domenica 25 marzo 2018

Finale entusiasmante - 25 marzo 2018


Approfittando del piano di domeniche in questo pur freddo mese di marzo, accosto autori eterogenei, che però crescono in un finale assolutamente strepitoso. Un buon librino sardo, prestito del sempre ottimo Fako, una onesta ma mai esaltante prova del premio Nobel Le Clezio (che continua a non convincermi). Poi lo splendido Mac Orlan e le sue splendide nebbie, che già ci porta molto in alto. Ed a chiudere un bellissimo ed impareggiabile Williams con il suo Stoner, da leggere, ed anche rileggere.
Autori Vari “Sei per la Sardegna” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/05/2017– I: 30/10/2017 – T: 31/10/2017] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 62; anno 2014]
Ancora prendendo a piene mani dalla sterminata libreria in smembramento dell’amico Roberto, ecco che pesco un libricino, esile e pieno di … racconti. Già questo non mi entusiasma, come si sa. Però poi leggo le premesse, un libro in cui diversi autori uniscono le loro (poche) forze per dedicare i proventi del libro agli alluvionati sardi (ricordo per i meno dotati, 18 novembre 2013, sedici morti). Beh, forse vale la pena dedicarci qualche occhiata. Devo dire che, complessivamente, risulta un libro disomogeneo. Proprio per le premesse, che volevano soltanto accostare alcune pagine degli autori sardi della scuderia Einaudi (anche se il sardissimo e vegliardo Mannuzzu è nato nel continente, vicino a Grosseto). Ma se l’idea è buona, i vari pezzi del risultato non hanno lo stesso peso. Intanto, con coerenza rispetto all’egualitarismo che sarebbe d’obbligo in questi casi, i sei pezzi vengono proposti in ordine alfabetico dell’autore. Si comincia con una sufficienza piena per Un uomo fortunato di Francesco Abate. Cronaca della vita di chi sceglie la Sardegna come patria pur non essendo sardo e l’impegno civile come dirittura di vita. Finale un po’ scontato, ma tutti vorremmo poter dire, alla fine, di essere stati fortunati come Gabriele (rileggere il finale di Ishiguro per tirarsi sempre su). Non vi parrà strano, invece, che cresca nei miei voti il poco sardo E se fosse una malattia? di Alessandro De Roma, che ritengo il migliore del lotto. Perché parla di viaggi, parla di turismo, parla del luogo dove si arriva come un altro da sé, di cui bisogna esorcizzare l’esistenza, posti bellissimi che diventano la caricatura di sé stessi. Viaggiare non è fare il turista. Perché viaggiare è quasi una malattia, per la quale non esiste altro rimedio che lo sciamanico ripetere di gesti rituali. Come il mio lasciare un pezzo di vestiario là dove vado in giro per il mondo. Così il mondo avrà pezzi di me, ed io avrò la scusa (mentale) per tornarci. Comunque Alessandro ha in ogni caso il merito di riportarmi a Macchu Picchu ed a Calcutta, anche se poi lui finisce ad Olbia mentre io ritorno in Prati con il bus da Fiumicino. Poi, già i racconti mi danno prurito, figuriamoci le poesie isolate come questa L'infinito non finire di Marcello Fois. Parole che scorrono, ma che non fanno presa. Un autore che ad altro mi aveva abituato, se non altro ricordando la trilogia dedicata all’avvocato e poeta sardo Sebastiano Satta. Qui in una decina di pagine, evoca il tradimento (soggettivo di sicuro, ma anche oggettivo) che la sua gente ha fatto al patrimonio culturale sardo. C’è tensione civile, ma non riesce a coinvolgerci, non riesce ad andare sopra un paio di librini (anche scarsi) di gradimento. Anche se meglio del seguente illeggibile episodio prosaico-poetico della Cantata profana di Salvatore Mannuzzu. Non l’ho capito, non riesco a seguirne le tracce dove quattro personaggi, attori di questo libretto per musica, parlano di un impiccato e di una terra che muore giorno dopo giorno. Mannuzzu è di certo anziano e poco prolifico (si avvia dolcemente verso i novanta anni), ha scritto tanto e forse non aveva voglia di produrre altro. Così si riesuma questa dozzina di pagine, che avrei volentieri saltato. Per fortuna si risale con L'eredità di Michela Murgia, che, seppur in un lungo ed a volte per me poco coinvolgente racconto, aggiorna le tematiche care ai primi sardi che ho letto tanti e tanti anni fa, capovolgendone non il senso ma il percorso. Ovviamente la mente va a Gavino Ledda, ma qui il liberato, lo studioso, decide di essere pastore non per forza ma per scelta, perché alla fine possa dire di “fare l’unica vita che volevo fare”. Dispiace che sia un racconto telegrafico, ma si riavvicina alla sufficienza. Come, anche se anch’esso purtroppo breve, per l’ultimo scritto, Grilli in testa di Paola Soriga, che in quattro anguste paginette esorta a coltivare illusioni, anche avvicinandosi all’età adulta. Un bacio non vale la lettura di un libro ricevuto in regalo. Come disse qualcun altro, il bacio passa, il libro no. Insomma alla fine la sufficienza, soprattutto per i primi due testi, la merita appieno. Corroborata dall’accorata prefazione di Fois, che se la prende con gli scempi che portano morte alla sua terra e ad altre terre italiche. Se la prende (e noi con lui) a chi taglia gli alberi, costruisce case sul vuoto, ricopre la nostra terra di cemento, rimanendo insensibile “al grido di dolore”. E così continueremo a piangere la Sicilia, la Calabria, la Campania, il Vajont, Rigopiano, e via distruggendo. Finisco con una chicca che deriva dal primo racconto (e dedicato ai miei cugini romanisti): ho controllato, il 21 febbraio 1937 in effetti, come dice Abate, a Roma si giocò il derby; era Lazio – Roma, ed i giallorossi vinsero per 1 a 0 (anche se poi a fine campionato furono a metà classifica, mentre la Lazio arrivò seconda a 3 punti dalla vincitrice Bologna). Il gol confermo è stato segnato da Alfredo Mazzoni, che quell’anno segnò cinque gol, ed in tutte e cinque le partite in cui ha segnato la Roma ha vinto (Sampdoria, Lazio, Juventus, Napoli e Inter).
“E se il turismo fosse una malattia? … La smania di fotografare e catalogare tutti quei luoghi che, in misura più o meno grande, possono essere considerati simbolo di qualcosa.” (17)
Jean-Marie Gustave Le Clézio « Voyage à Rodrigues » Gallimard s.p. (regalo di Walid)
[A: 12/06/2017 – I: 17/12/2017 – T: 20/12/2017] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 146; anno 1986]
Un libro che ha una bella storia (come libro), una trama interessante anche se inesistente, una scrittura che, al solito, non mi convince. Ho iniziato a suo tempo a leggere qualcosa di Le Clézio dopo l’assegnazione del Nobel, ma, a parte il suo primo romanzo, quello che lo rivelò a 23 anni, non mi ha mai convinto fino in fondo. Ma torniamo all’inizio, alla storia del libro. Era giugno a Gerusalemme, e stavo portando in giro per le terre d’Israele un interessante gruppo di avventurieri. In un caldo pomeriggio di riposo, mi sono ritrovato senza più niente da leggere. Allora Walid, amico spesso utile ma spesso anche difficile, mi dice va, tieni questo, l’ho letto, non mi ha convinto, ma forse a te interesserà. Lette alcune pagine mi sono ritrovato in un turbine di cose da fare che non mi hanno consentito di andare avanti. Ma il libro è rimasto tra i primi da leggere quando c’era spazio. Volevo riportarlo nella seconda andata gerosolimitana, ma ho lisciato anche quella. Ed allora ora, nella vicinanza del Natale, l’ho letto velocemente ribadendo il grazie a Walid. E ribadendo anche il suo giudizio. Non mi ha convinto. Forse andrebbe letto con il precedente, cui fa riferimento ampiamente, “Il cercatore d’oro”. La storia romanzata delle avventure di suo nonno nelle isole mauriziane. Perché Le Clézio è, come dice lui stesso, uno scrittore francese e mauriziano. Che le radici di famiglia vengono proprio dalle isole dell’Oceano Indiano, anche se poi lo scrittore nasce a Nizza nel 1940. Dicevo che va letto insieme, perché questo viaggio è un ripercorrere le tappe delle idee che hanno generato il cercatore d’oro, ripercorrendo, questa volta senza finzione, le tappe del famoso nonno. Un libro quindi che si snoda tra memoria e descrizione. Il nonno, benché giudice in quelle isole, dedicò la maggior parte delle sue energie mentali alla ricerca del tesoro di un pirata che, probabilmente, lo aveva nascosto in una di quelle. Si imbatte casualmente in testi e mappe. Poi ne ricerca a fondo altre per completarne il quadro. Ha un’idea vincente, collocando la ricerca propria nella meno sfruttata delle isole, questa di Rodrigues. Qui il nipote, cinquant’anni dopo che il nonno è morto, ritrova le carte, ed inizia un viaggio nella memoria. Torna alle Mauritius, torna a Rodrigues, e cercando di interpretare quelle criptiche scritte cammina per i luoghi che avevano visto ottanta anni prima il nonno camminare, cercare, scavare. Il testo scorre come una lunga passeggiata, con lo scrittore che cerca un filo nella sua memoria, riannodando qua e là le attività del nonno. E poi riempiendoci di nomi di alberi, di luoghi, di faune. Ma non solo, che se si parla di pirati, poi, si ritorna anche a nominare i corsari del mare, nonché le diverse Compagnie affaristiche olandesi ed inglesi che, a volte sfruttandoli a volte osteggiandoli, fecero fortuna in quei luoghi. Certo, leggendo le righe ritorna al solito in me la voglia di andare, di vedere. Perché non sono mai andato alle Mauritius? O all’isola di Réunion? Boh, forse un giorno, o forse mai. Certo, anche, le parole che rimandano al nonno fanno rivivere i sogni chimerici di chi vive per un sogno e su quello costruisce tutta la vita che non riesce a vivere. Il nonno, con le sue attività ufficiali, con la sua vita entro le regole, non ha forza, non ha nerbo. Poi, a volte, a distanza di anni, si ritrova sull’isola, si spoglia degli orpelli esteriore e trova il suo essere cercatore. Trova anche, e ne farà uno scritto noto purtroppo solo negli ambienti dei cercatori di tesori, il primo luogo dove venne sepolto il tesoro. Che non è più lì. Per alimentare le sue speranze interne, invece di pensare che qualcuno lo trovò prima di lui, ne immagina lo spostamento in altro e più nascosto luogo. Un sogno è sempre un sogno, e così, per quel sogno, si continuerà a vivere. Anche se durante quel sogno il resto del mondo era devastato dalla Prima Guerra Mondiale. Un contrasto che l’autore, il nipote, non riesce a ricomporre. Per Le Clézio, in ogni caso, questo è un atto d’amore ed un motivo per disvelare come nasceva e da dove nasceva la sua scrittura. E come atto d’amore lo accetto. Ma dicevo la sua scrittura non mi prende. Come mi lasciano fredde tutte le pagine, per fortuna poche, zeppe di indicazioni cartografiche, di Nord e di Sud, di numeri e di passi (anzi di “piede francese” che misura 2 cm in più del piede internazionale). Lo ringrazio per la messe di parole nuove che nel frattempo, anche se molte naturalistiche che saranno presto dimenticate per la mia nota mancanza di sensibilità verso il mondo verde. E lo ringrazio anche perché mi ha fatto viaggiare leggendo (ovvio, chi legge è un viaggiatore, come dice un quadro appeso all’entrata di casa mia).
“On ne partage pas les rêves.” [Non si condividono i sogni.] (135)
Pierre Mac Orlan “Il porto delle nebbie” Adelphi s.p. (Natalino di Paola)
[A: 25/12/2017 – I: 07/01/2018 – T: 09/01/2018] - &&&&&
[tit. or.: Le Quai des brumes; ling. or.: francese; pagine: 143; anno 1927]
Probabilmente pochi non conoscono il film di Marcel Carné con Jean Gabin, Michele Morgan e Pierre Simon. Un bellissimo film, su cui torneremo più avanti. Perché qui parliamo invece dell’altrettanto bello e per me fin ad ora ignoto libro che ne fu all’origine. E quindi un grazie immediato a Paola che me lo ha fatto scoprire. Un libro decisamente diverso dal film, che però ne è stranamente fedele. Con quella fedeltà che solo le opere eccelse sanno avere. Quella di cambiare tutto per restare sé stessi. Il libro è comunque ben confezionato da Adelphi, magistrale in queste sue riproposizioni, anche se non mi è piaciuta gran che la prefazione di Ceronetti. Al contrario ho trovato ottima la post-fazione di Francis Lacassin. Che spinge, a chi come me poco ne sapeva, a cercare di più sull’autore. Scoprendo una bella figura del Novecento francese. Come sottolinea Wikipedia, un personaggio che fu bohémien, scrittore, soldato, pittore e reporter; dove però si dimentica anche l’ultima attività di Mac Orlan, quella di paroliere. Personaggio che nasce Pierre Dumarchey, per adottare quello strambo pseudonimo, primo perché quel “Mac” dava un tocco esotico (millantate ascendenze gallesi) e poi “Orlan” in onore della cittadina di Orléans, patria e luogo deputato di quello che sarà per sempre il suo ispiratore interiore: François Villon. Il nostro bohèmien, verso la fine degli anni ’20, dopo altri libri dedicati “alla liberazione dell’immagine femminile”, si butta in quest’opera che, ma questo lo sappiamo noi posteri, gli darà fama imperitura. Intanto, però, affrontiamo un primo elemento di discussione che arriva dal titolo. Infatti, il 90% del romanzo si svolge a Montmartre, che può avere di tutto, ma di certo non un porto. Inoltre, il “quai” del titolo ripercorre la nomenclatura delle strade che costeggiano la Senna (come il famoso lungosenna di Maigret, il Quai des Orfèvres). L’operazione immaginifica di Mac Orlan è ammantare il monticello parigino, teatro di molte sue avventure, delle nebbie, che spesso c’erano prima della costruzione di quella orrenda chiesa, che tuttavia fece diradare il clima lugubre del monte. Allora perché “porto”? Tutto deriva dal film. Dopo averne tratto, con Jacques Prévert, una sceneggiatura che Mac Orlan aveva apprezzato, il regista Marcel Carné ingaggia Jean Gabin come protagonista. Ma Gabin era legato ad una casa di produzione tedesca, che voleva far girare il film ad Amburgo. Dopo averlo adattato, nel momento della revisione, i tedeschi si tirarono indietro (troppo antimilitarismo), e si fece avanti una produzione francese. Tuttavia, tutto era stato “montato” per un porto, quindi invece che a Parigi, la location viene spostata a Le Havre. Ecco che si arriva al porto del titolo. Dato poi che la censura fascista impedì l’uscita del libro in Italia, che apparve solo dopo la fine della guerra, ormai il titolo del film era uscito, e rimase appiccicato anche all’opera letteraria. Oltre che per il valore filmico, l’opera comunque si solleva dal resto della produzione di Mac Orlan perché spinge al limite quella descrizione della vita e del sociale che, appunto, l’autore chiama “fantastico sociale”, un ponte letterario tra espressionismo e surrealismo. Dove si prendono miserie quotidiane e si fanno assurgere ad emblema delle miserie della vita. Il fantastico tradizionale si basava (e si basa) sull'irruzione del soprannaturale (e dell’irrazionale a volte) nella vita di ogni giorno, per Mac Orlan i fantasmi sono sostituiti da figure ambigue ma umane. Che so, Jack lo squartatore ed i suoi epigoni. Gli altri elementi costitutivi sono ad esempio i quartieri della prostituzione, il poco valore della vita umana, il potere suggestivo della fotografia, la velocità, i paesaggi devastati dalla guerra, il malessere e l’ansia generata dal presagio di futuri disastri (cioè siamo nella piena descrizione del mondo moderno). In questo quadro di riferimento, attingendo alle sue esperienze del primo decennio del secolo, l’autore, in una notte nebbiosa, fa convergere nel locale “Le Lapin Agile”, un quintetto di personaggio di cui ci spiega la natura, e che, svolazzando, fa poi seguire nelle successive vicende. C’è il pittore tedesco, che si ritiene maledetto, secondo cui lui non dipinge le persone ma la loro morte. Tensione insopportabile, che lo porta la notte stessa ad impiccarsi nel suo atelier (ma dopo aver dato da mangiare al gatto). C’è Isabel il macellaio, detto Zabel, che ripara nel locale, dopo essere estato inseguito da una banda di “apache” (ricordo che con questo termine si indicano a Parigi dei malavitosi che si aggirano in bande, e che hanno per distintivo delle scarpe molto lucide). Lui perde un pacco nella fuga. Seguiamo poi la sua storia, scoprendo che il pacco era la testa di un ricattatore da lui ucciso per rapina in un momento di bisogno. Motivo per cui Isabel sarà ghigliottinato. C’è il piccolo soldato, stanco della guerra o delle guerre (in cui Pierre mette un po’ del fratello Jean), che diserta, dopo la notte al Lapin, si aggira per qualche anno su e giù per la Francia ed i suoi porti, capendo che l’uniforme gli aveva dato un manto di invisibilità, in base alla quale poteva essere più sé stesso, visto che era privo di qualsivoglia capacità lavorativa. Così dopo cinque anni, si imbarca a Marsiglia verso la Legione Straniera (Mac Orlan non ci dice che fine faccia, ma sappiamo che Jean, suo fratello, fatta lo stesso percorso, muore in Africa, da legionario). Ed infine c’è l’eroe eponimo, Jean Rabe, eroe perché è quello su cui si appunta l’occhio di Mac Orlan come su di un altro sé stesso. Una persona abile nel fare mille cose, ma che non ha voglia, costanza o altro di farne una. Così vive arrangiandosi con lavoretti saltuari, scroccando qualcosa quando può. In Jean si sente il male di vivere, la difficoltà di reagire, l’incapacità decisionale. Tutto scorre su di lui. Anche la breve notte d’amore con Nelly, anche la scomparsa del suo cane. Ramengo anche lui sul suolo francese, viene al fine richiamato sotto le armi. Lì capisce intimamente che non ne uscirà mai, da questa sua condizione interna. Allora prende il fucile, spara ad un ufficiale, solo per farsi uccidere dagli altri soldati, quasi non avendo il coraggio di suicidarsi. Rimane Nelly, l’unica donna, che sta sui diciott’anni all’inizio del romanzo, che è invece empatica verso gli altri, anche lei tirando avanti con qualche scroccherie, ed un po’ di femminilità. Con un po’ dei soldi di Jean, si sistema per qualche tempo in una pensione. Da lì, sfruttando cinicamente il suo corpo e gli uomini che le sono intorno, sarà l’unico personaggio vincente. Triste, ovvio, come triste deve essere la vita di chi vende il proprio corpo, di chi vede sparire il grande amore (Jean). Ma la vediamo alla fine, dopo la Prima Guerra, ancora sulle tracce del limitare tra malavita e vita “normale”, andare avanti ed ancora avanti, accompagnata dal cane di Jean Rabe, che ha ritrovato (il cane, ovvio) ed adottato. Non è un caso, è nelle corde di Mac Orlan questa fiducia nello spirito femminile anche nelle avversità. Fa parte della sua complessa filosofia bohemien e parigina. Lasciamo così queste intense pagine, che tra le due guerre ci ricordano che se un orrore è finito, la cattiveria umana, presto, ce ne proporrà altro. Rimangono tocchi, impressioni, e soprattutto “Le Lapin Agile” con la sua fauna montmartriana, che vide in quegli anni passare al bancone da Aristide Bruant a Toulouse-Lautrec, da Apollinaire a Picasso, ed ovviamente Mac Orlan ed i suoi amici. Come ultima chicca, ricordo anche la nascita del nome. Era un locale quasi di campagna, che nell’Ottocento aveva cambiato tanti nomi, sino a che l’oscuro pittore André Gill ne disegno l’insegna, un coniglio che scappa dalla pentola. Tanto successo ebbe, che la locanda si cominciò a chiamare “Le Lapin à Gill”. Da qui al nome attuale, capite bene come il passo sia breve.
John Williams “Stoner” Fazi editore euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[A: 18/09/2017– I: 12/01/2018 – T: 14/01/2018] - &&&&&+
[tit. or.: Stoner; ling. or.: inglese; pagine: 332; anno 1965]
Un libro che mi ha emozionato e che ho letto tutto di un fiato. È vero, la mia amica Luciana mi aveva detto già da tempo di leggerlo ed io avevo rimandato un po’ casualmente, un po’ per quel sentore di “storie di un uomo inutile”, che mi ronzava, erroneamente, nella testa. Faccio ammenda. Questa è la storia di un uomo che forse non è utile in sé, ma che lascia tanti solchi, dentro e fuori di sé. Soprattutto, una storia talmente semplice che è proprio la storia di uno di noi, uomini forse inutili che percorriamo il suolo di questa nostra terra. Come rileva Peter Cameron nella bella post-fazione, il libro è già tutto nelle prime righe. Vediamo William Stoner descritto, e immortalato nelle sue tappe fondamentali. Nasce nel 1891, nel 1910 entra all’Università, nel 1918 si laurea (non entro nei livelli di laurea americana, troppo complicati per me), e comincia la sua docenza che porterà avanti sino alla morte nel 1956 (a soli 65 anni, e questo già mi colpisce). Il libro può finire qui. Invece Williams ha la capacità di dilatare queste tre righe in più di trecento pagine, facendo in modo che la mia attenzione non decada mai. Ci racconta l’evolversi di questa vita normale, dall’infanzia contadina all’idea di iscriversi ad Agraria, per poi essere folgorato, al secondo anno, da una lezione di inglese. Decide quindi di cambiare facoltà, e lo fa con successo, capacità. Si laurea, comincia a specializzarsi, dottorato, primo insegnamento. Conosce Edith di cui si innamora, corteggia e sposa. Ma non sarà mai un rapporto ed un matrimonio facile. O felice. Tuttavia hanno una bambina, Grace. Si nota nel loro diverso rapporto con Grace anche la difficoltà dei loro rapporti umani. Difficoltà anche sul lavoro, dove, per un eccesso di onestà, si inimica un altro docente. Che farà poi più carriera di lui, che lo metterà alle corde, lasciandogli solo briciole di insegnamento. Ma Stoner non si tira indietro. Forse dà anche il meglio di sé in questa fase. Tanto che trova anche l’amore con Kathleen. Certo, non lascerà mai Grace. Certo, non è semplice né ben visto un rapporto tra professore confermato e dottoranda. Dopo la breve stagione d’amore, dovrà fare marcia indietro. O forse Kathleen decide lei di fare un passo di lato. Rimane lì, lui, all’università. Continua ad insegnare, gli anni passano, Grace cresce, oppressa dalla sotterranea lotta familiare. Tanto che si fa mettere incinta e si sposa per poter fuggire. Gli ultimi anni ancora hanno alti e bassi. Alti professionali, che imposta i suoi corsi in modo innovativo, con gli studenti che lo seguono al meglio. Bassi familiari, che con Edith non andrà mai a soluzione, e con Grace che se ne va lontano ad annegare nel bere le sue angosce personali. Fino all’età in cui dovrebbe andare in pensione, vorrebbe rimanere, lotta ed ottiene di farlo. Ma un tumore mette fine alla sua vita ed alla sua lotta. La capacità, bellissima, di Williams di raccontarci tutta questa vita normale, banale, senza scatti. Stoner ha tante possibilità, ma come tutte le persone normali riesce a sfruttarne solo alcune. Scrive un bel libro. Comunica la passione per le lettere ai suoi studenti. Ma non farà mai il “salto di qualità”. Perché non tutti lo fanno (anzi sono in pochi). Ma Williams ci fa appassionare comunque a questa normalità. Alle battaglie che Stoner affronta nella sua vita. Con Edith. Con Grace. Con Kathleen. Con il professor Lomax. Si sente inoltre la mano di una persona anch’essa dedita e con passione alle lettere, negli intarsi di docenza. Quando Stoner parla di retorica e grammatica. Quando si discetta su Shakespeare e sul grammatico latino Donato. Si sente la conoscenza del mondo universitario, nelle lotte tra docenti, negli sgambetti, nelle ripicche, nelle lotte di potere. Si avvertono tanti mondi sottesi al testo. Il passaggio di Stoner dal mondo contadino familiare (e magistrali le pagine sulla morte dei genitori) al mondo intellettuale universitario. Stoner vi entra impreparato, e continuerà ad essere sempre esposto a chi ha alle spalle altre famiglie, altri sostegni. Come si sente l’ingenua fanciullezza del suo amore per Edith, con un rapporto in cui entrambi entrano senza sapere molto. E senza sapere molto continueranno a viverlo per decenni. Come non rimanere coinvolti inoltre quando Stoner scopre la bellezza dell’amore, quando vi si apre, quando vi trova gli unici momenti di serenità dei suoi quarant’anni. Noi siamo lì, con tutte le forze che gli diciamo dai, buttati, fai uno scatto in avanti. Eppure ci vogliono qualità anche in questo, ed un uomo normale non sempre può averle. Non sempre se la sente. Esco alla fine da queste pagine arrabbiato e felice. Arrabbiato perché avrei voluto per Stoner un’altra vita, un altro svolgersi degli eventi. Felice perché sono delle pagine che non stancano mai di essere lette. Che si concatenano, le une alle altre come un perfetto meccanismo ad orologeria. Ma anche io mi sento molto Stoner, davanti a queste righe. Sento che potrebbero esprimere meglio idee luminose che frullano nella testa. E come Stoner davanti alla prima domanda del suo insegnante, rimango muto. È talmente affascinante che non si riescono a trovare modi di condividerlo. Se non esortando a leggerlo, ed anche a rileggerlo. Un punto altissimo di letteratura.
“La persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e … l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.” (225)
“Non riusciva a pensarsi come un vecchio. Certe volte, la mattina … guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo.” (290)
Approfittando poi dell’assenza di viaggi imminenti, ci si dedica a mettere a posto cose e case. Soprattutto nel pensiero che la casa in campagna posso diventare un bel punto di riposo per quando si è stanchi. Vedremo. 

domenica 18 marzo 2018

Italiani poco "noir" - 18 marzo 2018


Anche qui il riferimento non è alla politica, cui lascio spazio altrove, ma alle pubblicazioni italiche di prodotti legati al giallo, al poliziesco, al noir, o a come volete si chiami la “letteratura di genere” (orrendo neologismo). Perché se Repubblica giustamente cerca di promuovere scrittura interessanti di autori italiani, questi 4 esempi certo non fanno una grande pubblicità alla tipologia di scrittura. Alcuni sprazzi, ma poco realmente coinvolgente, anche se con punte di passione (leggi Forcellini) che mi hanno sinceramente coinvolto. Visto che sono in polemica con Repubblica, segnalo qui un’altra pessima iniziativa editoriale: con la scusa che sono “noirissimi”, stanno ripubblicando romanzi della collana “Italia Noir” uscite solo due anni fa. Forse hanno fondi di magazzino invenduti, ma è una iniziativa veramente squallida.
Roberto Centazzo “Squadra Speciale minestrina in brodo” Repubblica Italia Noir 13 euro 7,90
[A: 01/09/2016 – I: 20/09/2017 – T: 21/09/2017] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 205; anno 2016]
Seppur interessante nell'impostazione, la collana Repubblica dedicata al noir italiano è spesso molto ondivaga. Alcune buone uscite ed altre insufficienti o molto insufficienti. Come questo libro di Centazzo, dalle premesse che incuriosivano ma dalla riuscita poco felice. Invero, una prima prova veramente deludente. Certo, qualche sorrisetto d’ironia punteggiato ogni molte pagine, ma una storia poco avvincente, e, a parte alcuni contorni che dirò poi, assolutamente priva di gialli, di polizieschi, di suspense. L'idea di fondo, tra l'altro, sembra tributare un doveroso omaggio alla lontana ai primi vecchietti di Malvaldi. Anche se Centazzo i suoi "pensionati" li fa agire in prima persona, dato che sono ancora nel pieno della forma. Ma dall'idea alla realizzazione purtroppo si perde molto. Innanzi tutto perché Centazzo indulge a lungo nel vezzo di andare su e giù per l'ultimo mese di lavoro e per il primo mese da pensionati dei nostri, con un andamento che se fosse stato lineare forse poteva risultare più avvincente. Forse ci si doveva ricordare più cose, mentre il vezzo di andare su e giù permette di avvicinare due avvenimenti lontani nel tempo, ma vicini come intenzioni ed effetti, così che il lettore non deve neanche fare un piccolo sforzo con i suoi pochi neuroni. I ricordi a lungo termine, invece, sono corretti, che riusciamo a vedere alcune azioni dei nostri all'inizio delle loro carriere. Quando, ad esempio, da bravi poliziotti alle prime armi agivano come servizio d'ordine alle manifestazioni. Interessante infatti quell'inserto sulle manifestazioni alla Scala con conseguenti problemi verso pistole sparite e ritrovate. Ma questi voli servono solo a dare un contorno maggiore ai pensionandi/pensionati. Che nel momento fatidico, invece di prendere una sedia e mettersi a guardare i lavori stradali come facemmo ridicolmente io e Anto, decidono che non è il caso di mettere al chiodo le proprie abilità. Inscenando una squadra investigativa, che possiede l’unico elemento ironico riuscito: i nomi in codice. Kukident quello dalla dentiera traballante, Maalox quello dalla difficile digestione e Semolino quello accudito dalla sua bella con le minestrine da anziano. L'altro elemento che fa scendere verso il basso il gradimento del libro, come dicevo, è poi la quasi totale mancanza di suspense. I nostri tre vanno in pensione, si aggirano senza saper bene cosa fare, finché la morte di un migrante noto a Semolino scatena nei nostri tre la voglia di riprendere le indagini. Di prendere vecchie scartoffie che non avevano portato a compimento durante il servizio attivo, per tutta una serie di motivi (ma noi ci domandiamo perché non lo hanno fatto, perché la polizia sembra essere sempre in difetto). Mentre svolgono le indagini sulla morte di Mohammed, veniamo edotti anche sulle storie personali dei tre. Kukident vedovo con figlia e cane. Maalox secco e sportivo. Semolino con una storia con Jasmine, prostituta o ex. Mohammed è un migrante cui i caramba sequestrano la merce, che non ha pagato, quindi per monito, viene prontamente ucciso. Da vecchie indagini Semolino ha un punto d'aggancio su dove i “vu cumprà” si riforniscono. I tre preparano un appostamento, vedono, seguono, scoprono. Nell’appostamento Semolino conosce anche Marika, un trans che ora ha definitivamente cambiato sesso. Seguono una macchina, scoprono degli altarini, capiscono che di mezzo c’è anche qualche “pezzo grosso”. Tanto che, nascostamente, fanno anche intervenire l’unico poliziotto ufficiale che li copriva. E che, come ovvio, si prenderà il merito della soluzione del caso. Rimanendo poi loro tre, a futura memoria per altre imprese. Kukident con la figlia che tenta di farlo stare a riposo tanto da regalargli un cane. Maalox che continua ad andare a piedi così rimane in forma. E Semolino che probabilmente avrà una storia anche con Marika, mentre penso che solo in altre storie (che non credo leggerò) risolverà i suoi rapporti con Jasmine. Centazzo tenta di mettere molta carne al fuoco: migranti senza lavoro, approfittatori senza scrupoli, sesso a pagamento, identità sessuale, lavoro e post-lavoro, inerzia del pensionato abituato da sempre ad un certo tipo di vita che, una volta privatone, non sa più che fare. Non certo come noi, che abbiamo ben presente cosa fare, ora che abbiamo tempo e spazio a disposizione. Con un filo di razzismo subliminale, ed anche qualche colpo a botti che non mi suonano poi tanto bene. In sintesi finale, una lettura da scordare presto.
Paolo Forcellini “La tela del Doge” Repubblica Italia Noir 15 euro 7,90
[A: 20/09/2016 – I: 02/10/2017 – T: 03/10/2017] - && -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 2016]
Non conosco direttamente Forcellini, ma è amico di un mio amico, e questo predispone in ogni caso ad una lettura più accurata. Mai benevola, ma attenta. Il libro è inoltre inserito nella collana ben degna del Noir in giro per l’Italia, altra cosa che solletica il mio buon umore. Fatte queste premesse, devo dire che la scrittura è piacevole (d’altra parte un giornalista come Forcellini deve saper usare le parole) ed anche piena di piccoli spunti gradevoli, soprattutto per una persona come me sempre attenta ai marginalia delle città. E Venezia di tali spunti ne offre un numero praticamente infinito, come tutte le grandi città cariche di storia (penso alle mie amate Roma e Parigi). Così non dispiacciono queste piccole divagazioni sui campi, sui canali, sulle isolette, e sulla storia grande e piccola di un suolo amato. In particolare se, come la vicenda narrata, si inserisce nel periodo di Carnevale, un periodo amato – odiato dai locali e dai turisti. Ricorderò sempre, la mia giovinezza veneziana, ed il carnevale accanto ad un attempato signore, vestito di tutto punto, con un bel cappotto di cammello e … uno scolapasta a mo’ di cappello. La storia in sé, invece (ed è il motivo dei pochi libri di gradimento) non si eleva molto e rimane piattina e scontata. Anche perché, nel corso narrativo, pochi sono i momenti in cui ci si domanda seriamente cosa stia succedendo, perché Nene è morto, e come, ed altre giallistiche interpretazioni. Scorre tutto discretamente, ma Forcellini ci fornisce su di un piatto fin troppo facile motivazioni, soluzioni, antefatti ed epiloghi conseguenti. Anche i personaggi non riescono ad essere tipicizzati più di tanto. O forse, sono eponimi di personaggi che conosciamo da tante e tante letture, da tanti e tanti anni di vita, che poco ci sorprendono. Abbiamo così il commissario Marco Manente, bravo, indagatore, conoscitore della sua Venezia, ma anche amante del buon vino e delle belle donne. Il suo vice, Santamaria, che viene dal Sud, ed ingaggi divertenti duetti verbali con il commissario, un po’ giocando sulla rivalità territoriale, un po’ sulle conoscenze storiche della nostra Italia. Dall’altra parte, gli attori della vicenda. Nene, giovane sfaccendato, poco incline al lavoro e molto alla coca, abbastanza sciupafemmine, ma con anche qualche frequentazione dei tempi liceali della buona borghesia veneziana. La sua donna attuale, Debora (senza l’H per fortuna), bigliettaia di cinema che arrotonda il salario con qualche prestazione extra. La sua amante Ludovica, attratta dallo stallone, ma portata ben presto a dimenticarlo. Galileo detto “Canocial” perché non ci vede ad un passo, gigante buono ma senza arte né parte, un po’ succube di Nene, ed un po’ incapace di fare altro che un po’ di falegnameria (imparata in riformatorio). Aldo detto “Ciosoto”, perché si dice venga da Chioggia, un vero malavitoso di stampo d’antan, che faceva anche parte della Mala del Brenta, da cui eredita i modi spicci, ma abbastanza oculato da non essere mai stato in carcere. I tre vengono ingaggiati per il furto di un Carpaccio, in un museo dove il committente sa come non far scattare i sistemi di allarme. Peccato che il guardiano notturno si metta di traverso, ed il Ciosoto pensa bene di freddarlo. Peccato anche che una settimana dopo anche Nene viene ucciso a bruciapelo, guarda caso con una pistola dello stesso calibro di quella usata nella rapina. Manente ed i suoi tentano di risolvere questo caso, non trovando appigli. Solo collegando i due casi, e quindi escludendo motivi di gelosia (dopo una notte sregolata del commissario con Debora che porterà momenti ilari in commissariato), la Questura farà passi in avanti. Che diventeranno decisivi quando Galileo capisce di essere lui il prossimo bersaglio. Spinto dal nuovo amore verso la svizzera Helga (ah, gli svizzeri) si fa furbo, rovescia le trame, fornendo a Manente una solida pista verso Aldo ed il committente, prima di riparare, felicemente anche se non facilmente, in Svizzera, dove farà perdere le sue tracce. La parte migliore, anche se forse un po’ troppo orientata (e scarsamente verosimile nell’Italia di oggi), vede tutte le piste convergere verso il Ciosoto ed il famigerato committente misterioso. Manente avrà modo di sfoderare le sue arti poliziesche per dipanare l’ultima matassa in barba a tutti. Con un epilogo quasi rosa tanto per permettere all’autore di agganciarsi ad un secondo possibile episodio. Insomma, la scrittura scorre, ma non avvince il giallo. Anche per quelle, comprensibili ma improbabili cadute verso un Paese che tutti vorremmo fosse il nostro, ma che, sinceramente non lo è ancora. Però Forcellini non mi è dispiaciuto per la passione che si sente trapelare tra le righe.
“In ricordo dell’antica usanza di mescere … [vino] ai piedi del campanile di San Marco, utilizzando la sua grande ombra per tenere la bevanda e gli avventori al fresco. Per questo nella Serenissima un bicchiere di vino viene comunemente chiamato ‘un’ombra’” (10) [per esemplificare gli inserti gradevoli dell’autore]
Mariolina Venezia “Come piante tra i sassi” Repubblica Italia Noir 14 euro 7,90
[A: 30/08/2016 – I: 23/11/2017 – T: 24/11/2017] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 250; anno 2009]
Non ho letto il primo celebrato libro di Mariolina Venezia (quando vinse il Campiello nel 2007 con “Mille anni che sono qui”), quindi per me è una scoperta come scrittrice, come scrittura, e come ambientazione. Complessivamente una prova discreta, che, sebbene inserita ed inseribile nelle scritture “Noir” ha anche qualcosa in più, con un tentativo di scrivere di una città e di una regione non molto al centro delle cronache italiane. E tuttavia anche qualcosa in meno, che non riesce mai realmente a decollare, rimanendo di un libro di buona lettura, con qualche spunto, ma non particolarmente riuscito. Possiamo farne una lettura su due canali ben distinti. Se lo guardiamo come libro “giallo” ha alcune caratteristiche fondanti di una possibile scrittura seriale: un’investigatrice simpatica, anzi più che investigatrice, Immacolata Tataranni detta Imma è sostituto procuratore, addetta alle indagini. Ben costruita, come personaggio: bassina, rotondetta, self-made woman venuta su dalla gavetta, costruitasi con “sangue, sudore e lacrime” come direbbe Churchill. Con una memoria elefantiaca che l’aiuta là dove non arriva l’intelligenza, ed una propensione alle relazioni sociali pari a quelle dell’aglio (immagine rubata ma che mi piace molto). Comunque con ben in mente dove sia il bene e dove sia il male, chi siano (o possano essere) i cattivi e gli approfittatori. Ha un marito non molto presente, ed una figlia dalle turbe adolescenziali (o pre). È aiutata nelle indagini dall’appuntato Caligiuri, verso il quale ha trasporti non proprio da capo (quasi che potesse nascere un legame, tale che in una serie darebbe adito a puntate su puntate). Anche perché Caligiuri non solo è simpatico, ma anche ben presente nello scoprire possibili connessioni malavitose ed altre cose “da poliziotto”. Lo possiamo però anche vedere come un nuovo spaccato della vita del Sud, in particolare in una regione non particolarmente baciata dalla fortuna delle lettere e delle vicende italiche. Da quel lontano Cristo che si fermò ad Eboli, poco ci viene dalla Basilicata letteraria, anche se potrebbe essere una mia mancanza (che a parte la scrittrice presente, ho in mente solo Gaetano Cappelli e Rocco Scotellaro come altri esponenti della moderna regione). E lo scritto di Mariolina potrebbe (può) essere visto come un tentativo di darci uno spaccato di quelle terre, da un punto di vista non tradizionale. Così certo possiamo vedere e gustarci un ritorno a Matera, città che amo con la sua irresistibile alterità, ai suoi “Sassi” ed alla campagna intorno. Ma anche ai personaggi, che, nel bene e nel male, popolano quella terra (ma anche il resto d’Italia). Gli arricchiti, i potenti che evadono il fisco, che rubano reperti archeologici. La piccola borghesia lucana, con tutti i rapporti di connivenza e di copertura che si istaurano. E poi i contadini, i personaggi legati alla terra, che da quella traggono idee e sostegni. Gli immigrati, sia poveri che raccolgono pomodori, sia più “agiati” come le badanti, generalmente ucraine, generalmente capaci di emanciparsi, o di aiutare gli ugualmente poveri locali. Per finire con “i reduci del ‘68”, quelli che hanno fatto cortei e rivoluzioni, che hanno rifiutato il posto fisso per non cadere trappola di orari, capi e capetti. Che dipingevano murales in campagna, che mettevano su comuni vissute come se fossero l’ultima spiaggia. Questi due mondi si intrecciano in seguito alla morte (omicidio) di Nunzio, seguendo le orme del quale Imma scoperchia la Basilicata del malaffare, con i raggiri legati allo smaltimento di rifiuti tossici. Indagini che la portano a scoprire illeciti di ogni tipo: trafugamento di beni archeologici, smaltimento abusivo di rifiuti tossici, connivenze e complicità nelle alte sfere, tanto che, quando le indagini del sostituto sembrano essere arrivate alla scoperta della verità, le vengono sottratte dal superiore. C’è anche un’adolescente incinta, nonché una soluzione, almeno della morte di Nunzio, che di certo non ci si aspetta. Ma, come ormai chiaro, il giallo è (anche) un pretesto narrativo per descrivere il paesaggio delle campagne lucane, le tradizioni, i canti popolari, le masserie abbandonate. Una visione che Venezia contrappone alla descrizione dei giovani tecnologici, con abiti firmati e abitudini borghesi (l’odioso aperi-dinner!). con una piccola trama ironica, che attraversa tutto il libro nel tentativo di Imma di prendere in castagna l’impiegata del comune Maria, nonché moglie del prefetto, che si fa timbrare il cartellino per andare a far shopping nelle boutique del centro. Si vede che, benché non in modo lineare, la scrittrice tenta di darci un flash composito di questa terra, che lei (ma anche noi) profondamente ama. Purtroppo non un libro compiuto, anche se poi seguito da un secondo (“Maltempo”) che però non leggerò (almeno per ora).
 “Se non sai chi eri come fai a sapere chi sei? … E a distinguere i nemici dagli amici?” (135)
Carlo Flamigni “Un tranquillo paese di Romagna” Repubblica Italia Noir 20 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 19/01/2018 – T: 20/01/2018] - && --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 172; anno 2008]
Peccato! Dopo un inizio promettente, lo scritto del dottore in pensione Carlo Flamigni si è andato spegnendo, e incupendo in una trama abbastanza scontata, seppur con un piccolo sussulto finale. Flamigni è romagnolo, e si sente nello scritto quando usa i toni sanguigni per descrivere la sua terra, i suoi abitanti, le manie, le partite a “maraffone” (un gioco di carte romagnolo che si spiega quando lo si chiama con il nome italiano “tresette con taglio”). Flamigni, da medico, si è sempre occupato (anche) di bioetica, di contraccezione ed altre nobili cause, ed anche qui se ne hanno nello scritto alcuni sentimenti (seppur lontani e velati). Tuttavia, quando entriamo nel vivo dell’azione poliziesca o investigativa, il passo cede, la mano si arresta un poco, e si perdono molti dei punti accumulati. Dicevo, la parte migliore è l’avvio, quando ci presenta la compagine al centro dell’azione e dell’investigazione. La famiglia (allargata) Casadei (e già il cognome è un bel salto in Romagna). C’è il padre, Primo, detto “Terzo” perché non aveva mai brillato gran che nello studio e nella giovinezza, trovando solo in tarda età (avvicinandosi alla cinquantina, credo) uno sbocco alle sue capacità neuroniche nello scrivere e nel ragionare, soprattutto con il suo amico poliziotto (di cui sotto). C’è la madre, Maria, nome italiano ma lei è cinese, ed è entrata nella vita di Primo in qualche storia precedente, ma a pieno titolo. Perché parla solo cinese e romagnolo, e non italiano. Ci sono le gemelle (quasi cinque anni, credo) Berenice e Beatrice. C’è l’ottantenne, che aiutò e rimase legato a Primo, tanto da entrarne a far parte del giro, di cui non sabbiamo il nome, ma che, conoscendo tutti i detti romagnoli (ed anche qualcuno in più) viene chiamato Proverbio. Infine c’è il ventenne di fisico ma molto più indietro di intelletto, Pavolone, un gigante rabelaisiano diventato factotum e guardia spalle della famiglia Casadei. Come accennato, c’è anche il poliziotto amico, che, venendo da una famiglia di melomani, è stato chiamato dai genitori Macbetto (terribile! anche se potrebbe essere un omaggio al grande Giovanni Testori). Passabile anche l’introduzione della gente del paese dove Primo & soci vanno a passar l’estate per curare una gemella malata. Dove incontriamo il maestro di scuola, giovane molto preparato, ma un po’ sfuggente, il veterinario che, si dice, sia uso a piccoli traffici utilizzando gli animali di compagnia, il medico, preparato di certo, ma che ha in odio i bambini per un non sanato astio con l’ex-moglie, il gestore della sola locanda del luogo, che cerca di arrotondare gli incassi provando a ricattare le coppie irregolari che frequentano il suo albergo, il prete, colto, preparato, dai bei sermoni, ma cupo e roso da qualcosa che la gente di paese non riesce a sapere, il pittore, che gira per la campagna, baldo e spavaldo, a ritrarre luoghi e persone, quasi a mo’ di moderno macchiaiolo. Ciò detto, quando si incomincia a fare sul serio, quando il dramma irrompe sulla scena, tutta questa introduzione, che sembrava volgere al leggero, se non al faceto, si tramuta in dramma. Viene barbaramente uccisa una bambina coeva delle gemelle. Poi viene tentato anche il rapimento di Beatrice. Viene altrettanto malamente ucciso un bambino di dieci anni, mago dei videogiochi. Insomma, si entra a pieno titolo nell’ordalia di una pedofilia annunciata. Ma di certo strana, come rilevano Macbetto e Primo. Che non si ha serialità, anzi c’è molta casualità. E noi che abbiamo letto di molto sappiamo che un serial killer casuale è introvabile. Tuttavia Primo non demorde, e mentre si addentra nella ricostruzione della storia del nonno (gradevole ma che è fuori contesto), entrando in contatto con gestori di archivi comunali, professori in pensione, nonché gente della curia, scopre qualche altarino poco simpatico. Il prete pare abbia abusato di due ragazzi quando era insegnante. Roso dal rimorso, viene messo a “bastone corto” dal vescovo e spedito in campagna ad espiare. Sappiamo poi che uno dei due è proprio il maestro, che però non sembra dedito a pratiche “illecite”, anzi si confessa e si comunica tutte le settimane. Si scopre inoltre che il pittore è fratellastro del secondo ragazzo (morto anni addietro per overdose). Quando poi viene trovato ucciso il veterinario ed anche il pittore trova la morte, Primo capisce più connessioni di quante ne abbiamo capite noi. Ed il tutto si avvia verso una fine altrettanto e discretamente truculenta. Tra confessioni, contorcimenti e pentimenti tardivi. Tutto però cupo e non più solare come l’inizio. Una prova di basso profilo, che sarebbe stata più interessante se avesse mantenuto il profilo farsesco. Non regge tensioni “nere”, non riesce a costruire atmosfere cupe. Certo, alla fine sapremo tutto, ma non ne saremo particolarmente coinvolti. Flamigni ha questa scrittura double face, che regge bene il lato ironico, ma decade nel lato “noir”, ed è un peccato. Che alla fine se c’è l’intento di colpire il clero deviato (come detto in una trama su Simoni, ci vuole altro per parlarne, non certo un giallo di poco peso), il risultato è poco felice e poco convincente. Poiché questo meriterebbe altre parole, io mi fermo qui.
Terza trama, e quindi cerchiamo di renderci felici, magari leggendo accanto ad un camino (ma solo nel fine settimana), la grande saga di Margaret Mitchell, come cerco di illustrare in allegato.
Per il resto, si sta alla ricerca di un buon passo di ricostruzione di case, alloggi, ed altre situazioni, che ognuno sa, anche se difficilmente pratica, la manutenzione essere una delle cose più difficili da perseguire, anche per chi è molto zen. Sperando di avervi confuso le idee, vi risollevo il morale con molti abbracci.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

MARZO 2018
Facciamo un salto con tripla capriola all’indietro: si torna alla guerra civile americana, all’infanzia della TV in bianco e nero ed al superbo e lunghissimo volume “with the wind”.

TERAPIE D’AMORE (IX)

VIA COL VENTO di MARGARET MITCHELL (1936)

Pillole di trama       
Tutti conoscono, almeno per grandi linee, la trama di “Via col vento”, anche chi non ha letto il romanzo. Tutti, infatti, hanno visto il film. Se non lo avete fatto, siete davvero un caso patologico da curare oltre che da studiare. Detto questo, mi limito a dire che il libro è un incredibile affresco storico e melodrammatico che racconta, in oltre mille pagine, le vicende sentimentali di Rossella O’Hara sullo sfondo della guerra di secessione.
Supposta-saggezza
Se vi piacciono le lunghe e appassionanti epopee dove amore, guerra, lacrime e sangue si amalgamano in un appetitoso polpettone cotto a puntino e condito alla perfezione, adorerete il romanzo di Margaret Mitchell che più o meno tutti (tranne i casi patologici di cui sopra) abbiamo assaggiato, gustato e quasi sicuramente riassaggiato più e più volte nella sua gustosissima variante “pizza” ovvero in pellicola, nella versione cinematografica. Fedelissimo al libro, il film è entrato nell’immaginario collettivo in maniera indelebile così che leggendo il romanzo Rossella ha il volto di Vivien Leigh e Rhett quello di Clark Gable; per tutti Tara e Atlanta sono quelle ricostruite negli Studios di Hollywood e voltando le pagine si ha quasi l’impressione di sentire nella testa le note della celeberrima colonna sonora. Goffredo Parise ha definito il romanzo «una specie di “Guerra e pace”, o meglio di “Gattopardo” ma americano». Se avete quindi il timore che il polpettone sentimentale della Mitchell vi si piazzi sullo stomaco con la sua considerevole mole non temete, perché è un incredibile racconto spettacolare all’americana. E gli americani sanno bene cosa sia lo spettacolo, l’entertainment, ne conoscono i meccanismi di fascinazione e li applicano in ogni campo, dal cinema alla letteratura passando per la cucina. Margaret Mitchell intrattiene i lettori con un tourbillon grandioso di feste, balli, città in fiamme, bombardamenti, ospedali che pullulano di soldati sanguinanti, tramonti infuocati, fughe, baci appassionati, litigi impetuosi, illusioni d’amore, amori travagliati, amori non corrisposti, amori d’interesse. Parte del successo del romanzo, unico dell’autrice e vincitore del Pulitzer, è garantita soprattutto dall’incisività dei personaggi. La vera forza di “Via col vento”, diciamolo francamente, è la sua protagonista, senza dubbio uno dei personaggi più forti e originali della letteratura. Antieroina per eccellenza e lontana dal prototipo della protagonista femminile da romanzo d’amore, Rossella è un vortice di difetti: capricciosa, viziata, vanitosa, incostante, presuntuosa, furba e calcolatrice. Senza contare che, da brava sudista, è a favore della schiavitù. Vi farà saltare i nervi, metterà a dura prova la vostra pazienza, la troverete insopportabile. Ma Rossella è anche un fuoco di energia, fascino e forza d’animo, è moderna e volitiva nel suo rifiuto di essere sottomessa a un uomo, tenace e coraggiosa nel voler difendere a tutti i costi le sue radici, e riesce a conquistare anche il lettore più infastidito e glaciale, inchiodandolo al libro fino all’ultima pagina. Come i personaggi del romanzo, tutti subiamo il suo fascino e tutti ne siamo schiavi. Possiamo tentare una timida ribellione ma poi dobbiamo arrenderci perché Rossella è più forte.
Chi non conosce, anche grazie al film, la celebre frase: «Dopotutto domani è un altro giorno»? Basta questa battuta perché l’insopportabile e opportunista Rossella si trasformi nella paladina di tutti i cuori calpestati dalla vita, interprete di una variante più individualista del «yes we can», ovvero «yes I can», posso farcela perché «dopotutto domani è un altro giorno». Non c’è l’happy ending per Rossella (anche se siamo certi che farà di tutto per rialzarsi e riprendersi il suo Rhett e, conoscendola, ci riuscirà) ma il suo esempio e la sua forza di carattere sono in grado di rendere happy il lettore.
Posologia
“Via col vento” è un rimedio idoneo ad affrontare situazioni di convalescenza di varia natura, tutte quelle in cui si è inchiodati a casa, annoiati e pure un po’ capricciosi proprio come Rossella. Trasportati da un vento impetuoso di passione, storia, amore e guerra, s’inganna il tempo evitando anche di sfinire chi ci sta intorno con la nostra sofferenza e i nostri acciacchi. D’altra parte Margaret Mitchell ha scritto il libro durante una lunga convalescenza, quindi tutto torna. Oltre a essere un ricostituente che favorisce il recupero emotivo dopo brutte relazioni amorose che stendono peggio dell’influenza, malanni sentimentali e altre calamità naturali che la vita tiene sempre da parte per spezzarci le gambe e il cuore, consente anche di reintegrare al bisogno la quota fisiologica di forza d’animo. La ferrea e testarda volontà di Rossella aiuta l’organismo a rispondere alla sensazione di debolezza con il recupero delle energie necessarie per combattere eventuali avversità. Se in amore la sua cocciutaggine diventa il capriccio ottuso di inseguire un uomo, Ashley, che non la ama (o ha paura di amarla), nella vita pratica diventa quella marcia in più che le permette di affrontare guerra, epidemie, incendi, lutti, perdite e dispiaceri di ogni genere.
Proprio in virtù dell’ostinazione della protagonista, il romanzo è un valido aiuto per chi ha la tendenza a fissarsi inseguendo un’idea d’amore irrealizzabile che alla lunga diventa puntiglio, ovvero per chi non si arrende all’amore non corrisposto. Rossella si impunta nella convinzione che Ashley sia l’uomo della sua vita e passa anni a inseguirlo, braccarlo e bramarlo senza rinunciare a lui neanche quando sposa l’adorabile, dolce e paziente Melania. Conquistarlo diventa una questione di principio a cui non vuole rinunciare (nel frattempo cede alla corte di altri uomini perché è una romanticissima opportunista innamorata della sua terra che deve salvare a tutti i costi), e non si accorge neanche che, tutto sommato, Ashley è piuttosto scialbo, debole e pure un po’ codardo. Se Rossella fosse più lucida, vedrebbe chiaramente che non regge minimamente il confronto con Rhett: uno è il bravo ragazzo, noioso e insipido anche se dotato di buon senso, e l’altro è l’irresistibile canaglia capace di sbattere la porta in faccia all’amore pur di mantenere la dignità. Rhett è strafottente, meschino, anticonformista ma anche coraggioso, sincero, ironico e sorprendente. La noia non sa neanche cosa sia. Obiettivamente, a livello di fascino e carisma non c’è lotta. Anche nel film: vogliamo mettere i tristi capelli biondi e ondulati di Leslie Howard contro i baffetti insolenti e malandrini di Clark Cable? Rossella pecca di vanità: vuole l’unico uomo che non può avere e tira troppo la corda facendo scappare quello della sua vita. Quindi, per ritrovare lucidità mentale e disintossicarsi dalle utopie amorose, si suggerisce la somministrazione di “Via col vento” prima che sia troppo tardi e qualcuno, magari quello giusto, vi abbandoni nonostante le suppliche e gli occhi dolci. Nel caso in cui fosse troppo tardi, il vostro Rhett se ne fosse già andato e voi vi ritrovaste avvolte nel piumone con il cuore in fiamme a piangere sui vostri errori, la cura a base del romanzo della Mitchell è perfetta per rimettervi in piedi e ripartire. Magari il giorno dopo.
Infine, l’incipit del romanzo è un valido antidoto per stroncare quel pregiudizio femminile che provoca repentini e ripetuti cali d’autostima, ovvero l’idea che la bellezza sia tutto per conquistare un uomo: «Rossella O’Hara non era una bellezza ma raramente gli uomini se ne accorgevano quando [...] ne subivano il fascino». Se Rossella, che non è una bellezza, è antipatica e piena di difetti, riesce a far cadere ai suoi piedi tutti gli uomini che incontra, allora c’è speranza per tutte. Va bene, non riesce a conquistare l’unico uomo che desidera, ma Ashley è l’eccezione alla regola. Per una sensazione di sollievo, spalmare il concetto sui lividi dell’autostima fino al totale assorbimento.
Effetti collaterali
Oltre all’insano vagheggiamento d’essere baciate con lo stesso ardente trasporto di Clark Gable, l’effetto collaterale riscontrato più frequentemente è il desiderio di avere una personale Mami, la mitica, prosperosa e sagace tata di Rossella, sempre a disposizione per dispensare coccole e saggi principi come il concetto che «quello che giovanotti dire e quello che pensare essere due cose».
Terapia cinematografica sostitutiva
Se la cura letteraria ha avuto effetto, vi sentite ristabiliti e pronti a rimettervi in piedi per voltare pagina, concedetevi un’ultima serata involtolati nel piumone dello sconforto amoroso per godervi uno dei film più belli della storia del cinema, apoteosi del grande spettacolo hollywoodiano, scommessa vinta dalla testardaggine e dal fiuto del produttore David O. Selznick.
Raramente la versione cinematografica di un romanzo è riuscita a mantenerne intatta la resa narrativa come il film di Victor Fleming. Ritroviamo la stessa atmosfera e i personaggi così come Margaret Mitchell li ha descritti nel suo racconto sentito e appassionato della guerra di secessione. Come il libro, anche il film è una storia d’amore, un affresco storico e un racconto di guerra che, con il suo finale inneggiate alla possibilità di ricostruire un mondo andato in frantumi, fu in grado di infondere coraggio all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale. Perché un film, come un libro, ha questo potere. Con gli occhi e il cuore confortati e affascinati da uno spettacolo indimenticabile, anche voi vi sentirete davvero pronti a ricominciare da capo per andare “Via col vento” (in poppa).

Commenti

Casualmente, ho parlato di “Via col vento” meno di un mese fa, ma ne riparlo volentieri, perché è un libro che merita di essere letto, anche con calma, come sostengo sopra.
Margaret Mitchell “Via col vento” Mondadori euro 12
[pubblicato il 25 febbraio 2018]
Devo dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine. Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e discretamente coinvolgente. Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film abbiano raggiunto i loro scopi. Ma qui si parla di scrittura, ed al libro torniamo. Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’ dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si, proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita che, forse, ha ancora strascichi passati che siano 150 anni. Il libro in realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche, proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione. Una parte storica che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli. Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anzi ben poche) erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o non molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che, per far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella) compera dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta. Era una vita di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe permesso, a chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come avrebbe voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il soldato. Che sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati greci. E che, una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi “schiavi” negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle “Dodici Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli “yankee”. Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori di situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano. Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo bianchi e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che quello era il Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank Kennedy, ma anche (e tuttora) razzisti e profittatori. Insomma, c’è molto di più di quello che potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà sopra). Anche perché lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di quelle terre. È un miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche (e lo confesserà), ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire, fin dall’inizio, che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il Nord. Una su tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito (soprattutto all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di professione (come sono le giacche blu che da tempo combattono per tutto il territorio americano). Secondo tema del libro è quello dei risvolti umani, delle relazioni, delle storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che attraversa le mille pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per matrimonio). E con uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui la ami. Per questo sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza lasciare traccia. Che per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica Tara, sposa Frank (Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo ruolo, anche se non ben accetto, all’interno della società georgiana post-guerra. Diventa imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno stupro, che porterà i suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e tutti gli altri) a cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi cadendo nella trappola delle giacche blu. Da cui vengono salvati proprio dal “malvagio” Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui la tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti migliori (spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti di Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due. Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per maturare. Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se mai lo si capirà). Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17 più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato, amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di Rhett). Insomma, un libro che è un vero micro cosmo di quasi tutto. Un libro che fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta) l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare che aspettare risposte a richieste non fatte. Un libro che mi è piaciuto, che tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara. Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la prima scelta, che era Erroll Flynn). Quindi, anche se avete visto il film, leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o, come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is another day”).

Finalino

D’accordo in tutto, il volumone è un compendio di vari modi di trattare l’amore, andando tutto ciò anche aldilà degli intenti di Margaret, quando voleva solo fare una saga del “Grande Sud”. Ma leggerlo, se non rende felici, almeno allevia possibili infelicità.

domenica 11 marzo 2018

Più si è vecchi... - 11 marzo 2018

Ovviamente mi riferisco alla scrittura, che il più “anziano” del quartetto è senz’altro il miglior e di gran lunga. Böll non è facile, ma imperdibile. Gli altri navigano poco sotto la sufficienza, anche se le premesse erano migliori. Mi aspettavo di più sia dal mitico “graduate” che dal premio Nobel. L’ultimo, solo una conferma di un libro a volte furbetto, ma ben scritto (anche se con modi che non sempre mi sono congeniali).
Charles Webb “Il laureato” Sonzogno euro 5,95 (in realtà scontato a 1,80 euro)
[A: 04/05/2015– I: 14/10/2017 – T: 21/10/2017] - && +
[tit. or.: The Graduate; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 1963]
Secondo le mie libropeute andrebbe letto da tutti gli studenti universitari. Io allargherei il brodo, proponendolo un po’ a tutti, con l’avvertenza che: se conoscete a memoria il film avrete molte immagini sovrapposte (e non sempre giuste), se non conoscete Webb, sarebbe bene capire anche chi sia l’autore. Intanto, non so dirvi cosa sia meglio, anche se è certo che il film, con la sua risonanza, è un punto fermo nel panorama ideale di molti di noi. Ed è anche certo che senza il film, questo libro sarebbe rimasto uno dei tanti buoni propositi letterari americani. Scritto per di più da un irregolare della scrittura, da questo Charles Webb che (sembra anche in modo para-auto-biografico) produce questo libro, di protesta, verso un mondo che già vedeva stretto per i suoi orizzonti. Poco prima si era sposato con la sua Eve (cui dedica il romanzo), e comincia una vita strana ed errabonda. Eve si taglia i capelli a zero e decide di farsi chiamare Fred, come un noto gruppo femminista californiano. Charlie cede i diritti del libro per ventimila dollari. Charlie e Fred-Eve hanno due figli e, tanto per gradire, gestiscono un campo nudisti, divorziano per protesta verso il modo in cui vengono trattate le donne, ma ancora vivono insieme, fanno mille lavori: uomo delle pulizie, cuoco, raccoglitore di frutta, commesso in un supermercato. Attualmente, quasi ottantenne, vive nella costa sud dell’Inghilterra, sulla Manica. Ma veniamo al libro, che non è un capolavoro di scrittura, pur avendo alcuni presupposti interessanti, e che vengono intuiti da Mike Nichols, il regista del film. Perché il libro è tutto un dialogo, come ci si può aspettare da un libro dei primi anni sessanta, che cerca di farci intuire delle cose. Ma che con difficoltà ce le descrive. un dialogo tanto ben fatto, che, come dice qualcuno, sembra già di leggere il copione del film e non il libro da cui ne viene tratto. Ed attraverso i dialoghi vediamo (o meglio sentiamo) la ribellione del protagonista, Benjamin Braddock detto Ben, verso il mondo perbenista ed omologato della California del tempo. Illuminanti, pur nella loro essenzialità, gli scontri verbali tra Ben e il padre. Illuminanti, per un verso opposto, i mancati dialoghi tra Ben e Mrs. Robinson. Moglie di un amico del padre, conosciuta alla festa al ritorno dal suo “Graduate” (che più o meno equivale alla nostra laurea triennale), è una donna disillusa dalla vita e per ripicca alcolizzata ed un filino perversa. Ma anche, americanamente, diretta: vuole Ben come oggetto di piacere, e lo prende, lo usa, quasi gli fa da mamma. Tanto che lo istruisce e lo maltratta, come in molte famiglie non solo americane. Ed alla fine lo ripudia, quando il suo vibratore privato ha l’ardire di mettere gli occhi sulla figlia, unico suo punto debole. Elaine Robinson è pura, Ben è traviato. Ed ecco la buona, sana, mamma americana fare di tutto per allontanare i due. Arrivando a confessare i suoi misfatti, pur indorando la pillola, dicendo cioè che è Ben che le ha messo le mani addosso. Ma Ben, dopo tutta la noia dello studio, del padre, dell’insulsa vita familiare, nonché delle scopate senza amore con la signora Robinson, capisce le potenzialità del suo rapporto con Miss Robinson. La corteggia, dichiara il suo amore, rischia di perderla dopo la confessione, che Elaine fugge e non lo vuole più vedere, anche in questo sobillata dalla madre. Per arrivare all’epilogo che tutti conosciamo per aver visto il film (e quindi non scopro certo misteri): Ben vuole impedire che Elaine sposi un altro, entra in chiesa ma non riesce ad arrivare alla navata principale, è costretto a salire al primo piano, e dalla ringhiera vede Elaine andare verso l’altare, comincia a prendere a pugni la ringhiera, ad urlare, si precipita giù, lotta con tutti, e poi finalmente prende la mano di Elaine, corre fuori dalla chiesa Presbiteriana di Santa Barbara, e si avvia in autobus verso l’aeroporto. Avrete di certo notato le piccole differenze con il film, ma non importa, tanto non è un libro giallo di cui non dovreste sapere il finale. È un libro pieno di archetipi della vita americana (non ultima la Duetto rossa che il padre regala a Ben), ed ha in nuce i prodromi di quella ribellione che anche il film (che è del 1967) anticipa, e che proprio in California scoppieranno l’anno seguente. Ripeto e concludo: non un libro indimenticabile, ma un libro che funziona da madeleine proustiana, e che invoglia, ad un certo punto, di prendere un qualsiasi diffusore sonoro, e mettere su la colonna sonora mirabile di Simon e Garfunkel. E continuare a leggere mentre nella mente scivolano le parole “Hello darkness my old friend”, l’inizio di quel suono del silenzio che ad un certo punto riporta due versi scolpiti nella memoria per la capacità di rendere tutto un mondo: “People talking without speaking, People hearing without listening” [“Persone che parlano senza dir niente, persone che sentono senza ascoltare”]. Ascoltate e pensate, amici mei.
Kazuo Ishiguro “Quel che resta del giorno” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 22/10/2017 – T: 28/10/2017] - && +
[tit. or.: The Remains of the Day; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 1989]
Avevo preso il libro di Ishiguro consigliato dalle libropeute per curare la tendenza a procrastinare. Poi, ne ho accelerato la letteratura sia per la sua nomina a Premio Nobel sia perché stavo visitando il suo paese natale. Pur apprezzando il libro, queste due ultime qualità non ne costituiscono un punto forte. Certo, l’autore è giapponese, e si nota nella cura dei dettagli, nella particolare attenzione alle atmosfere. Ma la scrittura, il senso che ne viene fuori è tipicamente, intrinsecamente inglese. Inoltre, non sempre il Nobel va ad autori a me congeniali, anche perché io da anni sostengo che vada assegnato ad Amos Oz, ed anche quest’anno sono stato deluso. Tra l’altro, ed in maniera del tutto casuale, nell’ultimo periodo ho letto diversi libri in seguito trasformati in film. Ed anche in questo caso, devo dire che il film, nella magistrale trasposizione di James Ivory, nonché nelle superbe interpretazioni di Anthony Hopkins ed Emma Thompson, si apparenta al libro, facendo diventare il complesso libro-film un oggetto leggermente superiore alle sue parti costituenti. Ma qui si parla del libro, che pur nella sua ben costruita struttura, in parte mi ha lasciato distante. Certo, il messaggio finale, su cui tornerò, fa riflettere, ma il personaggio Stevens spesso mi ha fatto innervosire, non riuscendomi empaticamente a calarmi nei suoi ragionamenti. Stevens è stato per decenni il maggiordomo di una nobile magione inglese, la dimora di Lord Darlington. Dove ha passato la vita, essendo figlio del maggiordomo precedente, ed ha visto anche passare la vita, assistendo, da spettatore e fedele servitore a diverse situazioni importanti. Ora, la dinastia dei Darlington è finita, e lui e la casa sono al servizio di un americano, mr. Faraday. Già lì, nella contrapposizione tra Vecchio e Nuovo mondo, Ishiguro riesce a farci percepire sia l’atmosfera inglese, sia la difficoltà di Stevens di stare al passo con i tempi. Lui non è fatto per un mondo di velocità ed informalità. L’occasione scatenante il lungo flusso di coscienza del maggiordomo è una lettera di una governante, a suo tempo a servizio nella stessa casa, Miss Kenton, che ora è sposata e vive altrove. Ma lui prende a pretesto la missiva per chiedere una settimana di ferie, e fare un giro nella campagna inglese per andarla a trovare. Il tragitto tra la casa e la Cornovaglia gli innesca un percorso a ritroso nella sua esistenza, dove va ripercorrendo i fasti di Darlington Hall, ma anche le sue piccole tappe private. Con la speranza, che quasi non vuole confessare a sé stesso, di poter recuperare occasioni perdute. Intanto ripercorre le sue tappe fondamentali, tutti i piccoli e grandi avvenimenti della sua vita, lui educato a reprimere ogni emozione, abitante di un ruolo che non dismette mai, in nessun momento della vita. Si sente anche parte della Storia, quando per la magione sembrano passare i destini dell’Europa, anche se dalla parte sbagliata che Lord Darlington era propenso ad una alleanza con la Germania hitleriana. Stevens rimane sempre e comunque impassibile, impassibile alla morte del padre, fermo nell’aderire alle richieste di Lord Darlington di licenziare due cameriere ebree, impassibile ai sentimenti che sembra, pare, ipotizza (ma lo pensa solo ora) possa aver avuto Miss Kenton nei suoi confronti. Ripercorrendo con onestà tutta la sua vita, si rende conto che avrebbe potuto fare altro, che avrebbe potuto far fronte in modo diverso ai piccoli incidenti che resero irrealizzabili i suoi grandi sogni. Sarà proprio Miss Kenton alla fine che gli aprirà gli occhi: non è possibile far andare indietro l’orologio del tempo, e poiché non esistono esistenze perfette, non ci resta che godere di quello che resta del giorno, e fare di questa che viviamo la parte migliore della propria esistenza. Ripercorrendo ora il libro, mi rendo conto che quello che più mi ha irritato è la mia somiglianza con l’atteggiamento di Stevens di ripercorrere ogni minima azione, per analizzarla, motivarla, inquadrarla, e accorgersi della mancanza di spontaneità che ne deriva. Certo, il punto centrale di Stevens è il concetto di dignità, di capacità di mantenersi coerente ad un ruolo in tutti i momenti della vita. Ma come Stevens alla fine ci domandiamo se sia giusto soffocare la propria personalità, oppure sia meglio reagire in nome di quell’onestà intellettuale che è parte integrante della coscienza. Una risposta, tacita, alla fine Stevens ce la propone, in un sussulto di coerenza con tutti i ragionamenti che lo hanno portato fino a lì. Se infine, ci rendessimo conto, al tramonto della nostra esistenza, di aver fatto le scelte sbagliate e di aver perso l'opportunità di essere veramente felici, dovremmo risponderci come fa sotto Miss Kenton.
“Ci si deve convincere che la nostra vita è altrettanto buona, forse addirittura migliore, di quella della maggior parte delle persone, e di questo si deve essere grati.” (263).
Markus Zusak “Storia di una ladra di libri” Pickwick euro 14
[A: 16/05/2017– I: 29/10/2017 – T: 07/11/2017] - && e ½
[tit. or.: The Book Thief; ling. or.: inglese; pagine: 564; anno 2005]
Storia di un libro di successo, un po’ furbetto ed un po’ no, da cui mi aspettavo qualcosa in più. Certo, il libro stesso e l’autore sono acclamati e classificati come autori specifici per “young adults”, ma dal clamore di questo libro, che nel 2014 è risultato il più venduto in Italia, pensavo fosse una storia più innovativa. Invece, seppur non posso negare che per un pubblico giovanile possa avere degli “appeal”, alla fine risulta un po’ scontato. Innegabile, ovvio, che non si possa rimanere freddi e distanti rispetto ad un libro che parla di avvenimenti in Germania tra il 1939 ed il 1943. Ovvio che il pensiero vada all’autore stesso, australiano figlio di due emigrati di lingua tedesca, se colleghiamo nomi e quanto ci viene accennato di sfuggita (ma non proprio da lasciarmelo sfuggire) verso il finale del poderoso (in quanto a lunghezza) romanzo. Quindi, libro letto in anticipo in quanto successo editoriale, in quanto film (anche se il film ha avuto meno risonanza). Libro che ripeto è troppo giovanilista per essere avvincente. Pieno, infatti, di piccoli trucchi che prendono i teenagers, ma che forse, a noi smaliziati, lasciano più indifferenti. La storia si colloca nel solco delle belle storie (ovviamente virgolettando belle) che trattano di guerra, di ebrei, di nazisti e di campi di concentramento. La storia ha al centro Liesel, una ragazzina figlia di un comunista (ahi, ahi, siamo già nei guai) e per questo strappata alla sua famiglia e data in affido ad una coppia che vive nella periferia di Monaco. Liesel che a dieci anni vede morire di freddo e stenti il fratellino piccolo, che ha un trauma lunghissimo per questo (e ci credo), che al cimitero ruba il suo primo libro (un’ottima lettura per chi vuole iniziare a leggere: il “Manuale del Necroforo”!!). Liesel che ha subito un buon rapporto con il padre adottivo Hans. Che rolla le sigarette, che lavoricchia, che suona la fisarmonica. Liesel che impiegherà molto tempo ad accettare la sua burbera madre adottiva Rosa. Che urla sempre, che tratta tutti rudemente, che ha un cuore grande. Liesel che, di tanto in tanto, si troverà in mano dei nuovi libri. Una decina in tutto, ma solo un adolescente può categorizzarla come “ladra di libri”. Comunque i libri servono a Liesel per superare i suoi traumi, per uscire verso la vita, anche se una vita difficile per i giovani tedeschi in quegli anni. Markus tratta con leggerezza (anche se non tralascia) i rapporti tra ariani ed ebrei, tra nazisti convinti e nazisti “per necessità”. Ma non è un trattato filosofico, è un libro d’evasione. Allora, torniamo a Liesel che ha un buon rapporto solo con un coetaneo, Rudy. Uno pazzo quasi quanto lei, che viveva nel mito della velocità, tanto da dipingersi a sette anni la faccia di nero, e correre gridando di essere Jesse Owens. Un’eresia per i puri tedeschi che videro trionfare gente di colore nella “loro” olimpiade. Ad un certo punto, poi, entrerà in scena anche l’ebreo. Figlio di un commilitone di Hans, che ad Hans salvò la vita nella prima Guerra Mondiale. Max, questo il suo nome, aveva vissuto una giovinezza dedicata ad uno degli sporti tedeschi per eccellenza, il pugilato (e come non ricordare per inciso uno dei tanti match del secolo che vide nel 1938 opporsi il nero Joe Louis al tedesco Max Schmeling?). Per poi doversi nascondere quando passano le leggi razziste e poi dover fuggire, accolto dal buon Hans, e dall’altrettanto buona Rosa. Tanto ben accolto anche dalla piccola, ma in via di crescita, Liesel. Che ne diventa amica, che quando si ammala legge per lui ad alta voce i libri che ha rubato sperando che la forza delle parole riesca a farlo guarire, che quando guarisce viene fatta omaggio da Max di libri illustrati da lui disegnati mentre sta in cantina. Poi la guerra incalza, Max deve fuggire, Hans ha una brutta storia con i nazisti locali, arrivano gli aerei delle forze alleate, Max viene arrestato, Max viene deportato a Dachau e passa per Monaco e Liesel lo vede. Piccoli rivoli coinvolgono altri momenti della vita della piccola comunità. Rudy soprattutto, ma anche la moglie del sindaco, una vicina di casa, e molto altro (bisogna pur riempire le oltre 500 pagine). Finché, per leggere un nuovo libro, Liesel si rifugia in cantina, non si accorge dei bombardamenti e… Beh, leggetelo, ma non vi dico altro. Parlo solo del fatto che tutto il libro è narrato in prima persona dalla morte, che ci racconta il suo andare in giro a raccogliere le anime che spirano, alla fatica di tutto ciò, ed al libro che Liesel scrive per scacciare le sue paure, che contiene la storia dei libri rubati, libro che capiterà in mano alla morte, libro che la morte legge e ci ripropone con le sue parole. Forse queste piccole invenzioni di Zusak hanno il pregio di ravvivare una materia altrimenti già letta e riletta. Come piacevole è la costruzione e la riproposizione dei libri che scrive Max per Liesel. Tuttavia, questa morte che narra, che ci comunica il suo dispiacere per le vite umane che deve accogliere (ma non è il suo lavoro? E allora di che si lamenta?), che ogni tanto si ferma per enunciare avvenimenti o stati d’animo che verranno palesati da lì a poche righe, diventa una lettura oltremodo pesante. Tanto che il primo capitolo l’ho dovuto leggere due volte prima di entrare nello spirito del romanzo. Speriamo sia utile al pubblico adolescente che tende a dimenticarsi di avvenimenti di ormai settanta anni fa.
Heinrich Böll “Biliardo alle nove e mezzo” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 7,12 euro)
[A: 12/04/2016 – I: 06/12/2017 – T: 09/12/2017] - &&&&
[tit. or.: Billard um halbzehn; ling. or.: tedesco; pagine: 278; anno 1959]
Sono senz’altro d’accordo con il famoso manuale delle cure librarie che questo è un romanzo che può dare una scossa. Intanto, premetto che di Böll ho letto, non tanto, ma letto. Sempre di un livello alto, fino a quello che per me è uno dei capolavori del romanzo moderno, cioè “Opinioni di un clown”. Comunque, dopo molte peregrinazioni di letture, mi sono deciso ad affrontare anche questo “Biliardo”, e con successo. Un libro forse amaro, ma reale e presente. un libro che restituisce tutta l’angoscia di un tedesco che ha vissuto il nazismo, la guerra, la ricostruzione. Ma non ha ancora affrontato il dramma del muro. Il libro è infatti del 1959, mentre il muro di Berlino fu costruito due anni più tardi. L’unico motivo, molto personale se vogliamo, per cui non veleggia verso i 5 o 6 librini è quella fatica di seguire percorsi datati di descrizioni e sensazioni. Certamente funzionali, certamente imprescindibili dall’andamento del testo, ma che non hanno (più) quella freschezza, quell’andamento trascinante che potrebbero avere se scritti ora, con altri ritmi. Ma Böll ne scrive sessant’anni fa, quindi va bene così. Scrive anche per destrutturare la grande tradizione delle saghe familiari, uno dei pilastri della letteratura germanica. Pensiamo ad esempio, e come unico esempio per non appesantire il tutto, a “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Anche qui abbiamo una decadenza di una famiglia tedesca (o l’idea di una decadenza, che qualcuno deciderà se si tramuterà in caduta), descritta prendendo a modello ideale l’Ulysses di Joyce: una giornata (6 settembre 1958) e flussi di coscienza. Si, perché anche se ci sono descrizioni, passaggi ed altri piccoli accorgimento di raccordo, tutta la narrazione avviene attraverso lunghi monologhi, spesso interiori, dei personaggi in ballo. Lungo l’arco della giornata in esame. Passando dall’uno all’altro, senza dirlo esplicitamente, ma, ovvio, facendolo trasparire dalla trama del narrato. La famiglia in questione è quella di Heinrich Fähmel. Il giorno è quello dell’ottantesimo compleanno del capostipite. Che non è un “grande di famiglia storica”, non è un “aristocratico con millenni alle spalle”. Heinrich è un architetto, che decide di puntare tutto sulla propria capacità ingegneristica, presentando un progetto per la costruzione dell’Abbazia di Sant’Antonio. Senza grandi capitali, ma con un grande senso delle proprie capacità, si trasferisce nella città teatro del romanzo, che, anche se non esplicitamente, può essere fatta risalire alla città di Colonia, patria dell’autore. Decide anche scientemente di sposarsi con qualche benestante signorina del posto. Scelta che cadrà su Johanna Kilb, la figlia del più importante notaio della città. Heinrich avrà la commessa, e da quel momento cominceranno le fortune economiche della famiglia. Non quelle della vita quotidiana, che i due avranno una serie di figli, alcuni morti in tenera età, fino a che rimarranno due: Otto e Robert. Di due caratteri opposti, tanto che Robert a 18 anni partecipa ad un ben misero attentato, in seguito al quale fugge per alcuni anni in Olanda. Otto invece diverrà nazista convinto, sino a morire in guerra. Robert invece appunto era sul fronte opposto, insieme all’amico Schrella (chiamato sempre e solo con il cognome). Ma Robert è anche un debole, ed accetta di pacificarsi con le istituzioni, accetta la grazia, ritorna, si laurea in ingegneria, sposa Edith la sorella di Schrella. Ed andrà in guerra, dove grazie alle sue nozioni di statica e dinamica verrà impiegato nella distruzione di postazioni nemiche con la dinamite. Durante l’ultima fase della guerra, poco prima della resa, Robert (e qui è il fulcro della riflessione dell’autore) decide di far saltare (riuscendoci) l’Abbazia del padre. Senza motivo? O forse con tutta una serie di motivi anche reconditi. Robert ed Edith, intanto, nelle due brevi licenze del soldato, avevano generato Joseph e Ruth, che si salvano insieme a quasi tutta la famiglia, meno la povera Edith. Robert rileva quindi lo studio del padre, dedicandolo a fornire calcoli per le costruzioni anche se non partecipa alle stesse. Di Ruth sappiamo, mentre assume rilievo Joseph. Sia perché scopre che è stato il padre a far saltare l’abbazia, sia per il suo rapporto con Marianne, una sopravvissuta alla guerra, scampata per poco alla follia dei genitori. Il padre, gerarca nazista, alla fine della guerra, si suicida, chiedendo alla moglie di uccidere i figli. Cosa che farà con il maschio, ma sarà fermata prima di uccidere Marianne. Ultima menziona è per Johanna, da anni rinchiusasi volontariamente in un istituto per alienati, pur non essendo pazza. Ma per sfuggire al mondo che ha ucciso quasi tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, figli. Istituto da dove esce per il compleanno del marito, progettando e probabilmente mettendo in pratica un estremo gesto esemplare, che serve da coronamento alla giornata di una “normale” famiglia tedesca. Ma il bersaglio principale di Böll, all’interno della descrizione della storia della famiglia Fähmel, è il conflitto tra i seguaci della “Bestia”, devoti al totalitarismo e all’aggressione in ogni sua forma, ed i seguaci degli “Agnelli”, i liberi pensatori, quelli che non vogliono opprimere nessuno. Elementi che, in varia forma, sono presenti sia nei Fähmel che nei personaggi di contorno. Non scopro certo nessun segreto dicendo che faccio il tifo per gli “Agnelli”. Contrapposizione che ha anche del biblico (molti i riferimenti che ne fa l’autore), così come testamentale è la divisione in 13 capitoli, quasi una via Crucis che si ferma all’ultima stazione. Infine, piccolo divertimento personale, il capitolo dedicato allo Schlagball, gioco a squadre molto in voga nella Germania degli anni Trenta, con caratteristiche simili, anche se solo simili, al baseball. Magari un giorno se avrò tempo, voglia e spazio ci tornerò sopra. Per ora, in tempi di fanatismi, leggere di questo biliardo, intorno al quale ha costruito la sua routine di vita il buon Robert è una lettura da consigliare. A tutti. Per riflettere.
“Nel suo viso leggevo gli anni che non riuscivo a scorgere nel mio.” (100)
Seconda trama e quindi prima cura, che, stranezze del caso, si rivolge a chi, almeno momentaneamente, si trova nei pasticci.
Non ci sono altre grosse novità, in questo andamento da anno strano e un po’ sbilenco. Nulla va veramente male, ma nulla va veramente bene. Si viaggia a vista, visto che non si viaggia altrimenti. Allora, avvicino i miei pensieri a tutti i miei amici (sull’onda di una cena memoriale e memorabile).

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2018
Quasi a voler sottolineare un momento storico, pubblico e personale, ecco che questo mese cerchiamo di capire come tirarsene fuori.

PASTICCI, TROVARSI NEI

Yann Martel                   “Vita di Pi”
P. G. Wodehouse            “L'inimitabile Jeeves”
I pasticci sono di molti tipi, più o meno appiccicosi, ma nessuno lo è quanto quello in cui si trova Pi Patel, che ha fatto naufragio ed è finito su una scialuppa di salvataggio, in mare aperto, insieme a una zebra, una iena, un orango e una tigre del Bengala di tre anni. Il giovane eroe di “Vita di Pi”, romanzo di Yann Martel vincitore del Booker Prize, non si fa illusioni su quanto sia pericolosa la tigre (presto, infatti, le leggi della selezione naturale si occupano degli altri, e restano solo loro due). Quando lui e la tigre si affrontano per la prima volta, lei con gli occhi fiammeggianti, le orecchie aderenti alla testa e gli artigli sguainati, la reazione di Pi è quella di gettarsi in mare e cercare di cavarsela in acqua.
Ed è la reazione giusta. Così come costruire una zattera accanto alla scialuppa, in modo che lui e quel carnivoro di oltre duecento chili possano vivere in spazi separati. È quello che fa dopo, tuttavia, ciò per cui non possiamo che ammirarlo. Accorgendosi del punto debole della tigre - il mal di mare - attinge a quello che sull'addestramento degli animali ha imparato per osmosi nello zoo del padre, e inizia uno scontro di opinioni con la tigre che riduce la magnifica creatura in uno stato di riluttante obbedienza. Il duello che sancisce la vittoria del ragazzo è la migliore gara di sguardi della letteratura. Tenete questo romanzo a portata di mano ogni volta che cercherete una via d'uscita da un vostro (speriamo meno appiccicoso) pasticcio, L'autorevolezza di Pi, un ragazzo così esile e affamato, è qualcosa di entusiasmante.
Per chi invece si trova in un guaio di natura sociale - come finire con le spalle al muro, senza possibilità di cavarsela in modo dignitoso - raccomandiamo un compagno dello stampo di Jeeves, il maggiordomo dei romanzi di P. G. Wodehouse. Se non potete permettervene uno vero, dovrete accontentarvi di un maggiordomo immaginario. Quest'uomo mellifluo, svelto a inarcare le sopracciglia, esperto di Dostoevskij come del modo giusto in cui indossare una fascia scarlatta per lo smoking (non fatelo) passa il tempo a togliere dai guai lo sventurato Bertie Wooster. Ricco, e tuttavia dotato di scarso buon senso e capacità di giudizio, Wooster sa - anche se non lo ammetterebbe mai - che senza Jeeves e le sue benefiche tazze di tè non sopravvivrebbe un giorno. Noi, come Bertie, troviamo la presenza di Jeeves nella nostra vita infinitamente tranquillizzante - e quando lo avrete conosciuto lo farete anche voi (vi toccherà rinunciare a quella fascia scarlatta).
Quando vi troverete sulla graticola, con la temperatura che continua a salire - che sia per colpa di una tigre o di una ragazza con cui vi siete fidanzati per errore - pensate a cosa potrebbero consigliarvi Pi o Jeeves e riuscirete a spegnere il forno prima che sia troppo tardi.

Bugiardino

Nella mia adolescenza, sull’onda della grande lettrice che era mia madre, lessi e molto di Jeeves, immedesimandomi alquanto nello scapestrato e spesso fuori fase Bertie. Ma sono anni ed anni che non leggo più di Wodehouse, e non so se ne riprenderò in mano qualcosa. Martel invece l’ho letto solo dodici anni fa e questo fu il mio breve commento
Yann Martel Vita di Pi Piemme 5,90 euro.
Mi piace a tratti. Sembra promettere qualcosa in più, sul punto di decollare, quando entra nella narrazione di come il naufrago si organizza la vita. Ma alla fine non mi ha “emozionato”. Troppa pubblicità intorno? Una frase “Devi parlare della paura… se la paura diventa un’oscurità inespressa che cerchi di evitare e che forse riesci persino a dimenticare, ti esponi ai suoi attacchi futuri.”
Certo le mie trame all’inizio erano molto stringate, e davano solo spazi a pennellate di sensazioni. Per cui, al fine di fare ammenda della mia avarizia, mi e vi consolo dandovi il sunto, con qualche personale modifica, della trama riportato su Wikipedia:
“Piscine Molitor Patel è un ragazzo indiano che viene preso in giro a causa del suo nome fino a ridurlo semplicemente in Pi. I suoi genitori gli hanno dato questo nome perché da piccolo amava nuotare con suo zio e amava particolarmente la piscina pubblica di Parigi. È attratto dalle religioni al punto da iniziare a professarne tre insieme. Suo padre gestisce uno zoo ma, a causa dell'instabile situazione politica ed economica dell'India negli anni Settanta, decide di emigrare con la famiglia in Canada per rifarsi una vita, dopo aver venduto tutti gli animali. La famiglia salpa insieme ad alcune bestie destinate agli zoo canadesi, ma, durante il viaggio, la nave affonda, causando la morte dei familiari di Pi (i genitori e il fratello) e di quasi tutti gli animali. Soltanto Pi e quattro animali (una zebra, un orango, una iena ed una tigre del Bengala di nome Richard Parker) riescono a salvarsi raggiungendo una scialuppa di salvataggio.
La scialuppa vaga nell'oceano per diversi giorni e Pi assiste terrorizzato all'uccisione degli animali. Rimasto solo con la tigre, Pi medita di ucciderla per timore di essere ammazzato a sua volta. Intanto sulla scialuppa trova un kit di sopravvivenza per i naufraghi: dei distillatori d'acqua marina, delle scorte di cibo e acqua, degli attrezzi per la pesca, giubbotti di salvataggio e altri oggetti con cui costruisce una zattera che lega alla scialuppa per stare a distanza dalla tigre. Col passare dei giorni, decide di addestrarla dimostrandosi autoritario per farsi ubbidire e per stabilire gli spazi sulla scialuppa, ma anche amichevole e generoso per aiutarla a sopravvivere.
Pi imparerà a pescare e uccidere e a combattere contro le avversità. Pur temendo spesso di morire e consapevole di essere in balia del fato, la speranza di sopravvivenza, la fede in Dio e la condivisione degli oggetti e degli spazi con Richard Parker lo motiveranno facendolo diventare comunque un uomo più risoluto e sicuro. Si affezionerà ad alcuni animali marini e resterà ammirato dai delfini, dalle balene e dagli squali.
Non mancano episodi grandi e piccoli che costellano tutto il libro, ma alla fine Pi e la tigre, dopo 227 giorni di naufragio, approderanno in Messico dove Richard Parker, con il quale ha costruito un rapporto speciale, fuggirà in una foresta abbandonandolo.
In ospedale, davanti a due dipendenti del Dipartimento Marittimo del Ministero dei Trasporti giapponese, trarrà le conclusioni morali e religiose della sua peregrinazione e davanti alla loro incredulità, gli proporrà un altro racconto, più semplice e senza animali, invitandoli a scegliere: i due intervistatori opteranno per la storia con Richard Parker. Il libro è diviso in tre parti, ma possiede pure una struttura unitaria. La prima parte è composta dalle elucubrazioni di un ragazzo sulla spiritualità e la vita in India. La seconda è la fusione del ricordo dettagliato e realistico della sopravvivenza. La terza e ultima penetra più a fondo della spiritualità di Pi, che offre al lettore due modi di guardare la stessa realtà e di scegliere la storia migliore.”
Per finire con tocco di leggerezza, torno a Bertie Wooster ed alla sua affermazione sui motivi che lo sostengono nell’avere il suo maggiordomo sempre con sé: “Jeeves era un uomo di grande intelligenza, e sarebbe stata in molte maniere una gran comodità avere qualcuno che pensasse per me”.

Conclusioni

Spero che nessuno di voi si sia mai trovato in difficoltà solo contro una tigre, anche se so, e posso parlarne, che spesso molti di noi si sono trovati realmente in situazioni in cui, forse, era meglio affrontare la tigre. Tuttavia il libro della vita di Pi non mi ha ancora convinto. Meglio ridere aspettando che Jeeves risolva le difficoltà della nostra vita.