domenica 27 dicembre 2015

Noir Italia, ultima parte - 27 dicembre 2015

Ed anche ultima trama dell’anno. Vi lascio con l’ultima tornata di quattro letture della serie “Noir Italia” de “Il Sole 24 Ore”, partito con belle premesse, arrivato alla fine un po’ zoppicando. Anche solo una di queste ultime storie, la prima, è seriamente illeggibile. Le altre si barcamenano tra l’ovvio ed il gradevole. Buona lettura e buona fine del 2015.
Massimo Donati “Diario di spezie” Sole 24 ore – Noir Italia 35 euro 6,90
[A: 14/03/2014 – I: 10/06/2015 – T: 12/06/2015] - &    
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2013]
Una delle ultime uscite dall’altrove ottima collana. Uno dei romanzi meno riusciti. Anche perché, dall’assunto Noir Italia (e dalle premesse editoriali) ci si aspetta un romanzo non solo di autore ma anche di ambientazione italiana. Qui si mette invece in mezzo un ispettore Garrant, operante in Belgio, che entra anche poco nelle operazioni clou della vicenda. Ed una vicenda che prende l’abbrivio in Belgio e si aggira un po’ qua e là per l’Europa. Senza mai convincermi troppo, né sulle ambientazioni né sui personaggi. La storia in sé poi è di una linearità (oserei dire banalità, ma forse è troppo) disarmante. Da un lato seguiamo le vicende di una strana coppia: Luca, un cuoco italiano, con vaghi sogni di gloria per la sua professione, con un ristorante in Italia di alterno successo, ed una moglie, amata, ma piena di idee altre, di benessere e rispettabilità e tranquillità, che al cuoco vanno strette, e Andreas un restauratore d’opere d’arte, ciccione, ricco e borioso. Che irretisce il cuoco in una sua personale tela di ragno: prima lo fa invitare a Bruxelles per l’organizzazione di un pranzo di gala, poi lo convince a seguirlo in una sua poco assennata (e forse un po’ buttata là per fini diversi) gita attraverso l’Europa. Gli promette di riportarlo a casa, ma la loro avventura terminerà su di una baita sperduta tra le Alpi. Sul versante parallelo abbiamo una serie di atroci morti e/o sparizioni infantili, principalmente avvenute in Belgio, ma poi disseminate un po’ per tutta Europa. Una delicata inchiesta, affidata ad un team di esperti (almeno sembrano tali) e guidata dall’ispettore Garrant. Certo, non è di grande inventiva ambientare tali accadimenti nella terra di Marcinelle, ma tant’è. Ovviamente, Garrant si avvicina spesso alla soluzione del problema, ma, per fretta, per ostacoli altri (o alti) non riesce mai a portarsi verso l’ultimo passo, quello che dovrebbe condurlo al colpevole (o ai colpevoli?). Così, dopo molti fiaschi, viene una decisione dalle alte sfere di fermare il tutto. E qui il buon Donati non ha altra idea che quella di ripercorrere il vecchio tema, così ben delineato da Dürrenmatt, e spesso, maldestramente, ripreso. Garrant non si arrende, e prosegue da solo. Perché lui sa chi sia la mente dietro tutto questo macello. Ma non ha i mezzi per provarla. Il buon poliziotto di Dürrenmatt si mette lì, ad aspettare che il cattivo faccia la sua mossa sbagliata. Garrant prende la sua pistola d’ordinanza e si mette ad inseguire Luca ed Andreas, convinto che lì sia la soluzione del grande rebus. Donati pastrocchia molto nel suo girovagare verso una conclusione. Luca ha subito qualche trauma infantile, Andreas è sicuramente gay, Garrant si muove decisamente male, si insinua la giovane Juliette che avrà qualche momento di gloria nel finale. Dove si scopriranno tutte le carte, si risolveranno tutti i misteri, i colpevoli saranno puniti ed i buoni vinceranno. Ed invece no, si precipita verso la fine, si spiegano brandelli di verità, e si cerca di finire il tutto in un gran polverone e, nel peggior filone di chi vuole ma non può fino in fondo, si infrange la regola numero 10 di S. S. Van Dine (alla fine, bisogna spiegare tutto al lettore). Donati complica ulteriormente la vicenda inserendo un gioco psicologico sulla mente di un personaggio, sugli abusi subiti, sul chiudere gli occhi per non vedere. Ma tutto ciò non ha diminuito di un grammo la mia delusione verso il romanzo, e verso la storia. Poiché si parla (anche) di cuochi e di cucina, si dice ad un certo punto che le spezie, nella preparazione dei piatti, se ben dosate, esaltano il sapore del cibo. Qui, al contrario, mi sembra che se ne sia abusato un po’ troppo, tanto che il sapore ne viene ricoperto, e non rimane molto altro piacere. Adieu, mon cher Donati.
Diana Lama “La sirena sotto le alghe” Sole 24 ore – Noir Italia 38 euro 6,90
[A: 28/03/2014 – I: 15/07/2015 – T: 17/07/2015] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 283; anno 2008]
Con questo, che è il terzultimo della serie, torniamo ai buoni livelli che avevano caratterizzato l’esordio dell’esimia collana del Sole 24 ore. Dedicata ad una delle mie passioni, il giallo – noir – thriller di autore italiano. Una trama discretamente congeniata, con personaggi credibili, forse solo un po’ troppo visti, ed un finale decente, anche se poteva essere migliorato. Per cui siamo sopra la sufficienza, di certo, anche se non proprio di molto. D’altra parte, le ultime prove erano sprofondate in abissi di illeggibilità. Certo poi non mi sono meravigliato scoprendo che l’autrice è un’assidua frequentatrice del genere, nonché fondatrice dell’associazione Napolinoir. Intanto siamo in una bella zona italica, la costa sotto Vallo della Lucania, tra Acciaroli e Marina di Casal Velino. Nella cittadina che in realtà si chiama Pioppi, e che viene trasfigurata nella finzione in Pioppica. Cittadina di vacanze della borghesia e della nobiltà napoletana, che sarà tra i protagonisti del romanzo. E dove c’è la piccola stazione dei carabinieri, che vede presenti i “buoni”: il maresciallo Simone Santomauro ed i due suoi aiutanti Pietro Gnarra e Totò Manfredi. Diana Lama infarcisce un po’ la trama con qualche buon elemento laterale (il rapimento del coniglio, le avventure erotiche di Pietro e qualche altro elemento di colore) che sono gradevoli ma che lasciamo a chi vorrà dedicarsi alla lettura. Lasciamo per tornare alla trama ed ai suoi elementi caratterizzanti. Perché appunto c’è la massa dei morti e dei possibili colpevoli. C’è Elena Mazzoleni, velenosa lingua locale, sempre pronta a mettere zizzania, con il marito Pippo, architetto emergente e bello, da sempre innamorato della Rocca di Pioppica e delle donne. C’è Regina Capece Bosco, la castellana, però piena di debiti (soprattutto verso Elena) che mettono in pericolo la sua proprietà e la di lei nipote, la bella e disinibita Valentina Forlenza. Quella che si prende chi vuole, che fa l’ingegnere informatico, e che negli ultimi tempi ha un debole per Pippo. C’è Bebè Polignani, ex-cameriera ora vedova del notaio che l’ha lasciata ricca ma insoddisfatta. C’è Olimpia Casaburi, beghina e bigotta, manovrata spesso da Elena per mettere zizzania laddove serve. E c’è il suo protetto, il prete poco pretesco Lillo Lucarello. C’è Titta Sangiacomo, pretesosi giornalista, ex scrittore di gialli con la Mazzoleni, sempre in mezzo e sempre irritante. C’è Giorgio De Giorgio, anche lui tombeur de femme, ma che s’innamora, realmente, della giovane Gaia D’Onofrio, minorenne, ed è per questo messo alla gogna da Elena. C’è Gerry Buonocore, che sposa sempre delle giovani signorine orientali, anche lui spesso colpito dagli strali della vipera cittadina. C’è Leandro De Collis, il dottore patologo, disincantato ed antipatico, ma che, in un momento di debolezza di Elena, ha avuto con lui una storia, breve ma intensa. Insomma, c’è un bel mondo di cattiverie incrociate, che si comincia a sfasciare al ritrovamento di un corpo, martoriato ed in disfacimento. Corpo riconosciuto da Pippo come quello della moglie Elena. Da qui partono le indagini dei nostri, che s’incartano ben presto di fronte ad un muro di difficoltà, laddove i benpensanti fanno fronte comune. Anche quando viene ritrovato morto il bel Samir, negro prestante che usa il proprio corpo per mettere da parte soldi per una sua futura carriera cinematografica. Samir che aveva intuito qualcosa della morte sotto le alghe e che lascia una bella cassetta in DVD con un reportage su Valentina. Morirà anche Bebè, che scopre qualcosa nel tentativo di trovarsi un sostituto al notaio morto. Finché si arriva alla catarsi finale, durante la mitica festa paesana in onore del santo patrono (su cui ritorno sotto con una spigolatura). I fuochi d’artificio innescano un incendio che rischia di far bruciare la Rocca. Ma fa sì che ne venga liberata la prigioniera, che non è Valentina, come ci si aspettava, ma Elena. Fuoco che fa morire il cattivo di turno (e non vi dico chi è) e salva Regina dal fallimento (anche per l’aiuto che le dà il maresciallo). Santomauro aveva, infatti, capito tutto, ma con quel poco di ritardo che non gli consente di fermare il colpevole prima della catarsi finale. Come detto, il finale è un po’ letto, e ce lo aspettavamo da un po’. Anche per il vezzo, questo che le fa togliere qualche punto di gradimento, dell’autrice che ogni tanto ci rifila frasi del tipo: se il commissario avesse prestato attenzione a questo, avrebbe già risolto tutto. Un po’ troppo scrittore onnisciente, se mi si consente una lettura analitica del testo. Che ovviamente noi si era capito già quando, ad un furto di parrucche era seguita una colluttazione in cui il maresciallo viene colpito a tradimento e riconosce solo dei lunghi capelli neri. E non c’era bisogno di sottolineare di fare attenzione. Ma tant’è, il libro scorre, i personaggi sono discretamente credibili, i brigadieri simpatici. Solo il maresciallo alterna fasi positive, ad un lungo finale inutile in cui continua a vedere e rivedere i DVD di Samir. Si poteva tagliare. Venendo alla spigolatura che accennavo sopra per terminare la trama, l’autrice s’inventa una rivalità tra le due frazioni di Pioppica, rispetto alle feste patronali, vicine ed in competizione. Dedicando Pioppica Sopra a San Cozio e Pioppica Sotto a Santa Atenaide. Purtroppo per Diana (ma era voluto spero), la patronimica riporta che Cozio, nome di origine celtica, portato da due re che dominarono sopra varie popolazioni "liguri", dei quali uno, il padre, fu contemporaneo e amico di Augusto; l'altro, il figlio, morì poco prima che Nerone riducesse il suo paese a provincia romana, e Atenaide, nome veniva imposto in onore della dea Athena e portato nell'antichità da un’imperatrice di Costantinopoli, non hanno nessun santo di riferimento, ed i loro onomastico si celebra il 1° novembre. Comunque mi sono divertito anche in questa ricerca.
“Era un lettore onnivoro e bulimico, qualità di famiglia dato che, della zia … , si favoleggiava che in mancanza di meglio leggesse l’elenco telefonico.” (23)
Rosa Cerrato “La maman di Via del Campo” Sole 24 ore – Noir Italia 40 euro 6,90
[A: 13/04/2014 – I: 20/07/2015 – T: 22/07/2015] - &&&      
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 331; anno 2007]
E siamo al penultimo volume di questa (quasi) infinta collana. Siamo di nuovo a Genova (e vorrei contare quanti di questi 40 volumi sono ambientati in Liguria, grazie ai buoni uffici della Fratelli Frilli editrice). Un buon livello di scrittura, dell’autrice, laureata in lingue e da sempre nell’ambito letterario (e si vede). Soltanto, troppa carne a fuoco, con una ricerca di complicare troppo la trama, di metterci elementi insoliti, e, purtroppo, di scarsa spiegabilità. Per poi finire in un vortice di finali per oltre trenta pagine, che non portano suspense, ma solo voglia di arrivare il prima possibile alla fine. Che arriva, come detto, bruciando un po’ del buon arrosto fin ad allora cucinato. L’arrosto migliore riguarda un po’ le atmosfere di Genova, la solita via del Campo (anche se non è più quella di De André), qualche trattoria in riva al mare, le passeggiate nei carruggi. E senz’altro la protagonista, il commissario Nelly Rosso, con marito forse morto in circostanze dolorose, figlio di 18 anni in attesa di maturità (siamo in luglio) e con un complicato (da gravidanze possibili) rapporto con la sua compagna, ed un rapporto con tale Carlo di stanza su qualche piattaforma nel mare del Nord, che si fa vivo a volte per telefono. È simpatica, problematica, forse la figura meglio riuscita (d’altra parte è la protagonista di altre storie della nostra scrittrice, quindi sicuramente ci si è lavorato bene per delineare uno spazio consono). Con le sue mise a volte ardite, a volte strampalate, le docce e l’empatia con i personaggi ai margini. Anche con Claire, la signora del titolo, una senegalese che rimane un po’ ai margini del racconto, ma che (questa parte è debolina) aiuta il nostro commissario con un po’ di magia africana. La trama, invece, che ha un buon inizio, come detto si dilunga troppo e s’incarta molto nel finale. Cominciamo con delle prostitute (o simili) trovate morte e senza testa. Uccise a coppie, in giorni vicini, al cambio della luna. Dati che servono a mettere un po’ di fumo negli occhi. La squadra del commissario, con un po’ di fatica, riesce ad identificare le vittime. Anche quando, dopo le prime signorine allegre, si passa ad uccidere delle povere badanti sudamericane. Solo dopo un congruo numero di pagine (quasi 200), tuttavia, si arriva a trovare un elemento comune. Tutte le vittime, in qualche modo, hanno rapporti con un’associazione di tutela delle persone in difficoltà, dal nome programmatico di “Mani Amiche”. Qui troviamo un bel connubio di destini incrociati, tra il deus ex-machina dell’associazione, don Silvano, l’avvocato della stessa, Luciano Manara, il suo galoppino tuttofare, Giuliano Zanni, ed il profiler chiamato ad aiutare la polizia, Alessandro Palmieri. Noi già si capisce che è là dentro che si dovrà trovare il bandolo. E a poco a poco scopriamo che: don Silvano, Luciano ed Alessandro erano compagni di liceo. Che Giuliano è figlio naturale non riconosciuto dello zio di Luciano, persona volenterosa e molto problematica. Tanto da andare in cura psicologica dall’amico del cuginastro il profiler – psicologo Alessandro. Quest’ultimo poi ha una vagonata di problemi. Muore il padre padrone durante una tempesta in barca. Quando se ne trova il corpo la giovane moglie (già fuori di testa) capisce che il marito è stato ucciso, e si suicida, poco dopo aver partorito una bambina. Alessandro è sicuramente coinvolto, anche perché potrebbe aver avuto una relazione incestuosa con la madre e potrebbe essere il padre di Giacinta. I due si rifugiano in America, dove muore una donna (Giacinta? La sua amica Titta?), ed Alessandro e la sopravvissuta tornano in Europa, e vanno a vivere in Svizzera (ah, ah). Dove hanno un figlio che muore poco dopo la nascita per difficilmente diagnosticabili tare. Nel convulso finale, dove sta per soccombere prima una delle assistenti del commissario, poi anche la nostra Nelly rischia la pelle, i nodi vengono al pettine. Vengono uccisi anche don Silvano e Luciano, restringendo sempre più i possibili colpevoli. Non vi svelo altro delle ultime cinquanta pagine, che sono anch’esse un po’ troppo lunghe. Con l’intervento decisivo anche della magia nera di Claire. Alla fine l’arrosto si è un po’ bruciato, anche se io ho semplificato molto la trama, tralasciando anche spunti interessanti (il bel Tano, la scomparsa di Flores, ed altre marginalità), che altrimenti ci s’incartava tutti. Al fine, come detto, un prodotto con delle potenzialità, e delle possibilità che altre storie del commissario Rosso siano più lineari.
Marco Bettini “Polvere rossa” Sole 24 ore – Noir Italia 39 euro 6,90
[A: 04/04/2014 – I: 29/07/2015 – T: 31/07/2015] - &&& - - -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 236; anno 2011]
E con questo abbiamo finito la lunghissima collana del Noir italiano edita da “Il Sole 24 ore”. 40 volumi, con alti e bassi, molti interessanti, alcuni inutili. Tuttavia un buon viatico per chi s’interessa al giallo, alle sue scritture, ed anche al vagabondare di questi personaggi in giro per l’Italia. Sì, perché se ben ricordate, non solo ci sono investigatori (pubblici o privati, poliziotti, carabinieri, magistrati, criminologi, e chi più ne ha più ne metta) ma questi si muovono in una serie di spaccati italiani di provincia. Come, in quest’ultima fatica (e ci ritorneremo) in quel di Rimini. Ed è un giallo discretamente avvincente, anche se gli do una serie di segni meno per un sotto finale non particolarmente legato al resto. Certo, l’autore aveva l’idea di utilizzarlo per una spiegazione più dettagliata della genesi degli avvenimenti. Ma risulta appiccicato, quasi un corpo estraneo. Forse era meglio un colloquio a due tra il magistrato ed il criminologo Andrea Germano, che avrebbe portato a spiegazioni analoghe, ma all’interno dello stesso discorso. Era stato, infatti, il magistrato che aveva chiamato il profiler per aiutare la polizia nelle indagini sull’efferato omicidio di Isabella Sassoli, una giovane donna incinta uccisa insieme al feto in modo truculento. Germano si cala in questa Rimini di fine dicembre entrando presto in sintonia anche con il commissario Mazza. Dopo alcuni momenti che servono ad introdurre l’ambiente generale, Germano comincia a farsi un’idea del colpevole. Certo non il marito (troppo poco il tempo). Allora si punta su di un giovane, intorno ai 35 anni, con traumi post-bellici e conflitti con i genitori. Devo dire che l’analisi di Germano ci indovina quasi al 70%. Indagando nei dintorni della vita di Isabella, i nostri si convincono che l’omicidio può essere maturato nell’ambiente giudiziale. Trovano un losco avvocato che non la racconta giusta. Ed un’altra avvocatessa in cinta. E si mettono in allarme. Il tutto condito dalle frequentazioni di Germano con la casa del magistrato. Dove conosciamo, oltre al magistrato, la moglie Gaia, amica di entrambi in gioventù, il figlio Enrico un po' tenebroso e che non mi convince, ma che è sempre fuori dai tempi dei possibili omicidi, e la figlia adottiva Maria, salvata dalla coppia quando aveva 10 anni da un orfanotrofio in Guinea, ed ora bella ragazza di colore (con tutti i problemi che può avere una colored in un ambiente ristretto come Rimini. Mazza e Germano mettono sotto torchio l’avvocato Travaso, che però si rivelerà essere soltanto un pervertito che mira a ragazzine in giovane età e forse anche un assassino, dato che uno dei testi chiave dell’indagine muore e pare proprio sia opera sua. Ma questo filone viene ad un certo punto abbandonato, per seguire da vicino la seconda donna incinta. In una sera di San Silvestro, tutti i nodi vengono al pettine. Germano, che pedina la donna, entra in casa di lei mentre chi ha organizzato tutta la buriana sta per commettere un nuovo omicidio. S’ingaggia una lotta furibonda, dove il profiler sta per soccombere, ma arriva provvidenzialmente il commissario che uccide chi deve morire, salvando Germano, l’avvocatessa, il nascituro ed il marito di lei. E per grande cattiveria, non vi dirò chi muore, almeno questo potete leggervelo. Ripeto soltanto la nota negativa di cui sopra. Nonché un altro elemento che non mi ha convinto: la lunga tirata sul rapporto di Germano con le donne, e la sua preferenza verso le escort, donne per un sesso facile, ma di alto livello, che si possono portare a cena e con cui si parla forbito. Non mi convince. E non aggiunge granché al personaggio, che forse preferivo solitario ed un po' sfigato. Comunque, la scrittura prende, anche con tutte le sbavature che ho sottolineato. Un buon prodotto, per chiudere in bellezza questa collana. Anche con quei passaggi sulla vita di Rimini, sul mare d’inverno, sui locali ed i ristoranti, sulle cittadine intorno o meglio sui borghi del tipo di Rivabella. Alcuni bei ricordi di tanti anni fa che fa piacere aver ripercorso.
Vi saluto, quindi, mentre preparo valige piene di maglioni pesanti e calzettoni di lana, per la prossima breve trasferta udinese. Ci risentiremo il prossimo anno, carichi al solito, di promesse, e possibilmente di tanto sole.

venerdì 25 dicembre 2015

Un saggio Natale - 25 dicembre 2015

Non solo perché, per quest’uscita “straordinaria” propongo quattro saggi, ma anche perché sono quattro saggi che ho gradito molto leggere, e che ho riempito di libricini, come vedete. Anche se non sono una lettura omogenea. C’è l’interessante libro di Canfora sul 1914, c’è il coinvolgente libro della giapponese Kondo sul riordino, si parla dell’evoluzione della Grecia (e della democrazia) attraverso una rilettura critica di Omero, si conclude con una serie di analisi sullo stato del mondo attuale (ed anche su alcune proposte operative) di Jared Diamond. Insomma, un Natale in cui, come altrove detto, non spegniamo i nostri cervelli, pur lasciandoci andare ad un cordiale e collettivo augurio.
Luciano Canfora “1914” Sellerio euro 12
[A: 01/10/2014– I: 22/05/2015 – T: 24/05/2015] - &&&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2006]
Avevo comperato questo libretto proprio verso la fine dello scorso anno in quanto avevo intenzione, prima o poi, di leggere qualcosa intorno alla guerra ormai centenaria. Cosa che, non avendo fatto in occasione dell’inizio delle ostilità, ho comunque concluso nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia. Non so inoltre se questo sia il libro “giusto”, ma mi ha divertito, anche qui virgolettando. Anche perché non essendo io storico, e non essendolo neanche Canfora (è professore di Filologia Greca e Latina all’Università di Bari) mi sembrava un buon approccio all’anno mirabile. Data anche la ben nota vena di polemista dello stesso Canfora. Ed essendo un libro agile e polemico, probabilmente non tutte le affermazioni fatte sono, sempre, da prendere per buone al 100%. Ma tant’è, ce ne sono molte, anche foriere di discussioni, che me lo hanno reso un libro estremamente godibile. Intanto, per quella domanda iniziale, che riprende quanto avevo accennato in una trama su di un libro di genere del tutto diverso (un romanzo di Fabio Genovesi), dove ci si interroga da dove iniziare per raccontare qualcosa. Ed in entrambi la risposta è ben difficile, forse l’unica quella presa dagli Annales di Tito Livio, che bisognerebbe sempre cominciare dall’inizio del mondo. Che tutti gli avvenimenti si concatenano, creando cause ed accidenti. Ma non avendo tanto spazio, restringiamo, noi e Canfora, ad un più ristretto arco temporale. Che magari affonda nel tempo e nei modi verso gli ultimi trenta anni del XIX secolo, ma che non risale su (o giù) verso il Medioevo ed oltre. Canfora, quindi, per descrivere e parlare del 1914, parla di come inizia quella che chiamiamo Prima Guerra Mondiale, e che, dai manuali di storia e dalla storia tramandata, restringiamo nell’arco temporale “Guerra 14-18”. Tuttavia, mettendoci ora con occhio più lontano, da un punto di vista di cause ed effetti, è probabile che tra qualche secolo la guerra stessa venga dilatata, sicuramente per gli effetti post 1918, ma anche per qualche prolegomeno ante 1914. Sicuramente concordo con l’autore sul fatto che le guerre siano espressione di un più vasto moto, spesso uno sfogo anche per economie in crisi. Ed è per questo che lo scacchiere che si agita nella metà degli anni ’10 è ben complicato. Da un lato c’è la cosiddetta Triplice Alleanza, tra Germania, Austria ed Italia, con l’Italia un po’ coccio tra elefanti, che cerca un suo spazio sia interno (verso le terre considerate italiane di Trento e di Trieste), sia esterno (che da poco si è affacciata sullo scacchiere internazionale, ove tutte le potenze hanno già le loro pedine intorno al mondo, occupando zone strategicamente piene di risorse). E sempre l’Italia è dentro la Triplice pe fare in modo di potersi annettere le risorse libiche. Dall’altra parte ci sono intese bilaterali di mutuo soccorso tra Francia e Russia e tra Francia e Inghilterra. In mezzo c’è l’imminente possibile crollo dell’antico impero Ottomano, che sta implodendo su se stesso, perdendo pezzi, e rendendo golosi i suoi vicini di questi pezzi. In primo luogo la Russia, che cerca in tutti i modi uno sbocco agile verso il Mediterraneo. E subito dopo, tutte le etnie slave che si affacciano sull’Adriatico. Che sono sempre in lotta tra loro. E che hanno appena finito di guerreggiare, ridisegnando un po’ di quelle terre, con i Serbi che si allargano, i Bosniaci che sbuffano, i rumeni ed i bulgari che vanno su e giù nelle alterne fortune. Si arriva così, e ben lo descrive Canfora, al giugno del 1914, con l’attentato che costa la vita al principe ereditario d’Austria, commesso a Sarajevo (in Bosnia) da Gavilo Princip (un serbo, forse solo autore materiale, ma con dietro, chissà?). Qui s’innescano tante vicende sicuramente creanti concause di deflagrazione. L’Austria fa un ultimatum alla Serbia, ma non aspetta la risposta, praticamente innestando contestualmente le procedure di battaglia. La Germania, leggendo la risposta serba all’ultimatum sembra propendere per una soluzione “transazionale” dei conflitti, ma da un lato è travolta dall’impeto austriaco, dall’altro ipotizza uno scenario (colpire la Francia in poco tempo lasciando l’Inghilterra neutrale) che fa gola ai militari teutonici. Peccato che per fare ciò debbano invadere il neutrale Belgio (ma lo fanno con gioia, visto che i poveri fiamminghi si potevano permettere un Congo coloniale precluso ai tedeschi). Peccato inoltre che il Belgio resista a lungo, vanificando lo sforzo inziale, e consentendo agli Inglesi una riflessione che li porterà alla guerra a fianco della Francia, così come con i Francesi si schiera da subito sull’altro fronte la Russia zarista. Ci sarebbe molto altro da dire su tutte le spigolature che tira fuori l’autore. Io rimango solo su di un ultimo (o penultimo) punto. L’atteggiamento dei partiti socialisti in questo fatidico 1914. Era un momento di grande fermento sociale in tutta l’Europa, ed i socialisti stavano avendo sempre maggior peso parlamentare e sociale. Di fronte alle istanze di guerra, ben differenti si rivelano i comportamenti. I tedeschi si schierano per, i francesi cercano una mediazione. Fino all’assassinio del loro leader Jean Jaurés, che li porta alla difesa della patria. Gli italiani per lungo tempo riescono a far prevalere l’astensionismo, guidati dal capopopolo Benito Mussolini. Anche perché il governo Giolitti cerca di capire chi gli può dare maggiori concessioni a fine guerra. Mussolini, e bisognerebbe leggere l’ottimo studio di De Felice per capirne di più, si muta in guerrafondaio, e trascina popolo e governo a quel fatidico 24 maggio. Solo i russi sembrano aver capito meglio le possibili dinamiche, si tirano fuori, per poi lavorare nelle retrovie e preparare la rivoluzione del febbraio ’17. Ma qui scivoliamo in altre discussioni ed altre analisi, che non so fare qui (e non faccio). Ritorno solo allo scritto, ben congeniato, intelligente, con tanti spunti che qualche storico più informato (e capace) saprà meglio di me riprendere. Io mi accontento di aver letto un libro che smuove i pochi neuroni rimasti. E non è poco. L’ultima notazione, come dicevo prima, riguarda il film che Canfora cita e che anche io ritengo uno dei più belli su questa guerra: “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick.
“È noto che quando in un paese ci sono tensioni sociali, problemi irrisolti, scatenare una guerra è una magnifica trovata per convogliare le tensioni altrove, fuori dal proprio paese, dando un obbiettivo esterno, magari sbagliato e fittizio.” (54)
Marie Kondo “Il magico potere del riordino” Vallardi s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 12/06/2015– I: 01/07/2015 – T: 06/07/2015] - &&&&& 
[tit. or.: Jinsei ga Tokimeku Katazuke no Maho; ling. or.: giapponese; pagine: 245; anno 2011]
Questo è un libro indissolubilmente legato ad Alessandra. Glielo regalai conoscendo la sua attitudine all’ordine. E me lo sono fatto prestare conoscendo la mia attitudine al disordine. O meglio la mia scarsa predisposizione a trovare posto alle cose. Devo dire che, con la sua “ingenua” filosofia e le sue regole pratiche mi ha avvinto al di là delle mie aspettative. Certo, non vi aspetterete che io abbia già messo in pratica tutte le regole della vita ordinata secondo KonMari (questo il nome dato alla modalità di ordinamento propugnata dalla consulente giapponese). Ma so dove trovare un elenco di micro-attività che prima o poi cercherò di mettere in pratica. La nostra giapponesina, quindi, infarcisce la narrazione di esempi (anche se molto giapponesi) con l’intento di spiegare come l’atto stesso di ordinare le cose favorisca nelle persone una tranquillità mentale, che poi ricarica tutto il proprio essere. Altro assioma fondamentale di Marie, che condivido in pieno, è che il modo di archiviare gli oggetti (e questo vale in tutti i livelli delle attività umane) non è una qualità innata, una “idea platonica”, ma è un qualcosa che si può studiare e si deve imparare. E sono anche d’accordo, con Marie, con i riordinatori italiani, e gli psicologi, che l’attività di ordinare è un rimedio naturale ed efficacia contro l’ansia. Certo, deve essere affrontato con tutti i crismi. Bisogna, quindi, fare del riordino un vero e proprio avvenimento (regola n.1 della KonMari). La seconda regola fondamentale è forse, almeno per me, una delle più difficili. Liberarsi del superfluo, e questo si può accettare. Ma non è facile accettare di buttare via qualcosa. Sono d’accordo, in linea di principio, che tenere in casa oggetti che in dieci anni non vengono mai presi in considerazione, è un’inutile occupazione di spazio. Ci vuole però coraggio e forza d’animo, nel mettersi davanti ad ognuno di loro, e capirne la reale interazione con se stessi. Saremmo (sarò) mai capaci di decidere che qualcosa non ci sta più veramente a cuore? Facile è la parola d’ordine sbarazzarsi del superfluo. Anche se Marie fa subito un esempio calzante (seppur femminile). Superfluo: aggettivo maschile singolare che denota questa gonna acquistata due anni fa e che ancora porta la sua etichetta con il prezzo. E dopo regole generali, la forza dell’idea giapponese è quella di fare, di iniziare da qualcosa, e di portarla avanti sino in fondo. Ad esempio, prendere gli oggetti della stessa natura, metterli al centro di una stanza, e non fermarsi fino a che non se ne sono esaurite o l’ordine o la decisione di privarsene. Altra, ed ultima, regola fondamentale (ripeto che queste lo sono per me, che forse ce ne sono altre e diverse quando voi leggerete questo libro), è quella di scegliere un posto per ogni cosa. Ogni oggetto può avere, dovrà avere, per noi il suo posto preferito. Un posto cui l’oggetto deve tornare una volta utilizzato. Mentalmente la ritenevo una perdita di tempo, ma tornare a casa, e collocare al loro posto tutte le cose che con noi, in quel momento, si sono introdotte, da un senso alla loro introduzione in casa, ce ne fa capire il loro successivo uso, e ci lascia quello spazio mentale cui il riordino ci sta portando. Per fare, meglio, tutte le altre cose che avevamo in mente di fare da quel momento in poi. Ci sono poi momenti spiccioli, dedicati a singoli momenti di riordino. Per esempio sui vestiti, sulle magliette. Conservarle in verticale e non in orizzontale. Impilate una sull’altra le magliette intristiscono, e quando ci si accorgerà dell’ultima, quella finita in fondo a tutte, e che dopo un anno ci accorgeremo di possedere ma di non aver mai avuto l’idea di indossare. Mettere i calzini in una scatola, arrotondati e non insaccati. Dividere i vestiti non per stagione o per attività (festa, ufficio, sport, ecc.), ma per categoria (abiti, giacche, T-shirt, pantaloni, ecc.). E perché no, e so bene che c’è chi lo fa già, classificarli anche in base al colore. Un suggerimento poi che sto già facendo mio, soprattutto in cucina, e quello di non accumulare barattoli e cosettine con intingoli che prima o poi andranno a male. Meglio avere quantità limitate ma mirate, ed acquistarne eventualmente alla bisogna. Quello che sento veramente giusta è l’esortazione ad avere più spazio intorno. Mi ricordo delle case giapponesi visitate, dove, ad esempio, al mattino arrotolavano il tatami usato nella notte per dormire. Ed anche la stanza da letto riusciva ad avere un suo spazio ed una sua dimensione vivibile ed ordinata. Concludo con l’idea di base, semplice ancorché ingenua, ma efficace. Trasformare i propri spazi per trasformare la propria vita.
 “La conclusione cui sono giunta per rendere meno difficile cosa buttare … l’ordine è questo : prima i vestiti, poi i libri, in seguito le carte, gli oggetti misti e in ultimo i ricordi.” (65)
“Stabilite che cosa conservare in base a ciò che vi emoziona.” (165)
Eva Cantarella “Itaca” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 24/10/2014– I: 16/07/2015 – T: 21/07/2015] - &&&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 236; anno 2002]
Da qualche anno mi ronzava in testa la voglia di leggere qualcosa di questa scrittrice, ma più che altro saggista nonché professore di Diritto Romano e Greco antico alla Statale di Milano. Da quando, accostato all’uscita di un saggio di Baricco, vidi negli scaffali di Feltrinelli un libro dal titolo accattivante (“Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma”). Beh quel libro non l’ho ancora comperato, ma ho approfittato delle periodiche offerte dell’amico Fako, e mi sono accaparrato questo scritto, che è precedente, e che tocca l’altra delle sponde di conoscenza del prof. Cantarella: la Grecia. Cosa di meglio poi che averne in prestito da un cultore del ΌΧΙ moderno qual è il mio caro amico? Ma veniamo, per ora, al saggio. Che non è proprio semplicissimo, in quanto, attraverso un’attenta lettura del testo omerico, cerca di spiegare e dimostrare l’evolversi del mondo antico. Il passaggio cioè da città isolate (mi verrebbe da dire città-stato) con degli ordinamenti interni non codificati e dissimili, a situazioni rapportabili l’una all’altra. Cioè alla nascita di un ordinamento giuridico cui rispondere, per evolvere da un mondo disordinato ad uno quanto meno regolato da consuetudini, se non da leggi. È la nascita del diritto che andiamo seguendo, e questa è la parte che meno mi è facile da digerire. Ma lo facciamo, con la maestria che vi sa mettere l’autrice, seguendo i testi omerici. Ed incentrando la nostra attenzione sulla piccola isola di Itaca. Io non so, e non posso, seguire i vari passi che portano le duecento pagine alla dimostrazione dell’assunto. Non è nelle mie corde. Quello che seguo, e con piacere, sono alcuni spunti ed alcune spigolature. La prima è la a-sincronia seppur coerente di Omero. Il suo racconto, in entrambi i testi magistrali, serve ad illustrare brandelli del mondo che si dovrebbe collocare nel VII° secolo a.C., prendendo e spiegando usi e costumi che, seppur non coevi, comunque fanno parte di una visione complessiva di quel mondo. E non è un caso. Mettiamo ad esempio di collocarci a cinque-seicento anni da oggi. Pensiamo forse di riuscire in quel frangente a distinguere temporalmente la caduta del muro di Berlino, la strage di Srebrenica, la caduta delle torri gemelle, le guerre irachene, la lotta al califfato ed il (possibile) disgregarsi dell’Unione Europea? Così per allora, dove, in una narrazione comunque soffusa dell’alone poetico che l’aedo poteva mettervi per incuriosire i suoi ascoltatori, Omero ci narra momenti diversi che sono però tesi ad un unico disegno. La rappresentazione di quello che è il mondo greco antico, nel momento del passaggio da un’epoca micenea (che si allungo dal XX° al XII° secolo a.C.) ad una dorica (intorno all’XI° a.C.). A me che sono stato un lettore del testo così come fossero piccoli racconti, seppur collegati, rimangono alcuni momenti ed alcune situazioni. L’attenzione posta alla figura femminile nell’Odissea: non è un caso che, contraltare dell’errare d’Ulisse, sono i suoi incontri con diverse figure femminili, ognuna con una sua ben nota caratterizzazione. Vediamo, infatti, Circe (la maga che tenne il vagabondo con sé per un anno, dandogli un figlio, Telegono), Calipso (la bella immortale che ebbe con sé Ulisse per sette anni, dandogli da uno a tre figli), Nausicaa (la giovane che vorrebbe tenere per sé il naufrago, ma che, per amore, convince il padre a dare una nave ad Ulisse per il suo ritorno in patria), Penelope (la moglie fedele, bella ed astuta, ma che non tutti sono d’accordo che aspettò vent’anni Ulisse mantenendosi illibata), tanto per citare i primi nomi che ci vengono in mente. Sempre un passo indietro rispetto all’uomo (siamo pur sempre in una società maschile), di volta in volta designano la fedeltà, l’astuzia (ma quella femminile, più diretta della tortuosa astuzia maschile), l’indipendenza (ed una donna che vive da sola non potrà che vivere vendendo il suo corpo), la morte. Solo chi poi conosce a fondo tutti i testi omerici poteva darci una descrizione così esauriente e viva dello scudo d’Achille (di cui si narra nell’Iliade), utilizzando il secondo cerchio di figure per tratteggiare e dilungarsi su due aspetti fondanti della civiltà greca: un matrimonio ed un processo. E su quest’ultimo che copre i versi dal 690 al 706 del 18° libro che si sviluppa a pieno l’estro di Eva Cantarella. Partendo dalla scarna descrizione, ne fa un racconto avvincente, sia del testo (che vede una contesa per il risarcimento di una morte) sia del contesto (che da quella veleggia verso l’amministrazione della giustizia, e la nascita, qui si reale, del diritto). Non torno e non mi dilungo d’altro, che tanto si avrebbe da narrare, così come faceva il non vedente Omero. Di Telemaco, di Alcinoo, di Anfinomo, dei supplizi di Tantalo e di Sisifo, di Briseide (l’elemento scatenante dell’ira funesta, ve lo ricordate?). E di tanti altri. Io mi fermo qui. Chi è dotto (ed io non mi ritengo tale a tutto tondo, ma solo settorialmente), chi sa di greco (ed io non sono sicuramente tra questi), potrà godere anche del ricco e ben documentato corredo di note al testo. Noi si è letto come un bel racconto, che ci serve per capire un po’ di come si è evoluto il mondo, sperando di usare le stesse armi per capire il nostro mondo attuale. E soprattutto di questa Grecia di oggi, che da quella omerica comunque discende. Ma anche l’Egitto viene dai faraoni. Si potrebbe aprire un dibattito?
Jared Diamond “Da te solo a tutto il mondo” Einaudi euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 27/07/2015– I: 16/08/2015 – T: 19/08/2015] - &&&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 126; anno 2014]
Non pensate né ad un mio errore né ad una contraddizione. Il titolo è quello originale di una serie di lezioni che il professor Diamond ha tenuto alla Luiss di Roma nel 2014 in lingua inglese. Lezioni qui raccolte in volume, ma mai pubblicate in patria (oppure, ancora non pubblicate). Venendo allo specifico, avevo sentito parlare di Jared Diamond da un mio viaggiatore avventuroso, e da allora cercavo un modo di leggerne, anche perché ne avevo visto in libreria e mi sembravano volumi troppo ponderosi per le mie scarse capacità. Questo, al contrario, mi ha affascinato per la sua brevità. E quando nel risvolto ho scoperto che l’autore è professore di geografia. Amore a prima vista, allora. Confortato da una lettura che si è rivelata agile, nonostante la non semplicità della materia. In queste lezioni, l’autore cerca di spiegare e di spiegarci, alcuni grandi interrogativi, mutuati dalle scienze sociali, ma che attanagliano tutti, in questo nostro attuale mondo globale. E lo fa partendo dalla sua esperienza di geografo, cosa che a me già da un brivido di piacere, anche se, da geografo, si occupa di ornitologia, materia a me completamente aliena. Eppure i sei capitoli sono facili di comprensione, forse a volte perché si semplifica qualcosa (d’altra parte stiamo parlando di lezioni orali, quindi con tutti i possibili tagli che ne possono conseguire). Ma c’è un discreto apparato bibliografico per approfondire i vari temi. Da buon parlatore, Diamond affronta il primo argomento (le ragioni del divario tra paesi ricchi e paesi poveri) con esempi semplici ma efficaci: perché l’agricoltura si sviluppa in modo differente tra le fasce tropicali e quelle equatoriali? La difficoltà di coltivazioni porta ad uno studio sull’accumulazione che non si sviluppa laddove tutto sembra nascere dal terreno e senza sforzo. Non scadendo, fortunatamente, nel banale razzismo del negro indolente, ma circostanziando con dovuti esempi le sue affermazioni. Altrettanto semplice, se vogliamo, è la disamina sulle istituzioni nazionali. Laddove sono affidabili e “degne di fede”, là meglio si sviluppa una coscienza sociale e nazionale. Si affronta poi la visione di un paese emergente come la Cina, senza cercare di risolvere tutto in poche righe, ma anche qui cercando di sviluppare una consonanza tra geografia terrestre e geografia politica. Uno speciale capitolo quasi di “psicologia politica”, ci mette una pulce nell’orecchio. Ognuno di noi ha affrontato, affronta problemi personali. Per superarli utilizza i propri mezzi, le proprie peculiarità. Con alcuni esempi ben mirati, Diamond generalizza il problema, consigliando (o facendo vedere come) alcune crisi nazionali siano state affrontate e risolte proprio utilizzando quell’ottica personale, anche se a livello paese. I due capitoli finali della disamina mi hanno coinvolto meno, sia nello specificare come affrontare i rischi in maniera salvifica (solo il bell’esempio dell’accampamento “pericoloso” mi è stato d’aiuto) sia nello sviluppare modalità personali per proteggere la qualità della propria vita. Come molti degli scrittori che analizzano l’esistente, anche quelli che io amo come il grande Baumann, Dared non propone, né può farlo, delle ricette risolutive, dei modi di svoltare e di avviarsi ad un futuro migliore e/o più sostenibile. Tuttavia ha l’onestà di mettersi in gioco, proponendo tre terreni, dove, secondo la sua personale ottica, si gioca il prossimo futuro del nostro mondo. Dared individua come principali problemi odierni. I cambiamenti climatici (e come non dargli torto, visto gli ultimi mesi pazzi del clima che stiamo vivendo), le disuguaglianze (ed anche qui, ho una sola parola per riassumere tutto quanto si sta soffrendo: migranti), e la gestione delle risorse naturali. Spenderei una parola in più proprio per quest’ultimo punto. Ricordando, come fa l’autore, la decadenza verticale di alcuni grandi popoli che, sfruttando senza senso le loro risorse al momento disponibili, sono, da un giorno all’altro, completamente collassati. E parlo dei Maya in America Latina o dei Khmer in Asia. Laddove ci sono detentori del potere (economico e politico) che continuano a fare il proprio comodo senza vedere al di là del proprio naso, pensando al proprio tornaconto personale, e senza, in ultima, avere di fronte lo spauracchio di un’adeguata e giusta punizione alle malefatte che stanno perpetrando, non avremo modo di fare (noi e la nostra terra) quella svolta che è urgente ed imprescindibile. È insomma, un libro talmente breve che ad ogni pagina ci sarebbe da discutere e da comprendere. Anche da dibattere, che non sempre è tutto giusto, non sempre si può concordare con alcune affermazioni fatte (credo) anche per amore di platea. Ma ben vengano libri che fanno discutere e che si possono discutere. Che fanno pensare, anche mettendoci sotto gli occhi situazioni che ci sembrano ovvio, ma che dobbiamo fermarci per capirne la più lunga portata. Forse alla fine, non saremo allora così più “soli” ad affrontare i mali del mondo. Anche se, come ci insegnava il grande di Barbiana, sempre e comunque da noi si deve partire. Se non siamo noi in prima persona a comportarci come pensiamo che si debbano comportare gli altri, faremo veramente pochi passi avanti.
“È quindi auspicabile che gli Stati Uniti e i paesi del Primo Mondo, Italia compresa, si rendano conto quanto sia meno dispendioso e più efficace aiutare i paesi poveri a risolvere le loro difficoltà economiche, piuttosto che combattere in eterno contro problemi sostanzialmente senza soluzione.” (22)
Avete ormai capito che approfitto delle due feste “comandate” per recuperare i libri curativi che, per ragioni varie, ho saltato di menzionare nel giusto tempo. E così avviene anche oggi, in occasione di questa ricorrenza natalizia, dove ci aspettano feste collettive, feste personali, viaggi e viaggetti. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NATALE 2015
Approfitto di questo piccolo “buco temporale” festeggiante, per recuperare alcuni nuovi autori di cure già descritte. Perché la mia biblioteca aumenta di libri (ma ci sarà una cura per questo?), e qualche volta s’inizia a leggere, per queste cure, qualcosa che, come malattia ho già descritto.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

  1. Cancro
Fred Uhlman                                L’amico ritrovato
  1. Divorzio
Richard Ford                                Sportswriter

Bugiardino

Non torno sulle malattie, ricordando solo, ai pochi disattenti lettori che il cancro è stato trattato nella CURA di Ottobre 2014 ed il divorzio nella CURA di Maggio 2015.
Fred Uhlman “L’amico ritrovato” Feltrinelli s.p. (nella biblioteca di mamma)
[trama pubblicata il 19 luglio 2015]
Un po’ strana la storia di questo libro. Lo avevo letto una trentina di anni fa, e poi lasciato a depositarsi di polvere nell’enorme biblioteca paterna (ora solo materna, purtroppo). In partenza per il primo giro asiatico, in cerca di librini agili, che non occupassero troppo spazio, mi è capitato tra le mani, ed ho deciso di aggregarlo al viaggio. E bene ho fatto, che, in due giorni pieni di tosse, nel ritemprarmi da fatiche sui monti del Vietnam del Nord, l’ho riletto e nuovamente trovato di un ottimo livello, di scrittura e di contenuti. È una storia da anni trenta, tutta interna alla Germania, ed ai suoi sentimenti, che si svolge quasi completamente a Stoccarda nel 1932. Narrata in prima persona da Hans Schwarz, ragazzo ebreo di sedici anni, famiglia alto borghese, tranquilla e rispettata, dalle idee aperte e quasi incurante della propria identità ebraica. In una pagina, infatti, si capisce come loro si sentano prima di tutto svevi, poi tedeschi e infine ebrei. Una famiglia che vive rapporti pacifici con tutte le comunità religiose locali. Durante la seconda metà dell’anno scolastico entra nella classe di Hans, il nobile Konradin von Hohenfels. Con i suoi modi altezzosi, Konradin intimidisce e attrae tutti i ragazzi. I special modo Hans che vorrebbe diventargli amico, cercando mille modi per attirarne l’attenzione. Finché, inaspettatamente, Konradin rivolge la parola ad Hans, iniziando una forte amicizia. Sono entrambi figli unici, nessuno dei due ha mai avuto un vero amico, ed entrambi si sentono profondamenti soli. Piccolo inciso, è bello fare un parallelo con i sentimenti che rivela il ragazzo Bassani in “Dietro la porta”, anche se poi vicende e modi letterari sono ben diversi. Tornando alla storia, Hans da allora invita spesso Konradin a casa sua, aprendogli cuore e famiglia. Mentre non avviene l’analogo da parte di Konradin, che, quando lo fa entrare nella sua magione, è sempre quasi di nascosto, e quando non ci sono i genitori. Il motivo principe è l’odio feroce che la madre del nobile ha verso gli ebrei, in questa assecondata dall’innamorata anche se ignavo marito. E quando capita, in un teatro, che Hans incontri Konradin insieme ai genitori, questi lo ignora. La loro amicizia, da questo momento, si avvia a rotta di collo verso la rottura. accentuata e corroborata dalla graduale intrusione dell'ideologia nazionalsocialista nella vita scolastica. Quando l’anno successivo Hitler prende il potere, tutta la situazione, sociale e scolastica si deteriora in maniera irreparabile. Hans viene spedito in America da degli zii, dove rimarrà per sempre, studiando, laureandosi e facendo la sua vita lontano dalla patria. La famiglia di Konradin rimane invece (come ovvio) a Stoccarda. Dove rimaneva anche il padre di Hans, che, alla vista dell’antisemitismo montante, quasi uno Stefan Zweig ante-litteram, decide di togliersi la vita. La storia salta verso la vecchiaia di Hans, che viene raggiunto da un opuscolo che vorrebbe adoperarsi per la costruzione di un monumento agli ex-alunni del suo Ginnasio di Stoccarda. Qui assistiamo ad una feroce lotta con se stesso del nostro, che legge e ripercorre con la memoria i nomi dei compagni amati e odiati. Con una resistenza che vince solo a fatica per arrivare a sfogliare la lettera H, dove alla fine trova il nome di Konradin: giustiziato perché coinvolto nel complotto organizzato per uccidere Hitler, in quella che fu chiamata “Operazione Valchiria” del 20 luglio 1944. Qui, non senza qualche lacrima, il nostro Hans ritrova il suo amico di gioventù. Lo trovata ancora una storia intensa, e sempre leggibile a distanza di anni. Con quel tocco problematico in più, che affianca il tema dell’amicizia tra adolescenti e di tutti i problemi che questa comporta, derivante dal contesto in cui viene inserita la trama. Alla fine anche noi ritroviamo i nostri amici, Konradin (anche se sempre un po’ altezzoso), Hans ma soprattutto Fred, l’autore con tutte le sue problematiche di tedesco ed ebreo fuggito anche lui nel ’33 (ma aveva già più di trenta anni) ed il suo errare per il mondo alla ricerca (ritrovandola) della sua identità.
Richard Ford “Sportswriter” Feltrinelli euro 9
[trama pubblicata il 2 agosto 2015]
Giusto una settimana fa ne parlavo nel supplemento sulle “Cure”, dove questo libro veniva citato come esempio – modello da non seguire, rispetto al grande problema del “divorzio”. Già in quella sede espressi i miei dubbi su come veniva affrontato l’argomento. Ed anche ora, dopo la lettura del libro dell’oramai settantenne Ford (ma quando scrisse il libro ne aveva solo 42), rimango dell’idea che sul divorzio si debba e si possa dire altro. Ma questo non è solo un libro sul divorzio, è un libro sulla grande “fatica” di essere americani. Il protagonista riesce ad incarnare tutti i modi negativi in cui si può presentare “lo spirito americano”. Nei rapporti con gli altri, con le donne, con i figli, con la morte, con la vita. Insomma con tutto. E da questo punto è un libro esemplare (anche se datato, ma i trent’anni si sentono poco). Ma, esauriti gli spunti, il racconto si prolissa per pagine e pagine. E devo dire che ho impiegato quasi due settimane a leggerlo, cosa che qualcosa vorrà pure dire. Frank Bascombe, l’io-narrante delle quasi 400 pagine, è appunto un tipico americano, che vorrebbe sotterrarsi in provincia, vorrebbe non pensare, vorrebbe avere una vita tutta tv – barbecue – lavoro (anche non molto complicato) – qualche avventura con donne compiacenti (e piacenti). E sembra che, con qualche aggiustata, ci stia riuscendo. Da giovane scrisse una serie di racconti con un piccolo successo di critica. Poi cerca il “grande passo” verso la scrittura professionista. Ma molti hanno un solo libro dentro, e Frank forse neanche quello. Allora, ricerca della minima resistenza: matrimonio con la bella signorina X (non è che non ricordo il nome, ma è indicata così per tutto il libro), ripregarsi a scrivere per una rivista di sport (da cui il titolo), e qualche figlio. Qui il nostro normo americano comincia a grippare il suo motore: il figlio maggiore si ammala della sindrome di Reye (malattia infantile dall’esito quasi sempre letale), lui sembra fermarsi a guardare, anche se ha una famiglia ed altri figli, e continua a tradire la moglie. Ma lo fa sempre con quella noncuranza di chi forse non è che sia proprio lì. Ma X alla fine lo manda a ramengo. Pur rimanendo discretamente amici. Pur continuandosi a vedere nell’anniversario della morte di Ralph. Frank cerca di avere un rapporto anche con i figli rimasti, ma sembra sempre essere un passo al di qua della normalità. Tanto che frequenta una “lettrice di futuro” (altra follia americana). E tenta di avere anche altre storie. Lo seguiamo in un viaggio fallimentare a Detroit con un’infermiera anche lei divorziata. Lui nei rapporti non ci mette la testa, ed anche questo è destinato al fallimento. Nella sua prolissa auto-esposizione lo seguiamo da un lato nel ripercorrere momenti della sua vita (incontri, viaggi, i racconti che potevano dargli la fama ma che poi non hanno seguito, il tentativo di insegnare, anche questo senza partecipazione e con il solito finale negativo). E dall’altro ricostruirne alcuni attuali, come il tentativo di intervista ad un campione sportivo ridotto su di una sedia a rotelle. Poteva essere un momento di riflessione (su di sé, sullo sport, sulla vita). Diventa l’esempio dell’ennesimo andamento fallimentare della sua vita. Certo scriverà qualcosa, ma tutto lunga lo linea di minimo sforzo, di minima rottura. Lui ritorna sempre a X, a Ralph. Insomma a tutto quello che poteva essere e non è stato. Ma non si domanda mai, non arriva mai ad interrogarsi su cosa lui potesse fare di diverso, su come lui potesse e dovesse cambiare la propria vita. C’è anche un inciso con lo strano rapporto con un altro divorziato, latentemente gay. Ma ne prenderà coscienza Frank che lo può aiutare? Nulla e sempre più nulla. Arriviamo alla fine di queste quasi 400 pagine con Frank che sta lì a rintontirsi con false idee sul suo futuro. Riuscirà a trovare un affetto? Vivrà ancora in quella cittadina? Continuerà a scrivere di sport, anche se si è stufato? Noi ci siamo un po’ stufati di Frank, delle sue paturnie e dell’irrisolutezza che Ford instilla in tutto il romanzo. Una fotografia della realtà americana, quando ci allontaniamo da Obama e dai palazzi del potere e vediamo la vita reale? Forse, ma ne abbiamo visti esempi migliori e più coinvolgenti. E certo, come manuale per un divorzio ben guidato, abbiamo letto senz’altro di meglio.
“Avevo idea di scrivere un romanzo da quando avevo letto i diari di viaggio di Joshua Slocum.” (42) [Nota mia: Slocum è il primo viaggiatore in solitario, il primo a circumnavigare il globo dal 1895 al 1898]
“Ormai avevo scritto tutto quello che potevo scrivere … Se gli scrittori che se ne rendono conto fossero di più, ci sarebbe risparmiata una quantità di brutti libri e molte più persone vivrebbero una vita più felice e meno improduttiva.” (43)
“Qual è la vera misura dell’amicizia? … Ammonta esattamente alla quantità di tempo prezioso che si sciupa per ascoltare le sventure e i casini altrui.” (104)
“Ho letto da qualche parte che se un Toro dice che ti ama bisogna credergli.” (134)

Conclusioni

Non ne traggo neanche particolari conclusioni, ricordando solo che Uhlman raggiunge (e quasi supera) i quattro libricini di giudizio mentre Ford non ne raggiunge neanche due (diciamo due meno, meno). Inciso di metodo, quando indico pubblicata, è una trama uscita nelle settimanali. Altrimenti ne indico la data di scrittura.

domenica 20 dicembre 2015

Scerby e i suoi nipotini - 20 dicembre 2015

E stiamo arrivando (quasi) anche al finale di quest’altra grande collana di gialli del Corriere della Sera, nata all’insegna del grande Scerbanenco. Di cui abbiamo una raccolta di racconti, fulminanti da poco più di un paio di pagine ciascuno. Contornato da due epigoni: Porazzi di cui abbiamo già conosciuto ed apprezzato Alex Nero, e Paolo Roversi con due prove, una dignitosa ed una, come vedrete dal commento, che non mi ha convinto.
Pierluigi Porazzi “Nemmeno il tempo di sognare” Corriere della Sera 28 euro 6,90
[A: 03/06/2014 – I: 11/05/2015 – T: 13/05/2015] - &&&+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 341; anno 2013]
Come immaginavo Porazzi (e Udine) tornano alle mie letture. Se da un lato ripeto un po’ quello che ne scrissi, dall’altro qualcosa è cambiato. Non c’è molta Udine, anche se la città è presente, come lo è il Friuli e quella Slovenia che ne è legata. Qui, svincolati dalle costrizioni geografiche, ci si concentra sulla trama. Che anche qui è ben complessa, anche un po’ ingarbugliata a tratti. Ma questo è un po’ il metodo dello scrittore. Si mette molta carne al fuoco, e si cerca, bene o male, di vedere che ne esca tutta ben cotta. Cosa che qui riesce meglio della mia prima lettura delle vicende di Alex Nero. Anche se, alla fine, qualcosa rimane sospeso. Forse anche soltanto per darci modo di poter gustare una nuova storia della serie. Dicevo una storia ben complicata, come lo è la vita odierna, dove molti sono i livelli che s’intrecciano. Qui si parte dall’uccisione di una trans, soprannominata Barbie. E subito capiamo che c’è di più. Barbie filmava i clienti, e, quelli danarosi, erano anche sulla via del ricatto. Barbie lavora in coppia con un’altra trans, Chantal, che però alla sua morte sparisce. Vediamo anche subito altri contorni. C’è il dottor Greco, un trafficante d’alto bordo (di armi, droga e prostitute) con i suoi bei poliziotti corrotti alle dipendenze. C’è il politico di turno, con le mani tra il dottor Greco e la questura. C’è l’Interpol che cerca di infiltrare un suo uomo nelle trame di Greco. Uomo che si rivela essere l’ispettore Cavani, incaricato anche delle indagini su Barbie. Indagini condotte dal giudice Martello, onesto, solitario, e forse irretito da qualche signorina poco affidabile. Indagini dove entra di forza Alex, poiché ne viene accusato un tal Stefano, e la di lui famiglia chiede al nostro bel tenebroso di occuparsene. Poi ci sono due misteriosi esseri che sanno molto, e che molto fanno. Uno soprannominato Taipan, che sta sulle tracce di Greco, e uccide una serie di scagnozzi del losco individuo, nonché il contabile, per risalire ad un misterioso CD con la documentazione delle di lui malefatte. L’altro, già presente anche nella prima storia letta, è detto il Profeta, si aggira nell’ombra per l’alta Italia, spesso in guisa di barbone. Ma quando serve (e i protagonisti lo avevano già usato in passato) si fa vivo. E come in Tarantino, “è uno che risolve i problemi”. Le indagini e le storie si accavallano, si fa vivo un attore emergente, Carrasco, con strani interessi nella vicenda di Barbie. Soprattutto l’attore si fa vivo quando viene ucciso il suo amico Laurenti (altro frequentatore di Barbie), omicidio che serve solo a scagionare lo Stefano di cui sopra, al momento della seconda morte in carcere. E le due morti sono legate. Come vi è legata Aiko, una strana giapponese, che abita nel palazzo di Barbie, e le cui impronte Alex trova sul luogo del delitto. I politici vogliono fermare il giudice, che però ha avvertito nel frattempo il Profeta, che da Mantova si trasferisce ad Udine (che coincidenza, due città che sono nel mirino delle mie visite). Ma Martello viene ferito mortalmente dai poliziotti corrotti, che però non riescono a trovare il famoso CD, ormai nelle possenti mani di Alex. Greco, con l’aiuto del politico, scopre che Cavani è l’infiltrato e chiede ai poliziotti di provvedere, ma, al momento della resa dei conti, arriva il Profeta e, con una bella strage, risolve tutto. O almeno, risolve il problema immediato di Cavani, anche se non si riesce ad incastrare Greco del malaffare. Alex, comunque, prosegue le sue indagini. Ed il ritrovamento di Chantal viva e vegeta dà una svolta alla vicenda. Seppur tutto collegato, l’omicidio di Barbie era legato alla carriera di uno dei personaggi, che inscena una bella trama per ucciderla e procurarsi l’alibi. Ma che deve poi liberarsi di Laurenti, che troppo sa, e per questo lo uccide. E di Chantal, che molto immagina, anche senza prove. E la paga per scomparire. In un convulso finale, saltabeccando di storia in storia, Alex trova il colpevole, salva la vita a Martello (anche se questi è ancora più di là che di qua), scopre chi sia Taipan, ma poiché questi è fuori dalle sue competenze, se ne disinteressa. Fa avere il CD con le prove contro Greco a Cavani. E noi aspettiamo la prossima puntata. Come detto c’è molta altra carne al fuoco, di cui tralascio menzione. Come non indico, almeno chiaramente, chi ha ucciso e come. Il libro merita di essere letto, per questo. Alla fine, ho sollevato con un libricino in più l’autore, che mi sembra maneggi meglio la materia in questo scritto. O forse (visto che sono malfidato), l’editor della Marsilio è migliore di quello della Mondadori.
Giorgio Scerbanenco “Il centodelitti” Corriere della Sera 14 euro 6,90
[A: 21/02/2014 – I: 23/05/2015 – T: 26/05/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 420; anno 1970]
In realtà, i 100 racconti di questa raccolta furono scritti e pubblicati in riviste varie tra la fine del 1962 e la metà del 1969, e solo nel 1970, a pochi mesi dalla morte, furono raccolti e pubblicati tutti insieme in un unico volume. Al solito, il nostro li aveva fatti uscire su “Novella”, “Novella 2000”, “Annabella” e “Stampa Sera”. Il mandato degli editor delle riviste era chiaro: i racconti dovevano stare tutti in una pagina delle riviste e avere un tema diverso ogni settimana. Per questo venivano di volta in volta passati a Scerby i temi: la guerra, gli innamorati, le grandi città di notte, avere sedici anni, i sogni, a che servono i soldi?, la moglie in vacanza… Secondo le testimonianze della compagna del nostro poi, erano scritti con una rapidità unica (“Li scriveva in un’oretta dopo cena.”). Siccome il progetto iniziale prevedeva che gli fosse dedicata una pagina della rivista, e nella pagina ce ne dovevano essere quattro, Scerbanenco era praticamente costretto a confezionare un racconto lungo con tre brevissimi di corredo. Grazie a queste costrizioni di stampa, Scerby si sbizzarrisce nel condensare le vicende in poche righe, spesso con una sorpresa contenuta propria alla fine. In questo il nostro era un maestro. Ma è altrettanto vero che, pur apprezzabili, denotano in molti casi la necessità della sorpresa. Per questo sono a corrente alterna. Con l’effetto finale anche già prevedibile (non si riesce sempre a confezionare una sorpresa vera e propria). Sono comunque racconti noir duri, asciutti, spesso fulminanti nella loro brevità. È emblematico “L’uomo che non voleva morire”, una storia che piacerebbe a Tarantino (ne ha tratto un film per la tv Lamberto Bava nel 1989, che venne bloccato dalla censura ed è passato in tv una volta nel 2007). Dove c’è una rapina, con uno dei ladri che vorrebbe abusare della moglie del custode, ma che questi riesce a sventare ferendolo a morte. Ma non muore, allora i compari lo portano via, poi lo abbandonano morente lungo il passo della Cisa. Continua a non morire, ed è preso dai carabinieri, portato in ospedale. I ladri, frenati dal loro capo, uno dei classici duri di Scerby, aspettano, stanno per cedere quando il morente si risveglia. Ma questi riesce solo a dire “assassini”, e spira. Ed i ladri la faranno franca. Ma vicino a questo c’è anche un diverso narrare, laddove il crimine non è inevitabilmente un omicidio, ma sono elementi che si accumulano per far andare in pezzi la vita di qualcuno. Sono squarci di vita vissuta, ritratti a volte appena delineati di abbandoni, fallimenti, inganni, solitudini, spesso mutuate da tutte le lettere che Scerbanenco riceveva come redattore di Bella o Annabella. Lo scrittore nella sua profonda umanità racconta con parole semplici storie di cose terribili che possono succedere alla povera gente. E si sente, profondamente, la partecipazione dell’autore, la considerazione quasi per la dignità dei suoi personaggi, l’empatia verso il dolore, la descrizione, quasi da tragedia greca in miniatura, di chi si scontra con un fato più grande di lui ed al quale non sa fare fronte. Ogni tanto, qualcuno ha degli sprazzi di luce (anche se solo un’esigua minoranza), dove Scerby quasi non ha il coraggio di affondare il coltello, e cerca di far vedere un possibile riscatto, un barlume di speranza. Come ho detto altre volte parlando dei suoi scritti, la pagina ci restituisce quell’Italia degli anni del boom economico, “della seicento pagata a rate, della lavatrice” (citazione da Ivan Della Mea). Un mondo di impiegati, segretarie, commesse, laureati, ricchi, ognuno al suo posto, imbiancati da un perbenismo di facciata, ma sempre alla ricerca dei soldi facili. In fondo non è molto diverso dai lati negativi presenti nell’Italia attuale. Ci sono anche alcune chicche storiche e letterarie. Come la chiamata telefonica attraverso il centralino (così si usava ancora nei primi anni sessanta), centralino della STIPEL, una delle tante società telefoniche sparse sul territorio. Che solo nel 1964 vennero incorporate nella grande SIP. O lo struggente “Un poliziotto, una bambina, un capretto” che nell’impianto generale ricorda molto “La promessa” di Dürrenmatt. Ma sarebbe troppo lungo ed oneroso entrare nello specifico dei cento racconti, anche perché (sebbene non siano il massimo) consiglio di leggerli così, uno dopo l’altro, nell’ordine scelto dal bravissimo e compianto curatore Oreste Del Buono. Come una piccola enciclopedia del disagio di vivere. PS: volendo vi potrei travolgere mettendo tutti e cento i titoli di questi racconti. Ma penso finirebbe qui la nostra amicizia.
Paolo Roversi “L’ira funesta” Corriere della Sera 20 euro 6,90
[A: 01/04/2014 – I: 17/07/2015 – T: 19/07/2015] - &&&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286; anno 2013]
Un libro di gustosa lettura, anche se non è particolarmente inseribile nella collana in cui è presentato. Un libro di atmosfera, certo non ascrivibile, come richiede la pubblicazione, al “Giallo italiano”. Certo c’è un morto, ed in qualche maniera il commissario Valdes indaga. Ma verso la metà del libro si comprendono i meccanismi dell’uccisione (per chi vuole leggere un po’ tra le righe). Soprattutto, quello che più interessa Roversi (e noi) è l’atmosfera e le mille storie che s’intrecciano in Piccola Russia, questo paesino della Bassa, che ci prende. Con il clima, e più di tutto con i personaggi. Per togliere di mezzo subito la parte “gialla”, c’è un morto ad un certo punto, che poi si scopre essere un piccolo malfattore (a suo tempo), poi fuggito in America il giorno dopo la fine di un piccolo rapimento locale. Ora, dopo trent’anni, ritorna in patria, con il suo carico di dischi di De André (e se ne era partito a settembre del ’79), e la sua fine non stupisce, né è difficile (avuti questi dettagli) ricostruirla. Ma come ho detto, quello che più interessa Roversi, e che a me ha incuriosito e divertito, è la descrizione di questo piccolo microcosmo della Bassa Padana. Che se l’argine del Po nel ’51 avesse ceduto un po’ più in là, forse ora non esisterebbe più. Tuttavia esiste. Con un paese compatto su ricordi alla Peppone, con (una volta) consensi di livello bulgaro (così almeno si dice, anche se prima o poi dovremmo sfatare la leggenda dei voti di Sofia). Con la chiesa ma senza curato fisso. Con il centro del mondo che una volta era la Casa del Popolo, ed ora è la Poli. Abbreviazione per Polisportiva, dove si riunisce tutto il paese, perché c’è il bar, ma soprattutto la piscina, costruita a furor (e soldi) di popolo dopo la morte di un giovane tuffatosi da un’ansa del fiume e mai più risalito. E si diceva che sono le storie, quelle che escono fuori dalla Poli e da Piccola Russia, mentre aspettiamo che il Gaggina (andato fuori di testa) finisca le sue mattane. Ce ne sono di piccole, come quella di Marchino detto Skegia, per la velocità con cui finisce i suoi approcci sessuali. O quella del postino Nestore (e della sua vecchia storia d’amore con la nonna del Gaggina). E di più lunghe ed articolate. Il Giuanin andato a lavorare a New York nella pizzeria dello zio, cresciuto nel mestiere in quella Little Italy vicino a SoHo (che come sanno i frequentatori di New York non è un quartiere giapponese, ma indica le abitazioni che si trovano a sud – South – di Houston street) e sposatosi una italo-americana, comincia a fare fortuna. Mette su una catena di ristorazioni italiane, per poi decidere di puntare su di un unico ristorante. Che fa anch’esso fortuna, peccato che sorga nel complesso delle Twin Tower, e cade come tutto GroundZero nel settembre famoso. Così che il Giuanin passa gli ultimi anni a curare la moglie malata, e morta questa, torna in patria per morire a sua volta. Il Musso, invece, metallaro e puttaniere, decide che il suo futuro è Berlino. Dove si trasferisce, avvia buoni lavori, visto che, pur non studiando, sa fare bene il saldatore, sposa la giunonica Kristina, con cui fa due figlie. Peccato non sappia tenere a freno il suo appetito sessuale, e che Kristina, scopertolo, lo butti fuori di casa. Musso non demorde, e tornato in Piccola Russia, mette su un redditizio commercio di armi storiche (tra cui spiccano la katana del Gaggina e lo spadone usato per il delitto). C’è poi la giornalista Giulia, quella di un’agenzia di stampa che la manda in giro ma che non accetta i suoi pezzi dedicati più all’umanità degli immigrati a Lampedusa che al numero di morti. E che per togliersela di mezzo la manda a Piccola Russia per seguire la crisi del Gaggina (allargatasi a dismisura con sequestri più o meno consenzienti, ed insipienza dei Nuclei Speciali). E lì Giulia troverà modo di esprimersi al meglio, anche nel campo privato (e non vi dico con chi). Infine c’è lui, il commissario Omar “Ombra” Valdes, una volta membro della famosa squadra del capitano Ultimo e poi con tutta la squadra congelato e vituperato. E dopo peregrinazioni italiche, finalmente a suo agio nel buen retiro di Piccola Russia, dove ha modo di usare la sua condizione per salvare il salvabile dal ridicolo, e risolvere i problemi. Del morto, ma soprattutto del Gaggina (in questo aiutato alla grande da Musso e Marchino). Insomma se c’è l’ira funesta del pelato Gaggina, il libro è gradevole per questo tuffo nella realtà padana. E nelle frecciate che Roversi tiri ai giornali, alle autorità, alla polizia, ed a tutte le opprimenti istituzioni italiche. Un libro che si legge con un sorriso sulla bocca, lasciando un po’ di allegria nel cuore. E non è poco.
Paolo Roversi “Milano criminale” Corriere della Sera 23 euro 6,90
[A: 22/04/2014 – I: 19/09/2015 – T: 21/09/2015] - &&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 449; anno 2011]
Leggo per secondo questo che invece è un romanzo scritto prima del precedente. E sono contento, che, se mi fosse capitato questo non credo che avrei avuto voglia di leggere altro. Fa un po’ il paio con il più brutto dei libri di questa collana, “Il paese che amo” di Sarasso, che ho già avuto modo di tartassare. Qui si distanzia un po’, che si parla comunque di azioni criminali, utilizzando tuttavia la stessa tecnica. Cioè quella di narrare un pezzo della storia italica, vista con gli occhi quasi di un cronista di nera, avendo cura di cambiare i nomi ai protagonisti, lasciandone invariate solo le iniziali. Roversi tenta in un certo senso di inserirsi nel solco del “Romanzo criminale” di De Cataldo, laddove questi parlava della mala romana, della banda della Magliana e delle connivenze con il potere, mentre Roversi parla della mala milanese, del solista del mitra, accennando, ma molto alla lontana, alcune tematiche politiche. Ora, il personaggio cui ruota tutta la storia, e che seguiamo da giovinetto alla maturità viene indicato come Antonio Santi, e noi pensiamo subito ad Achille Serra, capo della squadra mobile a Milano, poi prefetto, e poi anche senatore (a parte un leggero ringiovanimento, che nel ’58, Serra ha già 16 anni e mezzo non i 14 che gli dà l’autore). L’altro capo della matassa è rivolto al bandito Roberto Vandelli, che in effetti ha 8 anni all’epoca del colpo di via Osoppo, ma di cui Roversi ci fa percorrere passo dopo passo la storia, come appunto Renato Vallanzasca. E nell’Americano, poi definito dal quotidiano milanese “La Notte” il “solista del mitra”, che nelle pagine è indicato come Leandro Lampis, non si fa fatica a scoprirne le vere fattezze in Luciano Lutring. Oppure la mente della rapina di via Osoppo Ugo Ciappina che diventa Umberto Carminati. Per non dimenticare il lato “politico” dove Mario Capanna diventa Massimo Castelli o il commissario Calabresi che si trasforma in commissario Catalano. Per terminare (ma potrei dilungarmi per pagine e pagine) con il famoso omicidio della Cattolica, quello dove fu uccisa Simonetta Ferrero che si trasforma in Sandra Fontana (e dove Serra/Santi non partecipò alle indagini, ma come prefetto ricevette una lettera nel 1991 che svelava alcuni retroscena indicando il presunto colpevole). Insomma Roversi tenta di ricostruire la storia milanese criminale e politica partendo appunto dal 27 febbraio 1958, quando in via Osoppo cominciò la trasformazione della mala milanese in criminalità organizzata, sino al primo arresto di Vallanzasca, opera appunto di Achille Serra, avvenuto nel 1972. In questi 14 anni seguiamo da una parte la realtà “trasformata” con i cambi di nome, e dall’altra quella romanzata, che non appare nei libri, per creare dei punti di raccordo tra i vari momenti. Ma è come leggere le vecchie annate del Corriere della Sera. Da un lato, appunto, via Osoppo, Lutring, Vallanzasca, la rapina di via Monte Napoleone ad opera del Clan dei Marsigliesi di Albert Bergamelli, gli efferati colpi della banda Cavallero. Dall’altro il lato politico, la nascita del ’68 alla Statale di Milano, con Capanna e gli altri leader del movimento, le manifestazioni, gli scontri tra poliziotti e Katanga (e chi non sa chi siano stati i Katanga meglio astenersi), e poi la “strage di Stato”, con Pinelli, Calabresi e Valpreda. Nel mezzo alcuni intarsi, come la descrizione della morte per infarto del grande Scerbanenco, la poesia su Valle Giulia di Pierpaolo Pasolini, le canzoni di protesta alla Pietrangeli (“Contessa”) o alla Barry McGuire (“Eve of destruction”). C’è la vita privata di Serra/Santi, cui auguro di aver vissuto il grande amore con Carla e di aver apprezzato le poesie di Paul Valéry, ci sono le entrate ed uscite dal gabbio di Vandelli/Vallanzasca, ci sono infine le canzoni che fanno da colonna sonora a tutti quegli anni da Fred Buscaglione a Lucio Dalla, per passare attraverso il famoso scandalo di “Tua” di Julia de Palma e le bellissime parole di Paolo Conte in “Insieme a te non ci sto più” cantata da Caterina Caselli. Insomma, se volete fare un ripasso della Milano di quei 14 anni, questo è un utile Bignami, non certo un  libro di “storia”. Un libricino che vi porta anche spigolature, sul Giambellino, sul bar da Mario, sulla mala “buona” dei primi anni Cinquanta e su quella cattiva degli anni Sessanta. Ma appunto è un Bignami che elenca cose e fatti, che cerca di ammiccare e di far finta di sapere più di quello che sa, ma senza convincerci troppo. Quanto distante dalle ricostruzioni, con nomi e fatti reali e concreti, che prima e dopo ci ha fatto Carlo Lucarelli! Un abisso per me. E con qualche imprecisione che mi ha fatto rabbrividire: Vandelli nel ’64 al Beccaria si trastulla tra “Piccola Katy” dei Pooh (che uscirà nel ’67) e “Un ragazzo di strada” de I Corvi (che è del ’66). Ma anche con un brivido di ricordo piacevole, quando ricorda l’atterraggio dell’Apollo 11 (o meglio l’allunaggio), avvenuto il 20 luglio 1969 alle 22:18 ora italiana, che seguii in diretta, in un’estate tortoretana, beandomi dei commenti di Tito Stagno e di Ruggero Orlando, insieme alle precisazioni in diretta che mi faceva mio zio Nino. Un momento magico ed irripetibile.
Ormai siamo sempre più vicini al Natale, ai suoi doni ed agli auguri, anche di amici e amiche che in questi pochi giorni aggiungono una candelina al loro vissuto. Io mi appresto invece , come sapete, a fare valigie ed altro per le prossime partenze.

domenica 13 dicembre 2015

Quel pazzo di Amos - 13 dicembre 2015

Non perché il mio grande amore per lo scrittore israeliano porti uno dei due alla pazzia, ma questa settimana è (quasi) dedicata ad alcune sue brevi opere, nonché ad una raccolta di racconti che mi è piaciuta per il concatenarsi dei personaggi tra i vari episodi. L’elemento per così dire di disturbo è invece la storia dei fuori di testa del cuculo. Un libro che mi ha riportato ad un grande film, e che è (anche) un grande libro.
Amos Oz “Una pantera in cantina” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato a 5,63 euro)
[A: 05/08/2014– I: 15/04/2015 – T: 17/04/2015] - &&& e ½  
[tit. or.: “במרתף פנתר Panther in the Basement; ling. or.: ebraico; pagine: 147; anno 1995]
In attesa di leggere il primo libro di Oz che finalmente si prevede riesca ad uscire prima di Natale, in questo intorno pasquale, tra le fatiche andine, eccomi a leggere un suo vecchio scritto, che, se non è dei primi, certo delle prime pulsioni che serpeggiavano in Israele dopo la Seconda Guerra parla. Ed a lungo (anche se non in lungo). Lo stile è un po’ juvenilia, ma centra un punto nodale, ancora attuale dopo tanti e tanti anni. Certo, siamo nel 1947 e non ora, ma cosa succede se tra te ed il “nemico” c’è simpatia e non ostilità? La storia, appunto, si dipana nel 1947, vista dagli occhi di un Amos dodicenne, mascherato sotto lo pseudonimo di Proffy (in italiano reso con Profi), perché è maturo e parla come un professore. Siamo nell’ultimo anno del Mandato Britannico in Palestina, nel pieno del conflitto tra Inglesi e Sionisti. Profi ed i suoi amici organizzano quindi, un po’ scimmiottando i grandi, un po’ trasponendo nel gioco le angosce della vita, una cellula segreta di lotta, che si propone di far saltare in aria Buckingham Palace e forse anche il 10 di Downing Street. Amos/Profi in quegli anni si sente come una pantera in cantina. Un animale intrappolato in uno spazio. Una creatura ansiosa che ha voglia di fuoriuscire, si agita e si dimena. Tutte le veloci pagine sono giocate allora sul contrappasso. Che Profi ricorda con maggior vivezza l'amicizia nata con il nemico, un sergente inglese dall'animo buono affascinato dalla cultura del popolo ebreo. Con il nemico, Profi ha un appuntamento quotidiano, in una saletta tetra e fumosa di un pub. La loro amicizia è fondata sullo scambio rispettoso di cultura. Diversa, ma sufficientemente preziosa, da annullare pregiudizi e incomprensioni. Il ragazzo insegnerà al sergente la cultura ebraica ed in cambio avrà lezioni di lingua inglese. Si accende, così, nell’animo del ragazzo, quel contrasto di coscienza che lo porterà al bivio tra uno scrupolo creato dai luoghi comuni e dalla diffidenza per ciò che non si conosce, e le domande senza risposta che non giustificano, nella sua ingenua esperienza di vita, l’odio, la falsa coerenza di ideali, ed un nazionalismo ottuso, che oggi ha dato vita alla macchina bellica israeliana, davanti ad un nuovo nemico: lo stato di Palestina. Da questa vicenda, da questo rapporto nasce una serie di riflessioni sui valori, l'amicizia, il tradimento, nonché di racconti sulla famiglia, lo stile di vita a quell'epoca e il tumultuoso periodo storico che la Palestina si trovava ad affrontare. Perché i compagni della cellula accusano Profi di connivenza e lo vogliono “processare” come traditore. E la pantera Profi non riesce ad uscire da questa contraddizione. Sa che l’inglese è il nemico, ma se che l’inglese che incontro al pub non è un “mostro”, anzi è una persona discretamente timida, che vuole conoscere meglio il luogo in cui vive. E mentre da un lato cerca di fuggire alla morsa del processo che i suoi amici gli vogliono intentare, dall’altro il suo sguardo dodicenne vede tante cose più grandi di lui, che magari travisa nel suo ingenuo ardore. Ma noi da qui ne vediamo i germi pericolosi e le possibili uscite vittoriose (e magari pacifiche). E da queste pagine, con Amos, sorge potente l’altro interrogativo angoscioso che getterà i primi semi in quegli anni, ma che ora, dopo 60 anni, è ancora vividamente doloroso. Come stabilire un rapporto “paritario” e non traditore anche con l’altro nemico, con l’arabo che vorrebbe restare nella sua terra, e che il sionista (non l’ebreo, non l’israeliano) vuole cacciare? Altrettanto ben riuscita è la foto di copertina di Yoni Hamenachem probabilmente scattata appositamente per questo libro, poiché lo riassume alla perfezione. Un libro che si legge veloce, ma che velocemente non passa, e rimane ad innaffiare i nostri dubbi e le nostre preoccupazioni.
“Ancora oggi non posso rischiare di aprire un’enciclopedia o un dizionario [o Wikipedia] … significa almeno mezza giornata persa.” (17)
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo” BUR euro 9,90
[A: 12/03/2014– I: 04/06/2015 – T: 11/06/2015] - &&&&-- 
[tit. or.: One Flew Over the Cuckoo's Nest; ling. or.: inglese; pagine: 393; anno 1962]
Anche questo è un libro che si è infilato nella mia libreria sulla scia dei grandi film che ho amato, e che il libro di cura sui libri mi ha indotto a comperare e leggere. Ora sono indeciso, tra libro e film. Il film era potente, e giganteggiava la figura di Jack Nicholson. Anche il libro è potente, ma a me rimane più impressa qui la figura di “Ramazza” Bromden, il capo indiano mezzosangue, voce narrante del libro. È lui che osserva e descrive gli avvenimenti, lui paziente della clinica psichiatrica dove si finge sordo e muto per non dover interagire con le istituzioni mediche. E che osserva l’ascesa verso la serenità del suo reparto, per poi constatarne, inesorabilmente, la caduta verticale di fronte all’autorità implacabile. L’autore (“troppo giovane per essere beat, troppo vecchio per essere hippie” secondo una sua definizione) è partecipe della grande cultura americana tra la fine dei Cinquanta ed i primi Sessanta. È amico di Neal Cassady (a sua volta sodale di Jack Keruac), conosce Timothy Leary e tutti gli allucinogeni e psicotropi di quegli anni. E confeziona questo libro come protesta verso la cultura americana, come grido ed atto di ribellione. Con l’ovvio ed amaro finale. Un’anticipazione del ’68: McMurphy e Ratched l’infermiera sarebbero le due facce della stessa medaglia americana, il primo a simboleggiare lo scontro violento contro l'autorità, la seconda a rappresentare quell'autorità del potere che non si può scalzare. Storia tutta “girata” nel moderno ospedale psichiatrico, con l’indiano che tutto guarda e osserva e registra. Dove ci sono pazienti più o meno cronici, come il balbuziente ed introverso Billy Bibbit, il logorroico Harding Dale, il maniaco delle carte Cheswick Charley. E pazienti ridotti a larve da elettroshock devastanti e lobotomie sperimentali. Un’isola che potrebbe essere felice, se non fosse dominata dalla rigida caposala, Miss Ratched, che usa un pugno di ferro per affermare il suo dominio su questo mondo in rovina. È qui che arriva Randy McMurphy, che si finge pazzo per scontare un periodo di detenzione in seguito ad una condanna per gioco d’azzardo, invece di passarlo in carcere. E da subito c’è lotta dura tra i due. Randy, comunque insofferente, comunque con una vena d’alienazione, porta venti di novità. Crea un tavolo da gioco, organizza partite di basket, fomenta una ribellione per poter vedere il basket in tv. Ottiene inoltre di organizzare una gita in mare, con i pazienti meno “pericolosi”, dove si accompagna con qualche donnina, e dove scorre birra a profusione. Insomma, spinge tutti a ricercare se stessi, invece di lasciarsi guidare acriticamente da Miss Ratched. Ed anche una seduta di elettroshock non doma il suo spirito ribelle. Che raggiunge il culmine in una notte brava, con medicine psicotrope a go-go, con altre donnine che fa entrare in ospedale, e con una di queste che seduce il poco esperto Billy. Ma l’alcol scorre a fiumi, e la mattina la caposala giunge che sono in piena baldoria, scopre l’amplesso di Billy, lo ridicolizza, e questi, colmo di vergogna, si uccide. Randy cerca a sua volta di uccidere Miss Ratched, ma viene fermato, lobotomizzato, e ridotto ad una larva. Allora, il capo indiano che sempre seguiamo con affetto, pietosamente lo soffoca con un cuscino, per poi fuggire in Canada, verso la libertà. Cantandosi internamente la filastrocca che da piccolo gli ripeta la sua nonna indiana: “Three geese in a flock / One flew East / One flew West / And one flew over the cuckoo's nest” (“tre oche in uno stormo / una volò ad Est / una volò ad Ovest / ed una volò sul nido del cuculo”). Qui sta tutto il bello e l’atroce del libro, che monta pagina dopo pagina, che ci avvolge con questa lotta di potere che sappiamo già come andrà a finire. Perché Randy andrà sempre sul suo solco comportamentale, non accettando di scendere sul piano delle istituzioni, della caposala. E non capendo i meccanismi dell’antagonista, la ribellione sarà inevitabilmente repressa nel sangue. Ecco, il libro mette forse più su questo lato l’accento, mentre Milos Foreman nel film lo sposta più sul lato psichiatrico, quasi a voler parlare solo di sanità e pazzia e non di potere e ribellione. Manca solo, per essere nelle vette top dei miei gradimenti, una punta di consapevolezza in più. Che tuttavia possiamo scusare guardando alla data di scrittura del libro (1962). Ed al fatto di quanto consapevoli e forse non più tanto ribelli siamo noi ora. Piccolo appunto finale: si nota anche che la traduzione è datata, coeva forse al romanzo stesso, laddove, ad esempio, a pagina 19 si lascia un inutile “pallabase” rispetto all’utilizzo del più corretto “baseball”. Ce ne sono altri, di piccoli intoppi, ma il libro è comunque bello e da leggere.
Amos Oz “La vita fa rima con la morte” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato a 5,85 euro)
[A: 01/03/2015– I: 24/06/2015 – T: 27/06/2015] - &&&+  
[tit. or.: “והמוות החיים חרוזי Rhyming Life and Death; ling. or.: ebraico; pagine: 106; anno 2007]
Dato che tutti conoscono la mia passione per Oz, entro subito nel merito di questo scritto, interessante, anche se una prima lettura mi aveva lasciato leggermente spaesato. Ripensando e riflettendo ho poi rivalutato questo che a me sembra un lungo interrogativo sullo scrivere e sulla scrittura. Qualcuno (anzi qualcuna, citando la bella recensione di Maria Serena Palieri) pensa anche ad una specie di outing di Oz verso il suo lato “rubacuori”. Che lo scrittore e lo scrivente hanno un debole per il lato femminile, cosa che qui viene palesata alla grande. Ma io ritorno sulla mia idea. Sulle frasi che fin dalle prime righe Amos mette in bocca al deutero-protagonista dello scritto. Perché scrivere? Per chi scrivere? Diretto al Centro culturale dove è previsto presenti un suo libro, lo "Scrittore" si anticipa mentalmente le domande che gli arriveranno dal pubblico - sempre quelle... - e si siede in un caffè per programmare le risposte. Qui lo sguardo gli cade su quello slip asimmetrico della ragazza che lo serve e, sull'onda del desiderio, presta a questa un nome, Riki, e una love-story, immagina cioè una sua tre-giorni di sesso con un portiere della squadra Bne Yehuda. La maratona erotica, che Oz analizza nel dettaglio, trascina con sé un altro personaggio, Lucy, ragazza arrivata seconda a un concorso per miss bikini, con cui la star dello sport soppianta Riki. Poi, altre propaggini dell'immaginazione lo Scrittore le trova nella sala, nel ragazzino corrucciato seduto in fondo, cui affibbia il nome di Yuval Dahan e un'attività di aspirante poeta così come nella signora massiccia che ribattezza Miriam La Nehurai e per cui prefigura che seduca il giovane Yuval. Ma, da due versi citati dal facondo responsabile della Casa della Cultura, prende corpo anche un vecchio poeta fuori moda, Zofonia Beit Halachmi. E, soprattutto, prende corpo in senso letterale Ruchale Reznik, la ragazza un po' attempata incaricata di leggere brani del suo romanzo e che, per via di quel collo che le si arrossa, diventerà protagonista di una vera-finta notte d'amore, con baci, carezze, fremiti, gemiti. Lo scrittore incontra dettagli di vita. Da quei dettagli costruisce storie. Che possono essere vere. Costruisce mondi. Inventa intrecci. E questo infinito intreccio di ipotesi diventa, nella penna di Oz, la trama di un racconto sulla difficoltà stessa dello scrivere. Questo è uno degli elementi che mi hanno attratto sulla pagina: da dettagli rubati creare scenari plausibili. Perché quanto sopra narrato, seppur segue le pagine scritte, può essere vero o solo immaginato. C’era la linea intravista delle mutandine di una cameriera. C’è una persona sfiorata camminando. Una faccia. Una vena gonfia. Una parola intrasentita. Ed assonando la domanda iniziale (“Perché scrivi?”) con quella sottesa per tutto il testo (“Perché vivi?”), si arriva alla confessione perno di Amos (confessione che noi lettori attenti e partecipi abbiamo già intuito pagine e pagine prime): “…tutti i personaggi di questa storia, in fondo, non sono altri che l’autore in persona…. Esiste e continuerà a esistere che tu ne scriva o meno…”. La risposta non può essere di tipo utilitaristico perché l’unica molla che spinge lo scrittore è l’ossessione per quei dettagli contenuti negli estranei e grazie ai quali riesce a toccarli senza toccarli e senza essere toccato. Lo scrittore è un regista, è un fotografo che dispone meticolosamente i personaggi prima dello scatto. Noi lettori ci mettiamo davanti a voi scrittori, e non abbiamo, non possiamo avere risposte facili alle vostre domande. Magari avremo altre domande ancora, perché (e qui ripeto una mia vecchia sensazione) tu che scrivi hai un tuo percorso mentale, che io che leggo non seguo. Io seguo e penso al mio, a quello che le tue parole mi suscitano. E che spesso vanno in una direzione diversa. Finirei citando una parafrasi che ho letto in giro sul web (grazie a Michele Nigro), laddove si parlava di questo romanzo. Prendendo a prestito una frase storica di Archimede, potremmo chiosare l’infinita gioia che si prova nell’imprigionare le sfumature della vita in parole pensate e tornite con: “Datemi un dettaglio e vi immaginerò il mondo!”
 “Alla morte dell’ultimo che [lo] ricorda, il morto muore un’altra volta, definitiva, ed è come se non fosse mai esistito.” (50)
“Che ruolo assolvono, se pure ne hanno uno, le tue storie? A chi servono?” (83)
Amos Oz “Tra amici” Feltrinelli euro 8
[A: 07/05/2015– I: 28/06/2015 – T: 30/06/2015] - &&&--  
[tit. or.: “חברים בין Between Friends; ling. or.: ebraico; pagine: 131; anno 2012]
In questo lungo viaggio nel mondo di Oz, stiamo andando, seppur di poco, in calando. Anche se questo non è il miglior Amos che ho letto, riprende un motivo che mi rende cari i libri imperniati su racconti. Perché di racconti si tratta, un po’ alla maniera che ho descritto varie volte in Alice Munro. Qui Oz ambienta il suo microcosmo in un kibbutz degli anni Cinquanta, quando, pur non essendoci ancora la spinta eversiva dei primi kibbutz degli anni Trenta, dopo la nascita dello stato d’Israele, questi luoghi di vita collettiva diventano embrioni di quello che poteva essere Israele, ma che poi non è stato. Ed utilizza un registro narrativo particolarmente coinvolgente, laddove i protagonisti di un brano, diventano comprimari di un altro. Non c’è quindi una trama completa, un romanzo “classico”. Ma come in “Scene da un villaggio”, ci sono momenti che illustrano la vita nel kibbutz, lo spirito dei suoi abitanti, nonché le contraddizioni stesse che permeano la vita di molti nativi d’Israele. E presentando le sue storie, Oz ha anche modo di affrontare tematiche a lui care: quelle dello spirito delle colonie (lui che fu uno dei primi a decidere di andarci a vivere), quello del rapporto con gli arabi che abitavano quella terra, quello della donna e del suo ruolo nella comunità, quello dei rapporti tra genitori e figli, quello dello spirito (libero?) delle famiglie allargate. Quindi, in una specie di girotondo alla Schnitzler, cominciamo a conoscere Zvi Provizor, uno scapolo che ha la passione per le brutte notizie. Ne cerca sui giornali, ne legge e ne sparge per la comunità, con un contrasto eclatante con la sua capacità di giardiniere. E vediamo il tentativo di avvicinare la vedova Luna, anch’essa solitaria, e come questo tentativo si esaurisca quasi senza un perché (o forse ce ne sono tanti, che i due non riescono ad affrontare). Tra un andare ed un venire di Zvi e Luna, s’inserisce la curiosa amicizia tra Ariela e Osnat. La prima ha preso il marito alla seconda, ma Osnat ragiona su se stessa e sul suo uomo, quasi a giustificarne l’allontanamento. E quasi ad accettare una solidarietà con Ariela. Ma nel kibbutz ci sono anche scuole per grandi e per bambini. In quella degli adulti si consuma il tormento di Nahum che non capisce come la figlia diciottenne Edna si metta insieme al suo insegnante David, che è un suo coetaneo (ecco uno degli altri temi dei rapporti nella colonia). Mentre i bambini sono, per la legge interna di quel tempo, subito separati dai genitori. Nelle scuole, ma anche e soprattutto la notte, dove assistiamo ai drammi del piccolo Yuval (5 anni) che viene preso e dileggiato nella “Casa dei bambini”, tanto che se la fa sotto la notte, che scappa. Ed i genitori, Roni quello che in tutti i racconti fa il buffone e Leah, si mettono contro tutta la comunità per salvaguardarlo. C’è Yoav il capo della comunità, che entra ed esce anche lui dai racconti, che sembra inflessibile, ma che cede (umanamente) a delle pressioni che non riesce a controbattere. Anche quella della moglie Dana, che vorrebbe lui facesse carriera, per uscire dal kibbutz e tornare nella grande città. Ci sono le due storie parallele e contrapposte di due giovani. Moshe, che vorrebbe fuggire dal kibbutz, ma che in un lungo rapporto con il padre malato decide di restare. Yotam che vorrebbe andare dallo zio in Italia, ma è indeciso, anche se la madre, la vedova Helena cerca di convincere Yoav ad aiutarla. Niente da fare, ma avremo una bella descrizione della fuga di Yotam che va a dormire nel villaggio abbandonato di Dir Ajlun. Abbandonato dagli arabi dopo il ’48. E non torno sulle facili tematiche del rapporto tra ebrei “occupanti” ed arabi “cacciati”, che meglio ne parla, dall’interno lo stesso Amos. Ed ho messo volutamente le virgolette, che è uno degli argomenti difficili che nessuno, in questi quasi sessanta anni, ha mai risolto (anche se segnalo, per chi lo avesse mai perso uno dei più racconti in proposito, ”Ritorno ad Haifa” di Ghassan Kanafani). Poi tutto l’ultimo brano incentrato sull’utopia dell’ebreo olandese Martin, che vuole insegnare a tutti l’esperanto, per superare le barriere, per avere un mondo senza barriere, con tutti che parlano la stessa lingua. Martin che era sopravvissuto alla shoah, e che muore qui, in terra d’Israele, circondato dagli amici del kibbutz. In una specie di passerella finale, tutti intorno alla tomba: Yoav che fa l’orazione, David che ricorda la figura dell’idealista, Roni che lo seppellisce, e Osnat che ci accompagna con le sue ultime, pacate riflessioni. Sempre bello leggere di Oz, ho detto, anche se, appunto, anche nel corale del racconto si perde un po’ di mordente. Ma non c’è niente di meglio che un suo scritto per tornare a pensare a questa terra martoriata. Ora in particolare, che non sappiamo quando potremo tornarci.
“Tutti sono compagni ma ben pochi sono amici veri. Io, ad esempio, qui ho solo due o tre amici personali. Quelli con cui mi va persino di tacere insieme.” (106)
Siamo alla seconda uscita del mese e la mia controanalisi delle patologie porta questo mese ad un libro, cui sono caro, e che dovrebbe (ma non sono così proprio in accordo) parlare di felicità.
Siamo anche sette giorni più vicini al Natale, festeggiando oggi il secondo compleanno di Tommaso, ed aspettando di poterci muovere, prima per il Nord a Natale e poi per l’agognata Cuba con l’anno nuovo.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2015
Giacché si è passato quasi tutto il mese di novembre in India, può essere una buona premessa alla patologia odierna, quella, appunto, di una felicità da raggiungere. In qualche modo? O in tutti?

FELICITÀ, RICERCA DELLA

Ray Bradbury “Fahrenheit 451”
La felicità: lo scopo ultimo della vita. Oppure no?
Molti di noi, in Occidente, passano la vita alla ricerca di questo stato transitorio: in amore, nel lavoro, nei viaggi, nella decorazione della propria casa. Il fatto che se ne parli nei messaggi pubblicitari e nei programmi di reality in televisione è un malessere moderno, ma è importante ricordare che la gente non ha mai considerato la felicità come un diritto fino al ventesimo secolo - e in molte culture orientali ancora non è così. Per molte persone la vita è un peso che bisogna sopportare, e dal quale al massimo si può imparare qualcosa, piuttosto che una fonte di piacere. Avere del cibo, un tetto sopra la testa e la libertà di seguire le vostre credenze religiose, è già sufficiente. Cominciate a pensare che dovreste essere felici e vi esporrete a delusioni di ogni genere.
Su questo la pensiamo come gli orientali: la ricerca incessante della felicità è una malattia, e deve essere curata. Anche Ray Bradbury lo sapeva. Fahrenheit 451, romanzo in anticipo sui tempi pubblicato nel 1953, era molto vicino a mostrare la vita come la conosciamo oggi. Nel suo futuro distopico, nessuno legge più romanzi. All’inizio succede perché la gente preferisce assumere narrativa in dosi sempre più piccole, non avendo abbastanza attenzione né pazienza per leggere un libro intero. Ma dopo un poco tutti cominciano a pensare che i libri sono il nemico perché offrono, in maniera irresponsabile, punti di vista e stati d’animo diversi. Di sicuro, sarebbero più felici in una terra di nessuno priva di emozioni e sensazioni forti.
Sprovviste di cultura e di riflessioni profonde come sono, per contrastare questo vuoto emotivo le persone cominciano a vivere sempre più velocemente, guidando per la città a rotta di collo (nel futuro immaginato da Bradbury i Maggiolini della Volkswagen sono i padroni della strada) e uccidendo tutto quello che incontrano sul loro cammino. Non vedono quasi mai i figli, che vanno a scuola nove giorni su dieci. Avere figli è comunque una perdita di tempo, secondo loro; le donne preferiscono restare a casa a guardare una soap opera interattiva, “La famiglia”, che non termina mai, e dare più importanza al destino dei suoi personaggi piuttosto che al loro (per quanto fosse bravo, Bradbury non riuscì a fare il salto e immaginare un tempo in cui le donne volessero lavorare a loro volta). Storditi da questa saga, vanno a letto con dei «gusci» sulle orecchie che trasmettono tutta la notte insulsi notiziari e altri sceneggiati privi di senso. Buttano giù sonniferi come caramelle. Il suicidio è diffuso, e non ci si fa troppo caso.
Quando Montag, un pompiere che per lavoro brucia libri illegali - e talvolta anche le persone che li leggono - incontra una ragazza che si prende il tempo per guardare le stelle, annusare l’odore dell’erba e interrogare le margherite sull’amore, si rende conto che nel suo stato di castrazione emotiva non è felice come credeva. Comincia a prendere coscienza di un mondo di bellezza e sentimento e si domanda che cosa possano contenere i libri che brucia. Una sera legge agli invitati della moglie una poesia di Matthew Arnold, «Dover Beach», interrompendo un episodio de “La famiglia”, e il risultato è un pianto doloroso e incontrollabile: «Poesia e lacrime, poesia e suicidio e sensazioni terribili, poesia e malessere; che porcheria!» esclama uno degli ospiti, turbato.
Montag è costretto a bruciare i propri libri - e la propria casa insieme a loro - ma resta convinto che un futuro senza libri sia intollerabile. Meglio soffrire, e trovare qualcosa, piuttosto che vivere nello stato comatoso che per la «civiltà» si identifica con la strada verso la felicità.
“Fahrenheit 451” vi insegnerà che la vita è fatta di una grande varietà di esperienze. Vivetela fino in fondo, senza inseguire la felicità, e dedicatevi invece alla conoscenza, alla letteratura, alla verità e a ogni genere di sensazione e sentimento. Se la visione di Bradbury dovesse trasformarsi in realtà, imparate a memoria almeno un romanzo, come fa Montag. Non si sa mai, potreste aver bisogno di tramandarlo al resto dell’umanità.

Bugiardino

Ho letto più volte il libro di Bradbury. Da giovane, nel mio furore fantascientifico (e dove tuttavia, preferivo il solido Asimov al pericolante Bradbury). Da persona matura, usufruendo di un gradito Ale-regalo. Erano tempi “veloci”, ed anche la trama era stringata ed essenziale.
Ray Bradbury “Fahrenheit 451” Mondadori s.p.
[pubblicato il 18 aprile 2010]
Un classico, ma ci sono alcuni punti in cui è di un’attualità da far paura. Risente i suoi quasi sessanta anni, ma sono contento di averlo in un certo senso riletto ora, carico d’anni e di esperienze. La storia è ormai un classico e sembra quasi banale riportarla, ma ha delle pieghe interessanti. In un imprecisato futuro, l’informazione giornalistica viene bandita, le case diventano dei grandi televisori, dove chi è benestante si permette di avere un salotto con quattro pareti tutto schermo, diventando parte integrante degli spettacoli televisivi (interagendo anche con essi). I libri, che potrebbero far riflettere la gente su quanto di guasto sta avvenendo, vengono prima considerati pericolosi, poi a loro volta proibiti, ed infine viene istituito un corpo speciale dedito al loro incenerimento (ed a quello delle persone che li leggono). È da paura quanto tutto ciò suoni attuale. Il fuochista Guy Montag, non si sa come e perché, inizia a riflettere su questo stato di cose, trova il coraggio di ribellarsi, e prospetta un futuro dove… si tornerà alla lettura. Guy dovendo scegliere tra bruciare libri e bruciare il suo capo, sceglie di appiccare il fuoco a quest’ultimo e poi fugge per unirsi ai ribelli. Il tutto con una guerra che sembra esserci ma che (avendo tolto l’accesso all’informazione) nessuna sa di sicuro. Se invece di guerra con armi, ci mettiamo la crisi economica sembra di leggere la cronaca dei gironi nostri. Dobbiamo trovare il coraggio delle piccole azioni, della ribellione allo strapotere televisivo che annienta le voci fuori dal coro. Bisognerebbe prendere tutta la parte centrale del libro che spiega il passaggio dai libri al monopolio televisivo e farne un monumento. Alla fine si arriva veramente stremati. E lì che andremo a finire? DICIAMO DI NO!!!
“Guy voi avete davanti un vigliacco. Io vedevo la piega che stavano sempre più prendendo le cose, ma molto tempo fa; ma non ho detto nulla; sono uno degli innocenti che avrebbero potuto parlare chiaro e tondo quando nessuno era disposto a dar retta al ‘colpevole’ ma non ho aperto bocca, diventando così colpevole a mia volta.” (96)
“I libri sono odiati e temuti … perché rivelano ... la vita. La gente comoda vuole solo facce di luna piena, … inespressive. Viviamo un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori invece di nutrirsi di buona pioggia” (98)

Conclusioni

Sono solo in parte d’accordo con l’uso di Montag per la ricerca (impossibile) della felicità, come sembrano sostenere le due signorine. Penso ed ho sempre pensato che la felicità sia una vetta aguzza di difficile riposo, e che sia meglio cercare la serenità (con punte di felicità, ovvio, e nessun abisso di tristezza). La vicenda descritta da Bradbury mi sta più sul versante triste, con tutta quella condivisibile tirata anti-televisiva. Speriamo, tuttavia, con Montag, di bruciare i cattivi e di cercare la serenità insieme ai nostri affetti.