domenica 24 settembre 2017

Il giallo è classico - 24 settembre 2017

O meglio i classici del giallo? Incominciamo una piccola rassegna di libri “di genere”, come dicono i grandi commentatori. In particolare, una collana dedicata ad una serie di libri, in genere, salvo qualche eccezione che segnalerò, pubblicati tra le due guerre. Nei paesi di lingua inglese. Essendo un discreto numero, invece dei soliti quattro, ve ne dedicherò 5 per volta. Incominciamo poi con alcune letture alte e basse. Tre inglesi e due americane, di cui una, quella di Mary Rinehart, interessante come dirò più avanti. Anche se, generalmente, non abbiamo delle punte assolute.
Herbert Adams “La stessa sera alla stessa ora” Corriere della Sera Gialli Anglosassoni 8 euro 6,90
[A: 14/03/2016– I: 13/01/2017 – T: 14/01/2017] - &&& ---
[tit. or.: The Chief Witness; ling. or.: inglese; pagine: 250; anno 1939]
Salutiamo con questa entrata, l’inizio di un nuovo filone di letture gialle, che ci accompagnerà per una trentina di volumi. Sono scritture che risalgono ai primi trenta/quaranta anni del secolo scorso, di scrittori e scrittrici di lingua inglese, e per la maggior parte poco noti o dimenticati. Visto che io leggo casualmente, non ho iniziato dal numero 1, che, per attirare lettori, era dedicato all’unico autore a tutt’oggi sempre noto e citato. Quel S. S. Van Dine, che ricordiamo sempre per aver dettato le venti regole da seguire per costruire un giallo ben fatto. Poi la collana parte proponendoci (e proponendomi) nomi di difficile rintracciabilità. Io, allora, comincio a parlarne partendo da questo “carneade” Herbert Adams. Tra l’altro, uno dei meriti indubitati della collana è quello di proporre, in fin di volume, una piccola sintesi biografica degli autori presentati. Scopriamo così che il nostro Herbert è londinese, nato nel 1874 (e morto a 84 anni), che benché volesse da sempre scrivere, solo a 50 anni riesce ad imporsi con un primo racconto giallo. Scriverà poi una cinquantina di romanzi, inseriti in quello che viene definito in termini inglesi “cosy (or cozy) mysteries”, dove la violenza non è mai eccessiva, e spesso l’investigatore non è un detective di professione. Più della metà di questi libri hanno per protagonista Roger Bennion, benestante e golfista di classe. Come questo romanzo, che è l’ottavo della serie. E che viene presentato con il solito titolo “anodino”, passando da “Il testimone principale” a questo riferimento della stessa sera alla stessa ora. Che ci pone subito nel pieno del problema: due fratelli muoiono (suicidio o omicidio) lo stesso giorno alla stessa ora. Mentre iniziano le indagini ufficiali, prende subito il centro della scena il nostro Roger, anche se qui non sfrutterà mai le sue doti golfistiche. Si cercano coincidenze plausibili, dovute al fatto che accanto ai due morti ci sono orologi che segnano la stessa ora. Ma Roger capisce subito che ci sono elementi non compatibili con due suicidi. Soprattutto uno. E se uno non è suicidio, sembra una coincidenza inverosimile che lo sia il secondo. Il primo, Alexander Curtis, è avvocato, con uno studio in comproprietà con l’avvocato Manson, la cui figlia Margot è fidanzata con Wilfrid, nipote per parte di moglie di Frederick Curtis, il secondo fratello. Questo, vedovo, ha una ditta di contabilità guidata operativamente da Foyle. Alexander vive anche more uxorio da dieci anni con Helen, con la quale ha un rapporto tempestoso. Vivono da sposi non potendo Helen divorziare fino a poco prima ma ora che possono sposarsi Alex si tira indietro avendo una storia con la pittrice Dreda. Helen sembra molto indiziata, anche perché mente sul suo alibi, pur essendo, nelle ore del crimine, ad uno spettacolo teatrale patrocinato da Manson. Ma le indagini su Alex si arenano, perché prende il sopravvento la causa del fratello, visitato nottetempo e senza motivi apparenti da Wilfrid. Che per una serie di indizi convergenti viene accusato dell’omicidio. Motivi validi e causa intricata. Nelle pieghe dei movimenti polizieschi, è tuttavia sempre Roger che trova fili nuovi. Trova la scatola di cioccolatini che Wilfrid sostiene di aver preso da Frederick. Smonta un testimone d’accusa. Toglie mattone dopo mattone la consistenza all’alibi di Helen. Tuttavia arriva ad un punto morto. Sembra poter dimostrare chi non ha commesso i delitti, senza arrivare a chi invece li ha perpetrati. Soprattutto, sembra non trovare motivazioni per gli stessi. Fino a che non capisce che Alex gestisce una serie di fondi fiduciari, che Frederick ne cura la contabilità, che Manson vive al di sopra dei suoi mezzi, che Foyle si comporta in modo decisamente ambiguo. Sarà un trust di sforzi che vede impegnato Roger in prima persona, anche a rischio personale, con il supporto di Margot ed in particolare di Dreda (personaggio veramente simpatico), a sbrogliare la matassa. Ed applicando fino in fondo il dettame di Van Dine, a spiegarci nelle pieghe finali del libro, le modalità, i retroscena e le conseguenze dei due omicidi. Tipico è fin dall’inizio il modo di presentare tutta la storia: a parte il tono (appunto cozy come si diceva) c’è una specie di introduzione dove alcuni personaggi parlano convivialmente per introdurre un tema, presente come leit motiv del libro. In questo caso “le coincidenze” (e si è capito perché). In maniera simmetrica, le ultime pagine sono dedicate a riprendere quegli stessi personaggi che commentano l’aderenza del testo all’assunto, ed eventualmente spiegano le cose che fossero rimaste incomprese nel testo. Alfine, si sente che è un testo datato, ma l’intreccio è solido ed anche a volte ingegnoso. Forse solo Roger e Dreda sono pienamente riusciti come personaggi, ma un buon inizio di lettura.
Joseph Smith Fletcher “Il mistero di Charing Cross” Corriere della Sera Gialli 26 euro 6,90
[A: 02/08/2016– I: 06/04/2017 – T: 08/04/2017] - && e ½
[tit. or.: The Charing Cross Mystery; ling. or.: inglese; pagine: 308; anno 1923]
Secondo libro della serie dei “Gialli Anglosassoni” della cosiddetta età dell’oro. Una serie interessante, anche se, per ora, gli autori letti sono alquanto datati. Come questo Joseph Smith Fletcher autore inglese assurto ad una discreta notorietà poco dopo la Prima Guerra Mondiale. Soprattutto perché lanciato in America da un lettore d’eccezione, l’allora presidente americano Woodrow Wilson. Poiché gli autori della collana sono abbastanza poco noti al grande pubblico, dedico anche due righe alla loro presentazione. In questo caso, Fletcher è un autore inglese (nato nel 1863 ad Halifax), che inizia la carriera come giornalista, ottiene una prima agiatezza sposando la scrittrice irlandese Rosamond Langbridge (figlia di scrittori e con una piccola rendita). Da cui avrà un figlio, Valentine, che diventerà reverendo cattolico protestante. Dopo una serie di poco brillanti libri storici, dal 1914 trova la sua vena nel romanzo poliziesco, di cui nel corso dei successivi 20 anni produrrà un centinaio di titoli. Il libro amato da Wilson fu “Delitto a Middle Temple”, del 1919, in cui rappresenta, oltre all’intrigo, l’influenza della carta stampata sulle indagini. Qui viene riproposto un titolo successivo, che, come detto, è datato in particolare perché, anche sviluppando decentemente li filone principale, perde pezzi lungo la strada. Risultando, alla fine, una lettura intellettualmente storica, ma poco riproponibile per i gusti attuali. Peccato che l’inizio è invece di buona levatura. Un giovane avvocato, Hetherwick, prende la metropolitana a tarda ora, e si trova in un vagone con due signori. Li osserva curioso, ne annota fattezze e discussioni. Poi, alla fermata di Charing Cross, uno dei due si sente male ed improvvisamente muore. Mentre l’altro, fugge indisturbato. Hetherwick, come testimone e per curiosità sua, si mette a disposizione della polizia, trovando una spalla nell’ispettore Matherfield. Qui cominciano le indagini. Trovano l’albergo del morto, dove risiede sua nipote Rhona. E già ci immaginiamo, a pagina 20, che Rhona e l’avvocato convergeranno in qualche punto del romanzo (anche se solo dopo quasi 300 pagine). Il morto pare sia un inventore (di cosa non si sa) ed anche ex-ispettore provinciale di polizia. Tra le sue carte, poi, i nostri trovano le tracce di una truffa perpetrata dieci anni prima da una signora di bell’aspetto, che trafuga con destrezza una collana di svariate migliaia di sterline. Tracce che si concretizzano in una foto, che ritrae senza ombra di dubbio l’attuale Lady Riversreade. Sembra tutto acclarabile: la signora, una volta truffaldina, sposa un ricco ed anziano lord, trova una stabilità e cerca di far dimenticare il passato. Non potendolo, perché il morto ne scopre le carte, tramite qualche complice, lo uccide. Ma questo facile impianto trova ben presto delle zeppe: l’amico del morto, quello fuggito, viene trovato morto a sua volta. Anche lui con potenti tracce di veleno. L’avvocato convince Rhona ad impiegarsi presso la Lady come segretaria per spiarne le mosse. E Rhona gli fa capire che la signora non può di certo essere chi sembra. D’altra parte, che cosa c’entra (se c’entra) l’invenzione che il morto dice di aver fatto? E chi è che incontra nei tre giorni che trascorre a Londra prima di essere ucciso? Dopo una prima metà decente, almeno per l’accumulo di interrogativi, Hetherwick mette in campo anche il suo segretario Mapperley, simpatico e ben introdotto in molti ambienti. Da qui, le cose precipitano. Mapperley scopre la frequentazione di tutte le parti in causa presso un locale notturno, gestito dal losco Baseverie. Mapperley scopre anche l’identità di un misterioso contatto del morto, l’elegante ma altrettanto infido Ambrose. Il tutto comincia a bollire nel calderone di accumulo di indizi ed altri rivoli poco allettanti quando: scopriamo che la Lady ha una sorella gemella, che è in realtà la finta truffaldina (finta in quanto mediatrice di gioielli ed ingannata da una rimessa in denaro che non arrivò in tempo), detta sorella è promessa a sua volta ad un Lord molto danaroso, l’invenzione del morto, poi, è un inchiostro nero molto fluido. Mapperley, senza tanti giri di parole, svela all’avvocato come possono essere andati i fatti, togliendo tutte il velo di mistero della storia, e facendola girare in una sordida vicenda poliziesca. Il morto contatta Baseverie e Ambrose, presentatesi come esperti tipografi, per vendere la sua invenzione. E nei convivi serali svela il mistero delle gemelle. I due lo avvelenano con un veleno a lento rilascio, che fa poco il suo effetto facendolo morire anzitempo. Parallelamente, decidono di appropriarsi dei gioielli di cui tratta la signora promessa sposa, e per farlo la rapiscono, insieme a Rhona. Qui scatta la furia dell’avvocato, che, aiutato da polizia e Mapperley, scopre i vari passi, trova la prigione, trova Ambrose avvelenato a sua volta, convince Matherfield a seguire le tracce di Baseverie fino a farlo arrestare, non senza prima aver liberato la sua bella. Ma tutta questa seconda parte è molto arrugginita, non dà quelle piacevole sensazioni della prima parte, dove nasceva il mistero. L’uso di gemelle dal comportamento divergente è alquanto banale. L’inchiostro nero non sembra poter essere quel potente strumento come viene descritto. Hetherwick, che all’inizio sembra ragionare molto, poi si perde (quando entra in campo l’amore) e senza il segretario non caverebbe un ragno dal buco. Insomma, una buona idea iniziale, che non si è saputo sviluppare, e si è risolta facendo scendere e di molto il livello del romanzo. Non sarebbe male allora l’idea di trovare una buona penna che sapesse riscriverlo seguendo le mode del XXI secolo, magari cercando di non dimenticarsi pezzi e soluzioni lungo la strada.
Nicholas Brady “La casa degli strani ospiti” Corriere della Sera Gialli 9 euro 6,90
[A: 21/03/2016– I: 18/06/2017 – T: 21/06/2017] - &&& -
[tit. or.: The House of Strange Guests; ling. or.: inglese; pagine: 280; anno 1932]
Continuiamo la da poco intrapresa lettura di questi gialli anglosassoni, cercando anche di districarci tra inglesi, americani ed altre nazionalità. L’autore, in questo caso, nasce a Manchester, con il nome di John Turner. Poco propenso agli studi, si dedica subito alla scrittura. Sia da giornalista sia da scrittore, di racconti prima, di romanzi poi. Come tutti coloro che all’epoca tra le due guerre, scrivevano e molto, decide di utilizzare una serie di pseudonimi. Ognuno legato ad un personaggio. Così, da Turner scrive delle vicende del reporter Amos Petrie. Utilizzando lo pseudonimo di David Hume, ci parla dell’investigatore Mike Cardby. Infine, con questo Nicholas Brady, ci parla invece dell’eccentrico reverendo Ebenezer Buckle, appassionato orticoltore, cultore di lettere classiche, nonché fratello di uno dei capi di Scotland Yard. Motivo per cui, spesso e volentieri decide di dare una mano alla polizia per la risoluzione dio intrighi misteriosi. Rimarcando di passaggio che in 15 anni di attività pubblica più di 45 libri, nonché sottolineando la sua morte poco pubblicizzata per tubercolosi, visto che aveva i polmoni devastati dalla allora poco salubre aria di Manchester, possiamo anche passare a gustare lo scritto con cui il reverendo Buckle muove i primi passi nell’ambiente del crimine. Nonostante gli ottanta anni, infatti, la scrittura è discretamente scorrevole, e la trama, pur con qualche involuzione, si segue in modo discreto. Tra l’altro (almeno stando a quanto dicono di lui sul web) l’autore era più propenso alle storie d’azione. Mentre qui abbiamo un giallo classico, tutto basato su interrogatori e discussioni. Tutto comincia con la comunicazione alla polizia della morte di uno strano tipo di londinese, Maurice Mostyn. Morte comunicata dal maggiordomo Summers. L’ispettore, che sarà il filo conduttore del libro, anche se non il risolutore, come vedremo, si reca sul posto e scopre alcune stranezze. Non tanto per la stanza da bagno, chiusa e quasi sigillata ove si trova il morto, quanto nelle strane frequentazioni della casa. Dove, periodicamente, si tengono riunioni d’aspetto conviviale, ma che scopriamo presto celare altro. L’ispettore Hallows infatti comincia ad interrogare i cinque ospiti della casa. Scoprendo prima di tutto che Raymond Simms cela in realtà il reverendo Buckle, nella casa sotto mentite spoglie per richiesta di un suo parrocchiano vittima di un raggiro da parte di Mostyn. Questo è in realtà il vero mistero della casa: Mostyn è a capo, o è coinvolto, in un grande giro di truffe e ricatti, in special modo verso persone sposate che fanno scappatelle. Anche altri tre ospiti della casa, in realtà, non sono altro che vittime di questi ricatti: miss Lois Willing, Ralph May, miss Sonia Wether. Non così Andrew Posten, che, dopo indagini ed agnizioni da parte di Buckle, si scopre essere un truffatore anche lui. Anzi un accolito di Mostyn, che aiutava proprio nel raggirare sprovveduti. Dall’interrogatorio di Posten scopriamo infatti il meccanismo, grande e perverso, delle truffe: il gruppo di Mostyn (perché scopriamo che forse il morto è solo un parafulmine) individua possibili ricattandi, passandoli a diversi truffatori di media tacca. Quando i ricatti si bloccano, per miriadi di motivi diversi, i truffati vengono invitati a casa Mostyn, che, con le sue arti oratorie ed altre opzioni di ricatto, rimette tutto sulla retta via del crimine. I piccoli truffatori lavorano quindi a percentuale. Ed i quattro presenti in casa (i tre ricattati ed il piccolo truffaldino) per motivi diversi avevano bisogno di Mostyn: chi perché stufo o impossibilitato a pagare, chi, come Posten, perché voleva alzare la propria posta. Lo strano è che Mostyn, quando ascolta i suoi ospiti, non dà mai una risposta immediata. Come se dovesse pensarci su. O come se dovesse consultarsi con qualcuno. Saranno le arti indagatorie di Blake, costruite passo passo con i successivi interrogatori e l’analisi delle varie stanze della casa, che porteranno alla più classica delle soluzioni. Che non vi dico, ma che potete immaginare, perché il colpevole è sempre … Perché e come lo lascio alla discreta lettura del libro. Che scorre appunto con grazia, con una scrittura discretamente sciolta, e con una buona dosa di affastellamento di indizi, proprio come in un classico degli anni Trenta. Una lettura piacevole, e stimolante per gli amanti del genere. Forse anche per chi vuole passare qualche ora estiva a leggere un libro discreto e ben costruito. Certo, c’è qualche caduta di tono, spesso dovuta agli 80 anni passati dalla scrittura, con ovvi debiti rispetto alla modernità. Tuttavia, meno di quanto mi sarei aspettato. Una bella prova, insomma, seppur non eccelsa.
“Terenzio: quanto spesso le cose che non osiamo nemmeno sperare accadono per puro caso.” (271)
Mary Roberts Rinehart “L’uomo nella cuccetta n.10” Corriere della Sera Gialli 3 euro 6,90
[A: 09/02/2016– I: 26/06/2017 – T: 28/06/2017] - &&&
[tit. or.: The Man in Lower Ten; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1907]
Eccoci ad un altro caposcuola del genere. Anche se non so come si dica caposcuola al femminile. Una maestra del genere, e questa volta americana di Pittsburgh e non inglese. Una scrittrice dell’Ottocento (di nascita) che per una serie di rovesci familiari (andate a vedere la biografia su Facebook se volete, io certo non ne ho spazio qui), ed avendo facilità di scrittura, inizia a produrre racconti, e poi (a puntate, come si usava un tempo) romanzi. Come questo suo primo che, nonostante i 110 anni, ancora si fa (abbastanza) leggere. Sottolineo abbastanza, che, ed è ovvio, risente dell’età, del clima di scrittura. Ma anche di quello che poi sarà la cifra stilistica di Mary. Quella specie di finto stupore, per cui i protagonisti stanno lì, guardano gli avvenimenti, e ad un certo punto dicono: “Se lo avessi saputo …”. Tanto che questo modo di scrivere venne proprio così etichettato (“Had I but Known - HIBK”). Sarà meglio espresso nel suo secondo libro, intitolato “La scala a chiocciola”, anche se non ha nulla a che vedere con il film di Siodmak del 1945 (tratto dall’omonimo libro dell’altra grande scrittrice HIBK, Ethel Lina White). Anche perché qui il personaggio principale è un uomo, rispetto alle donne che in genere sono il motore dell’HIBK. Un giovane avvocato, Lawrence, che viene coinvolto in una serie di avvenimenti, la maggior parte dei quali sembrano fortuiti. Lawrence ha uno studio con l’amico McKnight, entrambi impegnati in una causa per truffa intentata dal vecchio Gillmore al noto ma mai condannato truffatore Bronson. McKnight ha anche l’inizio di una storia con Alison, la nipote di Gillmore. Tutto nasce quando Lawrence, dopo aver fatto riconoscere delle cambiali falsificate da Bronson, deve tornare in treno da Pittsburgh a New York. Treno dove salgono un anziano e scorbutico signore, abbastanza alticcio. Un misterioso mr. Sullivan con la sorella, che si scopre essere figlia dello scorbutico. Una donna misteriosa, che ad un certo punto scopriamo essere Alison. Lawrence ha la cuccetta numero 10, ma quando va a prendere posto per la notte scopre che è occupata dallo scorbutico, ubriaco e dormiente. Si mette allora a dormire nella cuccetta numero 9, con a fianco la borsa con i documenti. Di notte, insonne, va a fumare una sigaretta, quindi torna in cuccetta. La mattina scopre che sono scomparsi sia i vestiti che la borsa. Scopre inoltre che sta dormendo nella cuccetta 7, né 9 né 10, quindi. Scoprendo alfine che l’uomo nella cuccetta 10 è stato ucciso. Per una serie di circostanze, tutti gli indizi puntano su di lui. Quand’ecco il primo colpo di scena: un treno sperona il nostro facendo una catastrofe di lamiere e morti. Per strada, quasi incolumi, si ritrovano Lawrence (con un braccio rotto) e Alison. Che da questo momento cominciano un sodalizio di prendere e lasciare: un po’ si avvicinano, sembra che sbocci qualcosa, poi, soprattutto a causa di Alison, tutto si allontana. Perché il meccanismo complesso che la brava scrittrice ha messo in piedi si arricchisce, capitolo dopo capitolo, di nuovi ed inquietanti elementi. Si scopre che il morto è tal Harrington, la cui figlia sposò il truffaldino mr. Sullivan, che, non avendo soldi né di suo né dalla famiglia della moglie, fugge in Italia dalla sorella. Dove conosce Alison, e intortora uno stratagemma complesso per ricavarne denaro. Sposarla, pur in bigamia, passare qualche anno in Italia, e poi spolparla del denaro dello zio Gillmore. Nel frattempo, visto che qualche truffa deve fare, diventa il braccio sporco di Bronson. Che lo manda sul treno per recuperare le famose cambiali. Quindi, nel momento culmine della vicenda, sul treno abbiamo: il signor Harrington con la figlia Ida, quella sposata dal truffatore in prime nozze, il signor Sullivan con la sorella Alice ed Alison, la signora Conway, vecchia fiamma di Bronson che cerca anche lei le cambiali per costringerlo a sposarla, nonché l’ignaro Lawrence. Per una serie di disguidi che capirete leggendo, avvengono morti, cambiamenti di posto, nonché il famoso incidente, dove l’unica persona che muore è Alice. Sullivan si ritrova inopinatamente le cambiali, che consegna alla signora Conway, che ha un alterco con Bronson in seguito al quale… Ida è ricoverata in ospedale, ma ormai è anche ereditiera. E poi… beh, non vi dico tutto, anche se fortunatamente nei capitoli finali, la scrittrice, obbedendo alle future “leggi Van Dine”, spiega e ricapitola tutti gli avvenimenti. Di striscio, noto anche che c’è una specie di investigatore dilettante, tal Hotchkiss, che aiuta Lawrence in vari frangenti, ma che ha anche la peculiarità di abbozzare teorie sugli avvenimenti, però sempre sbagliate. Il romanzo, alla fine, risulta un po’ pesante, che ci si perde a seguire tutte le persone, a ritrovarle, a capire chi fa cosa e quando. Ma lo stile HIBK aiuta molto a rendere fresco il narrare di Lawrence. Con una chicca d’avanguardia: Lawrence capisce che la sua teoria del ladro che lo deruba sul treno è corretto vedendo al cinema un cinegiornale che mostra le fasi dell’incidente ferroviario ripreso da un aereo che sorvolava la zona. E dal filmato si vede appunto che, quando il treno rallenta, un uomo salta giù dall’ultimo vagone. Un uso veramente all’avanguardia del mezzo cinematografico. Insomma, d’epoca, ma di una buona epoca.
“L’amore è come il morbillo … più da vecchio lo prendi, peggio è.” (130)
Darwin & Hildegarde Teilhet “Il dardo piumato” Corriere della Sera Gialli 14 euro 6,90
[A: 26/04/2016– I: 10/07/2017 – T: 13/07/2017] - & e ½
[tit. or.: The Feather Cloak Murders; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 1936]
Nuova lettura dei gialli anglosassoni, con un piccolo paragone interno che mi è subito venuto in testa: la differenza tra gli anglosassoni inglesi e gli analoghi americani. Con una netta prevalenza, nelle mie simpatie, dei primi sui secondi. Laddove l’inglese punta molto sul ragionamento, e l’americano sull’azione. Sarà uno stereotipo, ma risulta (quasi) sempre vero. Anche qui, dove i coniugi Teilhet cercano, in qualche modo, di coniugare le due anime del giallo creando un ponte sull’atlantico. Perché, benché originari dell’Illinois, i due hanno una cultura anche europea, con studi parigini e viaggio di nozze sul lago di Como. Sarà Darwin (con questo bel nome evoluzionistico, complementato da un indecifrabile secondo nome che fa “LaOra”, e che non sono riuscito a decifrare), da giornalista, a capire che scrivere gialli negli anni Trenta permetteva di tirar fuori un po’ di soldi con non tanta difficoltà. Dopo alcune prove in solitario, decide di unire le forze con la moglie Hildegarde, creando uno strano tipo di detective, che affascinerà l’immaginario americano, lasciando noi di qua dell’Oceano un po’ freddini. Dopo una serie di libri su questo detective, Darwin riprenderà la scrittura solitaria, con fortune alterne ma costanti. L’idea avvincente dei due era quella di prendere un tipico esemplare europeo e farlo piombare di sana pianta nel milieu americano. Tuttavia, ma questa è una nota personale, non credo che riuscirà mai a scalare le vette del mio piacere seguire le vicende del protagonista che si chiama “barone Franz Maximilian Karagoz von Kaz”!!! Tralasciando quindi i dispiaceri personali, veniamo anche alle scelte editoriali fatte, che questo non è neanche il primo dei libri con al centro il barone. Così che intuiamo anche altre trame ed altre connessioni, solo per sentito dire, rimanendo confusi. Come confusa è buona parte della prima metà del libro. Saranno gli ottanta anni che sono passati, ma noi siamo ormai abituati a tutt’altro modo di porgere i personaggi. Mentre qui, devo dire, anche io ho fatto fatica a capire chi sia Bolton, chi sia Sargent e chi sia Preacher. Intanto vi dico, visto che nel libro è omesso, che il barone Franz era un poliziotto viennese (forse addirittura capo della polizia locale), fuggito dal Vecchio Continente per sottrarsi a qualche bega, personal e politica. Di cui intuiamo bene solo la seconda, visto che siamo nel ’36, e che Hitler sta facendo passi da gigante sulla scena politica internazionale. Quella personale, purtroppo, veniva narrata nel primo volume della serie, e non sono riuscito a ritrovarla. Il barone, tuttavia, fuggito, ha molte frecce al suo arco: capacità deduttive, possibilità di frequentazioni alte, ed altre “nobili” motivazioni per diventare un buon investigatore americano. Che inizia il libro facendo da guardia del corpo ad un giapponese minacciato di morte. Sulla nave che dal Giappone li porta alla Hawaii, ci sono i tre di cui sopra, nonché un quarto personaggio, quello che minacciava il giapponese. E che sulla nave muore colpito dal dardo del titolo. C’è anche una bella signorina nell’entourage dei colpevoli, assassini o assassinati, su cui torneremo. Ed una vicenda che si svolge tutta nelle belle isole del Pacifico, quasi si fosse già in un libro di Biggers e del suo commissario Charlie Chen. Devo dire che, fortunatamente, lo spirito inglese di Darwin consente alla coppia di seminare indizi che ad un attento lettore porteranno alla soluzione ed al “vero” colpevole. Anche dopo una serie di colpi di scena, di finti finali, di agnizioni ed altro. Tuttavia, gli indizi sono calati in una scrittura un po’ ingarbugliata, che si fa fatica a decrittare. Anche le motivazioni degli omicidi rimangono alquanto oscure (vi dico solo che anche il giapponese farà una brutta fine), tanto che mi limito qui a sconsigliarne la lettura se non ad appassionati e masochisti vari. Come ha scritto una lettrice più attenta di me, tanto per fare un esempio di come la scrittura sia andata in modo diverso dai voleri degli autori, pensiamo alla bella Mary che, nel bel mezzo di una bufera con tuoni, lampi e fulmini, sotto un acquazzone torrenziale, si arrampica per un terreno impervio di roccia lavica scivoloso di brutto, in compagnia del barone che, fino a due giorni prima, non ha preso in considerazione neanche per un tè, per raggiungere una caverna ove, presumibilmente, incontreranno un altro tale che ha già fatto fuori due persone con successo e tentato di assassinare un bambino di otto anni a badilate e che l’unico pensiero che riesca a formulare sia: “E se lui le avesse chiesto di sposarla? Cosa avrebbe risposto?”. Forse volevano creare una situazione ironica. Ne esce fuori solo una lettura patetica.
Finale di settembre sempre più complicato, con inizio anche di una nuova stagione nelle cure di mia madre. Un mese molto dedito alle vicende familiari, che speriamo si avviino ora verso lidi migliori e meno agitati. Per il resto, sto alla finestra di altri avvenimenti e vicende, accumulo notizie ed idee. Speriamo si sciolga tutto in una nuova stagione positiva per tutti. 

domenica 17 settembre 2017

L'aroma è svanito - 17 settembre 2017

Un titolo che non c’entra nulla, ma che rimanda ad una poesia cinese che cito più avanti, e che trovo imperdibile nella sua impalpabilità. Mentre trovo assolutamente perdibile il nuovo episodio di Kay Scarpetta, e solo mediamente leggibile lo sforzo a quattro mani della coppia Patterson & Paetro. Rimane l’ispettore Chen, che si barcamena tra bassi e medi, ed il solito, immarcescibile Bosch di Connelly, con quell’omaggio a Formanek che Carlo non potrà che condividere.
Patricia Cornwell “Polvere” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 12,35 euro)
[A: 01/03/2015– I: 21/03/2017 – T: 25/03/2017] - & e ¾   
[tit. or.: Dust; ling. or.: inglese; pagine: 417; anno 2013]
Stiamo scherzando? Questo, un nuovo episodio della saga “Scarpetta”? Manca praticamente di quasi tutti gli elementi che ne hanno fatto, nel tempo, una delle serie migliori, e forse maggiormente seguita (insieme a Bones). Ora (anzi quattro anni fa) la nostra Patricia ci fa uscire un volume che, come forse giustamente ha detto qualcuno nella rete (scusate la scarsa citazione, ma mi è sfuggito) è un libro adatto ad un anatomopatologo, e non a noi lettori. Più o meno compulsivi. Più o meno amanti della scrittrice. Un solo esempio, prima di narrare qualcosa. Kay viene avvertita della necessità di un’analisi di un cadavere. Tra la telefonata e l’arrivo sul posto, scontando anche il fatto che debba aspettare la vengano a prendere, Patricia impiega quasi cento pagine. Manca solo che ci si metta a descrivere tutte le piante del giardino di casa Kay e del campo sportivo del MIT poi, e siamo a posto. Non solo, ma tra divagazioni varie, ci narra almeno due volte che una vittima di un certo delitto su cui sta indagando il marito, indossa mutandine non sue. Poi, dopo che ci narra tutto per filo e per segno, tanto che “condensa” tutta la giornata in 400 pagine (!), ci spiattella le ultime mosse in una decina di pagine scarne e con dei salti qua e là, come se noi si dovesse sapere già tutto. Intanto c’è un piccolo salto temporale tra l’ultimo libro (“Il letto di ossa”) dove la troviamo coinvolta in varie vicissitudini legali, e questo dove si narra a più riprese una sua presenza sul campo per l’analisi di una strage tipo Columbine, ma di cui non c’è altra traccia nei suoi libri precedenti. Inoltre, Marino, un tempo fido collaboratore sia in polizia sia nel Centro di Medicina Legale messo in piedi dalla famiglia Scarpetta, si è dimesso ed è tornato a fare il poliziotto. Lucy, la nipote mago dell’informatica, si è a sua volta messa con tale Janet (che non ricordo se fosse una sua vecchia fiamma o una nuova). Infine, il marito Benton, da sempre legalista e legato a filo ennuplo all’FBI, sembra stufo dei bastoni che vengono messi alle sue ruote, anche perché il suo nuovo capo, Ed Granby, non sembra granché affidabile. Comunque per quelle prime cento pagine assistiamo alle peregrinazioni mentali di Kay, tra l’altro influenzata, che saltabecca qua e là nel suo passato, come per farci riprendere le fila di un discorso interrotto. Poi, analizzando la morta, trova strani collegamenti con le morti di tre persone a Washington, su cui indaga l’FBI e di cui non dovrebbe sapere nulla. Complichiamo il tutto: Gail, l’ultimo cadavere, è anche in affari con Lucy su progetti avveniristici di “app” per aiutare indagini legali. Ma Gail fa il doppio, se non il triplo gioco. Intenta una causa al suo precedente ufficio, il “DoubleS” sostenendo che le ha fatto perdere soldi, ma cercando sottobanco di rubare le app di Lucy e rivenderle proprio alla società cui fa causa. Benton, nelle more, non è convinto delle tracce di DNA trovate sui cadaveri della capitale, che farebbero risalire l’assassino ad un tizio coinvolto nella morte della madre quindici anni prima e poi scomparso. Kay ha anche l’intuizione che ci possa essere stato un cattivo uso delle banche dati federali. Cosa che ci porta ben presto a sospettare che l’FBI centri, e non poco. Quindi mentre scorrono le poche ore del racconto, ben diluite nelle lunghe pagine, abbiamo modo di vedere: Kay che risale alla morte della Gabriela madre del presunto killer, Kay che mette in mora il patologo che effettuò le analisi del tempo, Kay che utilizzando il software avveniristico di Lucy, tramite vecchie registrazioni video della scena del delitto, capisce che sulla scena era presente qualcun altro, oltre al presunto killer. Che non poteva essere l’assassino in quanto, all’epoca, ingessato ad un braccio. Intanto avvengono altre morti, così come in un “Criminal Minds” d’annata. Una signorina imbottita di droga si butta dal sesto piano. Lo psicologo che l’ha in cura muore in un incidente stradale che ben presto si scopre essere un omicidio. E tre persone, tra cui Lombardi e moglie che ne sono titolari, vengono uccise nella super-controllata sede della “DoubleS”. Analizzando quest’ultimo delitto (anzi delitti), e trafugando il server della società Kay, ma soprattutto Lucy, hanno modo di ricostruire i legami tra Lombardi e Granby, l’ascesa di quest’ultimo dopo il delitto di Gabriela, il collegamento tra Gail e la terza morta nella sede societaria. A questo punto, nelle ultime pagine, al solito di corsa, Benton tira fuori anche lui un asso dalla manica, collegando il terzo incomodo sulla scena del delitto, Lombardi ed un misterioso inserviente di un circo. Asso mancante della catena, che lo vede agire da serial killer per conto di Lombardi, anche perché ne usava il prodotto che la “DoubleS” commercializzava sottobanco, e cioè una potente droga sintetica. Che aveva portato la signorina di cui sopra ad una overdose allucinatoria. Che il killer aveva dovuto prima uccidere una tizia a Washington (originaria però del Massachusetts) che metteva in pericolo Lombardi (e con Lombardi, Granby). Il killer, fuori di testa per la droga, perde poi il controllo, uccide a più non posso, tra cui Gail (che però muore per una sfortunata serie di coincidenze), e poi fa la strage di cui sopra, perché… Insomma, 400 pagine di discussioni da tavolo anatomiche e una ventina per risolvere il caso, mettere tutti gli attori al loro posto. Con il colpevole che, praticamente, non compare mai se non quando… Beh, qualche puntino di sospensione ve lo meritate. Patricia Cornwell sta forse legandosi troppo a tutta quella catena di film “crime” americani, che perde di vista la scrittura di un buon giallo. Continuiamo a sperare in una risalita, anche se la vedo dura.
“Hai una pistola sotto quella giacca o sei semplicemente contento di vedermi?” [solita frase ammiccante attribuita a Mae West, che l’attrice non pronunciò mai] (80)
Michael Connelly “La scatola nera” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 10,40 euro)
[A: 21/03/2016– I: 22/04/2017 – T: 24/04/2017] - &&& e ½
[tit. or.: The Black Box; ling. or.: inglese; pagine: 364; anno 2012]
Come dice anche l’autore in un sentito ringraziamento finale (che contiene anche altro di cui non anticipiamo il contenuto), Connelly si trova qui al suo 25° libro. Non è certo poco, anche considerando che molti di questi libri hanno avuto un discreto successo commerciale (si dice che i suoi libri con Bosch abbiano superato le 50 milioni di copie vendute). Anche qui il nostro Harry prosegue nel suo lavoro nei “Cold Case”, ma, essendo un evento celebrativo, l’autore si inventa una trama altrettanto celebrativa. O, come si dice spesso, autoreferenziale. Qui infatti Bosch comincia ad indagare sulla morte di una giornalista danese, avvenuta durante la sommossa di Los Angeles che seguì il “caso Rodney King”. Con l’aggiunta che fu proprio Bosch, nel 1992, a scrivere i primi referti sul caso, aiutato dalla Guardia Nazionale, lì presente per far fronte ai disordini. Ma questi presero presto il sopravvento, e Anneke finì negli scaffali dei casi irrisolti. Ora, 20 anni dopo, la comparsa di una pistola dà modo ad Harry di riaprire il caso. Seguendo tutta una serie di citazioni trasversali, il nostro detective in attesa di pensionamento (ormai mancano due anni e mezzo, secondo quanto scritto nel 24° libro), risale una china di indizi per arrivare a qualcosa. Ponendosi alla ricerca di quella che un suo collega anni ed anni prima gli aveva indicato come elemento di svolta. Come per i disastri aerei, Harry è alla ricerca della scatola nera. Lì serve per ricostruire gli ultimi momenti prima del disastro, qui, nei casi polizieschi, caldi o freddi, serve per ripercorrere momenti ed istanti che hanno portato qualcuno a commettere un crimine. Harry pensa di averla trovata nella pistola, ne segue le tracce, trovandone un primo filo attaccato ad un criminale che l’ha usato per un omicidio. Poi la pistola compare in altri omicidi, compiuti da persone diverse, ma tutte appartenenti alla stessa banda. E tutte riportano ad un elemento di spicco della stessa, purtroppo ormai morto. Ed infine ad un cortile vicino a dove fu trovato il corpo di Anneke. Cortile dove abita un altro componente della banda, e dove finalmente trova la pistola. E con questa risale alla sua origine: guerra in Iraq dei primi anni ’90. Guerra dove fotografava anche il reporter Anneke. Harry capisce allora che deve seguire, anche, i movimenti della giornalista. Con l’aiuto del fratello danese e del giornale di lei, risale a tutti i movimenti di Anneke, e ad un file di foto di guerra e di sollazzo presso la base navale di Bassora, dove si riposavano i militari impegnati nella guerra. Poi a Berlino, ed infine in giro per l’America. Come se Anneke cercasse qualcosa, come se non fosse capitata a Los Angeles per i disordini razziali, ma seguendo un suo personale filo. Ed è questo filo, questa scatola nera, che Harry riesce a trovare, collegandola ad una strana telefonata ricevuta dieci anni prima dalla cittadina di Manteca, California. Inciso, ci sono passato l’anno scorso andando da San Francisco allo Yosemite Park. Passateci se volete capire l’America. Se volete capire Trump e chi lo ha votato. Perché l’America non è (solo) New York, Boston o San Francisco, ma Manteca, Modesto, Stockton e perché no, Winslow “standing on the corner” come cantavano gli Eagles. Ma torniamo alla pistola, all’Iraq, alla Guardia nazionale che guidava i camion nella Guerra del Golfo, che si riposava a Bassora, che aiutava la polizia per arginare i disordini del ’92. Harry risale i fili della scatola nera, sino ad un quintetto che proviene proprio da Manteca. Uno è morto anni prima, uno guida ancora i camion, un vende auto usate. Ma Carl è uno dei più ricchi della zona, e Drummond è lo sceriffo della vicina Modesto, ed aspira ad una carriera politica. Possiamo ora capire la successione degli avvenimenti. Senza che vi dica io chi è il “colpevole ultimo” (o primo?). Harry risolve tutto, inaspettatamente aiutato dalla poliziotta che sta indagando su di lui per presunti abusi amministrativi. Ma questa è un’altra storia, una storia nella storia, importante e marginale al tempo stesso. Di quelle che servono a Connelly per riempire la vita dei suoi personaggi. Come la riempie con Maddie la figlia, sempre più simpatica, e sempre più avviata, nel futuro, ad una carriera poliziottesca. Come la riempie con il suo nuovo amore, la simpatica Hannah, che comincia anche ad avere un rapporto non conflittuale con la figlia di Bosch. Elementi di complemento, gradevoli per il clima generale, non sempre funzionali a tutti. Ma Connelly prova a descriverci momenti di vita, anche se ai margini. Anche perché sono quelli che riempiono la vita proprio di quel mondo americano che nostri intellettuali spesso faticano a penetrare. Tuttavia le cose migliori, personalmente, sono, come dal primo libro su Bosch, le citazioni musicali. Qui, con un profluvio di accenni ad Art Pepper, ed al suo sassofono. Ed uno, che sottolineerò per tutta la vita, a Michael Formanek. Un bassista molto interessante (vero Carlo?), nato un 7 maggio di sessanta anni fa (imperdibile, no?).
Qiu Xialong “Cyber China” Marsilio euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 19/10/2015– I: 01/05/2017 – T: 06/05/2017] - &&& --
[tit. or.: The Enigma of China; ling. or.: inglese; pagine: 315; anno 2013]
Siamo già all’ottavo libro che Qiu Xialong, professore emigrato negli States dove insegna letteratura cinese, dedica alla saga dell’ispettore Chen. Ispettore atipico, che nasce come poeta e traduttore. Ma che è servito all’autore, fino ad ora, per illustrare i modi e gli sviluppi del “comunismo alla cinese”. Toccando via via diversi punti nodali: i nuovi ricchi, la burocrazia, il comunismo prima e dopo il mercato, la rivoluzione culturale. Arrivando ora ad un punto cruciale ed irrinunciabile: il rapporto tra il potere e internet. Un rapporto difficile e conflittuale in quasi tutti i paesi che hanno ferree censure di stato (oltre all’esempio cinese di cui qui si parla, mi viene subito in mente la Turchia, ma questo è un altro discorso). Il grosso problema con i libri di Qiu è che, addentrandosi sempre più nella disamina del mondo cinese attuale, perde di vista, e di molto, l’aspetto “poliziesco” iniziale, usandolo solo come spunto, ma lasciandosi poi trasportare da altro. Il secondo aspetto è l’uso di categorie sociali e politiche molto locali, che con una grossa difficoltà noi occidentali non cinesi riusciamo a decrittare. Per questo secondo aspetto, ad esempio, una grossa parte del libro è basata su un meccanismo molto in voga in Cina, conosciuto con il nome “motore di ricerca di carne umana”. Per spiegarlo, faccio il seguente esempio, preso da un articolo su questa questione pubblicato in rete da Ivan Franceschini. Su di un sito (un blog, un forum) viene postata una notizia (o un video o una foto) chiedendone informazioni. Gli utenti (“la carne umana come ricercatori”) si attivano riuscendo a trovare tutti gli elementi del caso (nell’articolo, un’infermiera che tortura un animale con la scarpa), trovando quindi “la carne umana come ricerca”. Questo meccanismo è molto usato in Cina dove non tutti gli accessi ad Internet sono consentiti, quindi i “ricercatori” usano mezzi extra-web per trovare le informazioni. Magari poi riversandole sui pochi siti consentiti e controllati. Scusate la lungaggine, ma questo punto è il centro del romanzo: viene messa in rete una foto di un “potente” che fuma delle sigarette costose e non consentite al suo rango. Da qui viene trovato, inquisito, tratto in arresti domiciliari in un albergo, dove pochi giorni dopo muore. Omicidio o suicidio? Il nostro Chen è coinvolto nelle indagini, anche se non in prima linea: il morto sembra avere avuto accesso a fondi non consentiti, indaga la polizia segreta, ed altre cineserie. Ma, non essendo arrivati ad una incriminazione del morto, la polizia, e quindi Chen, deve comunque essere presente. Per tutto il resto del romanzo, Chen va in cerca di informazioni, aiutato da una giovane giornalista, verso cui sembra avere qualche propensione amorosa. Peccato che Lili sia sempre presente nei momenti cruciali, spesso anche un passo avanti a Chen. Che tuttavia non si impegna fino a che non viene ucciso un suo collaboratore che sembra aver avuto alcune intuizioni sui meccanismi della gogna verso Zhou (questo il nome del morto). Il tutto sempre farcito da citazioni di poesie cinesi che, qui lo dico per l’ottava volta, visto che è l’ottavo libro, mi lasciano freddo e distante. Apro una piccola parentesi: non è mai facile tradurre poesie, che sono dei piccoli stati d’animo molto legati al modo di esprimersi e di vivere. Quindi anche alla lingua ed ai costumi. Queste poesie cinesi, decontestualizzate, mi risultano di difficile digestione. Tornando alla storia, anche se volenteroso, Qiu non si addentra molto nelle possibili ricerche via Internet (post da Internet Point, indirizzi IP crittati, ed altre “diavolerie” in rete che nel mondo occidentale sono ormai pane quotidiano), riuscendo solo a farci capire sia le difficoltà delle comunicazioni via Web in Cina, sia i controlli che ne vengono effettuati. Alla fine, ed è ovvio, la storia con Lili non andrà avanti (Chen è sempre attratto da qualcuno ma non riesce mai a trovare la donna giusta), anche perché (e questo lo sospettavamo sin dalle prime battute) è stata proprio Lili a scatenare la “ricerca di carne umana” che, come tessere di un domino che rotola, ha portato alla morte di Zhou. Ovvio che lei non ne sia implicata, ma la valanga che ha contribuito a far nascere travolge molto di più di quanto si aspettava. Chen risolve anche il mistero della morte di Zhou, unendo i puntini di un puzzle che le diverse polizie vorrebbero tener nascosti. Ma Qiu ce ne parla quasi di passaggio, tra la storia non sbocciata di Lili e Chen, e la carriera di Chen che sembra progredire sempre di più verso i vertici. Altre cineserie adombrano la storia: i rapporti tra Chen ed un ricco proprietario di ristoranti, tra Chen ed un medico, tra Chen ed un blogger (di cui aiuta la madre malata). Ma sono rivoli, e soprattutto sono proprio elementi di quel mondo cinese che Qiu vorrebbe descriverci, e che qui, in modo particolare, sono talmente legati alla Cina da risultare poco comprensibili. Tra l’altro, le mire dell’autore erano anche altre, a partire dal titolo originale (“L’enigma cinese”) che si riferisce ad una conferenza presentata nelle prime pagine, e che pone alcuni punti ed interrogativi sul modo evolutivo di questo “comunismo in salsa cinese”. Certo, come visto, poi si parla di Internet, ma “Cyber China” lo trovo un titolo veramente poco calzante. Non demordo e spero di capirne di più, della Cina e dell’economie asiatiche, in qualche altro libro. Non si può mai smettere di cercare di capire. È uno dei pochi modi di rimanere vivi.
“Sono quarant’anni che non ci vediamo / … l’aroma è svanito / … / Sono un vecchio che sta per trasformarsi nella polvere / … / ancora scoppio a piangere / dinanzi a questa vecchia scena.” (232)
James Patterson & Maxine Paetro “Le testimoni del club omicidi” Repubblica Noir 9 euro 7,90
[A: 01/09/2015 – I: 16/05/2017 – T: 19/05/2017] - && e ½
[tit. or.: 12th of Never; ling. or.: inglese; pagine: 348; anno 2013]
Non amo ne conosco in modo particolare James Patterson, una delle grandi icone dei libri seriali americani. Anche perché non ho avuto occasione (ancora) di incontrare il suo personaggio principale, lo psicologo forense Alex Cross. Di lui posso solo dire che mi disturba non poco la sua prolificità (dal ’93 ha pubblicato 22 libri su Alex Cross, 16 delle “Donne del Club Omicidi”, 9 su Michael Bennett, 13 della serie “Private” ed una trentina di altri titoli vari), nonché il suo vezzo, a parte la serie su Cross, di scrivere “in coabitazione”. Ad esempio, con l’esimia Maxine Paetro ha pubblicato 23 libri co-firmati. Entrambi provengono dal mondo della pubblicità, si conoscono da una vita, ed hanno stretto questo forte legame dal 4 libro di questa serie. Per inciso, Maxine è un’eccellente giardiniera, e possiede un giardino, Broccoli Hall, citato in diverse riviste di “Gardens”. Ma veniamo al libro ed al suo contenuto, cominciando subito con altri lamenti. Posso capire che pubblicando il 12° volume di una serie poco nota al grande pubblico, laddove non tutti i volumi della serie stessa sono usciti in italiano, anche se nascostamente pubblicati dal gruppo Longanesi-TEA, si voglia trovare un titolo che attiri il lettore. Tuttavia scambiare il nome collettivo delle donne che fanno sodalizio per aiutarsi a vicenda per il titolo del libro è capzioso e fuorviante. Laddove il titolo originale, al contrario, era quanto meno consono alla storia stessa. Volendo essere sempre sull’onda del marketing, ma un pochino meno fuori fuoco, si poteva mettere questo come sottotitolo, lasciando il titolo originale: “Twelfth of never”, titolo di una canzone lanciata nel 1957 da Johnny Mathis, e poi ripresa, con più successo, da Cliff Richard. Per chi fosse poco aduso ai termini popolari anglosassoni, l’espressione significa un tempo che non si verifica mai o che non avrà mai fine. Come nella canzone, dove il cantante dichiara che il suo amore durerà fino appunto alle 12 di giammai, e fino a che i fiori si dimenticheranno di sbocciare. Ricordo infatti che in anglosassone il tempo è diviso in due giri di 12 ore, e la dodicesima in genere viene omessa. Ma torniamo a bomba alla serie, almeno come viene impiantata da Patterson: in base alla loro professione, ed alla simpatia reciproca, ed all’aiuto vicendevole, ci sono almeno quattro donne che si riuniscono periodicamente parlando dei loro casi e risolvendoli. C’è il motore primo della vicenda, che parla in prima persona, la detective della squadra omicidi Lindsay Boxer. Intorno si muovono Claire Washborn, abbondante e gioviale direttrice dell’Istituto di Medicina Legale della città, Yuki Castellano, giovane e nervosa procuratore italo-nippo-americana, e Cindy Thomas, bionda giornalista di cronaca nera. Quattro amiche, sempre pronte a sostenersi a vicenda ed a discutere dei loro casi e dei loro guai bevendo margaritas da Susie’s. Mi dicono che una caratteristica delle serie (almeno chi ne parla in rete) è proprio quella di mescolare almeno un paio di casi e seguirli per tutto il romanzo. Qui, i due autori, si sono sforzati di mettercene il più possibile, sia di casi legali che umani. C’è Boxer che partorisce nelle prime pagine, per poi scoprire che la figlia Julie ha una qualche malattia, che potrebbe essere cancro (storia n.1). C’è un professore che si presenta al Distretto di Polizia raccontando i suoi sogni, che descrivono omicidi non ancora avvenuti, ma che puntualmente avvengono dopo pochi giorni (storia n.2). C’è il processo ad un avvocato accusato di aver ucciso la moglie e fatto sparire la figlia (storia n.3). C’è la morte della fidanzata di un giocatore di football e la successiva ed inspiegabile scomparsa del cadavere (storia n.4). C’è la ricerca di una serie di donne scomparse, ma forse più probabilmente di cadaveri, legati ad uno psicopatico in prigione (storia n.5). C’è Mackie, la nuova apprendista al distretto di polizia, che si mette in mezzo e distrugge la relazione tra l’aiutante di Boxer e la giornalista (storia n.6). Ovviamente, e per fortuna, molte storie hanno una fine, buona o cattiva che sia. E ci sono parti di storie che si collegano tra loro. In particolare la 2, la 5 e la 6. Alla fine del libro, con fatica, e stando molto attenti, troverete la soluzione delle prime 5. La 6 invece (almeno a quanto si legge in rete) avrà fine solo nel 14° episodio. Ora, sapete bene che anche io indulgo nella visione di qualche serie televisiva su Fox Crime, di cui, non avendo il televisore, vedo e seguo pezzi volanti qua e là. Ma la bravura del mezzo tv è di farti avere una visione completa almeno del 90% di quanto accade. Qui, i nostri due autori, per quanto bravi, hanno messo troppa carne al fuoco. La sanno gestire, ma è come mangiare per una settimana di seguito un asado argentino tutte le sere. Alla fine, non vedi l’ora di mangiare una mozzarella.
Terza domenica, quindi, anche se non c’è molto da spendere in spiccioli di felicità, cerchiamo di sorridere e metterci d’animo buono con una terapia d’amore bella forte, seppur quasi novantenne.
A proposito dei quali, speriamo di riuscire ad imboccare una giusta strada per le mamme in ambasce, visto che per ora poco altro si riesce a combinare. Anzi, nulla se non pensare ai miei amici ed ai miei viaggi.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

SETTEMBRE 2017
Ritorniamo ancora a curare il mal di cuore con un libro vecchio, datato, ma che ho letto con piacere, facendo qualche passo verso il grande vecchio americano, piacevole solo a Cuba.

TERAPIE D’AMORE (VII)

ADDIO ALLE ARMI di ERNEST HEMINGWAY (1929)

Pillole di trama       
Henry è un giovane americano che si arruola volontario come conducente di ambulanze sul fronte italiano durante il primo conflitto mondiale. Non ci mette molto a rendersi conto che la guerra non ha niente a che vedere con gli ideali che lo hanno spinto ad arruolarsi e ci mette altrettanto poco a innamorarsi dell’infermiera Catherine. Perfino durante la guerra sembrerebbe esserci la possibilità di un idillio amoroso (la ragazza rimane anche incinta), ma è solo un’illusione. In seguito alla disfatta di Caporetto Henry è costretto a fuggire, diserta e si nasconde con Catherine oltre il confine, in Svizzera. Ma proprio quando pensano di essere riusciti a mettersi in salvo arriva il tragico epilogo. Preparate i fazzoletti, perché serviranno.
Supposta-saggezza
Suggerendo di premunirsi di fazzoletti prima di accingersi alla lettura di “Addio alle armi” non vorrei che qualcuno fraintendesse pensando che questa storia, in parte autobiografica, sia il classico melodramma d’amore strappala-crime, stucchevole e piagnucoloso. No. I fazzoletti servono perché la passione che scoppia tra i protagonisti è così intensa da coinvolgere e commuovere per-fino gli animi meno sensibili e poco disposti al pianto. Non ci sono amori contrastati né tradimenti, ma due amanti di fronte alla precarietà dell'esistenza e all’ineluttabilità del destino. In “Addio alle armi” c’è il dramma dell’impotenza dell’uomo di fronte alla Vita e alla Storia, una condizione che accomuna tutti gli esseri umani, innamorati o no, perché «il mondo spezza tutti quanti... ma quelli che non spezza, li uccide. Uccide imparzialmente i molto buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non siete fra questi potete essere certi che ucciderà anche voi. ma non avrà una particolare premura».
Per questo è praticamente impossibile restare indifferenti al romanzo e anche se non si arriva fino al punto di piangere (effetto collaterale auspicabile per alleggerire il peso di molte patologie esistenziali), si resta quantomeno storditi da una strana sensazione che brucia nel petto. Non si tratta di bruciore di stomaco (in caso qualcuno pensasse che il libro sia di difficile digestione) quanto piuttosto di un bruciante fastidio provocato dall’ingiustizia della guerra e della vita.
“Addio alle armi” è anche un romanzo di denuncia così vibrante che in Italia fu pubblicato solo nel ’48 perché i gerarchi fascisti lo ritenevano lesivo dell’immagine dell’esercito italiano (fortemente antimilitarista, osava affrontare argomenti intoccabili come la disfatta di Caporetto e le fucilazioni sommarie che seguirono). Nel 1943 Fernanda Pivano lo aveva tradotto clandestinamente e per questo fu arrestata. E proprio lei ha fornito una delle più pertinenti e sin-tetiche interpretazioni del libro analizzandone semplicemente il titolo originale: “A Farawell To Arms”. In inglese “arms” vuol dire sia armi che braccia. Così l’addio è alla guerra e a tutti i suoi falsi ideali ma è anche e soprattutto un ad-dio alle braccia della donna amata, un definitivo e ineluttabile distacco dall’amore. In disaccordo con chi dice che «in guerra e in amore tutto è lecito» Hemingway sembra voler dire che in guerra, dal cui orrore è impossibile fuggi-re, l’amore non è permesso e resta un’aspirazione vana. Ma forse resta l’unica battaglia degna di essere combattuta.
“Addio alle armi” è un romanzo che scuote, commuove, amareggia e fa piangere. Hemingway riesce a trascinare il lettore al centro della storia immergendolo nelle vicende del protagonista come se si trovasse al suo fianco, con personaggi, ambienti, dialoghi e situazioni che si scolpiscono nel cuore. Per tutto questo è difficile restare indifferenti e alla fine i fazzoletti servono a tutti.
Posologia
“Addio alle armi” è particolarmente indicato per il trattamento delle aritmie cardiache. In caso di ipertensione e tachicardia previene il rischio d’infarto spostando l’attenzione dal proprio cuore malato ai dolori dei protagonisti, men-tre in caso di ipotensione e insufficienza cardiaca (anche grave) la sua vicenda appassionata aiuta ad aumentare il battito, alleviando il malessere causato da un tran tran sentimentale ripetitivo o dalla sua eventuale e totale assenza. In entrambi i casi la storia tramortisce quel tanto che basta per anestetizzare e dimenticare i dispiaceri amorosi di varia natura. Data la sua composizione può essere tollerato anche da pazienti allergici ai romanzi d’amore (Hemingway fa più intellettuale e radical chic di Rosamunde Pilcher). Con la scusa che è anche un romanzo di guerra, può essere assunto senza troppe difficoltà dagli uomini, tendenzialmente intolleranti alle vicende passionali.
A causa del suo amaro epilogo, la lettura potrebbe provocare un temporaneo calo dell’ottimismo con il conseguente manifestarsi di una sensazione diffusa di tristezza che in questo caso, però, aiuta l’organismo a metabolizzare il concetto che nella vita poco o niente dipende da noi, ma i sentimenti sono le uniche armi a nostra disposizione per contrastare l’ineluttabilità del destino.
Effetti collaterali
L’effetto collaterale più comunemente riscontrato è la già menzionata sensazione di tristezza che tende a protrarsi nel tempo (analoga a quella che sopraggiunge la prima volta che si vede “Titanic” e che è capace di durare per giorni, a seconda dell’ipersensibilità del soggetto). Spesso questa sorta di spleen può essere accompagnato da un senso di rabbia (la stessa che segue la visione di “Titanic”. Chi, infatti, non ha sbraitato lamentandosi che se si fosse-ro sistemati meglio, ci sarebbero potuti stare tutti e due sul quel cavolo di pezzo di legno?). Questo groviglio di malumore è causato dalla difficoltà congenita a mandare giù l’amaro boccone dell’unhappy ending sia nei libri che nei film, quell’universo parallelo in cui spesso ci rifugia in cerca di pace. Il senso di di-spiacere scatenato dalla lettura del romanzo è particolarmente sentito perché la tragedia arriva come un vaso di ciclamini in testa quando tutto sembrava ormai risolto e i protagonisti proiettati verso un futuro roseo (ma si chiama colpo di scena e, se ben congegnato, funziona sempre). La reazione di un lettore molto sensibile è ben documentata nel bel film di David O. Russell “Il lato positivo”. Dopo una notte passata a leggere “Addio alle armi”, il protagonista infuriato scaglia il libro fuori dalla finestra perché incapace di accettarne il tragico finale. Accusa Hemingway di farci tifare per tutto il tempo perché Henry sopravviva alla guerra e stia con la donna amata. E lui ce la fa, sopravvive e fugge in Svizzera con lei, che è anche incinta, quindi è meraviglioso, e tutti li immaginiamo tra le montagne a bere e ballare, felici e contenti. E pensiamo che sia finita lì e siamo soddisfatti anche noi. E invece Hemingway scrive un altro finale e fa morire Catherine. E allora eccoci tutti inferociti perché, cavoli, il mondo è già difficile così, almeno lui poteva regalarci un lieto fine! Ora, intendiamoci, Pat, il protagonista del film, ha problemi di bipolarismo e voi, probabilmente, non reagireste proprio con la stessa veemenza. Eppure potreste pensarla come lui, soprattutto se state soffrendo da matti e cercate un po’ di positività. In caso, seguite il suo consiglio: prendete tutta la negatività e usatela come carburante per trovare il lato positivo della vita. Come dice Pat: «Il mondo ti spezza il cuore in ogni modo immaginabile», lo sa Hemingway, lo sanno i suoi personaggi, lo sappiamo tutti ma impantanarsi nella negatività equivale ad assumere ogni giorno una dose di veleno che lentamente ci uccide. Anche se “Addio alle armi” avesse come unica conseguenza lo stimolo a vedere il lato positivo per scrollarsi di dosso tristezza, rabbia e negatività, vorrebbe dire che come medicina per vivere felici ha raggiunto il suo scopo. Anche se lo buttiamo dalla finestra.
Terapia cinematografica sostitutiva
Amore e guerra sono due ingredienti di cui il cinema è ghiotto, in parti-colare quello americano. Di conseguenza “Addio alle armi” è un romanzo molto appetitoso che si è prestato a numerosi adattamenti cinematografici. Per una terapia sostitutiva consiglio la versione del 1932 diretta da Frank Borzage con Gary Cooper e Helen Hayes. Romantico e sentimentale molto più del romanzo, è un melodrammone in bianco e nero perfetto per crogiolarsi tra le lacrime soffrendo per l’amore impossibile di qualcun altro. La visione è consigliata soprattutto a un pubblico femminile, rigorosamente con una scatola di Kleenex a por-tata di mano per il gran finale (meglio la scatola perché i fazzoletti si estraggo-no con più rapidità). È del 1957 la versione diretta da Charles Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones, Vittorio De Sica e Alberto Sordi. In caso di tristezza eccessiva, reintegrate la quota fisiologica di ottimismo con “Il lato positivo”. I due protagonisti, quello del libro e quello del film, condividono la ferma convinzione che il mondo faccia di tutto per spezzarci il cuore e le gambe. Anche il personaggio del film di David O. Russell, Pat, è impegnato in una personale battaglia contro nemici invisibili ma devastanti come il bipolarismo e la rabbia incontrollata. Nella trincea della fragilità incontra un’“infermiera”, diciamo così, anche lei alle prese con una ferita di guerra difficile da rimarginare. Insieme riusciranno a rimettersi in ballo, nel senso stretto del termine, trovando il giusto ritmo per vivere una vita ballerina. Contando su un ottimo cast (accanto a uno straordinario e fighissimo Bradley Cooper ci sono una potentissima Jennifer Lawrence e un Robert De Niro in gran forma), il film si tiene in perfetto equilibrio tra dramma e commedia.

Commenti

Sono d’accordo con l’esimia Giulia Fiore, che la lettura dei commenti di Ferdinanda Pivano è imperdibile se si vuole entrare con tutta la testa ed il cuore nella scrittura di papà Hemingway. Fortunatamente, anche in questa edizione Mondadori è presenta, per cui vi invito, in ogni caso, a leggerne.
Ernest Hemingway “Addio alle armi” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[trama scritta il 3 settembre 2017]
Eccoci ora ad un altro libro imperdibile, che tuttavia fino ad ora non avevo letto. Più che altro per una sorta di amore – odio che ho sempre provato per Hemingway. Ho amato le sue scritture fino a “Per chi suona la campana”, anche se non avevo letto questo. Ho faticato a ritrovarmi nei suoi libri tardi, e non sono mai entrato in sintonia con “Il vecchio e il mare” (di cui mi ritorna in mente solo il film con Spencer Tracy). Mi erano congeniali le sue prese di posizione contro la guerra, contro i totalitarismi. Non ho mai capito il suo machismo, il suo rapporto con le donne, il suo amore per le corride, per le armi. Devo dire che un grande passo verso di lui l’ho fatto lo scorso anno, quando, a Cuba, ho visitato la sua villa, ho visto il suo bagno pieno di libri, la vista da lontano sulla capitale e sul mare, la piscina, le tombe dei suoi cani. Poi, sotto la spinta delle terapie amorevoli per la felicità, si prende in mano questo libro. Che pur in una mia ambivalenza che cercherò di spiegare, mi ha fatto bene. Un bel libro, una bella scrittura, una storia interessante, magari per me più intensa e partecipata nella prima parte che nell’ultima. Ma soprattutto due grandi inni: uno contro la guerra ed uno per l’amore. Volendo essere estremi, poi, forse è un solo grande inno, unificato dalla passione. La storia, che anche chi non ha letto il libro ricorderà nel bel film di King Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones e Vittorio De Sica, è abbastanza semplice. L’americano Frederick Henry si arruola nell’esercito e con il grado di tenente viene a guidare ed organizzare i trasporti con le ambulanze sul fronte italo-austriaco. Lo vediamo in difficoltà con i pari grado militaristi, a parte lo scanzonato e disilluso tenente medico Rinaldi. Lo vediamo frequentare le infermiere che sono al fronte. Lo vediamo gravemente ferito trasportato in ospedale a Milano, dove ritrova l’infermiera Catherine. Con la quale aveva cominciato a flirtare al fronte e che ora, nelle lunghe giornate di malattia prima e di convalescenza poi, stringe in amoroso assedio. Fino a far sbocciare una tenera storia d’amore in guerra. Lo vediamo, dimesso, rispedito al fronte pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. Cui viene coinvolto, e dove si ritira dal fronte in una delle più belle pagine di descrizione degli orrori della guerra, e delle follie di insani militaristi che burocraticamente mandano soldati al macello, per poi punirli se per l’appunto vengono macellati. Pagine che mi hanno rimandato a quelle immagini di “Sentieri di gloria” di Kubrick con lo splendido Kirk Douglas anche lì nella parte di un inane lottatore contro le follie umane. Il nostro tenentino, per non essere fucilato come disertore, anche se lui aveva soltanto abbandonato una autoambulanza inguidabile nel fango, ed era ripiegato verso una linea difendibile, fugge nella notte. Raggiunge con fatica Milano dove si trova ancora Catherine. Quindi con lei, che gli ha appena detto di essere incinta, ripara in Svizzera, dove spera che gli arrivino presto buone notizie: la fine della guerra, la nascita del figlio, il matrimonio con Catherine. Queste sono le pagine, pur dolci, pur scritte con la solita maestria, che mi hanno lasciato meno segni sul cuore. Non c’è più la rabbia della prima parte, gli orrori della guerra giungono attutiti. O non giungono per nulla. Ci sono belle pagine d’amore. Ma non ci sorprendiamo che, alla fine, nulla finisce in modo positivo. Il bimbo, nonostante il cesareo, nasce morto. Catherine stessa muore di setticemia. Rimane solo lui, con l’ultimo saluto all’amata. Con le ultime parole che in pochi tratti ci danno il senso del mondo, e che scritte nel ’29 hanno una forza immutata nel tempo: “Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo.” Punto. Hemingway ha detto capitoli prima addio alle armi. Ora mestamente dice addio alla speranza. Perché la vita in tutte le sue forme è precaria. Per colpa dell’ottusità degli uomini e dell’insondabilità del fato. Oltre al bel libro, ed all’ottima traduzione di Fernanda Pivano, la stessa scrittrice, in poche e scarne pagine finali, ci dà una descrizione dell’autore e dell’opera che sono magistrali e che ho apprezzato moltissimo. Come mi piacerebbe poterne scrivere di simili. Che da un lato, la grande americanista ci comunica il suo amore per la letteratura americana e per questo libro di “papà” Hemingway. Dall’altro, con poche frasi, ce ne svela motivi e genesi. Hemingway aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, dove venne anche lui ferito. Tanto che alcuni ne leggono gran parte come un’autobiografia. È invece una storia che nasce dal personale, ma che si fa universale. È vero, Hemingway partecipò alla prima guerra mondiale, dove amò delle infermiere (non una sola, che questa risulta essere il compendio di più donne, e di una sua personale idea di donna). Inoltre, mentre scriveva l’ultima parte, anche sua moglie stava finendo il tempo del parto. Anzi Pauline partorisce con un cesareo, rischiando la vita sua e del figlio Patrick. E mentre Ernest rivede la stesura del libro, gli arriva anche la notizia del suicidio del padre in seguito ai disastri del famoso venerdì nero del 1929. Non ci meravigliamo quindi che ne esca fuori un accorato appello alla vita che percorriamo come acrobati sul filo, il più delle volte cadendo rovinosamente. Certo, e per fortuna, rimangono le bellissime pagine contro la guerra, contro tutte le guerre. Speriamo di riuscire a portare a termine le nostre vite senza altri disastri, se non quelli a noi direttamente imputabili.
“Sai bene che non amo che te. Non dovrebbe importarti se qualcuno mi ha amata.” (112)

Finalino

Certo, cardiopatie ed acciacchi coronarici sono sempre pronti ad essere sollecitati. Ma quando si riesce a passare da Pilcher, Steel o Casati Modignani a Ernest il salto, anche di piacere è notevole. Non so se aiuti a superare traumi d’amore, ma può essere utile a superare trami da letture poco degne. 

domenica 10 settembre 2017

Maigret 8 - 10 settembre 2017

A volte i Maigret vengono a grappoli, a volte passano mesi. Come in questo caso, che l’ultimo volume tramato era giù in quel di aprile. Ed i prossimi saranno ancora lungi da venire, per gli insondabili paradigmi del caso. Intanto, comunque, torniamo al periodo americano del nostro belga giramondo. E come avevo preannunciato, si sta qui confermando, che i libri, lontano dall’Europa feconda, cominciano a dare segni di stanchezza.
Georges Simenon “I Maigret – volume 8” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 03/03/2015– I: 09/04/2017 – T: 21/04/2017] - &&& e ½    
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 811; anno 2015]
Questa volta siamo nel pieno del periodo americano, con cinque romanzi tutti scritti nella tenuta di Shadow Rock nel Connecticut. Questo dà un po’ di uniformità agli scritti, rendendoli simili e comparabili, pur nella diversità. Purtroppo li rende anche un pochino uniformi verso il basso, che nessuno dei cinque si eleva molto sopra la sufficienza. Di certo ci consentono di approfondire il personaggio Maigret, ed ora che siamo all’ottavo volume ci sarebbe spazio per parlarne a tutto tondo. Tuttavia mi limito, tra suggerimenti e ricerche, di tirar fuori alcuni elementi di fondo, ed in particolare, vado a soffermarmi su analogie, rimandi. E su quei piccoli tocchi umoristici che la lontananza dall’Europa costringe Simenon ad aumentare di numero e di peso. Ah, la nostalgia delle bevute ai bistrot e delle chiacchiere a ruota libera. Lì, nell’esilio dorato, poco fa oltre scrivere e dedicarsi alle “famiglie”.

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Maigret al Picratt’s
30 novembre – 8 dicembre 1950
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Aprile 1951
Maigret e l’affittacamere
14 – 21 febbraio 1951
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Luglio 1951
Maigret e la Stangona
1 – 8 maggio 1951
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Ottobre 1951
Maigret, Lognon e i gangster
1 – 8 ottobre 1951
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Febbraio 1952
La rivoltella di Maigret
12 – 20 giugno 1952
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Settembre 1952

“Maigret al Picratt’s”
[tit. or.: Maigret au Picratt’s; ling. or.: francese; pagine: 11 – 179 (168); anno 1951]
Siamo nel pieno del periodo “americano” di Simenon. In particolare siamo anche nel periodo calmo, quello dove per un lungo periodo non fa (lui e la sua famiglia allargata) il peripatetico da una costa all’altra dell’America. Ormai si è installato con la nuova famiglia (Denyse e John) nel Connecticut, nella cittadina di Lakeville (dove produrrà 26 romanzi in cinque anni, di cui la metà dedicati a Maigret). Il resto della famiglia (la prima moglie Tigy, con il primo figlio Marc e la tata Boule) sono solo a cinque-sei chilometri, a Lime Rock. Questo 1950 è come ho già detto un anno di grandi ripensamenti sulla vita e sulle proprie opere, tanto che per quasi un anno non ha messo mano alle storie del commissario. Poi nel precedente ne ha fatto una summa cronologica, ed ora, nel mese che porta al Natale in poco più di una settimana, tira giù una nuova storia. Che deve molto alla nostalgia delle atmosfere parigine che cerca di ricostruire per poter prendersi una bella birra con Jules, o fumare una pipa insieme ai suoi poliziotti. La storia è fragile, e molto d’atmosfera. Più che l’intreccio in sé, infatti, è il clima di Parigi, le sue strade notturne, i personaggi al limite della legalità (ed a volte anche oltre). Ha anche una connotazione di forte datazione, dove tutta l’ultima parte, incentrata su pedinamenti ed altro, è gestita da Maigret installatosi nel nightclub “Picratt’s” dove i suoi agenti gli telefonano per aggiornarlo. Come sarebbe diverso ora, nell’epoca dei cellulari! Una spogliarellista denuncia alla polizia di aver sentito due personaggi oscuri tramare per l’uccisione di una contessa. Il giorno seguente è invece Arlette, la spogliarellista, che muore strangolata. Indagando su alcuni dettagli forniti da Arlette, i nostri polizotti saranno coinvolti anche nella morte della contessa (che in un primo tempo era nell’inchiesta dell’ispettore Lognon). Sali che ti risali, collega un dettaglio qui ed uno là, Maigret ricostruisce tutta la sottile trama che fa capo al losco Oscar. Che riesce a fermare prima che commetta un nuovo omicidio. Come vedete, trama corta, lineare, ed anche poco appetibile. Non ci sono grandi misteri da svelare. Non c’è un colpevole da individuare tra tanti. Ci sono morti. Ci sono nightclub. Ci sono brasserie. Ci sono gli uomini e le donne che si aggirano nelle notti parigine. E tra tutti questi punti si dipana la scrittura del nostro maestro-scrivano, che guarda alla sottile trama, solo per ampliarne i contorni, e per fornirci un nuovo libro d’atmosfera. Non è la prima né l’ultima volta che Simenon usa nightclub e cabaret per le sue storie, ma notiamo che il nome Picratt’s è già stato usato cinque volte in altrettanti romanzi pubblicati tra il 1924 ed il 1931. Ed anche di passaggio ne "L'uomo che guardava passare i treni” (è infatti il locale dove si reca Kees Popinga quando arriva a Parigi). Qui diventa centrale, perché ci lavora Arlette, perché il giovane aiuto di Maigret, Lapointe, lì conosce e si innamora della giovane, perché diventerà il quartiere generale di Maigret nel momento culminante dell’indagine. Tra l’altro, per introdurci nell’atmosfera del romanzo e del nightclub, Simenon usa un approccio trasversale. Prima di entrare nella trama vera e propria e prima di fare entrare Maigret in scena, ci accompagna da nottambuli nel clima di Pigalle, intorno a Place Clichy. Prende un agente di strada e con i suoi occhi vediamo i vari personaggi entrare in scena: il corpulento proprietario (Fred), un’ombra quasi quella di un ragazzo (il Grillo, che fa da buttadentro per il locale), due uomini con un sassofono (i musicisti del locale) e le tre ragazze striptiseuse (Tania, Betty e Arlette). In poche linee di scrittura, sarà Arlette a prendere il centro della scena. Minuta, con i capelli dorati, ma con troppi bicchieri mandati giù, quasi a volersi stordire per affrontare qualcosa di cui ha paura. Poi la vediamo con gli occhi degli altri poliziotti (per qualcuno è solo una che si spoglia, per Lucas qualcuno che ha dei segreti, per Lapointe il raggio che illumina i suoi giovani giorni). Sarà solo l’occhio di Maigret che vedrà aldilà delle apparenze, in questo personaggio dalla forte sessualità e dalla strana fragilità. Ed è Maigret, dopo averne scoperto la morte, che ne farà a ritroso la storia, andando a scavare nel passato. Scoprendo che non si chiama Arlette ma Jeanne Leleu, viene dall’Auvergne, dove è stata a lungo in un istituto di suore, per poi fuggire ed avere una storia appassionata con il bello e perverso Oscar. Di cui ha paura, di cui sa le trame losche, che cerca di fermare, ma che da Oscar sarà presto fermata. Oscar che appartiene al passato oscuro di Arlette, ma che è a sua volta oscuro ed impenetrabile. Tanto che solo dopo sette capitoli Simenon ce ne svela l’esistenza ed il mistero. Anche se rimarrà un’ombra per tutto il romanzo, specialmente durante il pedinamento, dove farà in modo di seminare i poliziotti. Solo alla fine, quando Maigret capisce chi sta cercando di uccidere, e lo stana, ne avremo un’immagine a tutto tondo. Che Simenon decide di eliminare con una nemesi: nel corso della colluttazione sarà Lapointe ad uccidere Oscar. Ma ad Oscar si era arrivati dopo la morte della contessa von Farnehim, una volta bella donna, anche lei di povere origini, che sposa il ricco e vecchio conte. Il quale muore in Costa Azzurra, probabilmente ucciso da lei o dal suo autista nonché amante. Che si rivelerà essere appunto il tenebroso Oscar. Il quale, dopo la morte del conte, continua per anni a chiedere ed ottenere soldi dalla contessa. Che però si è avviata alla droga e sta consumando soldi e vita in questa china. Motivo per cui Oscar decide di farla finita, ucciderla e prendere i suoi gioielli, prima di vederli sparire al Monte di Pietà. Un altro bell’esempio della scrittura del nostro belga, è l’uso, per tutto il romanzo, dei contrasti per mettere in rilievo o sottolineare diversi aspetti della vicenda. Contrasto tra l’origine borghese di Arlette ed il suo attuale mestiere. Contrasto tra la vita turbolenta di Arlette e l’ordine con cui tiene il suo appartamento. Contrasto tra la giovinezza di Arlette ed il corpo decrepito e rovinato della contessa. Contrasto tra il numero di Arlette, che tutti descrivono sensuale e coinvolgente, e quello della sua sostituta Dolly, maldestro e raccogliticcio. Contrasto tra il giovane Lapointe, poliziotto alle prime armi, ed il giovane Philippe, ladro, drogato, che cerca di approfittarsi anche lui della contessa, aiutando il misterioso Oscar. Tra l’altro sarà proprio pedinando Philippe che Maigret, dalla sua base al Picratt’s, risolverà la vicenda, che tra l’altro, è brevissima temporalmente, dato che si risolve in due giorni e mezzo. Come detto qui avrà poi il suo ruolo centrale Lapointe, che da un paio di romanzi è entrato nella scuderia di Maigret, affiancando i ben noti Lucas, Janvier e Torrence. E che avrà sempre un rapporto privilegiato con Maigret, quasi quello di un figlio che il commissario non ha mai avuto. Due ultime note per chiudere: l’ispettore Lognon dovrebbe occuparsi del caso, ma Maigret ed i suoi lo esautorano, e lo utilizzano nella squadra. Peccato che Lognon non sia mai in sintonia con il nostro, e che venga spesso usato come scarico di dissapori, che Lognon vorrebbe ma non sa restituire. Qui, nel finale, Maigret si dimentica di avvertirlo che la caccia è finita, e Lognon continua a fare da palo davanti ad un appartamento dove non arriverà nessuno. L’altro elemento è il sottile umorismo che utilizza talvolta Simenon. Nell’interrogatorio della cuoca Rosalie, ad esempio, mentre questa cucina, non apprezza le interruzioni del commissario (di cui conosciamo l’aspetto alla Gino Cervi). Tant’è che ad un certo punto Rosalie gli chiede come si chiami. E quando lui risponde “Maigret”, lei ribatte: “Un nome facile da ricordare. Visto che siete piuttosto corpulento”. Non bisogna essere francofoni per sapere che “Maigret” in francese significa “magrolino”. Un altro punto d’umorismo “alla Simenon”, è ancora il nome del locale, che ha una voluta assonanza con il francese “picrate”, che nel linguaggio familiare indica un vino rosso di cattiva qualità. Insomma un discreto romanzo, pieno di spunti, anche se non si colloca tra i migliori dedicati al commissario.
“Maigret e l’affittacamere”
[tit. or.: Maigret en meublé; ling. or.: francese; pagine: 183 – 336 (153); anno 1951]
Simenon si avvia verso i suoi cinquanta anni, e questo sarà uno degli anni più calmi di tutta la sua esistenza. Scandito soltanto, all’inizio ed alla fine dell’anno, da due lutti che lo toccano da vicino: il 4 gennaio muore Léopoldine Amélie Brüll-Thys, zia materna, ed il 16 novembre sarà la volta di Florent Joseph Lucien Simenon, lo zio paterno. Ma il nostro continua la sua tranquilla esistenza dividendosi tra Shadow Rock con la moglie e Lime Rock con il primo figlio. Un anno in cui produce “soltanto” sei libri, di cui tre dedicati a Maigret. Tanta è la tranquillità che questo primo Maigret del ’51 lo completa nella solta settimana intorno al suo compleanno. Pur essendo, com’è ovvio, un’altra storia, ci sono alcuni parallelismi con il precedente che illustrano anche il modo di procedere per assonanze di Simenon. Ci sono i suoi ispettori al centro della vicenda: nel precedente ricordate di Lapointe, ora c’è l’ispettore Janvier che viene ferito quasi mortalmente durante la sorveglianza ad una pensione. C’è Maigret che lascia il suo ufficio per trasferirsi al centro delle indagini: lì era al Picratt’s, qui si trasferisce nella pensione della signorina Clement. Ci sono infine i due personaggi chiave delle vicende, entrambi che compaiono non immediatamente e di cui si ha chiara visione solo verso la fine. Un altro elemento non di novità, dato che è usato diverso volte, ma comunque di freschezza (quasi fosse uno dei serial che tanto appassionano i patiti di FoxCrime) è l’intrecciarsi di due storie: una rapina ad un nightclub ed il ferimento di Janvier. Storie che all’inizio sembrano coincidere, ma che Maigret ben presto ci fa capire essere disgiunte. Tutto ebbe inizio con la signora Maigret che va dalla sorella operanda. Maigret è solo a Parigi, si trastulla con alcune trasgressioni (lumache per cena, un cinema solitario), ma quando viene avvertito che Janvier è stato ferito, prende in pugno la situazione. Visto poi che è solo nella casa di boulevard Richard-Lenoir, decide di trasferirsi nel centro dell’azione, presso la pensione della signorina Clement. Qui Simenon ha gioco di presentarci alcuni personaggi della fauna locale, che non hanno nulla a che fare con la vicenda poliziesca, ma servono all’autore come rumore di fondo per l’ambientazione. La rapina al nightclub è senz’altro opera di due ragazzi sbandati, uno dei quali abita propria nella pensione. Scrutando il comportamento della gente presente, Maigret farà ben presto tana al povero Paulus, nascosto sotto il letto della tenutaria. Qui ritroviamo l’umanità del commissario che capisce l’innocenza della signorina Clement, ed il suo buon cuore, per cui non le muove nessuna accusa. Ed anche verso Paulus ha l’atteggiamento di quel padre che non è mai riuscito ad essere (la signora Maigret rimase incinta i primi tempi del matrimonio, poi un aborto spontaneo con complicazioni porta i nostri due a rimpiangere i figli che non avranno, e talvolta a prendersi carico di qualche giovane, magari sul filo del rasoio tra bene e male). Rimane però il mistero del ferimento di Janvier, sicuramente non ad opera di Paulus. Dopo aver interrogato tutti i locatori della pensione, Maigret si dedica anche agli inquilini dello stabile di fronte. Incuriosito dalle finestre di un appartamento, approfondisce l’indagine pressando da vicino l’inquilina. Françoise Boursicault, sposa da 15 anni del marinaio Désiré, e da 5 costretta a letto da una malattia degenerativa. La signora è reticente, lui la pressa da vicino, scopre uno strano segnale alla finestra attraverso l’utilizzo di un vaso di rame. Scopre la giovinezza della signorina, nata Binet e chiamata Lulu. Cameriera, ricamatrice, forse anche per poco prostituta, ma non è certo. Certo è invece il suo amore folle per un tizio poi scomparso. Tanto che lei sposa il marinaio, dolce, compassionevole e spesso per lunghi periodi assente per i suoi imbarchi. Ed ecco che ci appressiamo al finale, dove ricompare l’amore di gioventù di Lulu, Julien. Lui era fuggito dopo aver ucciso un usuraio, era fuggito a Panama dove aveva fatto fortuna. Ora, malato, era da sette anni tronato a Parigi, dove, per caso nella metropolitana, incontra la sua vecchia fiamma. L’amore rinasce, anche senza speranza. I due si incontrano quando Désiré è in viaggio. Ma la malattia di Françoise dà un colpo mortale alla relazione. Julien la va a trovare di nascosto (seguendo i segnali del vaso). Ma la fatale sera, vedendo la polizia nella pensione di fronte, e dovendo andare via per l’imminente ritorno del marito, non trova di meglio che sparare a Janvier per creare confusione e fuggire. Tutto ciò lo confessa a Maigret quando questi lo rassicura che non tirerà in ballo la malata. Ritorna al fine l’umanità del commissario, che dopo aver tampinato e ridotto in lacrime Françoise, decide di inventare una frottola per lasciarla fuori (come del resto ha fatto anche con l’affittacamere). Anche qui, non c’è una vera tensione verso la soluzione, solo un seguire il commissario nelle sue azioni, e nella sua inchiesta che dura ben una settimana. E seguire il contemporaneo affresco che, da lontano, Simenon fa della sua Parigi, dando anche dei bei colpi di pennello ai suoi personaggi. Maigret che senza moglie non sa stare nella sua casa vuota. Maigret che frequenta una brasserie vicino alla pensione per riflettere. Maigret che prende appunti. Maigret che viene tentato dalle diverse donne che popolano il romanzo. Dalla signorina Clement, ben in carne, e che incontra spesso nottetempo. O la signorina Isabelle, segretaria spesso in casa, e spesso discinta. Ma proverbiale è e sarà la fedeltà di Maigret. Dove i suoi sgarri saranno solo gastronomici. Come detto, poi, uno dei punti di forza di questo romanzo è la descrizione dei personaggi, che Simenon ci presenta in modo graduale e ripetitivo: prima il punto di vista della signorina Clement su ogni inquilino, poi le note dell’agente Vauquelin, quindi il ricordo fatto da Maigret di ogni inquilino durante la sua prima notte nella pensione, ed infine le annotazioni sempre di Maigret sul suo taccuino. Stesso procedimento che poi utilizza per la storia, dove in diversi capitoli ce ne presenta una versione arricchita ogni volta da nuovi particolari. Ho notato anche l’andamento tra opposti atteggiamenti della storia stessa, che comincia quasi in dramma con il ferimento di Janvier, che volge al comico durante i rapporti tra Maigret ed i locatari, toccando la punta massima con la scena del sandwich notturno che la signorina Clement aveva preparato per Paulus ma che, scoperta da Maigret, è costretta a mangiare controvoglia, e che infine torna al dramma con l’arresto di Julien. Inciso, altro elemento di divertimento che Simenon sparge ogni tanto: Julien, tornato a Parigi, abita anche lui in Boulevard Richard-Lenoir, a pochi passi da Maigret. Notiamo infine che, dopo averlo abbandonato per tutto il tempo delle edizioni Gallimard, tornano i titoli dei capitoli. Non solo, qui, e per sette romanzi (come dicono gli esegeti del commissario) saranno titoli lunghi, in cui Simenon condensa in una frase il suo senso del capitolo stesso. Come al capitolo 3: “Dove l’evocazione di un bicchiere di birra svolge un ruolo importante e dove Maigret scopre un inquilino della signorina Clement in un luogo inaspettato”.
“Ciascuno può essere strano agli occhi di qualcun altro.” (258)
“Maigret e la Stangona”
[tit. or.: Maigret et la Grande Perche; ling. or.: francese; pagine: 339 – 491 (152); anno 1951]
Dopo tre mesi dal precedente Maigret, ed avendo nel frattempo scritto un romanzo non-Maigret, Simenon torna nella prima settimana di maggio a tirar giù un nuovo episodio del nostro commissario. Come detto, è sempre nel Connecticut, ed è sempre nella stabile situazione familiare, stabile ancorché complessa, come al solito. Ma non ci sono grandi avvenimenti esterni, così che lo scrittore si dedica a questo romanzo in cui caratterizza ancora di più cosa intenda fare nello scrivere le avventure di Maigret. Questo romanzo, infatti, ha due caratteristiche che lo rendono tipico. Una minore, che ritroviamo in molti scritti, ed è il girovagare e rimembrare per la “sua” Parigi. Tra l’altro, impianta il grosso dello svolgimento del romanzo a Neuilly, in particolare nella casa del dentista Guillaume Serre, in Rue de la Ferme, una parallela del Boulevard Richard-Wallace, dove Simenon abitò tra il ’36 ed il ’38. Questo è uno dei suoi modi tipici, che l’azione percorre strade a lui familiari, sia quelle da lui poco amate di Neuilly, sia quelle che più amava, passato il ponte sulla Senna, nella zona popolare di Puteaux. Anche qui, una persona più attenta e precisa di me (e credo che qualcuno lo abbia pur fatto) potrebbe andare a scavare nella topologia parigina di Maigret. L’altra caratteristica, che definirei maggiore, è invece il contrasto, spesso presente solo in modo latente, ma qui ben evidenziato, tra il mondo borghese, che Simenon conosce e non ama, e quello popolare, che l’autore ritiene più vero e sincero, anche con tutti i debordamenti al limite della legalità. L’anima popolare è rappresentata da Ernestine Jussiaume nata Micou detta Tine, la stangona del titolo, supposta vecchia conoscenza di Maigret. Supposta che Maigret non la ricorda, anche se lei si presenta rammentando al nostro il suo arresto, diciassette anni prima, per un borseggio ad un cliente quando faceva la prostituta. Per non farsi arrestare, si spoglia davanti ad un Maigret imbarazzato che non sa che fare davanti alla stangona nuda. Piccola chicca: Tine sostiene che il furto è opera di una sua collega chiamata Lulu, che potrebbe benissimo essere la Françoise Binet del romanzo precedente (che faceva anche lei la vita, proprio con il nome di Lulu). Ora Tine è sposata con Freddie il triste, ex-installatore di casseforti, ora diventato scassinatore, e chiede aiuto a Maigret in quanto Alfred è scomparso dopo avergli detto che, mentre apriva una cassaforte a Neuilly, ha visto nella stanza una donna morta. Qui comincia l’indagine di Maigret che individua casa Serre, ed entra in contatto con la famiglia: Guillaume, dentista cinquantenne, vedovo, risposato con un’olandese, e la madre, arcigna signora della casa. La moglie Marie, secondo i due, è tornata in Olanda a seguito di dissapori. Ma non se ne ha traccia. Quello che intriga Maigret è che non ci sia traccia di nulla neanche a casa Serre. Niente cadaveri, niente cassaforte scassinata, niente vetro rotto. Simenon ci porta pagina dopo pagina nella lotta, di nervi e di posizione, tra Maigret e Guillaume. Maigret si basa solo sulle affermazioni di Tine, dato che anche Freddie è scomparso. Ma la famiglia Serre è compatta nell’azzerare ogni tentativo e richiesta della polizia, opponendo sempre elementi plausibili, ed ovviamente contrari al racconto di Tine. L’elemento poliziesco che Simenon sfrutta per farci entrare nelle indagini, qui si basa sullo svolgimento temporale dei fatti. Tine va da Maigret il giovedì sostenendo che Freddie ha fatto il colpo nella notte tra martedì e mercoledì. Sempre il martedì Guillaume va al bar per bere del vino, inusualmente; e sempre martedì dovrebbe partire la moglie. C’è un vetro rotto in casa Serre, ma la madre dice che è stato riparato lunedì. Maigret chiede poi di indagare sulla partenza dell’olandese e sui taxi che non ha presi. Finalmente una luce: il ferramenta conferma il vetro rotto del lunedì, ma afferma essercene stato un secondo riparato mercoledì. Seconda luce: un portiere sostiene di aver visto Guillaume in macchina il martedì notte. Tutta una questione di tempi, in un’indagine che dura solo tre giorni, e di lavoro della polizia scientifica, che trova tracce di mattoni rossi nella vettura, dello stesso tipo scaricato vicino alla Senna da una chiatta solo il lunedì sera. L’ultimo aspetto è la lotta senza mezzi termini tra i due “pugili super-massimi”: da una parte Maigret e dall’altra Guillaume. C’è tutto un capitolo in cui i due si affrontano senza esclusione di colpi (verbali). Di converso c’è invece un altro capitolo dove, in contrasto tra i due massimi, c’è un combattimento tra due “pesi mosca”: la madre Serre e Tine, che sono in sala d’attesa. Alla fine sarà il nostro Jules ad uscire vincitore con il colpevole in mano, anche se non vi dico chi è. Perché Maigret è massiccio nel suo peso, mentre Serre è molle. E Guillaume finirà per sgonfiarsi davanti alle intuizioni temporali del commissario, che lo porteranno ad individuare i moventi del vero colpevole. Colpevole di due omicidi, almeno, ed in procinto a commetterne un terzo. Ho iniziato dicendo che questa dei contrasti tra ambienti sociali è uno dei pallini di tutta l’opera di Simenon. Infatti, lui aveva scritto nelle sue memorie di aver iniziato pensando ad un personaggio che, cambiando luogo e compagnia, si adeguasse, come lo Zelig di Woody Allen, alla situazione. Ha poi deciso di passare ad un più concreto atteggiamento, utilizzando l’occhio di Maigret come lente di ingrandimento di questo modo di rappresentare le sue vicende. Ed è Maigret, che, in tutte le vicende, osserva i vari modi di vivere, cercando di sverniciarli dalle sovrapposizioni esteriori, per arrivare alla sostanza, per arrivare a quello che Simenon chiama appunto nei suoi scritti “l’uomo nudo”. Come nel precedente, ci sono anche piccoli brandelli umoristici sparsi qua e là nel testo, quando ad esempio paragona il cappello di Lucas ad un abat-jour, o meglio ancora quando, dovendo portare la signora Maigret al Quai des Orfevres, le raccomanda di non lamentarsi che le stanze sono polverose e che ci sarebbe bisogno di una bella pulita! Per inciso chiudo con un’ultima chicca: in “Maigret al Picratt’s”, l’agente che con il suo sguardo ci introduce nel mondo di Pigalle, si chiama Jussiaume, come Freddie il triste. Omonimia voluta o solo uso improprio di qualche foglietto con dei nomi casuali?
“Maigret, Lognon e i gangster”
[tit. or.: Maigret, Lognon et les gangsters; ling. or.: francese; pagine: 495 – 653 (158); anno 1952]
Ci si avvia alla fine di questo calmo 1951, e nella prima settimana di ottobre, Simenon completa il suo nuovo Maigret. Rimanendo fedele a quel modello che si è imposto negli ultimi anni, di alternanza tra un Maigret ed un non-Maigret. È anche l’ultimo romanzo del forse ultimo anno veramente di calma nel suo esilio americano. Non si è mosso per tutto l’anno da Shadow Rock, non ha avuto problemi con le sue famiglie. Insomma, calma piatta. Ma è anche una calma che esaspera alcune sue idiosincrasie. Se infatti negli ultimi scritti, aveva nostalgicamente mostrato quanto gli mancasse Parigi e la Francia, qui vuole anche dimostrare come il vecchio mondo sia superiore al nuovo. E non potendo far viaggiare di nuovo Maigret (che è in ogni caso un commissario, quindi non è che se ne possa andare di qua e di là come un turista), ha l’idea balzana di far viaggiare i criminali. Ecco quindi che sono i gangster e le loro modalità criminali che sbarcano nel Vecchio Continente. Tutto il romanzo sarà quindi incentrato sui tentativi di Maigret di bloccare questi criminali, dimostrando, alla fine, la superiorità continentale, a dispetto delle molte persone che per tutto il romanzo lo consigliano di desistere. Consigli che ovviamente non fanno che aumentare la voglia di Maigret di far vedere cosa sia capace quando gioca in casa. Il tutto però era iniziato dalle disavventure di Lognon. Questi, che abbiamo incontrato anche in precedenti romanzi, non fa parte della squadra di Maigret, anche se Lognon lo vorrebbe. È sfortunato, lamentoso, senza un minimo di grazia, afflitto anche da una moglie insopportabile ed irascibile (Solange). Come più volte descritto in questo che di Lognon è il romanzo più centrato, magari se fosse più umile, meno concentrato su sé stesso e sulle sue sfortune, Lognon potrebbe anche aspirare al meglio. Qui, trovandosi un possibile caso tra le mani, decide di cominciare da solo l’indagine. Mentre fa un appostamento, una macchina scaraventa sul marciapiede un corpo. Un morto? Forse. Lognon guarda, vede la macchina fuggire e comincia inseguimenti e ricerca di tracce. Peccato che, tornato sul marciapiede il corpo è scomparso. Peccato che loschi figuri, che non parlano francese, visitino casa Lognon mettendo molta paura alla moglie. Intanto Lognon sembra essere scomparso e Solange chiede aiuto a Maigret. A questo punto, il lamentoso deve per forza affidarsi al commissario. Gli racconta tutto. Maigret capisce anche che ci sono di mezzo non francesi. Con Lognon visita il ristorante di Pozzo, un italo americano, dove comincia a trovare dei fili da annodare. Ci sono due loschi figuri di gangster americani che si aggirano per Parigi: Charlie Cinaglia e Tony Cicero. Non si sa la loro missione, ma si appoggiano ad un altro americano, specialista in truffe, Bill Larner. Che un po’ li aiuta, ma non pare convinto né troppo coinvolto. Mentre Maigret cerca traccia dei due anche con l’aiuto del suo amico dell’FBI, tramite anche telefonate transoceaniche, Lognon viene lasciato di guardia da Pozzo. Ma viene scoperto, malmenato e quasi ucciso. Da questo punto in poi lo lasciamo in ospedale a curare le ferite, mentre Maigret continua le sue ricerche. Andando anche a stanare Luigi, altro ristoratore italiano, meno convolto di Pozzo, ma che qualcosa sa. Tanto che esce fuori un collegamento con gli ippodromi, e Maigret mette in scena anche un altro ispettore “fuori squadra”, il Barone (sia per il portamento, che per il nome che si chiama, appunto, Baron). Intanto anche Luigi, oltre Pozzo (nonché il suo amico americano) cercano di convincere Maigret di non immischiarsi nei fatti americani. Nella parte finale, Simenon comincia anche a tributare omaggi agli hard-boiled americani: c’è un pedinamento che finisce a pistolettate con un poliziotto quasi ucciso, un ladro ferito che fugge. Sarà riuscendo a trovare le tracce del ferito, che Maigret ed i suoi scoprono il nascondiglio di Tony e Charlie, e dopo una colluttazione (in cui Maigret riceve anche una pistolettata nel cappello) li arrestano. Ma il bandolo verrà fuori dal Barone, che si ubriaca con un americano di nome Harry, ma che alla fine, in una divertente scena nel suo appartamento tra fiumi di alcool ed altro, consegna a Maigret gli ultimi fili per far segnare il vantaggio definitivo ai francesi. C’è stato un assassinio a Saint Louis, da parte di un mafioso per altro insospettabile, e di cui è stato testimone Joe Mascarelli, detto Joe lo Sciatto. Questi, paventando di essere fatto fuori dai sicari del boss, fugge in Francia. Ma alla fine chiede aiuto agli americani di casa, che inviano Harry Pills per riportarlo sano e salvo a casa. Prima però lo trovano Charlie e Tony che cercano di farlo fuori. Non riuscendo, e vedendo sparire il corpo, i due coinvolgono Bill nella ricerca. Che un po’ li aiuta, ma quando i due quasi uccidono Lognon, Bill, specialista in truffe, se ne va e sparisce. Harry riesce a salvare Joe, a curarlo. Ed alla fine lo riporterà a Saint Louis. Mentre Charlie e Tony rimarranno in carcere a Parigi. Benché non riuscitissimo, è un romanzo che ribadisce alcuni dei migliori punti fermi di Simenon. La capacità di variare registro, dal duro delle sparatorie (mirabile l’agguato a Maigret in rue Grange-Batelière vicino al Passage Joufroy, uno dei più belli di Parigi in quel di Montmartre e vicino all’Hard Rock se conoscete la zona), al comico delle disavventure di Lognon o della descrizione del racconto alcolistico di Baron, fino ai tocchi poetici, quando, prima di ingaggiare la furiosa lotta che porta all’arresto dei gangster, ci parla del vento e delle nuvole della campagna. Segnaliamo infine alcune piccole perle: la cena notturna tra Maigret e Luigi, dove quest’ultimo dà indicazioni decisive al commissario, si svolge in uno dei locali aperti giorno e notte, il bar “La Coupole” a Montparnasse (visitato varie volte, oh yes). Poi abbiamo la descrizione di uno strumento, in francese chiamato “bélinographe”, che sarebbe in italiano corretto “telefoto” (mentre viene erroneamente tradotto con telescrivente), un aggeggio, inventato negli anni ’20 da Bélin (francese e non genovese) per la trasmissione a distanza di fotografie, e molto utilizzato dai giornali sino ai primi anni ’60. Infine quel tocco umoristico sul detective americano Harry Pills, quello che Baron non ricordava ma aveva un nome di cantante. Ovvio che a noi Pills dica poco, ma per i francesi Jacques Pills, cantante, è stato una celebrità negli anni ’40 e ’50, non solo come cantante, ma anche come marito nel 1952 (e per quattro anni) di Edith Piaf. Altra chicca: testimone della sposa in quel matrimonio fu Marlene Dietrich. Beh, ora basta spigolature, che ne ho tirato fuori carrettate. Certo che Simenon è proprio una fucina di connessioni e di rimandi vari (interni ed esterni) che mi fanno godere le pagine, anche se, ripeto, questo romanzo non è ai suoi massimi espressivi.
“La rivoltella di Maigret”
[tit. or.: Le revolver de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 657 – 811 (163); anno 1952]
Peccato che anche il quinto romanzo di questo volume delle avventure di Maigret sia in linea con i precedenti: qualche spunto, punti di interesse, ma non verso le migliori vette di Simenon. Tra l’altro, passano diversi mesi tra la scrittura del precedente e questa, poiché, per la prima volta da molti anni, la “famiglia Simenon” fa una lunga visita in Europa. I clamori del dopo-guerra sono ormai alle spalle, ed a marzo, lo scrittore, con Denyse ed il loro figlio di tre anni, si imbarca a New York sul piroscafo “Liberté” volendo fare un giro nel Vecchio Continente. Non solo grandi trionfi a Parigi (compresa una visita ufficiale al Quai des Orfèvres), ma un salto in Costa Azzurra da Jean Cocteau, affacci in Italia a Milano e Roma, nonché una toccante visita a Liegi alla madre ammalata. Avrà anche il tempo di essere insignito del seggio all’Accademia Belga di letteratura, di scrivere un ricordo dei suoi primi scritti giornalistici di venti anni prima, ed alla fine anche di subire un processo, che un oscuro negoziante si era riconosciuto in un personaggio bistrattato nella sua non ortodossa biografia (un giorno o l’altro parlerò anche di questo “Pedigree”, dove Simenon narra della sua vita in modo che “niente è vero, ma tutto è esatto”, sublime). A giugno, finalmente, torna negli States e dà subito vita a questa nuova avventura, dallo svolgimento veloce (anche qui, l’indagine non dura più di tre giorni), ma che stenta a decollare, anche perché, per molto tempo, non si capisce se sia o meno un giallo. Per gran parte, infatti, è più uno studio psicologico sui personaggi. Soprattutto i due corni del dilemma, il patetico e decaduto barone Lagrange e la sua vecchia amante ora, forse, complice, Jeanne Debul. Ma tutto nasce antecedentemente, con il solito andamento lento. Maigret deve andare a cena dal suo amico, il dottor Pardon (che qui è collocato in boulevard Voltaire, mentre in altre storie abita in rue Popincourt), che gli vuol fare incontrare un suo amico che ha dei problemi. L’amico non si presenta, adducendo malesseri improbabili. Maigret lo va a trovare e scopre che è proprio il padre di quel giovanotto che la mattina precedente si è presentato a casa sua, aspettandolo inutilmente, e poi dileguandosi con la sua pistola. Inciso: riferimento incrociato, la pistola è quella che è stata donata a Maigret nel romanzo “Maigret va dal coroner”. Maigret non è convinto dell’atteggiamento del barone Lagrange, e comincia ad indagare sulle sue mosse, scoprendo che il giorno prima ha portato un baule al deposito bagagli della Gare du Nord. Lo apre e vi trova il corpo addirittura di un deputato, André Deteil. Il barone tace, e Maigret cerca allora di trovare le tracce del figlio Alain. Scopre che si è recato dall’amante del barone, la sopra citata Jeanne, che però è improvvisamente partita per Londra. Scopre che anche Alain ci sta andando, e come succede raramente (questa è solo la terza volta in 35 romanzi) parte anche lui verso Londra. Tralascio i piccoli umorismi che Simenon sparge contro i cugini d’oltre manica, perché quello che interessa è il confronto, duro, che avrà con la signora Debul. È lei l’anima nera della storia, ed è lei che Simenon descrive a tinte fosche e spregiative. Ma da buona dura, riesce a tirarsi fuori dalle secche, perché, benché sia lei l’autrice dei piccoli ricatti che le consentono da vivere, nulla è entrata nella morte di Deteil. Maigret esce sconfitto da Jeanne, ma trova Alain prima che questi faccia sciocchezze con la sua pistola. Anche qui, nel confronto con un ragazzo di 19 anni, esce l’animo paterno del commissario, che avrebbe voluto un figlio ma non è mai riuscito ad averne (sappiamo tutto quando ne scrisse nel precedente “Le memorie di Maigret”). Si lascia andare anche ad altre reminiscenze tristi, il nostro commissario, ricordando ad Alain che anche lui ha perso la madre quando era piccolo, e con grande ed irrecuperabile dolore. Maigret ed Alain tornano a Parigi lasciando la colpevole, almeno moralmente, Jeanne a Londra. Ma questa strana inchiesta non avrà una soluzione limpida. Il barone, realmente o astutamente, dà fuori di testa, e non sapremo se il colpo mortale è partito volontariamente o accidentalmente. Non è questo poi, come sappiamo che interessa Simenon, che voleva tornare al suo Maigret mettendoci un po’ della psicologia che sta usando nei suoi romanzi non maigrettiani. Non è un caso che nel capitolo 8 Simenon scrive “sino alla fine, questa non era un’inchiesta come le altre”. Ma a parte la psicologia, su cui altri hanno ben dissertato, torniamo pure su alcune chicche del Simenon americano. L’umorismo, al solito, come durante l’interrogatorio della cameriera di Jeanne, la simpatica Georgette, che, a domanda di Maigret, risponde di non sapere bene come il commissario veniva descritto nei giornali, ma di persona, era meglio. E Maigret ne è non poco imbarazzato. O quando nel capitolo 7, dovendo Maigret fare un appostamento, si lamenta, anche per telefono, di non riuscire a mangiare, poi di non riuscire a fare pipì, poi di non riuscire a fare altro che restare lì, ad aspettare, e “a fare l’imbecille”. Divertente l’accostamento, nel primo capitolo, del giovane Alain con il “Bébé Cadum”. Il Cadum era una marca di saponi da toilette, che utilizzavano come poster pubblicitario un neonato sorridente e pulito vicino alla linea di saponette. Inciso, nei tempi moderno, Cadum venne acquistato da Palmolive, e poi da Colgate, ma il bimbo rimane sempre il marchio di fabbrica. Come rimane un marchio il passaggio per il cibo, e qui il libro finisce citando una cena al cui centro c’è un piatto definito “spettacolare”: la testina di vitello tartarugata. Un piatto tipico non della cucina francese di Maigret, ma di quella belga di Simenon, che si ottiene unendo, ad una testina di vitello, del limone, del Madeira, del pepe, torli d’uovo e gamberi. Credo sia di una pesantezza invalicabile. Ma è con questa cena che si chiude il romanzo, e il libro.
Come ben sapete oramai, seconda domenica ed ecco puntuale l’allegato per curare le malattie, anche se questa volta la paura non mi sembra centratissima.
Inoltre, sapete anche che queste giornate sono più dedicate all’interno (verso la mamma che tanti Maigret mi ha regalato) che verso l’esterno dei viaggi. Anche per alcuni problemi passaportuali, fortunatamente e con velocità già risolti. Ed allora continuiamo a goderci questo tempo improbabile, ma che rinfrescando un poco ci consente di sopportare le avversità.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2017
Ovvio che quando qualcosa gira intorno, anche se non si avvicina, poi sembra che tutto lì converga. Anche questo mese di libropedia.

MORTE, PAURA DELLA

Don DeLillo                       “Rumore bianco”
Alejandro Jodorowsky        “Quando Teresa si arrabbiò con Dio”
Vi siete mai chiesti come fanno gli altri ad andare avanti sapendo che possono essere spazzati via da un momento all’altro? Vi capita qualche volta di svegliarvi la notte con i sudori freddi, inchiodati al letto dalla terribile consapevolezza che smetterete di esistere, e durerà in eterno?
Non siete i soli. La consapevolezza della morte è ciò che ci differenzia dagli animali. Come scegliamo di affrontare questa realtà, invece - se preferiamo credere in Dio e in una vita ultraterrena, oppure convivere con l’idea della non-esistenza, o semplicemente cerchiamo di non pensarci - è ciò che ci distingue gli uni dagli altri.
Jack Gladney, professore di Studi Hitleriani in un college del Midwest, soffre costantemente di paura della morte. Jack è ossessionato da quando morirà, dal non sapere se morirà prima lui o la moglie Babette (e spera segretamente che tocchi a lei), e dalle dimensioni di «buche, voragini e altri spazi vuoti». Un giorno scopre che Babette ha paura della morte tanto quanto lui. Fino ad allora, quella donna bionda e corpulenta era rimasta tre lui e la sua paura, e aveva rappresentato la «luce del giorno e la concretezza della vita». La scoperta lo lascia turbato - e scuote le fondamenta del suo matrimonio, altrimenti felice.
Jack esplora ogni possibilità, filosofica o meno, di superare la paura della morte, dal cercare protezione nella folla al credere nella reincarnazione. («Come pensa di trascorrere la sua risurrezione?» gli domanda, amichevole, un Testimone di Geova, come se parlasse di un weekend lungo). Il modo migliore che trova per tranquillizzarsi (o almeno distrarsi per un po’) è sedersi a guardare il suo bambino che dorme, un’attività che lo fa sentire «devoto, parte di un sistema spirituale». Per chi ha la fortuna di avere a portata di mano un bambino addormentato, si tratta di un balsamo che raccomandiamo di cuore per ogni genere di paura, non solo quella della morte.
Forse uno dei tentativi di Jack funzionerà anche per voi. In caso contrario, “Rumore bianco” vi permetterà, almeno, di associare il pensiero delia morte a qualche risata. DeLillo è uno scrittore divertente, e la sua descrizione di Jack mentre cerca di parlare tedesco è uno dei momenti più buffi della letteratura. Leggete questo libro di notte, quando arriva la paura, e la vedrete trasformarsi in una risata.
L’altro volume da tenere accanto al letto è “Quando Teresa si arrabbiò con Dio”. Questo romanzo sulla famiglia Jodorowsky, di origine yiddish ed emigrata in Cile, può essere letto più e più volte, poiché gli eventi che racconta si susseguono in una sorta di eterno ciclo, ed è scritto in maniera così densa che a ogni rotazione troverete nuove gemme e nuove scoperte. Siccome la storia copre più di un intero secolo capita pure che qualcuno muoia, e succede così spesso e in tono così pragmatico o magico che i personaggi non possono che accettare il naturale ordine delle cose - un atteggiamento che, col tempo, potreste arrivare a condividere.
Se ciò non accade, continuate a leggere il libro. Più e più volte, come si è detto. Una notte, forse, quando volterete stancamente l’ultima pagina e ricomincerete da capo, inizierete a comprendere la necessità che tutte le cose buone, prima o poi, finiscono.

Bugiardino

Uno dei rari mesi in cui ho letto tutti i libri consigliati per la paura della morte. Ecco, benché ne abbia capito il senso, rimango molto lontano, che né DeLillo né Jodorowsky hanno soddisfatto i miei appetiti letterari.
Don DeLillo “Rumore bianco” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 22 maggio 2011]
Mi ero sempre rifiutato di accostarmi a DeLillo, che in qualche misura accostavo a Leavitt e Bretton Ellis. Ebbene, facevo bene a continuare così. Che libro inutile! Ovviamente ha vinto mucchi di premi, soprattutto in America, e i critici lo accostano invece a Paul Auster (!). Io ci sento un abisso. Certo, non è un minimalista, anche perché scrive sempre romanzi fiume di pagine e pagine. Ma l’aspetto di toccare lievemente le cose, di stare lì a guardare, un po’ rimane. Ma poi viene preso dal fiume impetuoso di volere dire e fare. Comincia così ad inzeppare le pagine di tutte le tematiche calde della fine dello scorso millennio: il consumismo rampante, la saturazione mediatica, l'intellettualismo spicciolo, le cospirazioni sotterranee, la disintegrazione e la reintegrazione della famiglia, fino ad arrivare alle qualità potenzialmente positive della violenza umana. Usando quel tono tra l’alto ed il basso, tra l’umorista ed il dissacrante. Creando momenti di piacere (devo confessarlo) ma tutto di testa, quando il protagonista Jack è preso dai vortici di discussione con il figlio maggiore Heinrich. E tutta la trama viene imbevuta in questa estremizzazione dei modi, tanto per essere veracemente americana. Il protagonista è un professore di una piccola università americana, che si è costruito il suo spazio fondandovi il Centro di Studi Hitleriani (benché non sappia una parola di tedesco). Ed all’Università è in continua discussione con il suo amico Murray che cerca di fondare un analogo centro ma sulla figura di Elvis Presley. È sposato con Babette, sua quinta moglie, e vivono insieme in una casa con una marea di ragazzi, due figli di lui e due di lei, poi lui ne ha altri due sparsi per il mondo. E tutto il romanzo scivola, per le sue quasi 400 pagine, tra questi personaggi che si vivono, che sentono radio e televisione, che vanno al supermercato (tutti elementi che producono quel rumore di fondo, quel “rumore bianco” del titolo, che è, questa sì, una delle caratteristiche negative del mondo moderno), che girano per le strade e si chiedono se prima dell’avvento della televisione fosse tutto così perdutamente inutile, che hanno paura di morire e cercano di trovare e provare di tutto (anche psico-farmaci) per vincere questa paura, che vedono la loro città invasa da una nube tossica (siamo poco prima di Chernobyl) che però non fa grandi vittime. Alimenta soltanto le paure e le fobie del bel modo di vivere americano. Da manuale, l’uscita della famigliola a cena, che compra cibo-spazzatura e se lo mangia in macchina. Mentre ne scrivo, raccontandone brandelli, sembra quasi interessante. Quello che mi lascia indifferente è invece proprio questo. Scivola via, pagina dopo pagina, cercando di toccare temi eccelsi, ma non lasciandomi una briciola di moto dell’anima da nessuna parte. Forse i 25 anni passati non sono stati clementi con i temi ed i modi del suo scrivere (ma quanti scrittori con più e più anni lasciano il segno? E come non ricordare il coevo “Soccombente” da poco letto…). Per di più, è trascinato nel mio negativismo la non accuratezza della confezione, che speravo voluta, ma forse no. Titoli di capitolo a volte in numeri romani ed altri in numeri cosiddetti arabi, il capitolo XVIII che perde la V, e diventa XIII. No, non mi è piaciuto. L’ho letto per vedere se, prima o poi, scattasse qualche meccanismo positivo. Purtroppo, sono arrivato alla fine e l’unica cosa che mi rimane sono qualche battuta qua e là dei due figli, Heinrich e Denise, che, forti dei loro 14 ed 11 anni, dicono le cose più sensate del libro. Cerco qualcuno, ora, che mi faccia cambiare idea. Per ora, il buon DeLillo torna nell’ombra cui lo avevo lasciato per tanti anni.
“Fotografano il fotografare.” (19)
“I medici perdono interesse per coloro che si contraddicono … Gli studi medici mi deprimono ancora più degli ospedali.” (87)
“Si passa la vita a dire addio agli altri. Come si fa a dirlo a sé stessi?” (316)
Alejandro Jodorowsky “Quando Teresa si arrabbiò con Dio” Feltrinelli s.p. (prestato da Alessandra)
[trama pubblicata il 7 settembre 2014]
Anche questo viene dal natalino dell’arabista, e sono stato “piacevolmente” costretto a leggerlo dall’insistenza di chi voleva un parere su di un autore che conosco (per altre cose di cui dirò) e che non era riuscito a convincere. Veniamo allora a Jodorowsky, che frequentavo una trentina di anni fa, quando insieme al geniale Moebius diede vita ad uno dei più bei fumetti della storia dei comics: “L’Incal”. Una storia onirica, complicata, ma rese graficamente da Moebius con una capacità e semplicità che ne smussava i toni altri. Conoscevo anche in parte l’opera teatrale del nostro, più che altro perché ero stato un ammiratore in gioventù del grande Fernando Arrabal. Poi lo avevo lasciato andare per la sua strada, non convinto né dalle sue performance filmiche (“El Topo” o “La montagna sacra”), ed in seguito per quella svolta verso la disciplina esoterica da lui inventata: la psicomagia. Mi era sembrata una strada non mia, che non mi avrebbe portato nulla di interessante, coniugando dimensioni che (in parte) conosco come carattere e psicologia, ad altre che sinceramente non mi convincono o coinvolgono (magie, onirismi, ed altri stati di alterazione). Certo Jodorowsky è un personaggio interessante, con quegli anni passati alla corte di Marcel Marceau che sicuramente andrebbero ripensati e rivalutati. In questo libro, che non è altro che la trasposizione magica della storia della famiglia Jodorowsky, a partire dai nonni paterni per arrivare alla nascita del nostro, questa storia viene “stravolta” non tanto capovolgendone o inventandone avvenimenti, quanto amplificandoli ed inframmezzandoli da salti logici, che secondo Jodo fanno parte del suo realismo magico. Come quando parla del terremoto che accoglie i suoi all’arrivo a Valparaiso o quando immagina sé stesso nella sua incarnazione precedente che tira le fila per far congiungere quelli che aveva deciso fin dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna che fossero i suoi genitori, cioè Jaime e Sara Felicidad. La realtà, depurata dai suoi voli eccessivi, è di contro abbastanza (anche se non completamente) semplice. Nel tardo diciannovesimo secolo, Aleksandr Levi (n.1873), nonno paterno di Jodorowsky era un ebreo ucraino che nel 1900 si sposa Teresa Groismann (n.1879). L'anno seguente, nasce Jaime, il secondo di cinque fratelli (il figlio maggiore muore annegato e nonna Teresa ne sarà stravolta per tutta la vita) e sarà l’unico ad avere a sua volta dei figli. Nel 1909, il nonno compra il cognome Jodorowsky da un nobile polacco e cambia legalmente il suo originale nome ebraico, Levi, probabilmente a causa dei pogrom che avvenivano nella regione, ma secondo l'autore l’ha fatto per evitare al polacco di essere arruolato nell'esercito. Poco prima della fine della prima guerra mondiale, i nonni paterni di Alessandro fuggono in Francia. A Parigi sono aiutati da un gioielliere di nome Moishe Rosenthal, membro del Comitato israelita di Mutuo Soccorso. Poco dopo partono per Marsiglia e, come molti altri immigrati ebrei della diaspora, da qui si rifugiano con i loro figli in Sud America, con un viaggio che termina in Cile, da dove non torneranno mai più in Europa. La migrazione di sua madre, Sara Felicidad Prullansky, nata a Buenos Aires è più complicata. Durante l’epoca dei pogrom fomentati dallo Zar Alessandro III, Jashe, la nonna materna, sefardita, bruna di pelle, viene violentata da un cosacco. Incinta, fugge dalla Russia, sbarca in Argentina, dove dà alla luce una ragazza dalla pelle di marmo e dai grandi occhi azzurri: Sara. La nonna Jashe sposa poi in Argentina un uomo d'affari ebreo, Mosè, con il quale ha altri due figli. La famiglia si trasferisce a Iquique, un porto fiorente dove venivano imbarcati nitrati per l’Europa. Sua madre Sara ha una relazione peccaminosa con un non-Ebreo e la famiglia la costringe quindi a sposare Jaime Jodorowsky, spostandoli nella vicina Tocopilla per sfuggire ai pettegolezzi della comunità ebraica di Iquique. Pertanto, nel suo albero, oltre agli ucraini paterni, ci sono per via matrilineare ebrei polacchi (i Prullansky), i lituani (Trumper), i russi di origine germanica (Groismann) e sefardita (Arcavi). Tuttavia Jodorowsky non ha mai ricevuto come figlio l'educazione religiosa ebraica (o di qualsiasi altra religione), se non altro perché suo padre, un militante comunista, era profondamente anti-religioso. Anche per questo, nella parte cilena, l’autore infarcisce il tutto con manifestazioni, attentati anarchici, ed altre diavolerie pseudo-rivoluzionarie. Jodorowsky ha spiegato innumerevoli volte che dal divieto del culto religioso, emerse il suo interesse per lo studio di molte religioni e dei loro simboli, che lo porta alle sue teorie attuali. Jodorowsky basa la sua metodologia sul presupposto che l'inconscio prende atti simbolici come fatti reali, in modo che un sacro atto simbolico magico può cambiare il comportamento dell'inconscio, e quindi se bene applicato, può curare alcuni traumi psicologici. Questi atti sono "su misura" e sono prescritti dopo che lo "psicomago" analizza le caratteristiche personali del cliente, anche studiandone l’albero genealogico. Per questo, Jodorowsky ha creato anche la Psicogenealogia. Questa parte della premessa che certi traumi e comportamenti inconsci vengono trasmessi di generazione in generazione, in modo che, un individuo, per diventarne consapevole e separarsi da loro, deve studiare e poi agire in base al suo albero genealogico. E questo risulta anche dal titolo di questo romanzo che si riferisce proprio alle origini di una persona. Il titolo spagnolo si riferisce a “Dove meglio canta un uccello”, riprendendo una frase ironica di Jean Cocteau che dice “Un uccello canta meglio sul proprio albero genealogico”. Mi convince allora Jodorowsky e tutto ciò? Devo proprio dire di no. Come non mi è piaciuta, non mi ha coinvolto la scrittura. Senza la mediazione della grafica, rimane un esercizio per “épater le bourgeois”, e non è nelle mie corde. Ritengo che Jodo abbia di certo una bella testa, ed una capacità di essere ancora ben lucido alla sua attuale età di 85 anni. anche se, appunto, le sue fantasie non mi incuriosiscono. Come, e per finire, nel sostenere nel libro di essere nato il giorno della caduta delle borse di New York (che ricordo essere il 24 ottobre del 1929), mentre in tutte le biografie risulta essere nato il 7 febbraio dello stesso anno. Mah!

Conclusioni

Questa volta siamo molto distanti. Soprattutto Alejandro non mi convince nel ruolo che gli assegna questo scritto. In effetti, lo sostituirei volentieri con “L’amante giapponese” di Isabel Allende, dove la morte è presente dalla prima all’ultima pagina. Paura? Forse, ma tanto quella c’è sempre.