittrice di lunga serie. Anche perché sono ben 22 i suoi libri presenti nella mia biblioteca (sempre pochi, rispetto ai 60 che costituiscono il corpo delle due serie da lei iniziate alla fine degli anni ’70).

Come usuale in quasi tutte le traduzioni italiane (ripeto anche se ne ho già parlato), i grandi strateghi di marketing al titolo originale, che, come ad uso della scrittrice, si riferisce ad un luogo della Londra vittoriana, aggiungono un qualche aggettivo, tanto per “attirare” il pubblico. Così qui abbiamo questo “scandalo” che non si comprende cosa dovrebbe qualificare.

Ma scandali a parte, qui siamo tornati molto indietro nelle storie di Pitt, lo vediamo non dico alle prime armi, ma ancora nelle indagini sul campo. Indagini duplice, anche se la doppiezza si capisce e compone solo alla fine. La parte esile è la scoperta di un corpo femminile, diviso in pezzi, nascosto in scatole e sparso nei dintorni di un cimitero.

La parte corposa, che dà modo alla scrittrice di esibirsi in questo bel campionario di descrizioni della Londra vittoriana, ruota intorno alla morte di Lord George Ashworth. Abbiamo così l’aggio di entrare nella cerchia originaria del mondo di Thomas Pitt, il nostro ispettore.

Che George è sposato con Emily, la quale nasce Ellison, e quindi sappiamo essere la sorella di Charlotte, che è la moglie di Pitt. Con questo contraltare: Charlotte fa un matrimonio al di sotto del suo rango, per amore, ed Emily, sempre per amore, lo fa al di sopra. George ed Emily erano stati invitati a casa della famiglia March, dove fanno il bello ed il cattivo tempo la matriarca, donna Lavinia, e suo figlio Eustace. Invitati in quanto George è un cugino, essendo presente quella che diventerà uno dei personaggi più divertenti della serie Lady Vespasia Cumming-Gould, prozia di George e parente della defunta moglie di Eustace.

Tutto, o molto, ruota intorno proprio ai matrimoni ed all’atteggiamento verso le donne. A casa March, sono infatti presenti anche William, il figlio di Eustace, con la moglie Sybilla, e Anastasia detta Tassie, l’unica figlia di Eustace non ancora sposata. Nonché, invitato perché lo si vuole accasare con Tassie, Jack Ridley, squattrinato ma con legami di sangue utili ai March.

Le donne, in quegli anni (ma Anne Perry sottende che le cose non cambino di tanto, lei che scrive a cento anni dagli avvenimenti) non studiano, non votano, stanno a casa e fanno figli. Al massimo possono fare le civettuole con gli uomini. I quali, al contrario, hanno tutti i diritti, compreso quello di svagarsi con le donne (quali esse siano) e poi tornare a “governare il mondo”. Così Eustace ossessiona William fino a che Sybilla non rimane incinta.

Ma il ménage ai March è funesto: George fa lo svenevole con Sybilla, così che Emily fa la civetta con Jack. Ovvio che ci scappa il morto: George. E la famiglia Pitt deve correre ai ripari per salvare Emily dalle accuse. Che potrebbe aver ucciso George per vendetta. O potrebbe essere stato Jack, così da prendere in un colpo solo Emily e i soldi. O William, che non sopporta di essere tradito. O Eustace, che è ossessionato dal comportamento femminile di Sybilla, e non vuole che sia minato l’ordine secolare di casa March.

La Perry, con una giusta dose di sapiente scrittura, anche se bisogna dire, leggermente datata, ci porta a spasso in questa casa alto borghese, con i suoi pranzi che ruotano intorno a silenzi e cattiverie. Pitt ha difficoltà ad entrare in quel mondo, lui figlio di un guardiacaccia. Meglio allora si muove Charlotte, che da quel mondo viene, e che, seppur a fatica, scopre gli altarini, veri o presunti. Scopre i segreti di Eustace. Scopre che Tessie, di notte, aiuta giovani donne a partorire, insieme al curato Mungo. Scopre, quando anche Sybilla viene uccise, alcuni libricini da lei nascosti.

Sarà lì che Pitt troverà un filo, questo sì legato al suo mondo. Che lo porta ad un rigattiere, e da questi ad una mezzana un po’ Fagin di Oliver Twist ed un po’ praticona e sfruttatrice di giovani donne. Una mezzana che si guadagna la vita anche con la compravendita di bambini.

Quando il patologo rivela (ma già si intuiva da tempo) che Sybilla non era incinta, come nei giochi della Settimana Enigmistica, tutti i puntini si ricongiungono. E le due indagini, anch’esse riavvicinatesi, giungono entrambe alla loro giusta conclusione.

Come detto, e come negli altri libri, Perry fa un ottimo lavoro nel ricreare le atmosfere vittoriane, fa un buon lavoro verso alcuni caratteri (ed io adoro Vespasia), ed altrettanto bene delinea le indoli cattive e vendicative delle persone. Meno nel giallo in sé, prevedibile ed in alcuni punti non sempre spiegato come un giallo dovrebbe.

Una lettura di passaggio, tanto per riposarci verso più ardui pensieri.

“Svegliarsi durante la notte e sapere sempre che … era lì accanto a lui era una delle certezze più dolci della sua vita.” (58)

Come i miei affezionati lettori sanno, la quarta settimana del mese è dedicata ad un riposo di allegati ed altri addendi. Rimane solo qualche rimando a ricordi che rimbalzano nella memoria.  Come questi che risalgono sempre al maggio del 2007, estratti da “Il maestro della testa sfondata” un interessante giallo uscito dalla penna di Hans Tuzzi. Plurale che rimanda il primo ad una situazione che sentivo mia in gioventù: “Gli pareva sempre di non saper trovare ciò che bisognava dire, ... aveva appreso tuttavia che parlare era sempre meglio che tacere”. Il secondo invece dalle esperienze dei miei innumerevoli viaggi: “non è facile assortire una buona compagnia quando si viaggia, e quando se ne trova una, ci pensa il Tempo a portarsela via”.

Siamo già verso la fine di maggio, mese di rose, di fioretti e di compleanni. Ma poiché non si fanno mai auguri anticipati, rivolgo solo un pensiero alla dopo trascorsa festa tonda del mio amico Nino. 

domenica 16 maggio 2021

Alcuni giganti - 16 maggio 2021

In un giorno in cui si celebra una trama palindroma “a coppie”, ci accingiamo a parlare di alcuni giganti delle mie letture. Il primo, spagnolo, lo ricordavo per alcune letture demenziali in gioventù, ma che qui assurge alla grandezza del ricordo del nostro ultimo Natale di gruppo in famiglia. Degli altri basta ricordare i nomi: l’ebreo Wiesel che sempre tiene aperta la memoria dell’Olocausto, l’olandese Nooteboom, con il suo sguardo giornalistico sul mondo, lo svizzero Dürrenmatt attaccato ai suoi miti. Tutte e tre letture molto superiori alla media.

Eduardo Mendoza “Città sospesa” Dea Planeta s.p. (Natale degli Ossicini)

[A: 25/12/2019 – I: 10/11/2020 – T: 12/11/2020] - && --

[tit. or.: Riña de Gatos. Madrid 1936; ling. or.: spagnolo; pagine: 473; anno 2010]

Devo dire che sono abbastanza dispiaciuto di e per questo libro, entrato or quasi un anno nell’ultima riunione conviviale di noi cugini, per un Natale che chissà quando si rifarà.

Dispiaciuto che il titolo porta a idee balsane, mentre l’originale era più preciso e calzante, come ovvio. “Un combattimento tra gatti. Madrid 1936”. Che Madrid all’epoca fosse una città sospesa è dir ben poco di quello che succedeva colà, soprattutto nel periodo in cui Mendoza fa svolgere i fatti: marzo 1936. E ci torneremo su. Poi né in copertina né all’interno viene aggiunto l’accenno a Madrid, che almeno avrebbe indirizzato i pensieri su qualche binario possibile.

Infine, di Mendoza ho letto altro, come “La verità sul caso Savolta”, che avevo trovato interessante e ben congeniato. Qui, si cerca di combinare fiction e realtà, con risultati scarsi. Che la fiction non prende, e la realtà, se non si conosce a fondo la storia spagnola, rimane assai sospesa. Anche se, è bene dirlo, il mestiere di Mendoza lo porta ad attraversare le quasi cinquecento pagine senza che ci siano grosse sbavature nella tensione narrativa, ed apportando piccoli sassi di conoscenza (o di interpretazione) al turbolento periodo storico in cui posiziona la storia.

In sé, la storia potrebbe essere semplice. Un critico d’arte inglese, Anthony Whitelands, esperto di Velasquez e della pittura spagnola del Seicento, viene invitato a stimare una collezione privata. Ben presto, però, cadono i veli, e Anthony scopre che lo scopo è di valutare un dipinto ignoto attribuibile a Velasquez, la cui vendita, se si accerta l’autenticità, servirebbe a comperare armi per il sostegno ad un piccolo ma agguerrito movimento politico, la Falange Española. Il movimento è guidato da José Antonio Primo de Rivera y Sáenz de Heredia marchese di Estella, figlio del dittatore Manuel Primo de Rivera che governò la Spagna intorno al 1930. José Antonio è anche amico del possessore del quadro, nonché innamorato della di lui figlia Paquita.

Capite bene che se inseriamo questo quadro nel periodo temporale (che lo stesso Mendoza indica come inizio del romanzo: 4 marzo 1936) abbiamo una miscela potenzialmente esplosiva. Da qui il tentativo dell’autore di creare una fiction su episodi reali, di modo che seguiamo una narrativa a binario doppio: da un lato Anthony e le traversie umane e relazionali legate all’autenticazione del quadro e dall’altro l’evolversi ed il precipitare della situazione politica.

Anthony si accompagna un po’ con tutti: il misterioso Higino che lo porta al bordello, gli vuole appioppare la simpatica Tonina per salvarla, legato sia ai Servizi sovietici che a quelli inglesi; la famiglia di Paquita, con il padre legato alla Falange ed in contatto con i generali golpisti, la madre invece più vicina ai lealisti, i figli coinvolti da José Antonio nella Falange, la sorellina Lilì che vuole crescere e la stessa Paquita, tentennante tra José Antonio e lo stesso Anthony; l’ambasciata inglese che, pur professandosi neutrale, non vede di buon occhio i possibili fermenti repubblicani (temendo un’avanzata del comunismo); gli esperti d’arte, divisi sull’attribuzione del quadro.

Piccola parentesi, le disquisizioni di Anthony su Velasquez, sui suoi quadri, e sulle vicende seicentesche sono forse le più interessanti e ben riuscite parti del libro. In particolare, ma non ci torno poi sopra, l’analisi del quadro “Venere e Cupido”, il primo quadro spagnolo che rappresenta un nudo femminile (il secondo e solo altro esemplare sarà la “Maya desnuda” di Goya).

Tutta la vicenda fiction si evolverà su binari abbastanza normali, senza troppi colpi di scena (anche se ce ne sono), che porteranno amori, avvicinamenti e allontanamenti, agnizioni e scomparse definitive (che sappiamo non esservi alcun Velasquez nascosto). Lasciandoci anche un bel po’ di nervosismo, verso Anthony che non ha mai uno scatto in avanti, sempre travolto ed inseguito dagli avvenimenti esterni.

Il binario politico doveva di converso essere quello che poteva dare uno spessore al libro. Purtroppo, Mendoza non affonda il coltello nelle piaghe. Inoltre, molti avvenimenti vengono citati e dati per scontati, ma chi non conosce a fondo la storia spagnola ne rimane spettatore poco coinvolto. Si parla della Falange, dei suoi tentativi velleitari, del bel José Antonio che affascina le folle con la sua parlantina, ma non coinvolge i centri di potere. Falange che riamane una piccola spina nel corpo politico, invasa da tutti. Tanto che il 14 marzo (anche ultimo giorno della narrazione) viene dichiarato fuorilegge e José Antonio arrestato. Sarà poi processato, e fucilato il 20 novembre 1936. Intanto, nel luglio Francisco Franco lancia la rivolta che innescherà la lunga Guerra Civile. Tutto ciò è immerso nel racconto, ma quasi a mo’ di notizie collaterali, quando forse, ed il titolo originale ne adombra l’idea, fosse questo il vero asse portante del romanzo. Un combattimento tra gatti, con teatro la bella città di Madrid.

Purtroppo, la parte politica non è così ben delineata come avrebbe potuto, lasciando spazio alla vicenda “fiction”. Troppo tiepidi i giudizi sui protagonisti del momento storico, poco esplicitate motivazioni ed atteggiamenti.

Un romanzo decente, ma non molto altro.

Elie Wiesel “La notte” Giuntina euro 12

[A: 01/11/2020 – I: 04/12/2020 – T: 06/12/2020] - &&&&

[tit. or.: La Nuit; ling. or.: francese; pagine: 112; anno 1958]

Eliezer (detto Elie) Wiesel è stato un eminente scrittore, nonché uomo di pace, come certifica l’omonimo Nobel conferitogli nel 1986. È stato anche un esponente ebraico, deportato nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiali. Esperienze cui è sopravvissuto, cui in seguito ha dedicato tutta la vita, per capirla, e per trovare le modalità di non farla ripetere più. Benché poi parlasse molte lingue (yiddish, che parlava in casa, tedesco, rumeno e ungherese, che parlava nel territorio natale, inglese e francese, appresi dopo la guerra) ha scritto quasi interamente la sua opera letteraria in francese.

Fatto questo cappello introduttivo, veniamo al primo passo di ricordo legato a questo libro. Perché, nelle mie liste, è infatti classificato come libro di viaggio. Infatti, nell’ottobre di questo infausto 2020, per sfuggire a nove mesi di lockdown, abbiamo deciso con Ale di fare una fuga di sette giorni in Polonia. Visita difficile, vista l’emergenza covid, ma proficua per mille ragioni che non sto qui ad elencare, ma una è legata a questo libro.

Nonostante le mie diverse peregrinazioni nel Nord Europa, non avevo, per scelta personale legata a dolorosi ricordi familiari, voluto mai addentrarmi in un campo di concentramento. Qui, invece, Ale mi ha spinto (e le sono infinitamente grato) a visitare Auschwitz (o meglio Oswiecim come è detto in polacco). Una visita intensa, che in effetti, tutti dovrebbero fare, e dalla quale sono uscito con questo libro, dove, per ricordo, mi sono anche fatto mettere il timbro locale: ho visitato il campo di sterminio il 30 ottobre 2020.

Il testo di Wiesel è breve ma di una intensità assoluta. Con una prosa scarna, ne seguiamo la vita in quegli anni fondamentali introno ai suoi sedici anni. Nato e vissuto a Seghet, cittadina rumena al confine tra Romania, Ucraina e Ungheria, in seguito alle occupazioni germaniche, diviene feudo tedesco. Per cui, nel ’44 la fiorente comunità ebraica viene investita dalle leggi hitleriane di sterminio. Wiesel ci rappresenta, come altri, e come si racconta, dello spaesamento degli ebrei, presi in un vortice catastrofico di cui non intuiscono la portata.

Ci si poteva salvare? Si poteva forse fuggire? Un sentimento di ineluttabilità porta la famiglia Wiesel e la comunità locale ad aspettare. Così che nell’aprile di quell’anno fatale, tutti vengono prima rinchiusi nel ghetto, poi deportati con i treni della morte verso Auschwitz. Lì troveranno la morte la madre e la sorellina di Wiesel. Lui rimarrà con il padre, e con lui attraverserà tutti gli orrori dei vari campi. Ho visto anch’io il terminale di quel treno che arriva ad Auschwitz. Ed ho presente nella mente tutte le strutture descritte dall’autore. E tutti i tormenti che gli ebrei soprattutto, ma anche comunisti, omosessuali, dissidenti e rom, hanno subito lì.

E poi gli spostamenti, tra Auschwitz, Birkenau, Monowitz, per poi terminare la loro odissea a Buchenwald. Dove Shlomo Wiesel non resisterà più agli stenti, morendo nel gennaio del ’45. Elie sarà invece liberato dall’Armata Rossa nell’aprile. Una liberazione con cui si chiude questa “Notte”. Una notte che però rimarrà per sempre nel cuore e nella mente dell’autore. Elie era avviato agli studi talmudici e di teologia ebraica. Quest’esperienza porrà nella sua mente (ed in quella di molti altri) il dubbio estremo. Perché Dio ha permesso tutto ciò? Forse perché non c’è nessun Dio cui chiedere aiuto? Cui domandare pietà? Noi capiamo con la testa l’orrore che si è perpetrato in quegli anni, ma credo che nessuno, se non chi l’ha vissuto, possa mai capirne realmente la portata.

La grande umanità di Wiesel l’ha portato negli anni a battersi, sempre, ovunque e comunque, per la pace tra i popoli (testimoniata dal Nobel di cui sopra), ma nelle sue parole non vedo mai, e qui ce n’è un esempio grandioso, nessuna possibilità di comprensione verso chi questi orrori non solo li ha ipotizzati, ma li ha messi in pratica, con crudeltà e ferocia.

Ripeto, la prosa asciutta e concentrata di Wiesel ci rende questi orrori ancora più feroci se ci fossero stigmatizzazioni testuali. Si descrive, e la descrizione è talmente puntuale che non c’è bisogno di altro.

Un libro da leggere, insieme a tutti quelli di Primo Levi. Ed un luogo, Auschwitz, che tutti dovrebbero andare a visitare. 

Cees Nooteboom “Addio – Poesia al tempo del virus” Iperborea euro 11 (consigliato da Robinson)

[A: 05/01/2021 – I: 20/01/2021 – T: 20/01/2021] - &&&&

[tit. or.: Afscheid – Gedicht uit de tijd van het virus; ling. or.: nederlandese; pagine: 92; anno 2020]

Da qualche settimana cerco di inserire delle novità, attingendo dalle proposte del settimanale “Robinson” del Gruppo Repubblica. La prima di quest’anno viene da uno scrittore del “nord”, anche se in realtà non è scandinavo ma olandese. E che già ho seguito in altre e brillanti prove. Che Nooteboom è poliedrico ed affascinante, sempre piacevolmente da leggere, e sempre portatore di qualche messaggio che arriva dentro, nonostante o forse anche perché vicino ai novanta anni. Ma sulla sua storia personale non ritorno, che già ne dissi. Rammento solo che, oltre che narratore, è stato un grande viaggiatore, e spesso ha utilizzato la poesia per esprimersi. Come in questo caso.

Certo, devo anche sottolineare la mia difficoltà, non essendo un attento lettore di versi, ed avendo a volte una sensazione di respingimento che non so spiegare. Questa breve raccolta di versi onirici e rimandanti ad altro, anche a situazioni personali di cui non so, mi ha lasciato da un lato spiazzato, ma dall’altro mi sono lasciato andare alle parole, alla loro concatenazione, ai piccoli messaggi (personali) che trapelano da alcune righe sparse. Con un risultato finale di sicuro ed inaspettato gradimento.

Non tragga in inganno il sottotitolo (che sul titolo torneremo poi). Non si tratta di una raccolta di versi tesa a sottolineare il momento in cui viviamo. Si tratta di poesia che, incidentalmente, viene scritta in un periodo che nel mondo è caratterizzato dalla presenza costante del Covid-19. E che Cees trascorre prima nel suo rifugio di Minorca, tra le sue amate piante del giardino, poi nella quarantena passata a Hofgut Missen, in Germania, a nord del lago di Costanza.

Anche il titolo non sottolinea congedi, non fa riferimento ad un altro suo libro che prima o poi troverò voglia di leggere (“Tumbas. Tombe di poeti e pensatori”), ma, come sottolinea l’ottima postfazione di Andrea Bajani, è un muro, ultimo baluardo di un qualcosa al di là del quale c’è, forse, l’inesprimibile. Queste sono poesie, 33 esattamente (come i canti della “Divina Commedia”), sonetti espressi in quartine, con un ultimo verso volante e solitario. Divagazioni mentali sulle cose che sono e su quelle che noi comprendiamo siano (o possano essere).

C’è un inizio, in cui il poeta si pone davanti alla natura, ne sottolinea mutamenti e rimanenze. Per chi ne sa di lui, si notano i suoi cactus amatissimi del suo giardino di Minora, i fichi (ah, quanto ne vorrei), ma anche il passaggio delle oche del vicino. Passano nomi, suoni, rumori, silenzi, come se fosse pittura e musica, più che parola dal corto passo. L’uomo, evolvendosi caduco, rimane immobile nella sua corta esistenza, mentre la natura continua a muoversi in modo costante e senza poter essere fermata.

E le 33 poesie sono a loro volta divise in tre parti, quasi che Cees volesse raccontarci del presente, volesse ricordarci visioni del passato, e cercasse una comprensione per le aspettative del futuro. Ecco che ci rimanda anche della guerra, delle sofferenze patite, del non sempre risolto rapporto con il padre (anche per la di lui precoce morte).

Ma poi forti e per me meglio assonanti, arrivano le quartine dell’ultima parte del testo, dove il poeta fa trasparire il vagabondare che ha caratterizzato tutta la sua vita. Tante le strade percorse, tante le esperienze accumulate, forse a tutto ciò agganciata un’idea di saggezza, quella che ognuno pensa di portarsi appreso dopo aver visto, fatto e vissuto tante cose. E pur tuttavia, nella vita sua (e di noi, con lui mortali) non può che rimanere solitudine, confusione dubbi. Vede amici e conoscenti sparire ad uno ad uno (“e tutti mi hanno detto addio … sono scomparsi come spettri, ognuno solo con sé stesso” pagina 67).

Sono versi pieni di tante cose: solitudine, dubbi, disperazione, abbondoni e incomprensioni. Pur tuttavia, a me, alla fine, danno anche un senso diverso. Un senso, comunque, di una persona che ha fatto tanto, che ha accumulato tanto, e che chiosando come l’ultimo verso che riporto, mi dice: sì, ho vissuto.

Una lettura, amici miei, che va fatte diverse volte, prima di poterla lasciare.

“Quante vite stanno in una vita?” (39)

“Tante strade / ho percorso, sempre in cerca di qualcosa / che doveva trovarsi più lontano.” (75)

Friedrich Dürrenmatt “Minotauro” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 9,30 euro e consigliato da Robinson)

[A: 10/04/2021 – I: 22/04/2021 – T: 23/04/2021] - &&&& --

[tit. or.: Minotaurus. Eine Ballade; ling. or.: tedesco; pagine: 78; anno 1985]

Un bel libro, estremamente corto, se vogliamo, ed assai complicato, nella struttura e nella realizzazione. Come ben leggiamo nelle note di traduzione di Donata Berra. Per i cultori delle lingue, poi, è previsto il mirabile testo a fronte, che mi ha fatto piacere visivo scorgere, ma di cui non ho capito una parola essendo in quella lingua a me oscura che è il tedesco.

Dal titolo originale, poi, sappiamo che è definita “una ballata”, laddove questa precisazione sparisce nella titolatura italiana. Fortunatamente, appunto le note di Barra ci riportano quale sia la struttura, e quale siano state le difficoltà nel tradurre. Perché, in effetti, è una poesia, il cui metro (se fossimo germanisti e adusi all’individuazione degli accenti) è la “pentapodia giambica”, un verso con cinque accenti sulla prima sillaba, usato da Sofocle ed Euripide, ripreso poi dai “Racconti di Canterbury” di Chaucer, nonché nel “Don Carlos” di Schiller. Laddove quest’ultimo utilizzo ne ha fatto il verso principe del teatro classico tedesco.

La bella confezione adelphiana è infine impreziosita dalla riproduzione di alcuni acquarelli dedicati al Minotauro di mano dello stesso Dürrenmatt.

Allora, tolte le sovrastrutture, la confezione, veniamo allora ai contenuti. Dürrenmatt non si discosta di certo dalla trama ufficiale e consolidata della storia. C’è il Minotauro, corpo di uomo e testa di toro, nato dall’unione contro natura di Pasifae, regina di Creta, e del Toro di Creta, regalo di Poseidone a Minosse, re dell’isola. Il “mostro” viene tenuto segregato in una costruzione apposita, pensata e realizzata da Dedalo, uno dei più grandi architetti ed inventori dell’epoca. Per inciso, Dedalo si era rifugiato a Creta in quanto ricercato per aver ucciso il suo aiutante Calo, geloso che lo stesse per superare in maestria. Ma questa è un’altra seppur intrigante storia. Come intrigante è la parte riguardante i sacrifici umani. C’era infatti Androgeo, altro figlio di Minosse, un atleta invincibile. Durante giochi olimpici organizzati da Egeo di Atene (il padre di Teseo), gelosi della sua bravura, altri atleti lo uccisero. Minosse muove guerra a Egeo, lo sconfigge e chiede il tributo di sette fanciulli e sette fanciulle da inviare a Creta ogni nove anni, per fornire carne umana al Minotauro. Dopo alcuni anni, Teseo si adombra, e chiede di essere inserito nella fornitura al fine di uccidere il mostro. Non avrebbe molte chance, se nonché, arrivato nell’isola, si innamora, ricambiato, di un’altra figlia di Minosse e Pasifae (quindi anche sorellastra del Minotauro), Arianna. La quale gli fornisce il famoso filo per uscire dal labirinto. Teseo compie la sua missione, ma quello che accade dopo è materia di altri miti.

L’idea forte di Dürrenmatt è di ribaltare il mito, facendo del Minotauro una vittima “malgré soi”. Non ha chiesto lui di nascere, non è diventato così perché è “un mostro”. Anzi, non sa di esserlo, la sua coscienza gli dice solo che è lì solitario in un luogo che non conosce. Un luogo dove entrano periodicamente cose diverse da lui. Vittima del “profumo sessuale”, cerca accoppiamenti che non potranno avvenire, e che portano a mucchi di carne ed ossa, dove, prevalendo la sua natura animale, non può che utilizzarle per sostentarsi.

La seconda idea è di fare del labirinto una costruzione tappezzata di specchi. Per cui, non solo non si trova l’uscita, ma il proprio sé è moltiplicato all’infinito. Il grande svizzero ci fa toccare con il cervello la paura, la irrealtà che pervade il Minotauro che vede esseri “strani” moltiplicarsi all’infinito. E muovere la sinistra quando lui muove la destra.

Sarà solo vedendo una di queste figure che invece si muove in sincrono, destra con destra, che capisce di vedere un altro da sé. Perché qui Teseo si è mascherato da Minotauro. E come in quasi tutte le lotte tra uomo e toro, sarà Teseo ad avere la meglio. Forte e invincibile nel fisico, il Minotauro mostra la sua innocente vulnerabilità nell’incapacità di riconoscere la falsità e da questa viene sconfitto.

Dürrenmatt ovvio gioca sul rovesciamento, ma anche sulla metafora: il labirinto simboleggia il mondo spietato di cui siamo trappola (altrove troverà il modo di definire il mondo in cui viviamo “una polveriera in cui non è vietato fumare”). Quasi a ricordarci che il mostro che vive prigioniero per una sentenza che non sa e non conosce, in realtà è il noi stesso che attraversa la sua vita sperando di trovare scampo e amicizia, ma dove troverà l’unica cosa sicura per tutti: la morte.

È un autore duro e spietato, di una filosofia senza speranza (come in altre letture fatte, e come vedremo in altre future). Ma con quella dirittura morale che, sempre, deve guidare le nostre azioni. Un libro potente, difficile, ma di breve, intensa ed appagante lettura.

Siamo già alla terza trama, che ricordo non aver più conforto di libri felici, per cui ci si affida a citazioni e ricordi anche personali su molte passate letture (e riflessioni collegate).

Qui, per strapparvi un sorriso, vi riporto una frase tratta dal non eccelso libro di Nick Hornby “Non buttiamoci giù”: “come fa quella gente che deve prendere l’aereo, non so, una o due volte l’anno…”. Poiché mi conoscete bene, capite come non abbia smesso di ridere per alcuni minuti dopo averla letta.

Sarà quindi un buon augurio per i prossimi mesi, quello di poter riprendere aerei, che so, uno o due volte … al mese! Per ora, chiudendo questa trama mentre sto andando a prendere la prima dose del vaccino, mi accontento, una volta a settimana, di inviarvi tanti abbracci.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di maggio

Eccoci ancora con le mie bolle di memoria, dove ci mettiamo a guardare appunti e pensieri Riferite al periodo marzo – maggio 2007.

Il primo che mi torna alla memoria, agli inizi di quel marzo (di un anno mirabile che mi avrebbe portato fuori dal mondo del lavoro, con mia grande gioia), inciampai in Marco Belpoliti che nel bel saggio “Crolli” mi fece appunto riflettere sulle possibili strade del futuro, laddove non sarei stato, o laddove ci sarebbe stato un vuoto: “le opere degli artisti… ci obbligano a concepire l’assenza, a pensare che anch’essa è fatta di materia”.

A metà marzo, infilai una trilogia dedicata alla allora nascente fame dell’ispettrice Petra Delicado, nonché del suo aiutante Firmino Garzon. Dal primo libro trassi due frasi assolutamente autobiografiche: ovvio che la prima parlasse della mia bellezza, e la seconda di un possibile futuro. Stiamo parlando di Alicia Gimenez-Bartlett che in “Giorno da cani” prima dice: “La visione del bellissimo Juan riuscì a rasserenarmi. Come poteva uno andarsene in giro con due occhi verdi come quelli e far finta che tutto fosse normale?”. Poi si sofferma in un lungo rapporto di coppia: “Cosa voleva, un fidanzamento di dieci anni? – Pensavo solo che è difficile adattarsi ad un’altra persona quando non si è più giovanissimi”.

La seconda citazione della nostra amata scrittrice spagnola viene da “Messaggeri dell’oscurità”, dove l’unica diversità sta nel fatto che mi piace abbastanza viaggiare: “e lei è felice? Sono solo, non ho un amore, non sono ricco, non sono bello e neppure giovane. Eppure …. Ci sono giorni in cui sto da Dio: chiacchiero … litigo … lavoro… e poi mi piace mangiare … e mi piace abbastanza andare al mare” (ricordo che è un libro che ho letto nel2007).

Infine, abbiamo due lunghe frasi prese da “Morti di carta”. La prima rimanda ad un libro di Barnes che chi mi conosce sa qual è e quanto lo amo: “Di tutto quello che mi è successo nella vita, non ho capito nemmeno la metà”. La seconda, con la quale sono mediamente in accordo, cambia solo nel finale: se la notte non dormo, io leggo. “Certo che la solitudine mi pesa. In genere non ci penso … ma quando vado a letto a volte penso che potrei non svegliarmi. E allora penso che nessuno sentirebbe la mia mancanza. La mia morte non cambierebbe la vita di nessuno… allora di solito vado in cucina a mangiucchiare”.

Siamo sempre nel 2007, ricordo, e vi ricordo (e mi ricordo) che aprile non fu degno di note particolari. Non così maggio.

Cominciammo con i ricordi dei miei passi falsi giovanili, con Glenway Wescott che nel suo "Il falco pellegrino" mi ricorda: "Se hai poco giudizio ti innamori di chi non può assolutamente amarti".

Il secondo, portandomi verso la Scozia, che già sentivo d’amare prima di conoscerla, mi prefigurava momenti a venire (che ancora sono qui). Infatti, Bartholomew Gill ne "L'assassino ha letto Joyce?" sostiene: "non si chiedeva spesso se amasse sua moglie. Non l'avrebbe sposata se non l'avesse amata".

Un altro autore che ho sempre amato, pur nella sua scarna produzione, dovuta purtroppo ad una breve vita, è il marsigliese Jean-Claude Izzo. Qui, mi parla da uno dei suoi meno noti libri, e mi parla non solo delle storie di Marsiglia, ma del Mediterraneo, dove mi ricorda molti miei viaggi: "Se si riconosce che Beirut è latina, si capisce che Marsiglia è mediorientale". Una frase che si trova in "Aglio, menta e basilico".

Un diverso autore, di cui ho letto poco ma intensamente, fu Richard Yates. In queste sue “Undici solitudini”, prima dà vita alla mia angoscia: “nessuno avrebbe indovinato le ore di ansia, i giorni di preparazione strategica e tattica che quel preciso momento gli era costato”. Poi mi libera, con una contro spiegazione di tutto quello che si può fare nei momenti d’ansia: “Oggi non ho avuto tempo di scriverti una lettera breve, perciò ho dovuto scriverne una lunga”.

Anche Claudio Magris mi porta lontano, mi porta ai miei vagabondaggi, dove in "Un altro mare" descriveva un modo di andare e di stare altrove: "Si porta … una provvista di vecchi abiti così non occorrerà mai più comprarne altri. In casa niente orologi, solo una meridiana là fuori, infilzata nel muro grigiastro. Due sedie accanto al letto sono più che sufficienti per appoggiare i vestiti quando si va a dormire".

Poi, e lo sapete, le mie letture a volte si rivolgono a testi meno noti, a rivoli di ruscelli magari neanche troppo profondi. E tuttavia mi colpì questa dichiarazione d’amore di Pino Roveredo: "Io ho dalla mia una speranza che vince mille a zero sulla pazienza, così so e ho sempre saputo che un giorno … un giorno arriverà il tramonto e si siederà sopra il sole, ma in quel momento il sole si rifiuterà di scendere giù, giù in fondo al mare, allora succederà che ci sarà luce tutto il giorno, … e tu non sarai astratta come il sogno. Sarà un giorno senza numero, senza mese e senza anno, … Ci credi? Se sì, mandami a dire". Ovviamente, il libro si intitolava "Mandami a dire".

Finisco infine, con qualcosa legata al tempo ed allo stare. Un modo in cui mi riconosco in pieno. Così abbiamo Nicole Fabre che ne "La solitudine" ci presenta queste due immagini.

La prima legata allo stare, "vivere da soli significa davvero essere soli? Vivere da soli permette di rendere più profondi legami che a volte chi vive in coppia rischia di trascurare". La seconda al tempo: "a 50 anni [lui] si rende conto che il tempo è passato, che anche la sua gioventù è passata e che la sua libertà non è più così piacevole".

Finisco qua, che si sa maggio è mese di compleanni.