domenica 4 agosto 2019

La quinta non attrae - 04 agosto 2019


Peter Mayle “Chi ha rubato Cézanne” Corriere della Sera Arte 12 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 03/02/2019 – T: 05/02/2019] - && -  
[tit. or.: Cahsing Cézanne; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 1997]
Un altro nuovo libro della collana di Arte, anch’esso riuscito parzialmente. Conoscevo già l’autore, di cui lessi un libro sulla Provenza di cui sa praticamente tutto, regalo dell’amico Luciano. Ovviamente, se sai tutto della Provenza, non puoi non conoscere Cézanne. Che è uno dei miei pittori “cult”, tra l’altro. Mi aspettavo quindi un’immersione nelle atmosfere di lavanda, guardando il Mont Sainte-Victoire passeggiando per San-Paul-de-Vence. Invece mi trovo alle prese con un gialletto, per di più datato, con alcuni spunti interessanti, ma nel complesso discretamente floscio. Con un finale assolutamente troppo affrettato. Questo e l’inizio sono i due punti più mosci della confezione. L’inizio non in quanto testo, ma in quanto titolo. Che giustamente l’originale riporta “Inseguendo Cézanne”, che ha un suo senso, e che non ci fa deragliare dalle prime righe. Perché ponendolo con l’accento sul furto, addirittura senza il punto interrogativo, mi sembra che siamo proprio fuori strada. Il finale poi, con la fuga in motoscafo, ricorda, con tutte le modifiche del caso, la scena finale di “A qualcuno piace caldo”, con la fenomenale battuta “nobody's perfect”. Sul fronte proprio della parte artistica, non è che ci sia molto. Qualche battuta su Cézanne, sulla sua Provenza, su Aix-en-Provence, sul fatto che i suoi quadri non avevano successo (come per gran parte degli Impressionisti). Viene dato un po’ più spazio ai falsari, come questo olandese, che ricalca anche lui figure note (come Han van Meegeren gran copiatore di Vermeer), con notizie abbastanza scontate su come fare i falsi: cornici prese da quadri coevi, colori invecchiati, pennellate a memoria sulla scia delle originali. Infine, qualche piccola panoramica sul mondo dell’arte e sui grandi capitali che circolano. Sugli intermediatori che vanno alla ricerca di “scoop” un po’ ovunque, e lavorano sul filo del rasoio. Ci vuole poco a stare dalla parte dei buoni, come Cyrus Pine, o passare da quella dei cattivi, come il pessimo Holtz. Ed una volta passata la linea, l’avidità ed altro non ti permettono di tornare più indietro. Quindi, impressionisti, falsari e mercanti per fare da contorno ad una vicenda un po’ strampalata, nelle sue origini e nel suo svolgimento. Il protagonista è il fotografo André, anglo-francese, e questo è già un difficile connubio, che vive per riprendere interni ed altre cose patinate, in genere commissionate da Camilla, il deus ex-machina della rivista DQ, uno dei tanti fogli dediti alle foto di interni. Peccato che Camilla sia anche caduta nella rete di Holtz, suo amante, che le fa anche fotografare quadri su quadri nelle dimore ricche dei ricchi in giro per il mondo. Sempre alla ricerca di quadri da duplicare e/o falsificare. Nel corso di un piccolo reportage verso Cap Ferrat, André si imbatte in una casa che ha fotografato da dove vede uscire un Cézanne, che viene arrotolato e portato via da uno strano furgoncino. Ora, a parte che non si capisce perché qualcuno che faccia portare via una tela non la arrotili in casa, André parte subito in tromba decidendo che c’è del losco. Tanto che va a cercare il padrone di casa, in vacanza alle Bahamas. Persone con i nervi saldi avrebbero fatto passare tutto in silenzio, invece, il proprietario del quadro telefona a Holtz, perché tramite il losco figuro stava cercando di vendere il Cézanne sottobanco. E Holtz, invece di stare anche lui ad aspettare che passi il temporale, decide di mettere a soqquadro la casa di André. Ovvio che tutto ciò innesca la curiosità di André, anche perché, non contento, Holtz chiede a Camilla di fare terra bruciata intorno al fotografo. Ecco allora che André, tra l’altro in poche battute innamoratosi della sua segretaria Lucy detta Lulu, con lei comincia ad organizzare la controffensiva. Anche perché, appunto, si imbatte in un mercante buono, il Cyrus di cui sopra. Buono e moderatamente anche pieno di soldi. Abbiamo così i tre buoni contro i tre cattivi (che a Holtz e Camilla si aggiunge un sicario francese) che si affrontano avendo in mezzo il falsario ed il venditore fraudolento. Mayle non riesce a caratterizzare neanche il sicario che, maldestramente, fallisce due volte di far fuori i nostri. Il venditore, vista la cattiveria di Holtz, passa dalla parte dei buoni, che si salvano con quella scena sopra descritta. Ma come finiranno tutti è un mistero che si lascia alla mente del povero sbalestrato lettore. Che si aspettava quantomeno qualcosa di più sui quadri, e dove questo non fosse possibile, sulla vicenda e sul giallo. alla fine, ben poca cosa su tutto. Una scrittura onesta di un “pennivendolo” come direbbe Pennac senza alcuna offesa, che certo sa di scrittura ma non in questa prova. Peccato, al solito.
Klaus Modick “Concerto di una sera d’estate senza poeta” Corriere della Sera Arte 15 euro 7,90
[A: 27/10/2016 – I: 25/02/2019 – T: 07/03/2019] - && +
[tit. or.: Konzert Ohne Dichter; ling. or.: tedesco; pagine: 247; anno 2015]
Un libro che pone dei quesiti e stimola delle curiosità, ma che alla fine non riesce a convincermi del tutto. Per cui rimane nel limbo tra il famoso 5 ed il 6 dei miei anni liceali. L’idea, dicevo, è appunto stimolante. Perché entriamo nella genesi e nella realizzazione di un quadro simbolo dei primi anni del ‘900. Ne ho trovato traccia solo nella sezione francese di Wikipedia, mentre si trovano facilmente altre opere dell’autore nella più ampia (ma per me poco comprensibile) sezione tedesca. L’autore, appunto, è Heinrich Vogeler, uno degli iniziatori e maggiori esponenti dell’Art Nouveau nella pittura e dello Jugendstil nelle altre arti decorative. Il quadro, terminato nel 1905 dopo una gestazione di diversi anni, si intitola “Sommerabend” o anche detto “Das Konzert”. Il bravo Modick ne prende la mira, per fare tutto un bel discorso intorno, su cui torniamo. E centrando quello che pare Vogeler volesse come titolo: “Concerto senza poeta”. Non si capiscono i motivi per cui, nell’edizione italiana, si mescolino i due titoli del quadro, unendoli in un anodino “Concerto di una sera d’estate”, ovviamente rimanendo il “senza poeta”, che è il tocco che dà un senso al quadro ed al libro stesso. Per chi non sa del quadro, cosa che serve anche a spiegare il libro, il dipinto mostra un concerto sulla terrazza del Barkenhoff e come persona centrale Martha, la moglie di Vogeler, che guarda pensierosa in lontananza. Sulle scale, ai suoi piedi, il cane (un levriero russo) è un regalo di Alfred Heymel (fondatore della casa editrice Insel, che pubblicò i primi lavori di Rilke con le incisioni di Vogeler). Tutte le persone del “mondo Barkenhoff” sono presenti, eccetto appunto Rilke stesso. Vogeler, semi-nascosto sulla destra, suona il violoncello, sulla sua sinistra suo fratello Franz suona il violino, mentre il flautista sullo sfondo è il suo giovane cognato Martin. Sul lato sinistro, sedute, ci sono Paula Modersohn-Becker, accanto a lei Agnes Wulff e Clara Rilke-Westhoff. L'uomo con la barba sullo sfondo è Otto Modersohn. Il dipinto, esposto a Oldenburg in occasione della Mostra d'arte della Germania nord-occidentale, consente a Vogeler di ricevere la “Grand Medal” per le Arti e la Scienza. Questo dipinto è considerato il culmine del suo primo periodo creativo. Modick, appunto, prende spunto dal quadro, per parlare di Barkenhoff, e della cittadina dove sorge, Worspede. Laddove, tra il 1895 ed il 1905, si riunirono artisti vari, pittori, scultori, scrittori ed altri, in un ambiente creativo e comunitario. Un idillio utopistico, avviato dallo stesso Vogeler, con il pittore Modersohn ed altri. C’erano anche le donne artiste: Paula, che sposa Otto, e Clara, che sposerà Rilke. Tutto il libro è centrato sui pensieri di Vogeler, sulla sua iniziale amicizia per Rilke, che, squattrinato, è da lui ospitato a Worspede. Si coglie la forza e l’ambiguità di Rilke, preso dal suo incompiuto rapporto con Lou Andreas-Salomé. Rilke affascina anche tute le donne, in special modo Paula, ma sarà Clara quella che sposerà. Con alcuni andamenti in flashback, Modick cerca di darci il senso dell’avventura di Worspede, dell’idillio bucolico, ma anche delle tensioni. Tuttavia, poco ce ne viene, ed il tutto rimane abbastanza debole. Sì, in qualche modo escono fuori le diverse personalità, soprattutto Rilke, con tutte le sue ambiguità. Ma anche altri, ad esempio il cammeo con Gerhart Hauptmann, che poi sarà nel 1912 un premio Nobel per la letteratura. Invece non viene fuori la personalità del protagonista, di Vogeler, che proprio partendo da Worspede e dai suoi tentativi ed esperimenti sia artistici che di vita, farà tutto un suo percorso, che qui non viene neanche delineato. Ma che è interessante. Si avvicinerà a posizione comuniste, divorzia da Martha, sposa in seconde nozze un’amica di Rosa Luxembourg, per poi emigrare in Russia, e diventare esponente anche lì artistico, ma del realismo socialista. Peccato che allo scoppio delle ostilità verrà internato in Kazakistan in quanto tedesco, e lì muore ben presto di stenti. Insomma, un libro un po’ lento nella costruzione, con qualche spunto che poteva essere migliore. Forse, la cosa migliore è proprio la riflessione di Vogeler che inizia il quadro inserendo anche Rilke tra le varie comparse del quadro, per poi cancellarlo, e lasciare un vuoto che si nota, guardandolo. La scrittura risente di questa mancanza di mordente, tanto che anche la lettura è avanzata a fatica sulla pagina. Peccato, ancora, che poteva essere migliore, con uno scatto più significativo sui vari attori della vicenda.
“Se hai amato sul serio una persona l’ami per sempre.” (128)
“Io temo tanto la parola degli uomini / … / A me piace sentire le cose cantare / Voi le toccate: diventano rigide e mute / Voi mi uccidete le cose.” [da una poesia di Rilke] (184)
Stephanie Cowell “La donna col vestito verde” Corriere della Sera Arte 16 euro 7,90
[A: 01/11/2016 – I: 11/03/2019 – T: 14/03/2019] - &&&
[tit. or.: Claude & Camille; ling. or.: inglese; pagine: 332; anno 2010]
Un altro libro che riscatta leggermente una collana nata, nella mia testa, con altre e più alte prospettive. L’autrice è una newyorkese di buona famiglia, dedicatasi in gioventù al canto, sposata poi con il poeta Russell Clay, e quindi, da una ventina di anni, dedicatasi a romanzi di ambientazione storica. Su Mozart, su Shakespeare. Ma soprattutto nota per questo lungo viaggio nella vita giovanile di Claude Monet e degli ambienti da cui nascerà l’impressionismo. Come dice poi più esattamente il titolo inglese, si parla del grande amore tra Claude Monet e la giovane Camille Donciuex. Perché di Monet si sa molto, si sono percorse le vie della maturità del Novecento, le visite a Giverny ed alle sue ninfee. Ma Claude è stato anche giovane, ed ha percorso tutto un suo andamento di vita, per passare dall’adolescenziale Le Havre all’anzianità di Giverny, transitando sempre per Parigi ed i suoi ambienti culturali. Per essere precisi, poi, Monet fu abbastanza girovago, dato anche il suo carattere irrequieto. Specialmente durante i suoi sessanta anni dell’Ottocento, dove passò per Honfleur, Argenteuil, Vétheuil, Bordighera ed altro. Ma Claude non fu solo peripatetico per natura, anche per la su ricerca del giusto colore delle cose che lo circondano. Fino a trovarlo in quel quadro che darà il nome a tutto un mondo. Il celeberrimo “Impressione, levar del sole”, dipinto nel 1872 a poco più di 30 anni. Che venne preso ad epigono, per etichettare tutta quella congerie di amici e sodali, pittori ed artisti, con il termine di “impressionisti”. Ecco lì, magari nella tela dipinta da uno di loro. Con Monet ci sono Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Alfred Sisley, Camille Pissarro, Alfred Sisley Jean-Frédéric Bazille e Gustave Caillebotte. Ma più che parlare della vita del nostro, sarebbe bene passare al libro. Dove l’esimia signora Cowell si perita di farci passare alcune ore di svago all’inseguimento delle passioni di Monet e della sua bella Camille. Perché, sì, è un libro che parla di arte, ma che poi è incernierato sulle vicende d’amore. Molto sul periodo fino alla morte di Camille, ovvio. Per la parte artistica, vediamo gli esordi di Monet sotto la guida di Boudin. Le quotidiane lotte con il padre che non lo vuole artista. La “fuga” a Parigi. Gli ambienti di Rue de Batignolles con l’amicizia verso Bazille e Renoir. Tra l’altro, in tutto il libro, sono gli unici che vengono citati con il nome. Mentre gli altri sono Cezanne, Pissarro, Sisley e così via, loro sono Frédéric e Auguste. La lotta per vedere affermati i loro quadri ed i loro colori. Le speranze, la fuga durante la guerra franco-prussiana del 1870. Ma anche, finalmente, il salone degli indipendenti, ospitato dal fotografo Nadar nel 1874 (e non si capisce perché l’autrice lo citi solo come “un fotografo di boulevard des Capucines”) e l’affermazione dei quadri dell’artista, i riconoscimenti, la stabilità economica. Ma a Stephanie preme di più parlare dell’amore. Di come la bella e giovane borghese Camille (di 7 anni più giovane dell’artista), se ne innamori perdutamente. E per lui sopporterà la miseria, la fame, i posti scalcinati dove sono costretti a vivere. Gli darà due figli. Forse lo tradirà con l’amico Bazille (una vicenda poco chiara, dove si sa anche che Bazille era molto “aperto” anche ad amicizie maschili). Ma Camille gli sarà sempre vicino, anche quando lui sarà lontano. Anche quando, verso la fine degli anni ’70, ormai stabile economicamente, decide di ospitare Alice Hoschedé ed i sei figli di lei. Alice il cui marito prima finanzia alcune opere di Monet, poi, per varie vicende finanziarie, perde tutto. Anche quando, ma Cowell non ce lo dice, Claude visita “anche” il letto di Alice, che Camille è malata. Camille sarà sempre e comunque la musa di Claude, la “donna dal vestito verde” che lo attrae e che è attratta da lui. La sua modella di tanti e tanti quadri. Per tutta la vita di Camille e oltre. Anche se poi, dopo la morte di Camille, vivrà con Alice e la sposerà. Anche quando il suo primogenito Jean sposerà la piccola Blanche, figlia di Alice. Peccato che Alice, ma questo l’autrice lo tace, sarà di una gelosia spasmodica nei confronti di Camille, tanto da far distruggere a Claude tutte le lettere della prima moglie (per fortuna non certo i quadri…). Per questo, gli interludi che l’autrice inserisce per parlare di Monet quasi settantenne, a dipingere ninfee nella sua Giverny, se rendono il merito della genesi delle ninfee, non fanno capire né l’accanimento con cui Claude chiede ad Annette, sorella di Camille, dei ricordi di lei, né il fatto che, nel 1909, Alice è ancora vive (morirà solo due anni dopo). Un libro sufficiente, nel gradimento, nella stesura, nell’impostazione. Che avrebbe raggiunto diverse vette con qualche errorino (o forse omissione) in meno, e qualche pennellata in più. Anche se capiamo meglio Monet quando Stephanie ce lo descrive sfidare il freddo ed il vento per dedicarsi alle sue marine. Una grande voglia di tornare in Normandia.
Alice Hoffman “Il matrimonio degli opposti” Corriere della Sera Arte 18 euro 7,90
[A: 15/11/2016 – I: 21/03/2019 – T: 24/03/2019] - &&& ---  
[tit. or.: The Marriage of Opposites; ling. or.: inglese; pagine: 343; anno 2015]
Alice Hoffman, sceneggiatrice e scrittrice americana, non mi è particolarmente nota, anche se in patria sembra abbia un discreto successo. Lego che di discendenza russo-ebraica, ed in questo romanzo si nota particolarmente. Anche se non è il centro (forse uno dei volani dell’azione sicuramente). Perché il centro dovrebbe essere qualcosa attinente all’arte. Purtroppo, dobbiamo aspettare almeno un terzo del libro per capirlo. Non nego, comunque, che ha un suo piglio “nonostante” questa falla. Ci porta nei Caraibi, all’inizio dell’Ottocento, nell’isola di St. Thomas, rifugio di una piccola comunità ebraica messa all’indice da vari paesi (ultima la fuga da Santo Domingo), e governata (questo mi giunge misterioso, invero) dal governo danese. Tanto che la capitale si chiama Amalienborg (nella dizione inglese diventata Charlotte Amalie, dal nome della consorte del re Cristiano V di Danimarca). Dove seguiamo l’infanzia e l’adolescenza di Rachel Pomié, unica figlia della famiglia Pomié, mercanti ebrei. Le sue capacità, la sua intraprendenza, la sua amicizia con l’indigena Jestine, i suoi dissapori con il cugino Aaron (che poi non è realmente cugino), nonché il mito della lontana terra natia, che la famiglia viene dalla Francia, e Rachel legge di continuo libri su Parigi. Quando gli affari vanno male, per salvarli deve sposare qualcuno per mettere soldi freschi nelle casse paterne. Sposa così tal Isaac Petit, già padre di tre rampolli con moglie appena defunta. Rachel avrà una serie di figli da Isaac, e noi continueremo a seguire le sue vicende isolane. Soprattutto il fatto che Aaron mette incinta Jestine, e per questo viene mandato a Parigi in esilio, mentre Jestine e Rachel, oltre ai figli della protagonista, si curano anche della piccola Lyddie. Purtroppo, anche Isaac muore, ed in mancanza di altri figli maschi, prima provano con Aaron. Ma questi viene con la moglie francese, si comporta da buzzurro, e viene rimandato al mittente, con l’unico vantaggio (per Aaron) di rubare (anche se legalmente) la figlia a Jestine. Dramma nel romanzo, che proseguirà sino alla fine, con un suo filone narrativo che si intreccerà anche con il principale. Viene allora mandato un cugino “reale” della famiglia, il poco più che ventenne Abraham Gabriel Frédéric Pizzarro. Cominciate a vedere la luce in fondo al tunnel? Il buon Frédéric come vede Rachel, sebbene questa abbia sette anni più di lui e gestisca sette figli, cade innamorato come una pera cotta. Il bello è che anche Rachel finalmente si innamora. Qui però cadiamo in tutta una cinquantina di pagine dedicate alla lotta di Frédéric e Rachel con i maggiorenti locali che ostacolano le nozze considerandoli cugini, anche se Frédéric è solo cugino del marito di Rachel, quindi non hanno vincoli di sangue neanche lontani. Fatto sta che i due si sposano, e cominciano a sfornare figli. Il terzo dei quali, nel 1830, verrà chiamato Jacobo Camille Pizzarro (la famiglia di Frédéric ha origini portoghesi). Finalmente, da metà libro in poi, abbiamo quindi l’artista. Che però è uno degli attori del romanzo. Ne vediamo i primi anni, le ribellioni, all’isola, alla madre, a tutto e tutti. Scarso studente, inetto alla gestione della bottega paterna, ha solo il disegno, la pittura in testa. E “pour cause” diremo noi. È fondamentalmente un anarchico, e per mettere a frutto (ed anche metterlo in riga) viene inviato alcuni anni a Parigi. Dove affina la sua arte, e contatta la Lyddie rapita (e sarà lui a ricucire tutti gli strappi, tra Lyddie e Jestine, nonché tra i suoi genitori e la comunità ebraica). Al ritorno a St. Thomas, però, Camille (lasciato il primo nome Jacobo) è ancora osteggiato. Fuggirà un paio di anni in Venezuela, prima di essere accolto di nuovo e finalmente, alla morte del padre, lui venticinquenne con la madre ormai di sessanta, finalmente ritornano tutti in Europa. Ci saranno altri momenti, altre piccole tappe, che seguiamo sempre con gli occhi di Rachel, che di Camille sapremo soltanto l’amore per gli azzurri, per i diseredati, per la vita bohemienne sino alla fine, tanto che sposerà Julie, la cameriera di sua madre. Questo per suggellare, sino alla fine, la corrispondenza del titolo con il testo: tutti i matrimoni del romanzo sono tra persone “opposte”, di carattere, di espressione, di retroterra familiare. Purtroppo, però, poco spazio viene dato alla pittura di Camille (che quando finalmente vive in Francia cambierà il cognome da Pizzarro a Pissarro), ai suoi periodi fecondi (dove rimando al bellissimo libro di Sue Roe sugli Impressionisti), all’amicizia con Monet, con Cézanne e poi con Seurat e i puntillisti. Peccato. Un libro decente per capire da dove vengono certi colori del nostro amato pittore, ma tuttavia un libro dedicato ad altro, alla madre ed ai Caraibi.
“La morte ci insegue … Allora perché non vivere come vogliamo?” (270)
“È più facile che riusciamo a vedere i nostri figli come vorremmo che fossero, piuttosto che come sono davvero.” (299)
Daniela Pizzagalli “La dama con l’ermellino” Corriere della Sera Arte 2 euro 7,90
[A: 07/07/2016 – I: 18/05/2019 – T: 21/05/2019] - &&---     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 194; anno 1999]
In realtà, non ho letto l’edizione citata, ma quella uscita nella BUR, poiché né Daniela di Cola di Rienzo né Sandro di Candia, sono riusciti a procurarmi l’unico libro della collana del Corriere che avevo lisciato. Comunque, sono contento di averlo letto tardi, che mi avrebbe ancora più maldisposto verso questa serie di libri che, spesso purtroppo, prendono spunto dall’arte, ma parlano di altro. Devo dire che il sottotitolo, che recita. “Vita e passioni di Cecilia Gallerani nella Milano di Ludovico il Moro”, mi avrebbe dovuto mettere sull’avviso che forse non si parlava del quadro, o solo del quadro. Leggendo poi il testo, ci si accorge che del quadro e di Leonardo che lo dipinge se ne parla nel primo capitolo. Il resto è, per l’appunto, storia e cronaca di Milano al tempo degli Sforza. Con un orizzonte temporale che, bene o male, ricalca l’esistenza appunto di dama Cecilia, nata a Milano nel 1473 e morta nel castello di San Giovanni in Croce (in provincia di Cremona) nel 1536. Il quadro, come appunto ci narra l’autrice, viene dipinto nel 1489, commissionato a Leonardo che da qualche anno stazionava a Milano, da parte del reggente il ducato cittadino, Ludovico Sforza detto il Moro. Perché è il periodo aureo di Cecilia che, sedicenne, è l’amante di Ludovico. Il “falso Duca” (come il falso “nueve” delle squadre di calcio) è all’attacco su tutti i fronti: ha messo all’angolo il legittimo erede, il nipote Gian Galeazzo, non è ancora sposato, e, munifico e stratega, sta convocando in quel di Milano artisti per renderla bella ed ammirata, nonché politici e combattenti, per fortificarne le difese ed aumentare i possibili fronti d’attacco. In questo, Leonardo diventa una pedina importante, data la sua poliedricità: artista, inventore, architetto. Insomma, quasi tutto. Nel quadro, che sarebbe l’oggetto principe del racconto se lo inseriamo appunto nella collana artistica, Leonardo si impegnò a stravolgere i canoni della pittura “di figura”. Cecilia è ritratta tra due torsioni, il busto verso sinistra e la faccia verso destra, quasi ad attendere qualcuno che sta arrivando. Con lo sguardo, che di quadro in quadro si andò affinando, prima nella “Belle Ferroniere” (che poi sarebbe Laura Crivelli, amante del Moro dopo Cecilia) e poi nella “Gioconda”. Laddove anche il sorriso si compie insondabilmente misterioso, così come qui, la Dama, comincia ad avere un moto di labbra teso verso il capolavoro. Poi c’è il simbolo animalesco. Si dice ermellino per due motivi: da poco Ludovico il Moro aveva avuto l’onorificenza dell’Ordine dell’Ermellino (simbolo di purezza) ed in latino l’animale è nomato “gallé”, che quindi rimanderebbe appunto alla bella Cecilia. Anche se, per dimensioni ed addomesticabilità, sembra più essere un furetto che un ermellino. Ma dopo questo primo capitolo dedicato al quadro, ai suoi motivi, ed alla sua realizzazione, le altre più di 150 pagine sono dedicate a donna Cecilia (ma solo nell’ultima parte) e soprattutto a Ludovico ed alla sua Milano. A come la faccia fiorire intorno al 1490, a come, per contrastare il legittimo erede, debba sposarsi in fretta, con Beatrice d’Este (che pare fosse assai bruttina). Come, da sposato, non possa che allontanare Cecilia, regalandole il Palazzo Dal Verme (che tuttavia rimane in via Puccini, a un centinaio di metri o poco più dal Castello Sforzesco). Per fugare i dubbi, dopo che Cecilia gli dona un “bastardo” (che verrà chiamato Cesare), la convince a sposarsi con Ludovico Carminati detto "il Bergamino". Vediamo poi le alterne fortune della famiglia Sforza, dove Ludovico, per vendicarsi degli Angioini di Napoli, chiede aiuto al Re di Francia, Carlo VIII di Valois. Che non solo sconfigge i napoletani, ma, salendogli la mosca al naso, decide di porre fine anche alla ducheria di Ludovico. Daniela Pizzagalli, da brava storica, ci imbastisce tutta una serie di vicende, pubbliche e private, legate a Ludovico, alle sue amanti, alla moglie, al nipote Gian Galeazzo ed alla di lei consorte Isabella d’Aragona. Alle vicende militari, che a me lasciano tiepidino, che poi tutto si confonde in un gran calderone, ove si salva nella mia memoria solo il giudizio del Guicciardini sul 1494 come anno funesto per la nostra penisola. Nel finale riprende le fila di Cecilia, che riparatasi nei marchesati della famiglia d’Este, ritornerà verso il 1510 in quel di Milano. Ove riprenderà la bella vita, come riportano le cronache dell’esimio Matteo Bandello, passando dal ruolo della bella a quello della colta. Fino alla morte che la colse alla veneranda, per l’epoca, età di 63 anni. Ripeto, la storica Pizzagalli scrive bene del periodo di Ludovico il Moro, vediamo la corte, vediamo Cecilia, vediamo anche Leonardo che si affanna tra la bottega sua e Santa Maria alle Grazie, ove va completando la sua “Ultima Cena”. Ma non vediamo discorsi sull’arte, o sulle arti, come in altri e più interessanti libri della collana. Tra l’altro, io che non so di greco e di latino, mi sarei anche aspettato un paragone, un cenno, o poco altro ma qualcosa, alle pitture leonardesche degli anni ’90 del 1400 rispetto alla partenza, da Cadice ad esempio, proprio nel 1492 di tal … Cristoforo Colombo. Sarebbe stato di interesse vedere in lontananza esempi dell’ingegno italico in diversi campi. Noi, popoli di santi, poeti e navigatori…
Prima e solitaria prova d’agosto, condita da ben 15 libri letti nel mese di maggio. Illuminati dal bellissimo, nonché ultimo libro della serie dedicata a Maigret, e dal sempre interessante Recalcati. Da segnalare, al contrario, le non esaltanti prove di Chuck Palahniuk e di Michel Faber.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Leonardo Sciascia
Il metodo di Maigret
Adelphi
13
3
2
Wilbur Smith
Il trionfo del sole
TEA
6,90
2
3
George Harmon Coxe
Fotografia rivelatrice
Corriere della sera Gialli
6,90
2
4
Maurizio De Giovanni
In fondo al tuo cuore
Einaudi
15
3
5
Maurizio De Giovanni
Anime di vetro
Einaudi
14,50
2
6
Georges Simenon
I Maigret – 15
Adelphi
s.p.
4
7
Maurizio De Giovanni
Serenata senza nome
Einaudi
14,50
2
8
Daniela Pizzagalli
La dama con l’ermellino
Corriere della Sera Arte
7,90
2
9
Maurizio De Giovanni
Rondini d’inverno
Einaudi
14
2
10
Massimo Recalcati
Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore
Feltrinelli
14
4
11
Maurizio De Giovanni
Il purgatorio dell’angelo
Einaudi
s.p.
3
12
Paolo Fiorelli
Pessima mossa, maestro Petrosi
Repubblica Italia Noir
7,90
2
13
Chuck Palahniuk
Beatiful You
Mondadori
s.p.
1
14
Michel Faber
Sotto la pelle
Einaudi
13,50
1
15
Wu Ming
Proletkult
Einaudi
s.p.
3

Siamo tornati nell’afa romana, per un ultimo sprint agostano, per preparare le valigie, per costruire altri speriamo splendidi o quantomeno coinvolgenti viaggi. Vedremo a fine mese di farne un bilancio.

Miller & Gault - 28 luglio 2019


Wade Miller “L’arma del delitto” Corriere della sera Gialli Americani 15 euro 6,90
[A: 18/09/2017 – I: 01/02/2019 – T: 04/02/2019] - && ---
[tit. or.: Deadly Weapon; ling. or.: inglese; pagine: 203; anno 1946]
Prima lettura di un libro scritto da una delle tante coppie di autori americani che si aiutano a vicenda e non sempre trovano il bandolo della matassa. Qui abbiamo Robert Wade e William “Bill” Miller che uniscono i cognomi e firmano una trentina di libri insieme. Questo è anche il loro primo libro, uscito quando i due avevano 26 anni e secondo molti il meglio riuscito. Certo che se devo dare retta alle mie sensazioni, visto che ho altri due libri della coppia mi viene qualche tremore. Intanto, il primo tremore già arriva dai titoli di testa, che in originale recitano “Arma mortale” mentre i bellimbusti mondadoriani che lo pubblicarono per primi nel 1954 utilizzano questa “Arma del delitto” che poco verrà disvelata nel corso del libro. Intanto, è sicuramente un hard-boiled duro e puro, questo dei due ragazzotti. Di morti ce ne sono tanti, anche se poche le sparatorie, ma prima o poi… Quello che manca, ai nostri purtroppo, è la capacità di reggere fino alla fine. Dove, seppur tirando fuori una discreta genialata, almeno per l’epoca della scrittura, non riescono a tirare tutti i fili che hanno seminato per 200 pagine. Si vede che non hanno letto, o non hanno capito bene, la lezione di S. S. Van Dine che estolleva (vi piace questa parola? Vediamo chi ne trae il senso figurato) il romanzo giallo nella sua capacità di rispondere a tutte le domande poste durante tutto il romanzo stesso. Dicevamo giallo d’azione. Il personaggio centrale, che seguiamo per tutta la vicenda, è tal Walter James, investigatore di Atlanta, in trasferta a San Diego per seguire la pista di qualche traffico di marijuana. Ad Atlanta è morto il suo socio e scomparsa la di lui moglie. Come arriva a San Diego, seguendo una pista che non ci viene spiegata, si ritrova in un teatro, a pedinare un filippino. Peccato che durante il numero centrale della cantante Shasta, il filippino viene ucciso con un pugnale modificato. Vicino al morto, ed a Walter, c’è la giovane Laura, venuta allo spettacolo perché convinta che il padre sia stato circuito dalla bella Shasta. Durante le indagini, Walter riesce anche a farsi amico il poliziotto Clapp, cominciando con lui la ricerca del bandolo della matassa. Il filippino era un galoppino di droga, che riceveva ordini su dove prendere e dove consegnare la marijuana, così che i veri trafficanti non correvano grossi pericoli. Purtroppo, anche lui si innamora di Shasta (come molti) sottraendo piccole quantità, e disequilibrando il meccanismo messo in atto. Parlando con Laura, tirando fuori notizie da Clapp, ed agendo sempre un passo avanti a tutti vediamo Walter combinarne delle belle. Capisce che il padre di Laura ascolta la radio per ricevere messaggi pubblicitari che gli dicono quando recarsi dal filippino. Messaggi che vengono da una radio messicana di base a Tijuana, che Walter va a stuzzicare. Il filippino riceve i messaggi da un finto psichiatra forse in combutta con un maggiore dell’esercito in pensione. Intanto, Walter è preso di mira da colpi di pistola all’uscita dal teatro. Poi i messicani si mettono sulle sue tracce, ma lui li tampona con la sua macchina, mandandoli fuori strade ed uccidendoli. Quindi da un appuntamento al padre di Laura in un club sul mare, dove anche lui si reca con Laura. Ma nel frattempo, sotto gli scogli del club viene trovato il corpo del vecchio, ucciso o suicidato. Infine, qualcuno, una donna pare, spara altri colpi di pistola verso Walter che anche questa volta si salva. La scena culmine si avrà allora di nuovo in teatro dove canta Shasta e dove convergono Walter, Laura, il maggiore, nonché la donna misteriosa, che altri non è che la moglie del socio di Walter di cui si diceva la scomparsa. Scena culmine perché tutti e quattro i convenuti possono essere il cattivo che tira le fila dall’inizio. Ci sarà una grande confusione, alla fine della quale, tuttavia, anche il lettore esce confuso, non capendo veramente bene non tanto chi regge la matassa, ma il ruolo di ognuno nella vicenda. Questo, e tante piccole scivolate, ne fanno un prodotto scorrevole certo, ma non gradevole. Quanto sono lontani gli scritti di Chandler o di Hammett! Spero che i nostri giovanottoni, crescendo, migliorino lo stile. Intanto, e per finire, vi narro di Un’imprecisione dolorosa: la macchina con Walter parte da San Diego intorno alle 11 per andare a Tijuana, distanza che si percorre in una mezz’ora, un’ora al massimo. Diciamo che arriva alle 12. Beh, a pagina 128 si dice che vi arriva a pomeriggio inoltrato! Dopo di che, poche pagine e qualche scazzottata dopo, fa ritorno a San Diego per le 15:45. Sensato con gli orari, poco con quel “pomeriggio inoltrato”. Ecco questo può essere preso ad esempio di come NON si deve scrivere un romanzo, né giallo, né di nessun altro colore.
William C. Gault “Fuoco incrociato” Corriere della sera Gialli Americani 25 euro 6,90
[A: 27/11/2017 – I: 01/03/2019 – T: 02/03/2019] - && e ½
[tit. or.: Day of the Ram; ling. or.: inglese; pagine: 189; anno 1956]
Il poco noto oltre oceano William Campbell Gault è stato, ad onor del vero, un discreto poliedrico scrittore, che nei suoi più di ottanta anni di vita ha scritto un po’ di tutto, spaziando dai romanzi per ragazzi alle fiction sportive, pubblicando anche una ventina di titoli di “crime thriller”. In questo onesto prodotto che andiamo tramando, poi, unisce la sua passione per lo sport con quella per i polizieschi, avendo come personaggio principale Brock “The Rock” Callahan. Un detective presente in 14 libri, ex-giocatore di football americano che ha dovuto lasciare per un infortunio al ginocchio. Peccato, prima di entrare nel merito, che gli editor italiani trasformino un titolo pertinente al testo ed al connubio sport-crime, con un poco sensato “Fuoco incrociato”. Infatti, in origine il titolo era “Day of the Ram”, cioè il giorno dei Ram, inteso come giorno fortunato, eccellente, da sottolineare nel calendario sportivo, della squadra di football dei Los Angeles Rams. Una squadra fondata nel 1936, che aveva base nella California meridionale, dove rimase fino al 1995, quando spostò la sua sede nel Missouri, divenendo i St. Louis Rams. Ed il football gioca un ruolo centrale nel libro, oltre che per la presenza di Brock, per il fatto che la persona che viene uccisa è Johnny Quirk, pochi giorni dopo che, da quarterback, conduce una fenomenale partita per i Rams. Tralascio tuti gli accenni sportivi al football, che meriterebbero altro spazio ed altra penna, il romanzo in sé è da una parte esile e dall’altra molto “americano”, pieno cioè i luoghi comuni e situazioni stereotipate. Intanto Brock, da ex-stella sportiva e da investigatore scalcinato, non fa altro che bere whiskey, accompagnarsi a qualche donzella, pur avendo un rapporto di lunga durata con tale Jan (che forse esce meglio in altri romanzi della serie) e menare le mani quando e come ne ha voglia. Tipiche sono le entrate in un pub, magari gestito da qualche tizio poco raccomandabile, dire qualche parola di troppo, e finire in una rissa. A volte vincendo, e spesso prendendone di santa ragione. Johnny aveva chiesto protezione a Brock, per una minaccia forse fatta da qualche allibratore privo di scrupoli. Brock un po’ gli crede ed un po’ sospetta altro. Anche perché Johnny, stella nascente del football, pur avendo una fidanzata consolidata, tal Deborah, si accompagna spesso con altre donzelle. Come aveva fatto sin dal liceo con un’insegnante, cosa che suscitò un grande scandalo all’epoca. Tipico è anche lo spaccato di chi cerca di far soldi nel mondo sportivo, scommettendo e cercando di aggiustare le partite. Come fa Enrico Martino, riciclatosi in Rick Martin, amico di Jan, ma nel fondo, scommettitore e baro. Brock si cala anche nel mondo delle scommesse, per capire se Johnny poteva avere delle noie da quel lato. Anche perché proprio Rick era vicino a lui quando viene ucciso da un preciso colpo di fucile. Una pista promettente, anche perché Johnny frequenta tal Jackie, stellina che non riesce ad emergere, e che cerca protezione nel mondo di Rick e soci. Ma anche Jackie viene uccisa, cercando di incastrare Brock nella vicenda. Il nostro cerca allora di capire meglio il mondo di Johnny. Prima indagando con i suoi amici più vicini: Pat, il fratello di Deborah, suo sodale all’Università, e David, librario colto, anche lui compagno dei nostri in gioventù. La svolta, che ci si aspetta da tempo, è quando Brock capisce che deve indagare non nel presente di Johnny, ma nel passato. Con una lunga tirata in auto, viaggia dalla California in Arizona, per parlare con l’insegnante a suo tempo coinvolta nello scandalo. Ed è con lei che ha il modo di capire i meccanismi del tutto. Purtroppo, vista la penna di media intensità di Gault, cercando di dire e di non dire. Con un atteggiamento che di certo non favorisce la comprensione delle azioni da parte del lettore, che assiste, impotente, alla corsa verso il finale annunciato. Sarà proprio uno dei compagni universitari, geloso di Johnny e del suo successo con le donne e nello sport, che ha architettato il tutto. Compagno che si paleserà come il migliore nel tiro al bersaglio, cosa che Gault fa uscire come il coniglio dal cilindro delle sue pagine. Finisce così che mentre per buona parte del libro si cerca di alimentare il sospetto verso il mondo di mezzo degli allibratori, la fine precipita verso il mondo usuale delle gelosie e dei rancori covati per anni. Un condensato, quindi, di situazioni classiche con una dose moderata di azione, e nulla di ragionamenti. È solo piacevole proprio nelle parti che tralascio, quando si parla di sport, di sport giocato, di rivalità, di talenti emergenti, di belle giocate, ed altro. Un onesto e tipico lavoratore della penna, che forse avrà avuto altre occasioni di mettersi in mostra, ma che, per ora, non è certo all’altezza dei Chandler e degli Spillane.
William C. Gault “Un’esca per la belva” Corriere della sera Gialli Americani 22 euro 6,90
[A: 06/11/2017 – I: 03/03/2019 – T: 06/03/2019] - &&  
[tit. or.: Sweet Wild Wench; ling. or.: inglese; pagine: 181; anno 1959]
Come accennato nella precedente trama, Gault ha scritto molto, ma sul versante gialli si è concentrato su due personaggi. Brock, di cui ho parlato prima, investigatore ex-stella del football, e Joe Puma, che è il protagonista di questo ed altri circa 6 romanzi. Anche qui, alcuni stereotipi e caratteristiche di base, fanno intravedere come, poi, la fantasia di Gault non sia tanto sfrenata. Joe Puma, intanto, è un italo-americano, con la particolarità che il cognome “Puma”, anche in inglese indica il felinide selvaggio delle Montagne Rocciose (anche se il nome più comune è “cougar”). Joe è anche lui dedito alle bellezze muliebri, con una propensione per la sua “fidanzata” storica, tal Adele (pendant della Jan del precedente libro), ma con la capacità di scivolare anche su altri lidi (come spesso accade qui, verso la giovane Eve). Come tutti i detective e la gente del mondo di mezzo tra bene e male, si beve molto, in special modo whiskey (anche se Joe non disdegna la birra). E ci si azzuffa sempre con piacere, con il nostro detective che spesso le prende, anche se qualche bel colpo lo mette a segno. Tuttavia, l’impianto generale e la trama sono alquanto deboli. Soprattutto per un tentativo, velato, di rinverdire atmosfere “alla Chandler”, con misteri, donne fatali, ed altri elementi che fecero la fortuna del ben più dotato scrittore. Tutto ruota intorno ad una inchiesta cui viene coinvolto Joe, sulle attività di tal Adams, fondatore di una setta tra l’esoterico ed il fantasioso, dal curioso nome di “Figli del Protone”. Siamo nel pieno della guerra fredda, che non viene tuttavia nemmeno sfiorata, e la mente dell’americano medio è piena di atomi e connessioni varie. Per cui non ci si meravigli di vedere un’accolita di persone che vede l’immortalità nell’energia che scaturisce dal protone. Ricordo per i meno adusi alla fisica atomica che il protone, insieme al neutrone, costituisce il nucleo atomico, ha una carica positiva, ed è “stabile”, cioè non decade, quindi la sua vita (nell’ambito delle misurazioni attuali) può essere considerata eterna. Buon viatico per mettere su una setta. Che coinvolge molti benestanti locali, con ricche elargizioni che non possono che far bene alle tasche del sedicente “inviato del Protone” Adams. In particolare, la bella Eve sembra elargire un po’ troppo, anche per le grandi finanze del padre. Che le aveva messo addosso il detective Burns. Che però si era fatto irretire sia da Eve che dai “Protoni”. Così che quando Joe entra in pista al soldo del Procuratore Distrettuale, mr. Deering si accoda e convince Joe a seguire anche i suoi interessi. Peccato che Eve sia misteriosa, ma “all’acqua di rose”, e che Burns ne sia ben preso e che Burns stesso venga subito ucciso, con il buon Adams che si trova (casualmente?) sul luogo del delitto. Non solo, ma il suddetto Burns è anche fratello di Jimmy Murphy, uno dei boss della mala locale, che cerca di farsi giustizia da solo, ma che alla lunga vedrà che la miglior partita sia mettere Joe a busta paga. Dove fino ad allora c’era un altro detective, tal Ned, che però pare proprio aver tutti come suoi clienti, intascando tangenti a destra e a manca e facendo sapere che ha la polizia dalla sua. Così da irretire il poco avveduto Tackett, uomo senza arte né parte, che rivela a Ned le mosse di Eve. C’è un grande guazzabuglio di attività, che Gault non riesce a gestire al meglio. Mettendo in mezzo anche la rivalità tra polizia e investigatori privati, nonché tra polizia e sindaco (uomo corrotto e corruttibile, probabilmente a libro paga di Jimmy). Oltre a Ned e Tackett, anche la famiglia Deering sembra ben sospetta: Eve (a parte andare a letto anche con Joe) si comporta in modo strambo (come le strambe eroine di Chandler), ed il padre entra ed esce da crisi mediche che non si capisce se e quanto siano vere, e quanto siano indotte dagli enormi regali della figlia ai figli di Protone. Il tutto si avvia verso un nodo gigante, quando anche Adams viene ucciso, cercando di coinvolgere o Tackett o Ned nella vicenda. Al solito, come nel libro precedente, Gault inganna il lettore, e mostra Joe che capisce la vicenda, capisce a chi fare le giuste domande ed avere le giuste risposte. Peccato che questo lasci il lettore fuori da giochi. Ma questo è il giallo americano, dove non è molto importante coinvolgere il lettore nella soluzione del dilemma, quanto mostrare azione, muscoli, e se possibile belle donne. Joe risolve il tutto e si capisce tornerà dalla fedele Adele. Noi invece ci domandiamo chi mai si è inventato quel titolo campato per aria. Chi sarebbe la belva? Quale sarebbe l’esca? Non era meglio restare alla “Dolce Selvaggia Fanciulla” del titolo originale? Certo che non capirò mai i misteri dell’editoria italiana.
“L’amavo. E desideravo crederle. Le amavo tutte, le donne.” (153)
Wade Miller “Quattro giorni di guai” Corriere della sera Gialli Americani 19 euro 6,90
[A: 01/11/2017 – I: 09/03/2019 – T: 11/03/2019] - && -
[tit. or.: Guilty Bystander; ling. or.: inglese; pagine: 204; anno 1947]
Secondo libro pubblicato dalla coppia Bob Wade & Bill Miller, l’anno dopo il precedente. Migliora un po’ in alcune idee di trama, rimanendo tuttavia ancora lontano da una lettura pienamente gradevole. Intanto, facciamo un po’ delle solite recriminazioni sul titolo. In inglese, viene utilizzato uno slang che deriva da “Innocent Bystanders” nel significato di “spettatori incolpevoli” di un qualche avvenimento, rovesciando l’innocenza in “Guilty” cioè “colpevole”. Detto ciò in italiano si pone l’accento sui guai, cosa che gli autori non avevano pensato, visto che sì capitano tante cose al povero protagonista, ma che non sono guai bensì fatti della vita. Poi si parla di quattro giorni, dove l’azione comincia di mercoledì e finisce la domenica. Quindi, volendo mantenere la metafora dei guai, si sarebbe dovuto dire “Cinque giorni di guai”. Ma quando finirà questo malvezzo italiano? D’altra parte, il testo venne pubblicato con questo titolo nella sua unica uscita in Italia, nel 1952 presso i Gialli Mondadori. Ora, a quasi settanta anni si poteva ben aggiornare il tutto. Per il resto, e tornando al testo, come detto, anche se vado contro i giudizi correnti, trovo questo secondo romanzo leggermente migliore del primo, anche se sempre molto caratterizzato dalla scrittura dei nostri due autori: molto boiled, un po’ hard, qualche confusione, ed un finale molto, molto, troppo veloce. Intanto, i nostri due monelli Bob & Bill mostrano quanto meno poca verve inventiva, laddove, in un romanzo tutto giocato sui cinque giorni di avventure, chiamano il protagonista Max Thursday, cioè Massimo Giovedì! Altra caratteristica è quella di inzeppare il romanzo di personaggi e avvenimenti, ma che poi sfuggono, o sembrano essere messi lì e poi dimenticati. Come la perfida Angel, per buoni tratti sulla lista dei cattivi, tanto anche che inganna il buon Max (anche se lui aveva provato a circuirla portandosela a letto). Poi nel finale sparisce. O come la santarellina Judith che compare ad un certo punto circuita dal cattivo Leo Spagnoletti, in un momento di concitazione salva il nostro Max da morte quasi sicura, poi esce fuori che è la figlia di Smitty, la proprietaria dell’albergo centro della vicenda, e poi aspetta nell’atrio mentre Max risolve la vicenda. Ma ogni volta, sembra che entri come i cavoli a merenda. Anche l vicenda, al solito, è ben strampalata. Comincia con il rapimento di Tommy, figlio di Max e della sua ex-moglie Georgia. Che chiede a Max di ritrovarlo. Nella ricerca del piccolo, esce fuori una vicenda che non dico sia improbabile, ma proprio campata per aria sì. Un filippino trafuga una partita di perle di valore da Manila, ed utilizzando la flotta dei malavitosi fratelli Spagnoletti, arriva in California. Un misterioso tizio si mette in mezzo per cercare di prendersi il malloppo (o direttamente o tramite l’emissario Olivera), ed allora l’uomo degli italiani, tal Clifford, decide di lavorare da sé. Uccide il filippino, ma qualcuno (Leo o Olivera) lo ferisce. La donna di Clifford, che poi sarebbe Angel, che in effetti è la donna di Rocco Spagnoletti, lo fa rifugiare nella pensione di Smitty. Ma prima Clifford si fa curare da un medico, tal Elder, che sa aver fama di poco di buono, per aver fatto aborti in Arizona. Clifford chiede a Elder di recuperare le perle che sono in un deposito bagagli. Elder, pauroso, domanda al suo socio Homer di prendere la borsa. Casualmente (!!) Homer è il secondo marito di Georgia. Allora, Olivera, per conto del misterioso capo, rapisce Tommy. Leo uccide Elder mentre Olivera uccide l’incolpevole Homer e si riprende le perle. Intanto Angel, prima tradisce Clifford vendendolo a Rocco, che gli fa fare un tuffo senza ritorno nella baia. Poi cerca di mettere fuori causa Max. che, come detto, viene salvato anodinamente dalla bella Judith. Max, con un colpo di genio (e di fortuna), dopo che anche Leo è morto, ritrova Tommy, ma Olivera scappa. E sapete dove si rifugia? Sì, proprio nell’albergo di Smitty. Che avevo dimenticato di dire, è il teatro lavorativo di Max, che fa il poliziotto privato proprio per Smitty. Si arriva così al concitato finale. Max consegna Tommy a Georgia (che a tratti i nostri autori cercano di dipingere con dei grigi, cercando di indurci nell’idea che non sia limpido il suo comportamento; ma è una pittura poco convinta), Georgia lo ringrazia piangendo e facendoci capire che nel futuro potrebbe ripensare al suo rapporto con Max. Angel, come detto, sparisce. I morti sono già sei, quando Max torna in albergo, e Smitty gli dice che Judith lo aspetta nell’atrio e Olveira nella camera 48. Max ignora Judith, va nella camera 48. E da lì gli autori in due scarse paginette, cercano di tirar fuori una serie di finali per fuorviare il buon lettore. Con l’unico intento di innervosirci, e con il risultato che dei tre personaggi presenti sull’ultima scena (e non vi dico chi sono), altri due ci lasciano le penne. Insomma, mattanza come in un racconto mafioso. Confusione, come in un romanzo scritto un po’ a tirar via, sull’onda dei successi del Secondo dopoguerra, dove gli americani erano alla ricerca di sensazioni forti, di identità nazionali. Scordando il buon uso della letteratura, e gli insegnamenti di solo venti anni prima del buon S. S. Van Dine. Inciso finale: unica costante di questi due libri è il tenente di polizia, che è sempre, anche qui, il buon Clapp.
Wade Miller “La scelta del killer” Corriere della sera Gialli Americani 17 euro 6,90
[A: 05/10/2017 – I: 12/03/2019 – T: 13/03/2019] - &&& -
[tit. or.: Killer’s Choice; ling. or.: inglese; pagine: 187; anno 1949]
Ultimo titolo della coppia Bill & Bob presente nella collana, scritto un paio di anni dopo il precedente, e caratterizzato dall’assenza (finalmente una cosa nuova) di investigatori privati ed affini. Intanto due precisazioni: nel precedente romanzo, il protagonista, Max Thursday, diventa l’attore principale di altri cinque romanzi della coppia. Invece, questo romanzo, in origine, esce con il titolo “Devil on Two Sticks” (che sono i “Bastoncini del Diavolo”, quell’oggetto usato dai giocolieri formato da due bastoncini di controllo ed un terzo che viene fatto roteare usando i primi due), con certo riferimento ai problemi che affronta il protagonista. Poi, viene pubblicato insieme ad un altro libro della coppia, intitolato “The Killer”. E benché i due testi non abbiano né stessi protagonisti, né stessa ambientazione, questi bastoncini diventano “La scelta del killer”. Che tutto sommato è un titolo che ci può stare. Personalmente, poi, l’ho trovato un passo avanti alle altre prove della coppia che ho letto. Prima di tutto perché, pur essendo ambientato nel violento mondo della malavita americana, è meno violento di libri epigoni del genere. In secondo luogo, è tutto in soggettiva sul protagonista, Steve Beck, braccio destro di un gangster di San Diego, che controlla un giro di scommesse, alcolici e gioco d’azzardo. Non però nel senso che sia Steve che parla, ma seguiamo sempre e solo lui, vediamo cosa fa e cosa dice. Anche se non sentiamo cosa pensa. Abbiamo quindi il nostro Steve, braccio destro del boss Pat Garland, nonché amante un po’ “tirato per i capelli” della di lui moglie Lena. Mentre le vicende malavitose di San Diego proseguono senza particolari sussulti, avvengono due fatti: Steve conosce la giovane Marcy, figlia dell’avvocato del gruppo malavitoso, JJ, e, a seguito di alcuni avvenimenti, il gruppo capisce che c’è un infiltrato della polizia che rischia di far saltare il banco. In base alle stesse informazioni, Steve e Pat capiscono che l’infiltrato può essere entrato nel gruppo solo nell’ultimo anno. Così Steve si può concentrare su Hervey Isham, direttore di una casa di gioco, Ed Cortes, ex-detenuto di San Quintino, condannato pe violenza sulle sue mantenute, Sid Dominic, ex-investigatore ed ora gestore di lotterie, Paul Moon, uomo d’azione, J.J. Everett, l’avvocato di cui sopra, e Steve stesso. Anzi, fino alla fine i nostri riescono a nascondere bene Steve e le sue attività, tanto che lo lascio tra i sospetti sino all’ultimo. Steve, per smascherare il tizio, crea una serie di tranelli, in uno dei quali cade Isham, che viene prontamente eliminato. Ma ben presto si scopre che è stato un errore, lasciando Pat in difficoltà con il gruppo e Steve in difficoltà con Pat (dove si rafforza la convinzione che Steve ha qualcosa da nascondere). Intanto, sia lui che Ed fanno la corte a Marcy, che gli dice apertamente di preferire il più giovane. Anche lui con comportamenti strani, che dovrebbe essere uno sfruttatore di donne, ma con Marcy si comporta da gentiluomo. Anche gli altri sospetti escono dalla lista, meno l’avvocato. Quindi, verso la fine abbiamo questa situazione turbolenta in mano: il traditore potrebbe essere Steve, J.J. o Ed. Ora, se togliamo un attimo Steve, in ogni caso, i due sospetti creano dei problemi “morali” al nostro: rischia di dover uccidere o il padre della donna che vuole conquistare (tagliando tutti i ponti) o il ragazzo che lei preferisce (laddove si ipotizza una crudele vendetta, anche qui con difficoltà di rimettere le cose a posto). Certo, se invece il traditore fosse Steve ci sarebbe un happy end sdolcinato da mettere in cantiere: i cattivi vengono sgominati, Ed, J.J., Pat e Lena imprigionati, e Steve potrebbe dedicarsi alla conquista di Marcy. Quello che sappiamo è che, in ogni caso, Steve è un uomo d’onore che rispetta i patti (siano essi con Pat che con il procuratore, e non lo sappiamo ancora), e che ha comunque una grossa disponibilità di denaro (compensi della polizia o del gioco?). Alla fine, Steve farà una sua scelta, in ogni caso onorevole verso tutti gli attori della vicenda. In fondo, un finale interessante, ed un romanzo che trovo un filo superiore ai coevi. Certo, sempre ben lontano dai Chandler e dagli Hammett. Ma di sicuro in una buona pattuglia sul terzo gradino del podio, con Spillane e Goodis, almeno.
“Questo è il momento di far quattrini coi giochi d’azzardo. Uno di questi giorni il governatore e gli altri renderanno legale il gioco e si occuperanno di dove vanno a finire i profitti.” (30) [affermazione profetica di 70 anni fa, dedicata a mio fratello]
Il caldo è arrivato ai limiti di guardia, ed il vostro benamato scriba è veramente sull’orlo del collasso. Provo a prendere del fresco, almeno in collina, o quantomeno in zone romane più verdeggianti di questo centro afoso e caloroso. Questo comporta un po’ di problemi alla scrittura, ma spero che si risolverà tutto.