domenica 28 dicembre 2014

Ogni fine inizia ancora - 28 dicembre 2014

Si avvicina la boa del capo dell’anno, e questa sarà dunque l’ultima trama del 2014 (la sua fine). Si è scritto di meno, anche se si è letto di più, che nei frequenti viaggi di quest’anno si riuscì a leggere, ma non a scrivere. E chiudiamo con tre scrittrici, le due di lingua inglese spesso presenti nella mia libreria, con risultati mediamente accettabili. E la mia amata Vargas, ancora in uno dei suoi migliori e da me amati libri, dove si cavalca con bellezza e partecipazione, insieme all’altrettanto amato commissario Adamsberg.
Anne Perry “Assassinio sul molo” Mondadori euro 4,90
[A: 15/07/2013– I: 10/07/2014 – T: 12/07/2014] - &&&
[tit. or.: Execution Dock; ling. or.: inglese; pagine: 270; anno 2009]
Nell’ultimo anno, i Gialli Mondadori stanno sfornando a ruota libera i libri della scrittrice inglese. Che ben sappiamo prolifica ai limiti dell’eccesso (dal 1979 ad oggi ha pubblicato circa 80 libri). E che ben conosciamo per le sue due serie di polizieschi, ambientate entrambe nella Londra vittoriana, che l’autrice ben conosce (per studio) e ben rappresenta (per maestria). Ricordo inoltre, per chi si fosse dimenticato delle precedenti trame, che le due serie sono in qualche modo complementari. Quella di Thomas Pitt ambientata più sul lato borghese, e giunta al trentesimo episodio. E quella di William Monk, quella del lato proletario, di cui quest’anno è uscito in Inghilterra il ventesimo romanzo. Qui, come si intuisce dal titolo, siamo sul lato Monk, e precisamente all’episodio 16. Mi riferivo al titolo, perché, se qualcuno ricorda, Monk dopo un inizio da investigatore privato, è da poco tempo approdato alla guida della Polizia Fluviale (ecco quindi il molo del titolo). Indicato a questa carica dal commissario Durban prima che questi morisse nell’esercizio delle sue funzioni. In questo episodio, Monk cerca di chiudere una delle inchieste di Durban, relativa ad un sordido figuro procacciatore di minorenne per adulti pedofili, nonché assassino di ragazzi recalcitranti. La storia in sostanza si divide in due parti. Nella prima, Monk arresta Jericho e si svolge il processo contro di questi, accusato dell’uccisione di un ragazzo. Peccato che la difesa del cattivo sia assunta da sir Oliver, uno dei grandi avvocati del foro londinese, nonché ex-spasimante di Hester la moglie di Monk. Difesa che gli è stata commissionata dal suocero cui non può dire di no. L’avvocato è bravo, e Monk ha solo prove indiziarie. Per cui Jericho si salva dalla forca. Qui comincia la seconda e lunga parte in cui assistiamo: alle indagini di Monk per trovare prove consistenti verso Jericho, alle analoghe indagini di Hester, che utilizza i canali della sua clinica per prostitute in difficoltà, l’aiuto che ai due dà il ragazzo Scuff, alla crisi morale di sir Oliver che ha fatto trionfare la legge nel processo (e si badi bene, la legge non la giustizia) mettendo in difficoltà i suoi due amici e sapendo che il suo assistito era sicuramente colpevole. Non è difficile intuire che Jericho nei suoi sordidi traffici deve avere le spalle ben coperte. Ed i loschi figuri hanno buon gioco nel mettere in difficoltà Monk ed i suoi, nonché cominciare ad infangare anche la memoria di Durban. Potere della corruzione ed auto-alimentazione del potere tramite cooptazione dei malvagi. Ma i nostri tre, ognuno seguendo sue idee e contatti, proseguono nel cammino verso lo svelamento dei misteri. Helen riesce a ricostruire tutta la storia di Durban, da ragazzo abbandonato all’orfanotrofio, alle cattive compagnie giovanili, la svolta nella polizia, ed il lavoro sempre con uno sguardo di riguardo verso i più sfortunati. Monk, con l’aiuto del piccolo Scuff, mette vari tasselli sui giovani che cadono nelle grinfie di Jericho. Ma è Oliver, nonostante tutto a fare i passi da gigante, quando si ribella al suocero, e con uno stratagemma capisce chi sia almeno una persona che tira le fila dietro ai pedofili. L’altro passo da gigante lo fa una delle aiutanti di Hester all’ospedale, una signora che per far del bene lavora alle cucine. Ma che si mette in testa di aiutare i nostri, e trova il modo di arrivare ad uno dei posti dove si vendono le foto dei festini con i ragazzi (anche se con dagherrotipi le foto ci sono già nella seconda metà dell’Ottocento), e scoprire che uno dei clienti è… Non vi dico che sia, ma questo fa precipitare la situazione. Jericho rapisce Scuff per ucciderlo. I nostri tre uniscono le forze, fanno irruzione sul barcone del cattivo e salvano il ragazzo. Il finale, al solito nella Perry, è sempre un po’ veloce, ma alla fine i più cattivi la pagano. Ripeto quello che ho scritto altre volte. Dal punto di vista giallo, gli spunti non sono “eccelsi”, solo passabili. È invece degna di nota la ricostruzione ambientale. Ed anche qui, esce con forza il dipinto della vita intorno e sopra il Tamigi che si svolgeva all’epoca. Un quadro ben realizzato, e che porta un libricino di gradimento in più per un libro altrimenti direi classificabile solo come discreto.
“Nessun uomo onesto fa solo ciò che lo mette a suo agio.” (65)
“Non volevo parlare del mio passato e non mi interessava parlare del suo. Per chiunque di noi, ciò che conta è chi si è oggi.” (81)
Fred Vargas « L’armée furieuse » J’ai lu euro 8,70
[A: 19/06/2013– I: 25/07/2014 – T: 29/07/2014] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 440; anno 2011]
Finalmente e con soddisfazione leggo l’ultimo capitolo uscito della saga del commissario Adamsberg, uno dei più riusciti personaggi noir degli ultimi anni. Grazie alla maestria della penna della scrittrice francese Vargas, che i miei lettori sanno quanto ami e che per questo ho nella mia libreria tutte le sue apparizioni. C’è voluto del tempo perché uscisse in economica, dovuto in parte alla sovraesposizione dell’autrice nel “caso Battisti”. Ma di quello lasciamo ad altre cronache e passiamo a goderci il pensiero svagato del nostro commissario e della sua “brigade” di poliziotti sempre fuori dall’ordinario. Ritroviamo l’erudito Danglard, l’attento Vyrenc, la forza della natura Violette Retancourt, ma anche i loro comprimari, il bulimico, il narcolettico e il “cretino” (etimologicamente parlando) che fa il miglior caffè di tutta la polizia. Essendo passato del tempo dall’ultima uscita, l’autrice impiega il primo capitolo per introdurre i neofiti ai modi investigativi di Adamsberg, che nel primo capitolo risolve alla sua maniera l’uccisione di un’anziana signora per mano del marito, ottuagenario stufo di reprimenda e voglioso di dedicarsi alle sue parole crociate. Poi iniziano le vere danze. In quel di Bonneval, la formosa Lina sogna i cavalieri dell’Armata Furiosa che prendono nella loro morsa mortale alcune persone malviste della cittadina di Ordebec. L’Armata Furiosa, come poi ci spiegherà Danglard, è una leggenda che risale a poco dopo l’anno mille, e narra di una banda di morti a cavallo, comandata da tal Hellequin (guarda i casi della vita, un nome che si metamorforizzerà nel tempo trasformandosi nella maschera della commedia dell’arte Arlecchino), che scorrazza per le valli normanne, prendendo con sé, e quindi uccidendo, i cattivi della zona. Lina sogna che la Masnada Hellequin prenda quattro suoi concittadini, di cui tre riconosce il viso ma non il quarto. La madre della giovane, per vie traverse, chiede aiuto ad Adamsberg che viene sempre tentato da queste situazioni ai margini. Anche se in Parigi avrebbe da seguire un caso serio, la morte di un potente affarista bruciato nella sua macchina. Tutto incolperebbe un tunisino incendiario, Momo-miccia-corta. Ma le cose ovvie non piacciono ad Adamsberg, che, in base al modo di allacciarsi le scarpe da ginnastica di Momo, lo ritiene innocente. Però deve discolparlo. E la famiglia del morto è potente ed intoccabile. Il nostro attua allora un piano audace, fa fuggire Momo portandolo con sé ad Ordebec, lasciando la brigata al comando di Violette per indagare sui potenti affaristi. E lui, con Momo e Zerk (il figlio che ritrovò nell’ultimo romanzo, ormai quasi trentenne, che, pur non essendosi incrociati per tutta la vita, agisce come il padre, tutto merito del DNA), nonché Danglard e Vyrenc indaga sui misteri di Ordebec. Scontrandosi con Èmeri il commissario locale, discendente di un gran maresciallo napoleonico. Ed alleandosi con l’anziana Léone, uno dei pilastri della cittadina, insieme al potente locale, il visconte d’Ordebec. Senza premere su nessun acceleratore (non è il suo stile) ma parlando e collegando fatti, mentre ad Ordebec avanza un’ordalia, ricostruisce una sua storia di alcuni personaggi locali, tutti ruotanti intorno a Lina ed alla sua famiglia. Cioè ai suoi tre fratelli: Hyppolite, nato con 6 dita per mano che il padre in un accesso di rabbia troncò con un’accetta e che ogni tanto parla invertendo le lettere delle parole (dicendo Oaic invece di Ciao per esempio), Martin, che fa fantasiose ricette con coleotteri ed altre insetti, e Antoine, gettato dal padre giù dalle scale in tenera età, con tante fratture e la paura di rompersi ad ogni momento. E scoprendo che il padre fu ucciso da un colpo di accetta trenta anni prima, con Lina di cinque anni che vide chi era stato, ma nascose il ricordo utilizzando l’Armata furiosa. Armata che appunto ora ritorna. Con tutti i sospetti che si annidano sul truculento Hyppolite, che da piccolo lanciava anatemi su tutti i suoi compagni di scuola, compreso il futuro commissario Èmeri. Si diceva dell’ordalia. I tre visti da Lina ad uno ad uno muoiono. Léone, che ha capito il colpevole, viene quasi uccisa ed entra in coma. Ci sono tante situazioni che convergono e che rischiano di far saltare tutto: Adamsberg sembra essere messo sotto inchiesta per la fuga di Momo, riesce, con l’aiuto di Vyrenc, a far rifugiare il ricercato in Spagna, Violette scopre le menzogne dei figli del morto incendiato, e tramite un colpo di genio audace di Adamsberg, ne trova le prove, Danglard rischia di finire sotto un treno ed è salvato da Vyrenc, un ergastolano medico amico di Adamsberg fa uscire Léone dal coma, ma questa non riesce ancora a parlare, e finalmente Adamsberg scopre che Hyppolite e Lina sono figli del visconte, che li ha nominati eredi, a scapito del figlio di seconde nozze, su cui a questo punto si puntano tutti sospetti. Soprattutto dopo il suicidio di quest’ultimo. Ma il nostro commissario non si da pace, non trova l’incastro di tutto. Sarà soltanto ripensando al ritrovamento di alcuni involucri di zollette di zucchero accanto al luogo del primo assassinio che scoprirà il vero colpevole. Ed aiutato dall’intera brigata, ne assicurerà l’arresto. Belli sono tutti questi piani su cui gioca la nostra scrittrice, forse abusando del termine “giocare” perché sembra quasi faccia di proposito di tutto per presentare ogni tanto una possibile soluzione, solo per poi smontarla. Ma questo è il bello di chi sa costruire storie. Poi io rimango sempre affascinato dalle capacità mentali del commissario, che si fissa su dei particolari insignificanti (molliche di pane, lacci di scarpe, zollette di zucchero), li tiene lì nella testa, li agita ben bene. Ed alla fine ecco la soluzione. E sono anche curioso di vedere se avrà un seguito il personaggio del figlio, simpatico sin dalle prime battute. In conclusione, un bel libro, cui forse non fa giustizia questa trama che cerca di razionalizzarne il contenuto, quando è meglio averlo sulla carta, sregolato sin dalla prima riga. Grazie Vargas per avermi regalato alcuni momenti per far funzionare anche i miei ormai arrugginiti neuroni.
Elizabeth George “Un castello di inganni” TEA euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,18 euro)
[A: 02/04/2014– I: 03/08/2014 – T: 07/08/2014] - &&&
[tit. or.: Believing the Lie; ling. or.: inglese; pagine: 582; anno 2012]
E mettiamo in archivio anche questo sedicesimo romanzo della scrittrice americana, non eccelso ma che comunque ha due innegabili meriti. Riesce ad ambientare i suoi scritti in un’Inghilterra reale, pur scrivendo dall’altra parte dell’Oceano. E riesce anche a tirar fuori trame non convenzionali. Come questo lungo (questa è forse la pecca) romanzo basato sull’indagine di un omicidio che poi omicidio non è. L’altra caratteristica peculiare dei suoi scritti, poi, è l’intrecciarsi della trama principale con le vicende dei personaggi ricorrenti (lo stesso protagonista Thomas Linley, ma anche Deborah, Simon e il sergente Havers) che fanno da sfondo alla vicenda criminale. Qui anzi, a tratti, lo sfondo diventa addirittura preponderante, s’intreccia strettamente all’indagine e quasi la sopravanza. Sono passati, nella cronologia della saga, circa otto mesi (e due romanzi) dalla morte della moglie Helen e Thomas Linley sta faticosamente cercando di tirare avanti. Ha una relazione problematica con Isabelle Ardery, il suo superiore, ed ovviamente non ha ancora superato il grande dolore. Le cose non sono destinate a migliorare quando Linley viene coinvolto dal sovrintendente Hilliard in un’indagine ufficiosa di cui nessuno deve sapere niente: anche Isabelle dovrà essere tenuta all’oscuro, e non ne sarà molto soddisfatta. Bernard Fairclough, ricco baronetto titolare di una florida impresa, si è rivolto ad Hilliard per risolvere un problema famigliare ed il sovraintendente non ha esitato a scaricare la faccenda sulle spalle di Linley, particolarmente adatto a valersi di acume quanto di discrezione. Linley vorrebbe evitare di venir trascinato in un’indagine i cui risultati potrebbero poi essere occultati (perché questo è in fondo il nocciolo della questione), però non può rifiutare un ordine diretto. Parte così per la Cumbria e la Regione dei Laghi, dove vivono i Fairclough; lo accompagnano gli amici Deborah e Simon St. James: in mancanza di aiuti ufficiali, saranno loro ad affiancarlo nell’indagine, e in ogni caso l’abilità di Simon come esperto forense potrebbe essere preziosa. Il problema su cui indagare è un presunto omicidio: Ian Cresswell, nipote di Bernard e amministratore della sua industria, è morto battendo la testa sul molo della rimessa per le barche, al ritorno da un’escursione sul lago. Pare che l’uomo sia scivolato su di una pietra malferma, e l’inchiesta ha stabilito che si è trattato di un incidente. Bernard Fairclough però vuole accertarsi se sia davvero così, o se si debba invece cercare un responsabile. Teme possa trattarsi di un membro della famiglia, e più precisamente di suo figlio Nicholas, un ex drogato sulla via della redenzione, sospetto a causa del turbolento passato e della probabile rivalità con Ian. In famiglia quasi tutti avrebbero avuto un movente per la morte di Ian: la vendicativa moglie Niamh, da lui abbandonata per un uomo, il bellissimo Kaveh, di origine irachena; lo stesso Kaveh, che eredita la fattoria in cui entrambi vivevano e che ora è libero di farsi una vita “normale” che soddisfi i suoi tradizionalisti genitori; la figlia minore di Bernard Fairclough, Mignon, finta disabile e vera ricattatrice, alla quale Ian intendeva tagliare i viveri; l’altra figlia Manette, che continua ad abitare sotto lo stesso tetto con il marito Freddie dal quale ha divorziato e che vorrebbe affiancare il padre in maniera più diretta; e poi Valerie, la moglie di Bernard: ufficialmente è stata lei a trovare il cadavere, ma nella sua deposizione ci sono alcune incongruenze. Persino Tim, il figlio di Ian, un quattordicenne infelice e disturbato, non sarebbe impossibile come colpevole, se si considera il rapporto conflittuale che aveva sviluppato con il padre a causa della sua sessualità. Insomma, le possibilità non mancano, però l’indagine di Linley non fa che rafforzare la tesi dell’incidente: la morte di Ian è conveniente per molte persone, ma nessuna di esse l’ha provocata. Mentre Deborah trova una dolorosa affinità con Alatea, la moglie di Nicholas, che come lei non può avere figli e sta cercando modi alternativi per diventare madre, l’indagine di Linley porta comunque allo scoperto tutti i segreti della famiglia Fairclough, nonché dei veri motivi per cui è stato richiesto l’intervento di Scotland Yard (di cui ovviamente taccio). Siamo come al solito nella migliore tradizione dello stile caro ad Elizabeth George, alla quale non dispiace certo rimestare nel torbido e riesce a tirar fuori una corposa accozzaglia di misfatti assortiti. Insomma, al solito, secondo me i suoi romanzi sono a volte un po’ lunghi, forse ingiustificatamente. Certo, lei si lascia andare seguendo la vicenda principale e poi tutte le secondarie (Tommy e Isabelle, Deborah e Simon, Barbara ed il simpatico vicino di casa), facendoci sentire quasi a casa. Però si perde di vista lo scopo principale dello scrivere. Ed alla fine si aspettano le ultime pagine (o forse le prime del romanzo successivo).
Anne Perry “Congiura a Buckingham Palace” Mondadori euro 4,90
[A: 08/11/2013– I: 28/10/2014 – T: 31/10/2014] - &&&
[tit. or.: Buckingham Palace Gardens; ling. or.: inglese; pagine: 270; anno 2008]
Passiamo all’altra e più lunga serie scritta dalla strana scrittrice inglese di cui ho già parlato a lungo. Quella “borghese”, di cui questo è il 25° episodio. Ed anzi, qualcosa in più di borghese, visto che ci aggiriamo non in un posto qualsiasi, bensì nei Giardini Reali del Palazzo di Buckingham, residenza ufficiale dei reali inglesi. Piccolo inciso, il titolo inglese, come spesso nella Perry, si riferisce ad un luogo, in genere teatro degli avvenimenti (giardini, ma anche dentro il Palazzo stesso). I nostri esimi traduttori devono far colpo, devono vendere, ed aggiungono quel “congiura” che serve da specchietto per le allodole, ma serve soprattutto a svelare molto del libro stesso, in un certo senso anticipandone gli esiti finali. I quali, come spesso ho detto tramando i libri della Perry, sono spesso un po’ affrettati (ricordo che spesso ho ipotizzato, a torto, che fossero addirittura tagliati dagli editor italiani), mentre a volte avrebbero diritto ad un respiro più ampio. Ed anche questa volta, mi rimane un piccolo dubbio latente, ma andiamo con ordine. L’ispettore Pitt, questa volta, è chiamato, insieme alla Sicurezza Nazionale, poiché c’è una ragazza morta a… Palazzo Reale. C’era una riunione d’alto livello, organizzata per convincere il Principe di Galles, futuro re Giorgio V, ad appoggiare il progetto di una ferrovia da Città del Capo al Cairo. Progetto spinto dal sig. Dunkeld, ed appoggiato dal genero, dal fratellastro del genero e da un ingegnere tra i migliori del regno. Dopo una cena con le mogli, i quattro ed il principe fanno venire tre escort (si direbbe ora), una delle quali non esce vive dal palazzo. Poiché è in gioco l’onorabilità dell’Impero, Pitt per indagare si trasferisce a Palazzo, dove introduce come aiuto la sua domestica Gracie. L’abilità della Perry è trasformare questa sorta di “delitto in una stanza chiusa”, in un romanzo che tocca quasi le 300 pagine, riuscendo ogni volta ad introdurre elementi di disturbo che rendono sempre più difficile arrivare alla soluzione. Innanzi tutto, è il luogo stesso che rende difficili le indagini, essendo impossibile, per ragioni di etichetta, interrogare il principe ereditario. Poi, i quattro sono accompagnati dalle mogli, ed anche qui la Perry ci presenta notevoli problemi di etichetta. Riuscendo tuttavia ad intrecciare una complicata rete di rapporti. La moglie di Dunkeld è stufa del marito (che mira solo ad un titolo nobiliare ed alla ferrovia), e sembra presa da Julius, il genero. Minnie, la figlia di Dunkeld, poco più giovane della seconda moglie, è molto farfallona, e pare abbia un debole per il fratellastro del marito. Solo l’ingegnere con la moglie sembrano fuori da giochi, ma sembrano anche aver paura di tutto, anche perché Liliane è figlia di un grande esploratore, messo fuori gioco da Dunkeld, perché si occupava di navi e non di treni. Il delitto è inoltre avvenuto in un’ala del palazzo dove potevano accedere solo loro otto. Gracie, muovendosi tra la servitù e con più libertà di Pitt, riesce a tirare fuori interrogativi strani: nella stanza dove è rinvenuto il corpo c’erano lenzuola macchiate di sangue con lo stemma reale, nella cantina trova delle bottiglie di Porto che invece di vino avevano contenuto sangue, e c’è un piatto di Limoges misteriosamente distrutto, ed altrettanto misteriosamente ricomparso. Infine Dunkeld aveva ricevuto una cassa probabilmente contente libri durante la notte fatale, portata da un misterioso vetturino, che la porta poi rapidamente via e scompare. Poiché i sospettati sono solo gli ospiti di cui sopra, ovviamente sale la tensione, e anche piccoli accadimenti acuiscono l’atmosfera. Dunkeld, mai convinto di Julius, sembra far di tutto per incolparlo, e Minnie si muove per trovare prove contrarie. Le avrà sicuramente trovate, che anche lei viene uccisa, con le stesse modalità della escort. Tutto converge su Julius, ma Elsa Dunkeld confida a Pitt che un piatto simile a quello rotto era nel bagaglio del marito. Dopo pagine e pagine di elucubrazioni, di sensazioni, di pranzi ufficiali, di etichette rispettate o violate, ci si avvia rapidamente verso la conclusione. Dunkeld, come sospettavamo dall’inizio, è l’artefice del tutto. Volendo legare il principe al progetto, lo fa ubriacare e, una volta svenuto, fa fuggire la escort, sostituendola con un cadavere procuratogli dal vetturino. Poi fa di tutto per incolpare Julius al posto del principe che pensa essere stato lui ad operare il misfatto. Quando Minnie lo affronta, lui, violento, la sbatte a terra, e questa, cadendo male, purtroppo muore. Tutto però potrebbe essere messo a tacere, non potendo imbastire un processo che coinvolgerebbe il principe. Pitt ha il colpo di genio, però, di incolpare Dunkeld non di assassinio, ma di alto tradimento, dove sarà giudicato e condannato a porte chiuse. Tutto sembra finito, ma Pitt non si capacita del vetturino, ed in una veloce indagine, scopre non essere altri che l’esploratore di cui sopra, che faceva di tutto per sabotare il progetto. Queste sono le veloci pagine finali, dove si arriva ad arrestare tutti i colpevoli, e tutto finisce in gloria per Pitt. Ma la Perry non ci spiega come mai Dunkeld abbia chiesto aiuto per il ricatto ad una persona che sapeva essere sia contro il progetto sia contro di lui. Nonostante questa piccola flessione nella costruzione del racconto, il testo fila. E fila la descrizione del mondo alto borghese londinese che si muove intorno al 1880 (datazione che desumiamo dalla vedovanza della regina Vittoria e da altre letture che sto facendo sulle tradizioni inglesi dell’Ottocento e di cui prima o poi vi parlerò).
Come detto è una fine, ma prelude ad un altro inizio. Un 2015 che inizierà con qualche lettore in  più, e con un viaggio immediato, un ritorno in India di “fosteriana” memoria, e, si spera, di altrettanta lucida bellezza. Ora tutti accomunati in un grande abbraccio, ed in una grande e fattiva attesa ai festi indubitati che ci porterà il Nuovo Anno, noi, come diceva il buon Dalla, ci stiamo già preparando. 

giovedì 25 dicembre 2014

Noël - 25 dicembre 14

Perché per Natale vi porto un quartetto francese, con due dei miei autori culto, Schmitt e Orsenna, e due “outsider”: Guenassia di cui avevo letto in libreria e che finalmente ho preso e letto, ed una nuova autrice presa a scatola chiusa, che ha fatto una buona riuscita. Anche se il libro sugli incorreggibili ottimisti, benché un filo lungo, si colloca ben sopra gli altri.
Jean-Michel Guenassia « Le club des incorrigibles optimistes » Livre de Poche euro 9,50
[A: 19/06/2013– I: 30/07/2014 – T: 05/08/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 731; anno 2009]
Un altro dei libroni estivi, molto pieno di avvenimenti, molto pieno di idee, ma, d’altra parte, con una linea di scrittura facile da seguire. Non conoscevo l’autore, ne avevo visto il libro nelle librerie italiane da diversi anni reclamizzato. E preso per festeggiare i 60 anni delle edizioni “Livre de Poche”, nella bellissima libreria francese dietro Piazza Navona. Ho solo faticato a decidermi alla lettura, un po’ spaventato dal numero di pagine. Alla fine, devo dire che è un libro che mi ha preso, per quell’aria di ottimismo e pessimismo che ha l’autore (e che rispecchia i miei sentimenti paralleli alle stesse età del protagonista). Per quel mescolare storie e Storia. I critici ben pensanti parlano di libro sui tradimenti. Ed è vero che molti sono i tradimenti incrociati delle storie che si dipanano lungo le pagine. A volte, però, c’è solo una difficoltà di vivere ed anche di capire i propri obiettivi. All’inizio mi aveva anche frenato lo stesso protagonista, che seguiamo dal 1959, quando ha 12 anni, sino al 1964, quando ne avrà 17 ed avrà passato l’esame di maturità al Liceo Henry IV, una delle istituzioni liceali parigine. Mi sembrava di non poter entrare in sintonia con lui. Errore. Perché ben presto ci si scorda dell’età, se non quando commette qualche stupidaggine forte. Michel è un tipo isolato, appassionato di lettura (e già lo amo) e di biliardino (che ho scoperto, in francese, chiamarsi “baby-foot”). Passa le sue giornate leggendo mentre cammina (e lo capisco, soprattutto quando divide gli autori tra quelli che ti fanno arrivare in tempo e quelli che ti fanno arrivare in ritardo, che sei troppo preso dalla lettura). E quando non cammina, le passa in un ritrovo, il Balto, dalle parti di Denfert-Rocherau. Dove è anche pronto a sentire le accese discussioni del fratello maggiore Franck e del suo amico Pierre. Che decideranno di partire per l’Algeria, dove comincia la famosa guerra (una di quella che ha lasciato il segno alla Francia intera), pronti ad impegnarsi in prima persona per fare la Rivoluzione. Un mito che Michel scopre presto nel retro bottega del Balto, dove, per giocare a scacchi, si riuniscono fuorusciti di tutti i paesi. Ma soprattutto dell’Est, dalla Russia, dalla Polonia, ed altre zone oltre cortine. Tutti avevano lasciato le famiglie e il loro paese in circostanze drammatiche e incredibili. Ma, non hanno mai parlato e ci vorrà del tempo per Michel per ricostruire i pezzi del puzzle della loro vita. Qui l’autore immette anche un po’ di storia incrociata, facendo frequentare gli scacchi anche a Sartre e Kassel. Perché questo è il “Club degli Inguaribili Ottimisti”, cioè dei comunisti duri e puri, che, benché scacciati e schiacciati, pensano sia sempre possibile una fine rivoluzionaria positiva. Ma anche lo specchio del mondo, che quando scopriremo le loro storie, appunto scopriremo la vita ed i suoi tradimenti quotidiani. E Michel si troverà ora, e sempre, di fronte al dilemma del rovescio della medaglia del tradimento: il perdono. Dramma insormontabile, che Michel affronta con le armi in suo possesso: libri, macchina fotografica, e poi l’amore. Ma solo due su tre sopravvivranno alla fine di tutte le storie. Che coinvolgono poi Cecilie, la sorella di Pierre, che ama Franck. Pierre che muore in Algeria. Franck che sposa una donna algerina, diserta l’esercito e vivrà per tanti anni alla macchia. C’è anche la famiglia di Michel, i Marini, da parte di padre, comunisti fuggiti dal fascismo, e i Delaunay, da parte di madre, proprietari dell’azienda che sostiene la famiglia. La madre è un’arpia che frequenta solo seminari di gestione aziendale, mentre il padre, un bravo ragazzo che non avrebbe mai dovuto sposare la figlia del boss, è solo capace di imitare Jean Gabin. Anche questo scontro sarà interessante, tra i comunisti ed i gollisti separati in casa. Alla fine, o meglio all’inizio perché il libro è un lungo flash-back, troviamo Michel che partecipa ai funerali di Sartre (e siamo quindi nel 1980). Dove si domanda se si avesse ragione ad essere ottimisti. Dove fa ancora delle bellissime foto, che poi sono quelle che gli danno da vivere. E dove ripensa a tutta la sua giovinezza, che poi ripercorreremo anno dopo anno. Ci sono tante altre cose, nelle più di 700 pagine, che tuttavia tralascio, ma che vi invito a leggere. Non che sia tutto eccelso, non che sia tutto indimenticabile. Ma  pone la domanda cardine dei nostri anni che passano. Fare quello che abbiamo fatto era giusto? Potevamo fare altro? Saremmo ora diversi se lo avessimo fatto? Io sono conscio, e questo libro me lo conferma, di aver fatto delle stupidaggini. Ma sono contento di averle fatte e di essere quello che sono.
« Lire et aimer le roman d’un salaud n’est pas lui donner une quelconque absolution, partager ses convictions ou devenir son complice, c’est reconnaître son talent, pas sa moralité ou son idéal. » [Leggere e amare il romanzo di un autore bastardo non è dargli una qualche assoluzione, condividere le sue convinzioni o diventare suo complice, è solo riconoscere il suo talento, non la sua moralità o i suoi ideali.] (52)
« Aujourd’hui, on se parle et on ne se dit plus rien. » [Oggi ci si parla e non ci si dice più nulla.] (63)
« Tu n’as pas besoin d’être aimé pour aimer. » [Tu non hai bisogno di essere amato per amare.] (433)
« Quand on a fait une connerie, on ne la rattrape jamais. Il faut aller jusqu’au bout en espérant qu’on aura un peu de chance pour s’en sortir. Sinon, tu payes deux fois. Pour la connerie et pour avoir essayé de t’en sortir. » [Quando abbiamo fatto una cazzata, non si rimedia mai. Bisogna andare fino in fondo, sperando di avere un po’ di fortuna per uscirne. In caso contrario, si paga due volte. Per la cazzata e per aver cercato di rimediare.] (474)
Éric -Emmanuel Schmitt « Le sumo qui ne pouvait pas grossir » Livre de poche euro 4,90
[A: 17/08/2014– I: 18/08/2014 – T: 18/08/2014] - &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 82; anno 2009]
Éric-Emmanuel Schmitt è un altro dei miei autori – culto, dopo che lo scoprì anni fa in quel delizioso pezzo teatrale di « Piccoli crimini coniugali ». L’ho quindi seguito nella scrittura, e soprattutto in questa costruzione strana, libro dopo libro, dell’universo dedicato alla religione ed alla riflessione. Universo che lui racchiude con il grande sovra-titolo “Il ciclo dell’invisibile”, dove, prima di questo libretto, sono usciti, ho letto, e tramato “Milarepa” (sulla filosofia tibetana), “Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran” (l’slam, e ricordate tutti il bel film con Omar Sharif), “Oscar et la dame rose” (il cattolicesimo) et “L'Enfant de Noè” (l’ebraismo). Con questo ennesimo, ma non ultimo,  libricino, l’autore ci porta nel cuore del buddismo zen. E lo fa sempre con lo stesso stile degli altri. Mettendo in scena un ragazzo di fronte a problemi della vita. Che affronterà e risolverà utilizzando gli strumenti che gli mette a disposizione la religione, la filosofia di vita di cui si sta narrando. Qui abbiamo il quindicenne Jun che scappa da casa, dove il padre si era suicidato per il troppo stress lavorativo, e la madre, un angelo, tratta tutti dolcemente ma a lui sembra non pensarlo. Si ritrova a Tokyo a fare il venditore di bambole para-pornografiche, vivendo alla giornata. La svolta è l’incontro-scontro con un maestro di sumo che lo blandisce dicendo di vedere in lui un lottatore, benché sia scheletrico. Dopo una serie di vicissitudini poco importanti, Jun si convince ad interessarsi al sumo. Ho avuto a questo punto un avvicinamento anche mio personale a questo mondo che pensavo fosse solo frequentato da ciccioni ultra-centenari (di peso). Ed ho scoperto che, in realtà, è proprio un mondo completo. Ed alla fine non mi ha più meravigliato che il sumo sia in realtà LO sport giapponese. Pieno di ritualità, come tutte le cose nipponiche, ma anche, e soprattutto, di filosofia. Certo, il sumo classico è intrinsecamente scintoista, religione madre colà, ma il maestro di Jun è invece un buddista zen. Ed utilizza questo modo di vivere per avvicinarsi a Jun, e per portarlo, passo dopo passo, a ragionare. A ragionare sulla sua impossibilità di ingrassare (in effetti, non si è mai visto un sumotori magro), in gran parte dipendente dalla non accettazione di sé da parte di Jun, in particolare rispetto alle vicende paterne. Paura di assumersi responsabilità che, se troppe, rischiano di schiantare una persona. Comincia quindi per Jun il periodo di acquisizione di massa muscolare, più che di grasso. E di affrontare le tecniche di combattimento (anche qui, un ulteriore grazie a Schmitt per la sua chiarezza nel semplificare e rendere accessibile questo modo di lottare). Passa qualche anno, Jun, inserito nella squadra di allievi, cresce in tecnica e capacità. Si innamora anche della sorella di un grande campione. Ma non riesce a dare una svolta positiva a tutto questo lavoro. Saranno le belle pagine, inserite in un colloquio con il maestro mentre si medita in un giardino zen, a dare a Jun gli ultimi elementi della filosofia e la capacità di affrontare tutto. Ed in particolare sé stesso. Per riappropriarsi dell’affetto materno che è sì un angelo, ma solo perché affetta dalla sindrome di Williams, una malattia cromosomica che rende la persona molto aperta agli altri, ma con dei grossi deficit di apprendimento (tanto che la madre di Jun è analfabeta, e per comunicare con il figlio invia delle lettere piene di oggetti significanti). Essendo una favola, fortunatamente, tutto finisce in modo positivo. Jun sale sul dojo, combatte e vince. Ma non farà il sumotori a vita. Anzi lascerà la scuola del maestro ed accetterà la vita con Reiko, decidendo con lei anche di fare figli, cosa che aveva sempre negato proprio per la storia genitoriale avuta alle spalle. Allora, è certo una favola (quante volte l’ho detto), ma Schmitt ha la capacità, come in quasi tutte le altre storie degli Invisibili (a parte la prima di Milarepa, che mi ha lasciato un po’ sconcertato, e che non ho capito fino in fondo) di semplificare e rendere accessibile l’Invisibile di cui sta trattando. Come in questo caso il buddismo zen, l’aspettazione verso la vita, ma soprattutto la ricerca verso di sé intrinseca in questo modello di vita. Manca forse una certa tensione nel racconto, scorrendo probabilmente in modo troppo lineare, ma si legge con piacere. E, come gli altri Invisibili, pone domande. Alle quali la vita che ognuno di noi vive risponde, secondo le proprie capacità ed il proprio modo di vivere.
“Tu penses trop car tu interposes de la pensée antre le monde et toi … tu projettes des idées préconçues davantage que tu ne saisis les phénomènes.” [Tu pensi troppo, metti troppi pensieri tra te e il mondo … tu ti prefiguri idee precostituite prima di cogliere i fenomeni che accadono.] (46)
“J’ai dit que c’était possible, pas que c’était facile.” [Ti ho detto che era possibile, non che era facile.]  (59)
“Le but, ce n’est pas le bout du chemin, c’est le cheminement.” [Lo scopo non è la fine del cammino ma il percorso effettuato.] (77)
Érik Orsenna « La Chanson de Charles Quint » Livre de Poche s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 17/08/2014– I: 21/08/2014 – T: 23/08/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 185; anno 2008]
Ho sempre un debito con Orsenna per le sue bellissime favole sulla grammatica francese (“La Grammaire est une chanson douce”, “Les Chevaliers du Subjonctif” e “La Révolte des accents”). In attesa di trovare quella sulle virgole, sono quindi passato a farmi regalare uno dei libri del versante “più serio” (e lo metto virgolettato, perché a me sembrano tutti i suoi libri seri e degni di lettura). Di questo, poi, mi era rimasto nell’orecchio un eco di qualche anno fa, relativo alla voglia, necessità, o altra urgenza dedicata al muoversi, allo spostarsi. Quanto mai appropriata per una persona irrequieta come me. E c’è questa eco, ma compare chiaramente solo verso la fine, dopo un libro dedicato a molto altro. Un libro anche molto personale (credo ci siano spunti notevoli di mémoir, anche se non ho interesse ad approfondirli in tal senso), dolente spesso, con spunti di notevole riflessione. Intanto, nonostante il titolo parzialmente fuorviante, non è un libro storico dedicato alla figura di Carlo V (o Carlo I o uno dei tanti nomi reali che questo sovrano europeo indossò nei suoi cinquant’anni di vita). Se non anche qui come spunto: per il fatto che il sovrano passò più di metà della sua vita in giro per l’Europa, e per quei versi, poi messi in musica (ecco la canzone), intitolati “Mille rimpianti” e che sotto riporto. Ma la storia, il nodo del romanzo è appunto ancora un altro, e bifronte: il rapporto tra due fratelli e quello tra due innamorati. Sul filo di queste due lame scorre la memoria di Érik: due fratelli completamente diversi, fortemente complementari, ed “invidiosi” l’un l’altro della tipologia di vita che perseguono. Il maggiore, vagabondo, giramondo, dedito alla scrittura (e soprattutto di storia e storie), sempre alla ricerca del “grande amore”; che trova per un istante, per un mese, mai per sempre. Come invece trova il minore, legatosi alla donna che ama di un amore totale, unico, definitivo; ed anche lui legato alla parola, avendo scelto di fare lo psicologo. Ed ognuno invidia qualcosa dell’altro: il maggiore, appunto, l’amore unico, il minore quel girare ovunque, quel non fermarsi mai, sempre affamato di nuove storie da sentire, da pensare, da rimandare. Il maggiore, poi, ha anche il lato “amore” che anche se non definitivamente unico, lo lega ad una persona meravigliosa per quattro anni, alla fine dei quali l’amata muore di cancro. Qui c’è appunto l’altro filone di scrittura. La ricerca, fuori di sé prima, e dentro di sé, poi, dell’amore morto. Con quella domanda, definitivamente laica, su dove sia la sua donna morta ora che è morta. Certo questa parte, pur interessante, e piena (e si sente) di tanto amore, è forse quella che mi ha coinvolto meno, con tutto quell’andare di paese in paese, per cercare gli usi e costumi verso le persone che ci lasciano. Egizi, cinesi, maya, tibetani. Tanti modi di ricordare, di pensare i nostri cari che vanno. Orsenna tralascia, volutamente credo, modalità occidentali, o comunque monoteiste verso questa problematica. Noi (io) lo recuperiamo quando comprende (ed io lo so) la vicinanza interiore con i partenti (e con color che son partiti). Chi ci lascia un segno indelebile, lo ritroveremo sempre dentro la nostra memoria, pronto a dialogare silenziosamente con noi. E dove la nostra onestà ci porterà sempre a non barare con loro. Rimangono due ultimi punti da toccare prima di chiudere la trama. Il rapporto dei fratelli con i genitori, che riempivano di musica la loro infanzia (e qui si chiude il cerchio con la canzone del titolo), forse perché incapaci di dialogare tra loro. Ma questa musica rimane come un sottofondo ai nostri eroi, che di converso, saranno sempre pronti a parlare, istituzionalizzando queste chiacchiere in una cena mensile nella quale sempre confrontano le loro esistenze. E poi quello spostarsi che citavo all’inizio. Con una difficoltà a rinchiuderlo in una parola. Errance, come si dice in francese, ne peggiora la sensazione, così come l’italiano vagabondare. Orsenna prova, e noi proveremo con lui, ad utilizzare lo spagnolo “andanza”, che ha sempre lo stesso significato di muoversi da un posto all’altro, ma contiene quell’inciso di “danza” che ne mitiga e forse rallegra il senso. Tanto che anch’io, ora, vorrei riprendere “las andanzas” che mi hanno portato in giro per il mondo. Un ultimo accenno di gratitudine poi all’uso del francese di Orsenna, sempre pulito, sempre perfetto, sempre utile a tirar fuori il meglio della frase (come là dove cita e contrappone “fantasme” e “fantôme”, facendoci riflettere sui falsi amici linguistici).
“L’amour juge, tandis que l’amitié absout.” [L’amore giudica mentre l’amicizia assolve.] (163)
“L’andanza est … la seule manière possible de vivre.” [L’andanza … è il solo modo possibile di vivere.] (178)
« Ce sont amis que vent emporte / et il ventait devant ma porte / les emporta. » [Sono amici che il vento si porta / c’era vento di fronte alla mia porta / e li portò via.] (182) [Una piccola appendice musical-storica: questa, appunta, la canzone che piaceva a Carlo V, sui versi del poeta duecentesco Rutbeuf, ascoltata dall’autore cantata da Cora Vaucaire, detta “La Dame Blanche de Saint-Germain-des-Prés", grande interprete delle canzoni di Jacques Prévert, di cui, per prima, incise nel 1947, “Les feuilles mortes”. E potrei continuare con citazioni e ricordi ma mi fermo qui.]
Julie Bonnie “Chambre 2” Pocket euro 6,20
[A: 17/08/2014– I: 23/08/2014 – T: 25/08/2014] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 178; anno 2013]
Ecco qui, cotto e mangiato, uno dei tre libri reduci della Francia agostana. Ultima scelta, per completare il trittico, preso senza conoscere l’autrice, solo perché, girando per il FNAC de Les Halles di Parigi, ne avevo visto la pubblicità come opera avente ricevuto il premio FNAC per il romanzo nel 2013. E l’ho affrontato non spendo altro dell’autrice, né del contesto del libro stesso. Alla fine, pur non essendo un libro di riuscita eccelsa, è risultata una lettura interessante, con alcune punte di piacere letterario, ed alcuni punti interrogativi finali, su cui torneremo. E solo a posteriori, ho scoperto che a) Julie nasce come cantante e musicista (violinista in particolare) e b) dopo 15 anni di carriera Julie si era presa una pausa lavorando come puericultrice in un reparto maternità. Questi due elementi sono poi ben presenti nel libro, ingigantiti, travisati, sognati e rivissuti, così come deve essere in un romanzo che, partendo dal personale, cerca, prova una descrizione del reale, instillando domande nel lettore. Sulla maternità, certo, che è un punto nodale del romanzo, ma anche sulla musica, sulla vita errabonda, sul rapporto tra gli amanti, e su quello con i figli, modificantesi negli anni, come ognuno di noi ben sa (siamo noi stessi genitori, quando capita, ma sicuramente perché siamo figli). Julie narra la sua storia per salti temporali, andando avanti ed indietro nel tempo, come spesso accade nei romanzi moderni, così che scopriamo la personalità e la persona stessa della protagonista, Béatrice, poco alla volta. Ma qui si trama, ed allora ne tracciamo un filo meno contorto. Béa fugge da casa sedicenne alla ricerca “della vita”. Che trova, dopo qualche falsa partenza, aggregandosi ad uno strano gruppo musicale, composto da Gabor al violino e Paulo alla batteria. Il sogno di Béa è la danza, e la musica dei due scatena la sua capacità di calcare le scene. E con loro comincia a girare la Francia e l’Europa, comunicando con la danza le sue sensazioni, spesso danzando nuda o quasi. Ed aggregando al gruppo stesso, errante e sconclusionato, la coppia gay di Pierre e Pierre. Si mette con Gabor, fa una figlia che chiamerà Norma, come il vero nome di Marylin. Ci sono anche momenti neri, quando il suo secondo figlio nasce morto (e sono tutti fantasmi che ritroverà più tardi). Poi viene un terzo, Romeo. Ma i gay prendono l’AIDS, e si si tolgono la vita gettandosi con la macchina contro un albero. Questo segna la fine della vita errabonda. Il gruppo non ha ingaggi, Béa ritorna stabile a Parigi e diventa puericultrice in un ospedale. Ma Gabor non è fatto per la vita ferma, e dopo poco parte per non tornare più. Quando incontriamo Béa sono più di dieci anni che fa questo lavoro, e la seguiamo, mentre fa il giro delle camere con le puerpere, le partorienti, ed altra umanità maschile e femminile. Ed anche se fa questo mestiere per sopravvivere, non è “la sua vita”. È spesso empatica con le future o le appena mamme, soffre quando i piccoli hanno problemi. Non è organica all’ospedale, né soprattutto ingrana con le ostetriche. I piccoli racconti, di camera in camera, sono degli assaggi di momenti belli e brutti che la maternità offre: parti difficili, madri che rifiutano la maternità, madri che vorrebbero allattare e non ci riescono, madri che hanno latte ma non vogliono allattare. Fino a tutti quei momenti, di un dolore lancinante, quando c’è un aborto (spontaneo o volontario) o quando, nonostante tutte le attenzioni, il piccolo non ce la fa. Pur essendo uomo, questi momenti mi fanno ogni volta accapponare la pelle. Come la storia della camera del titolo, dove la madre deve partorire due gemelle, ma solo la prima sopravvive. E la madre entra in uno stato catatonico, da cui non uscirà per tutti e dieci gli anni che ci racconta Béa. Solo alla fine, e non vi dico perché, esce dal coma, ed abbracciata a Béa muore. La nostra viene anche accusata di omicidio (ma così non è). Però sarà la molla che la farà uscire dal purgatorio dell’ospedale, per riprendersi una qualche vita. Senza Gabor (ovviamente), con Norma che ora fa la barista in un night bar, e Romeo che suona la chitarra ed ha le tendenze vagabonde del padre. E noi non lo sapremo, ma come nei bei romanzi, ci piace immaginare e proseguire nella storia. Anche se questo è uno dei punti interrogativi di cui sopra. Gli altri sono legati alle maternità, al ruolo della madre nel parto, a quello del padre, prima, durante e dopo. Julie ce ne presenta alcuni campioni estremi (che la normalità non fa storia) ma mettere al mondo figli è sempre un argomento di grande intensità. Di grande dolore. Ma anche, spesso ed il più delle volte, di grande piacere e di grande costruttività. La scrittura non sempre tiene il passo della tensione narrativa, ma il libro ha una sua identità. E non è poco.
“Comment vivent les gens qui n’ont pas peur?” [Come vivono le persone che non hanno paura ?] (54)
“On n’est seul que dans sa propre tête” [Si è soli solo nella propria testa.] (159)
“Chaque être humain se croit plus malin que l’autre, et sa propre vie lui importe plus que toutes les autres, aussi dérisoire et minable soit-elle” [Ognuno pensa di essere più furbo dell’altro, pensando alla propria vita come più importante delle altre, per quanto possa essere ridicola e patetica in sè.] (167)
Cecando di smaltire le decine di trame accumulate, vi riempirò di scritti Natale e Capodanno. Tanto poi sapete (e se non lo sapete ve lo dico), che a gennaio si riparte per un’avventura indiana. Ed allora, per ora Buona Natale a tutti 

lunedì 22 dicembre 2014

Dall'Est al Nord - 21 dicembre 2014

Titolo semi-geografico e semi-letterario. Che da poche ore sono tornato da un bello ed appagante viaggio in Vietnam (EST) e mi accingo a condividere con voi 4 autori scandinavi (NORD). Due svedesi, con una nuova e non esaltante puntata della saga di Fjällbacka e con al contrario una decisa ed interessante riproposizione dell’ambiente del commissario Van Vetereen. L’islandese è il solo che conosco, ma qui è altalenante. Mentre sono dispiaciuto del norvegese Nesbø che mi sembra stia in calando con il suo Harry Hole.
Camilla Läckberg “L’uccello del malaugurio” Marsilio s.p. (regalo collettivo Almaviva 2013)
[A: 07/05/2013 – I: 08/06/2014 – T: 11/06/2014] - && e ½  
[tit. or.: Olycksfågeln; ling. or.: svedese; pagine: 460; anno 2006]
Dicevo più o meno un anno fa, nella trama del terzo libro della saga di Fjällbacka che nell’ultima pagina vedevo bene un “continua…”. Ed in effetti, ecco il seguito e quarto episodio. Sappiamo anche, perché giriamo in libreria, che ne sono usciti poi un quinto ed un sesto. Che non abbiamo ancora né abbiamo letto, ma se continuano su questa falsariga poco ci fanno sperare. Il primo libro fu bello e sorprendente, il secondo calò in basso di molto, e il terzo risalì un po’ la china. Questo invece continua a scendere. Certo, Camilla è brava a tenere in piedi tutti i personaggi della cittadina svedese, li riprende, li fa evolvere. Ma è altrettanto vero che la tensione verso il giallo è ridotta ai minimi termini, tanto che, salvo piccoli aggiustamenti in corso d’opera, il nucleo principale del mistero lo immaginiamo già dopo le prime 100 pagine. Ed è un po’ presto, per un libro di quasi 500! Intanto, come detto, il libro si fa sempre più corale. Non c’è solo Erica al centro della scena. Anzi, qui è molto defilata. Anche se per tutto il libro assistiamo ai preparativi (finalmente) delle nozze tra lei e Patrick. Il quale diventa il vero perno, almeno dell’indagine e del tirare le fila. Indagine che nasce dalla morte di Marit, la donna che abbiamo seguito in precedenza lasciare il marito ed andare a convivere con Kerstin, l’amica che la consola dalla dura vita avuta finora con il rozzo Ola. Sembra un banale incidente d’auto dovuto ad un alto tasso alcolico. Peccato che Marit sia astemia. Per creare un po’ di confusione nella tranquilla vita cittadina, la nostra scrittrice da un lato ci fa seguire la rinascita di Anna, la sorella di Erica, che uccise il marito per legittima difesa, ed ora, dopo un lungo periodo buio, sembra cominciare a riprendere gusto alla vita. Aiutata da Dan (un amore giovanile di Erica) che nel frattempo si è separato dall’odiosa Priscilla. Dall’altro fa irrompere nella tranquilla cittadina una banda di reality show svedese. Non è “Il grande fratello”, non è “L’isola dei famosi”, ma un sottoprodotto intitolato “Fucking qualcosa”. Dove il qualcosa è di volta in volta una cittadina svedese, e il primo termine si riferisce a catapultare nella suddetta cittadina cinque – sei ragazzi disadattati, riempirli di birra, e riprendere i casini che fanno. Romanzo nel romanzo, questo dà dei piccoli spunti interpretativi sull’attuale realtà svedese (ed è forse la parte a volte interessante del libro, almeno sociologicamente nuova, anche se non riuscita completamente). Terzo elemento di disturbo, la sostituzione del poliziotto incapace della terza puntata con una poliziotta rampante, tal Hanna, che si sposta continuamente di distretto in distretto negli ultimi anni, con al seguito un tal Lars con il quale ha uno strano rapporto. Intanto, viene uccisa uno dei personaggi del reality. E Patrick, invece di pensare alle nozze, deve seguire due inchieste. Anche perché il suo capo, che in genere delega allegramente, questa volta delega di più, essendosi innamorato di una signora (che qui lo dico e poi non ci torno, mira solo ai suoi soldi e riuscirà ad averli, con grande scorno del poliziotto). Altro elemento strano della morte di Marit è poi la presenza di una pagina di un libro per ragazzi “Hänsel e Gretel” (a proposito, ve la ricordate, la favola? E se ve la ricordate, già avete risolto molti misteri). Ricerca a tappeto in tutta la Svezia, e sbucano cinque – sei casi di morti sospette, tutte con una pagina del libro. Uno dei poliziotti del dipartimento scopre inoltre casualmente un nome in controluce su di una pagina. Da quello si risale ad una prima donna morta in un incidente stradale, dove sono coinvolti due gemelli. Che però non erano figli suoi, ma di un’ubriacona che vive poco distante da Fjällbacka. Inoltre, il primo morto risulta essere il padre della concorrente del reality uccisa. Che all’epoca aveva dieci anni, ma che vide probabilmente l’assassino. Tutto si collega. E Patrick, mettendo i vari morti sulla mappa della Svezia ha un’intuizione fulminante: è un percorso che aveva già notato leggendo… Non vi posso dire tutto, no. Leggetene un po’, visto che siete a rilento con le letture (oppure cercate di indovinare, che vi ho dato tutti o quasi gli indizi). Comunque, alla fine Patrick ed Erica finalmente si sposano. E mentre rovistano in soffitta, trovano un vecchio baule della madre di Erica ed Anna che contiene … Mi sa che se ne parlerà, nel caso, nel quinto libro.
Arnaldur Indriðason “Un doppio sospetto” TEA euro 10 (in realtà, scontato a 8 euro)
[A: 23/05/2013– I: 29/06/2014 – T: 02/07/2014] - &&& 
[tit. or.: Myrká; ling. or.: islandese; pagine: 316; anno 2008]
E torniamo dopo un anno ad immergerci nelle atmosfere della fredda Islanda. Dei suoi abitanti che si conoscono tutti e si chiamano per nome. Della squadra poliziesca della capitale. Avevamo lasciato il commissario Erlendur che andava verso la montagna dove scomparve il fratello quando aveva 8 anni. Forse è ancora lì, che qui, ad indagare sulla morte del turpe Runólfur è la sola Elíngbor, dato che anche l’altro ispettore Sigurður Óli, preso dalle sue vicende familiari, sta un po’ defilato (e forse è meglio). Sappiamo già, dalle altre prove di Arnaldur, che la sua forza non è tanto nella parte poliziesca, quanto nell’atmosfera generale. Anche se, nei precedenti scritti, il giallo aveva comunque un suo posto. Soprattutto dovuto alle capacità investigative del commissario Erlendur. Qui, il giallo è talmente ridotto ai minimi termini che si aspetta solo che anche l’ispettrice Elíngbor ci arrivi per chiudere il libro. Runólfur è uno spostato, quasi sembrerebbe uno psicopatico degno di una grande carriera criminale (si lava continuamente le mani, è un tecnico elettronico capace di far perdere le sue tracce “informatiche”, è sempre provvisto di Roipnol, la droga dello stupro). Ma dopo una partenza alla grande, si perde presto, e non ci meravigliamo di trovarlo ucciso. Aveva circuito una giovane, l’aveva drogata, stuprata, e ci si aspetta che questa, una volta sveglia, lo massacri ben bene. Invece lei lo trova morto, ed invece di chiamare la polizia (si sa che non è bello subire violenze sessuali, e che la polizia in genere non ci va tenera), chiama il padre e si allontana dal luogo del delitto, lasciando solo una pashmina che sa di tandoori. Ovviamente Elíngbor è appassionata di cucina (questo lo sapevamo già), e non è difficile in un piccolo paese com’è la “grande” Islanda, trovare tracce di cucina indiana. Trovata la giovane, trovato il padre (il doppio sospetto del titolo, ma quanto fuorviante! Infatti, il titolo originale parla di qualcosa tipo “oscuramento, perdita di coscienza”, esattamente come avviene dopo aver preso il Roipnol), sembra tutto facile. E pur tuttavia Elíngbor non si persuade. Capisce che bisogna scavare nel passato del violento, risale alla città natale, al padre suicida, alla madre generalessa ed incline ad una rude educazione (tanto che il figlio quando può se ne allontana). Nella piccola cittadina della grande isola anche di più è un sapere tutto di tutti. Facilmente, con l’aiuto di qualche ragazza locale che non si rassegna, Elíngbor scopre tutto il passato del cattivo, risalendo al primo stupro, al suicidio della violentata, al fratello della stessa…. Insomma, alla fine tutto si risolve, in quella direzione che già dalla bevuta al pub del terzo capitolo avevamo tutti capito e/o immaginato, lasciando aperta la porta ad un altro mistero (un caso non risolto) che magari potrà essere la base di un successivo racconto. Pur tuttavia, non è questo l’aspetto che più preme verso il piacere della lettura degli scritti di Arnaldur. Qui ci vedo due aspetti, uno di testo ed uno di contesto interessanti. Nel contesto, l’autore, dopo una serie di scritti basati su di un personaggio, si trova bloccato non riuscendo a portarlo avanti bene. Allora cosa fa? Lo fa uscire di scena (per un po’? per sempre? Vedremo), ed utilizza un personaggio di contorno per approfondirlo e farlo venire in primo piano, cercando di capire se possa diventare il centro di altre avventure. Abbiamo così Elíngbor, con la sua storia, la sua famiglia, ed il suo modo di procedere very “icelandic”. Questo ci illumina sul testo, e sul modo di vivere isolano degli isolati isolani. Chi come noi ne ha fatto un giro, ne vede tracce ad ogni pagina. Il conoscersi tutti e chiamarsi per nome, la fiducia (in principio) che si ha verso l’altro, il modo rilassato di affrontare situazioni, la piaga dell’alcool. Elíngbor l’ispettrice – mamma – cuoca, è un tipico esempio. Ha un marito che possiede un’officina meccanica, con il quale si alterna nella gestione della casa e dei figli (anche se Teddi non è che sia un fulmine in cucina). A Teddi muore una sorella, e loro ne adottano il figlio. Poi hanno loro tre figli, due maschi (scapestrati come tutti i maschi) ed una bimba, Theodóra, che è molto intelligente e sembra anche simpatica. E si vive la vita quotidiana di una tipica famiglia islandese. Il figlio adottato, ai sedici anni, decide di andarsene per cercare il padre che vive in Svezia. Il figlio più grande, Valþór, non parla in casa e scrive tutto su Facebook, dove Elíngbor, pur non volendo, ne segue le gesta e capisce che ben presto anche lui se ne andrà. Ricordano molto, come allo specchio, i personaggi di Olafsdottir e dei suoi libri, come a confermare che quando si è islandesi, lo si è fino in fondo. Ed è per questo, infine, che continuerò a leggere i libri degli scrittori del Grande Nord.
“Era lunedì; lo aspettava una serata di bridge a casa di un amico. Incontrava gli stessi compagni di gioco ogni lunedì sera… Gli anni erano trascorsi senza alcun cambiamento, tra doubleton e slam. Erano invecchiati dignitosamente davanti al tavolo di gioco, quegli uomini un tempo giovani… Erano legati da un’amicizia cortese e silenziosa, e da un profondo interesse per i segreti del bridge.” (140)
Håkan Nesser “Un corpo sulla spiaggia” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 27/08/2014 – T: 29/08/2014] - &&& e ½   
[tit. or.: Ewa Morenos fall; ling. or.: svedese; pagine: 310; anno 2000]
Ed ecco che orniamo ad uno dei punti forti della letteratura “noir”. Siamo nella grande fucina svedese, quella che dai capostipiti Sjöwall & Wahlöö, tanti buoni scrittori ha prodotto. Oltre a Nesser, ricordiamo Mankell, il compianto Stig Larsson, Liza Marklund, tanto per citare i più diffusi. Nesser ha la particolarità di aver creato un piccolo mondo in cui racchiude il suo sistema di relazioni e di indagini. Ha scritto (dal 1993 al 2003) dieci romanzi ambientati nella fittizia cittadina di Maardam, poi dal 2006 ad oggi altri cinque in quella di Kymlinge. Questo è l’ottavo della prima serie. E qui veniamo alle dolenti note rispetto all’editoria italiana. Perché questo libro (certo non il migliore della serie) esce per la prima volta in Italia una dozzina di anni dopo la sua pubblicazione, e dopo 4 libri della seconda serie. Facendoci perdere la cosmogonia di Maardam e le sue ramificazioni. Infatti, Nesser inventa questa cittadina “atipica” che ha in sé un mix di caratteri scandinavi con influenze olandesi. Vi impianta una stazione di polizia all’inizio comandata dal commissario Van Vetereen, che nel settimo libro si dimette per aprire una libreria antiquaria. Rimane comunque la sua squadra, ed in questo ottavo abbiamo appunto al centro dell’azione l’unica donna del gruppo, Ewa Moreno. E non è un caso che il libro in edizione originale si chiame “Un’indagine di Ewa Moreno”. L’ispettrice Moreno è sulla trentina, single, dedita al 100% al suo lavoro, cui si è dedicata perché “vuole assicurare i criminali alla giustizia”. Tanto dedicata che il romanzo si svolge durante le sue ferie estive. Ferie che ovviamente troverà il modo di passare in tutt’altro modo rispetto al previsto. Obliquamente alla trama “noir” c’è la sua storia con il coetaneo Mikael, iniziata sotto buoni auspici, ma che si deteriora nel corso dell’estate (e nel corso dell’indagine), ponendo ad Ewa delle domande esistenziali sul suo rapporto con gli uomini, con il lavoro, con il mondo (e sono domande che tutti ci poniamo quando ci fermiamo a riflettere sulla vita che stiamo vivendo). La vacanza si interseca con una strana storia che lega passato e presente. Nel treno che la porta al mare, Ewa incontra una ragazza diciottenne che sta andando nella stessa città di Ewa per incontrare per la prima volta il suo vero padre, di cui ignorava l’esistenza, rinchiuso in un manicomio. Rivelazione che le ha fatto la madre come regalo per il suo compleanno (!!). Il padre era andato fuori di testa sedici anni prima quando venne accusato dell’uccisione di una studentessa, lui insegnante di liceo, con la quale aveva avuto una notte d’amore e che alla morte risultava incinta. L’autore ci fa capire, con sapienti flashback che ci sono dei misteri in quella morte. Misteri che si infittiscono dato che la ragazza, dopo aver incontrato il padre, sparisce. Dopo una settimana sparisce anche il padre dal manicomio. Ed il giorno dopo si trova sotto la sabbia il cadavere di un uomo, Tim. Ora questo Tim era proprio il ragazzo di Winnie la studentessa morta. E la madre di Tim, all’epoca dei fatti, era l’amante del commissario di polizia incaricato delle indagini. Con un sapiente lavoro di piccole scoperte, di passi avanti, di caratterizzazioni di personaggi, alla fine, tutta (o gran parte) della verità viene fuori. Tim e Winnie volevano ricattare il professore con la storia del bambino, che era vera, ma era loro e non dell’unica scopata fatta dal malcapitato. Winnie vuole tirarsi indietro, ma prima denuncia il professore alla moglie. E mentre tutti si precipitano verso uno strano appuntamento notturno, qualcuno uccide Winnie. Il professore pensa sia stata la moglie, e si chiude al mondo esterno, facendosi condannare come infermo. Il commissario non porta avanti le indagini per evitare di scoprire altarini. La moglie va via con la piccola che ora, tornata, accetta l’innocenza del padre. E nel corso delle sue indagini viene aggredita dal vero assassino. C’è anche qualche altro elemento del mondo di Maardam al contorno, ed un cammeo finale del commissario con la sua ex squadra. Tanto appunto per ribadire la costruzione di Nesser di questo mondo da lui voluto come esempio dei possibili guasti della civiltà nordica e delle possibili vie per affrontarli con in mente correttezza e giustizia. Certo, preso così isolatamente, il libro risente degli anni e dell’isolamento dal contesto. Elementi che io, con questa modesta trama, cerco di restituire all’autore che continuo a ritenere tra i più validi autori seriali degli ultimi venti anni.
“Ogni occasione perduta andava recuperata il prima possibile e nel migliore dei modi. Perché si vive una volta sola, e certe volte nemmeno quella.” (190)
Jo Nesbø “Lo spettro” Einaudi euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 09/11/2013– I: 05/11/2014 – T: 09/11/2014] - && 
[tit. or.: Gjenferd; ling. or.: norvegese; pagine: 551; anno 2011]
Sono rimasto molto deluso da questo che credo sia l’ultimo o il penultimo romanzo della serie di Harry Hole, ideate dallo scrittore norvegese. Oltre ad essere particolarmente lungo, ma potrebbe non essere un difetto, è involuto, contorto ed alla fine scontato. Si vede lo sforzo di chi avendo esaurito la spinta propulsiva dell’idea da cui nasce il personaggio, tenta di chiudere in qualche modo le fila, mettendolo di fronte a situazioni che non potranno che portare alla considerazione finale di quell’intrigante film che fu “War Games” quando il computer dice “l’unica maniera di vincere è non giocare”. E dico questo dopo che anche alla fine dell’ultimo libro avevo salvato personaggio e scrittore. Hole, rifugiatosi ancora una volta in Asia, torna a precipizio, or che son passati almeno tre anni, in quanto il suo amato Oleg è accusato di omicidio. Harry in Asia si è finalmente disintossicato dall’alcool, ma torna in una Oslo devastata dalla droga. Qui ritrova due fili rimasti in sospeso da tutta la serie. Mikael, ora capo della Polizia Criminale, sempre ambiguo e forse anche qualcosa di più. E Rakel, il suo grande amore, la sua “pallottola unica” come direbbe Harry Bosch del sempre sulla breccia Connelly. Assistiamo così ad una narrazione condotta su due binari. L’agonia di Gusto, il pusher assassinato, che (fortunatamente in corsivo) narra la sua storia di emarginato, poi di drogato, di ladro, di spacciatore. La sua strana amicizia con Oleg, che porta anche il ragazzo sulla strada della droga. Il suo ambiguo rapporto con la sorellastra Irene, cui pur volendo bene non esita a servirsene per i suoi fini da drogato. Perché un drogato, e questo ben lo rende Nesbø, di fronte alle crisi di astinenza, è disposto a tutto. E quando dico tutto, è proprio tutto. A mettere a rischio se stesso, a vendere amici e conoscenti, ad uccidere anche. Tutto ciò in una Oslo dove viene immessa sul mercato una droga sintetica che crea subito dipendenza, ma che ha un bassissimo tasso di morti per overdose. Per evitare lotte interne ai vari cartelli di pusher, uno spacciatore d’origine russa, con una piccola banda di accoliti, si accorda segretamente con la bella Isabella (che sarebbe dell’antidroga, ma che fa corsa a sé), per eliminare tutti i concorrenti. Isabella era stata l’amante di Gusto, ma ora fa la scalata al potere, e si accorda (praticamente e sessualmente) con Mikael. In tutto ciò, si muove Harry che non è più poliziotto, ma che ha ancora qualche amico, soprattutto la simpatica Beate della Scientifica, che gli risolve i problemi derivanti da prove, da DNA, e da altre piste che altrimenti non potrebbe seguire. E si fa aiutare da Rakel per entrare di nuovo in contatto con Oleg. Capiamo subito però che mentre sul lato amore c’è e ci sarà sempre quella pallottola, tra Oleg e quello che era stato il padre putativo si è rotto il filo di comunanza. Nesbø ci porta anche qui a ragionare sulla realtà, sul fatto che Oleg è ormai anche lui “schiavo” della nuova droga. Benché cerchi di mantenersi al limite, si innamora di Irene, cosa che rende facile a Gusto di coinvolgerlo nei suoi turpi traffici. C’è anche Truls, uno scagnozzo di Mikael che, da bravo poliziotto corrotto, riesce anche a far sparire e comparire prove a proprio (o meglio a Mikael) piacimento. Mentre Gusto ci narra gli antefatti, dove vediamo lo sprofondare suo e di Oleg, Harry ricostruisce i fatti. In una sarabanda finale (lunga però un centinaio di pagine) veniamo portati a diverse soluzioni possibili, veniamo avvicinati ad alcuni ipotetici lieti finali. Ma tutto finisce nella negatività dello scrittore. Scopriamo che il russo è il vero padre di Gusto, e che, avendo un cancro terminale, cerca di provare se Gusto possa prendere il suo posto. Negativo. Harry scopre il rifugio del russo, inconsapevolmente aiutato da Truls, fa fuori i due guardaspalle del russo, trova il dottore malefico che aveva scoperto la nuova droga sintetica, e che aveva venduto una parte del prodotto a Gusto in cambio di Irene, libera Irene e fa in modo di neutralizzare il dottore. Così come scopre le identità nascoste del russo, ed anche lui farà una brutta fine. E mentre Rakel lo aspetta all’aeroporto per partire con lui verso Bangkok, ha una resa di conti, verbale e non solo, con Oleg. La fine però è volutamente, anche se non tanto, criptica. È vero che Oleg ha ucciso per legittima difesa o perché voleva riprendersi Irene? E come finisce il confronto tra Harry e Oleg? Ed il corretto Mikael e la corrompenda Isabella che fine faranno? Rakel partirà per l’Asia? Perché in sala d’attesa c’è anche Irene? Oleg raggiungerà la madre? O andrà in carcere? Nesbø non vuole, almeno esplicitamente, rispondere a tutte queste domande. A lui basta continuare a ripetere che tutti sono corrotti, che nessuno può salvarsi, che non c’è redenzione possibile. Che la società è marcia. Ed in particolare lo è quella norvegese. Un lucido esame, se vogliamo, ma troppo scontato, come detto all’inizio. È vero che non ci siamo mossi di un passo dal bellissimo film “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, con tutti i distinguo del caso. Però il modo di condurre il gioco da parte di Nesbø non mi piace. Non si piò portare avanti un personaggio per 6 libri, e farne venire fuori uno diverso al settimo (e parlo di Oleg e non di Harry). Non si può accennare che è possibile uscire, e poi chiudere tutte le porte. Ripeto, quindi, l’unico modo di vincere è non giocare. Oppure aspettare altre prove meno deludenti. Avevo una buona idea della presa sulla società norvegese dei suoi scritti. Ora sto pensando che ci sia qualche altro punto che non ho colto fino in fondo. O che il pessimismo di Nesbø abbia raggiunto un livello tale che non riesca neanche lui a trovare una via d’uscita (ad un certo punto, Harry dice: “Gli esseri umani sono una specie guasta e non c’è guarigione” e mi sembra che sia l’epitaffio alla filosofia di Nesbø). O che si sia rotto di Harry Hole e voglia tirarsene fuori. Scordandosi la lezione di Conan Doyle. Peccato!
“Ho bisogno di un brav’uomo, e allora perché non lo voglio un brav’uomo? Perché siamo così maledettamente irrazionali quando sappiamo benissimo che cosa è meglio per noi?” (367)
Stravolto di stanchezza (speriamo in un pronto recupero dai fusi orari), senza possibilità di respirare (un potente raffreddore mi ottunde il cervello), l’unica attività che riesco a pensare è quella di spedire questa trama in odore di Natale (dato che in Scandinavia riposa Babbo e le sue renne). Una bella dormita speriamo ci rimetta in sesto, per affrontare questa settimana che non sarà di rose e fiori. Un colpo di tosse ed un saluto nonché (ma da molto lontano se no vi ammalate pure voi),
un bacio

Giovanni

domenica 23 novembre 2014

Noir Italia (quarta parte) - 23 novembre 2014

Torniamo ancora alla ben lunga collana del Sole 24 ore ed i suoi neri italiani. Un lotto di trame che non mi ha entusiasmato, con giudizi che vanno dal sufficiente a da dimenticare. Milone, come descrivo, ne è l’esempio eponimo (nel bene e nel male). Poi due autori che, anche con prove non eccelse, trovo interessanti e che replicherò, come Morchio e Mogliasso. Il dimenticabile Guglielmone, accomunato con l’altra prova poco riuscita di Zannone (che rinchiude tutto il giudizio nel titolo “Imperfetto”!).
Massimo Milone “Milano corri e muori” Sole 24 ore – Noir Italia 36 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 15/07/2014 – T: 17/07/2014] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 121; anno 2013]
Una delle ultime uscite della collana del Sole 24 ore, che sembra aver voluto riempire gli ultimi titoli della serie, che hanno deciso di prolungare fino a 40 romanzi, con qualche prova molto basic. Anzi, direi che questa uscita è proprio un esempio del bene e del male della collana, e della scrittura di esimi autori che, pur innegabilmente avendo facilità di scrittura, non hanno altresì facilità di invenzione. Allora perché gli do ben 3 libricini? Proprio perché è un tipico prodotto e mi consente anche di farci sopra una riflessione. Intanto, possiamo ben dividerlo in due analisi diverse. La parte Noir, motivo dell’inserimento nella collana, e la parte ambientale e descrittiva. Ecco, se dovessimo giudicare solo la prima parte, il giudizio crollerebbe miseramente. Diciamo che posso concedere la lettura di 20 pagine ad un attento conoscitore di gialli per scoprire il 90% dei “misteri” del libro. Misteri che si addensano intorno alla morte di una consulente “tagliatore di teste” che viene uccisa durante uno jogging mattutino, a poca distanza da un commissario anche lui in tenuta da runner. E poco prima della morte, Francesca fa una telefonata a casa di un suo collega Alessandro. Che oltre ad essere antipaticuccio, ha l’aria di voler nascondere qualcosa. A chi era diretta la telefonata? A lui o alla moglie Daniela? E si scopre ben presto che sia lui che il figlio Simone sono patiti di armi (campioni al poligono), ed entrambi (pur con diverse abilità) capaci di utilizzare computer ed affini. Con chi della famiglia Gavioli, la nostra Francesca aveva una tresca? E chi dei tre era in grado di inscenare il delitto, pensando di farla franca? Pensando anche di far cadere i sospetti su qualche dirigente di società che fa un po’ di cresta sui libri contabili societari. Purtroppo, la pistola del delitto viene rubata da dei balordi che fanno una rapina, e si fanno beccare. Poi ci sono le telecamere a circuito chiuso del garage dei Gavioli entrate in funzione all’insaputa dell’assassino. Insomma, abbastanza semplice e scontato. Così come semplice, anche se meno scontata, l’altra storia che seguono i poliziotti, quella di uno stalker con relativo innamoramento del poliziotto verso la bella presa di mira. E con l’intervento risolutore di uno degli elementi spesso in ombra della squadra. Sì, perché il nostro autore pensa bene (e qui veniamo alle note ambientali e descrittive) di scopiazzare le atmosfere alla Ed McBain e la sua serie dell’87° distretto. Qui siamo a Milano, ed al massimo arriviamo all’8°, ma l’idea è lì. Un procedural thriller basato su di una squadra. Di cui conosciamo i componenti: Salvatore Van Dir detto Sasà, commissario napoletano trasferito a Milano, ed un po’ l’anima della squadra, Remo Barocci, suo alter-ego, romano “de’ Roma”, Melina Laganakis, detta Venere in quanto greca e nata a Milos, Mara Fossati, detta Fosset, per richiamare una delle Charley’s Angel. Poi ci sono i due dello stalker, Castoldi, quello quasi leghista, ma in fondo no, e Fumagalli, quello che ragiona molto, e “zitto zitto”… Quello dei soprannomi è forse la parte migliore, che raggiunge il vertice con l’antipatico e quasi pelato Gubbio (quello che vuole sempre fare in modo di avere molti onori e pochi oneri) che tutti chiamano Harry Potter, solo perché Remo, con il suo accento romano, lo aveva soprannominato “er riporter” (e provate a dirlo con l’accento romanesco…). Queste sono le parti più scorrevoli e meglio riuscite della scrittura di Milone. La descrizione della squadra, dell’ambiente di polizia, del tifo per le squadre di gran cuore e poco blasone (Roma e Napoli, si capisce, e si accetta Venere solo perché tifa l’Aris di Salonicco). Ma anche di alcuni ambienti malavitosi di vecchio stampo milanese (il Maestro, ad esempio), il dispiacere per il dilagare della droga a buon mercato. E le grandi bevute di birra alla Montagnola, da dove i casi si discutono meglio che al distretto. Insomma, un facile libro, ammirevole per lo scorrere delle vicende di contorno, poco incisivo per la parte gialla. Quindi, concludendo, tipico esempio di una scrittura capace ma non ancora indirizzata. E di politiche editoriali di livello non eccelso (d’altra parte Milone pubblica per Happy Hour edizioni non per Mondadori o Feltrinelli…).
Alessandro Zannoni “Imperfetto” Sole 24 ore – Noir Italia 37 euro 6,90
[A: 21/03/2014– I: 21/07/2014 – T: 23/07/2014] - && 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2009]
Direi che il titolo racchiude tutto quello che si può dire di questo romanzo. Ricollegandomi con la precedente uscita (il 36 di Milone) ribadisco che la collana del Sole nelle ultime uscite è in calando. Si salvano soltanto (visto che si comincia sempre dalle note positive) alcune descrizioni della zona di Sarzana, di Lerici, attraversando la Lunigiana, ricordando Aulla, valicando verso Parma, e magari guardando il mare da Portovenere. Il resto è buio pesto. La storia, il modo di raccontarla, i personaggi, il finale. Certo, l’autore conosce e legge di noir (organizza un festival Noir proprio in Lunigiana), ed usa i più classici canoni del genere. Nella scrittura, ad esempio, alternando l’impersonale con il soggettivo di chi commette gli efferati delitti. E poiché chi li commette è senza dubbio una persona disturbata, usa un linguaggio che vuole imitare il flusso di coscienza di una persona quanto meno psicopatica. Con l’unico risultato, che, dopo i primi due interventi, è bene saltarli a piè pari. Non aggiungono nulla alla storia, neanche nella ricerca della chiave. Il personaggio centrale è poi un investigatore privato, messo sul caso dell’omicidio irrisolto di Amedeo, scapestrato figlio di un ricco spezzino, con tutte le classiche manie e “pose” da investigatore “alla Sam Spade”. Un matrimonio che sta andando a rotoli, una nuova fiamma che Merisi, questo il suo nome, non sa come gestire (gli vuole bene? è un modo di scarica la moglie?), ed un caso che nessuno vuole e che quindi gli viene affidato perché faccia “ammuina”. Ovviamente è in attrito con le forze dell’ordine, ma ha anche qualche angelo custode: la segretaria, un giornalista, qualche maresciallo sparso sui monti. E Merisi si mette a ripercorrere tutta la storia di Amedeo, trovato nudo, con 5 colpi mortali, sulla strada verso Parma. Zannoni le prova tutte: la pista gay, la pista casuale, ed altro. Ma né noi né Merisi ci caschiamo. La svolta si ha quando uno sperduto oste (guarda caso non interrogato dalla polizia) ricordo un caso simile di una decina di anni prima. Merisi e la sua squadra si mettono in caccia. E trovano alla fine almeno altri 3 omicidi fotocopia. Giovane, nudo, con 5 colpi mortali. E senza segni particolari di lotta. Si vede che chi organizza gli omicidi non fa paura ai futuri morti. Ed allora indaghiamo su chi possa entrare nelle case senza tema: postini, trasportatori, ufficiali pignoratori, operai ristrutturatori. In parallelo, seguiamo una persona che brucia quadri nelle chiese e poi fa una donazione con un suo dipinto. Guardando il dipinto nella chiesa di un suo amico frate (anche lui ucciso) Merisi ha il colpo di fulmine. Vuoi vedere che indovino? Avevo scommesso su San Sebastiano, ed eccolo là. Che scarsa fantasia! Il colpo di fulmine porta Merisi a comprendere che non sono pugnalate, ma frecce. Quello che non capisce (d’altra parte è solo un investigatore) è che una freccia per fare così tanto danno non può che essere lanciata da una balestra. E una balestra può essere maneggiata sia da uomini che da donne. Merisi ha un bel cedere l’indagine alla polizia, che non crede alle sue piste. Per poi accettare l’invito a casa di una donna, guarda caso uno degli ufficiali che vanno pignorando gli inadempienti. E lì… Mica vi posso dire il finale, ovvio. Ma verso questo finale corriamo velocemente e senza suspense (benché le recensioni che ho letto parlino proprio di finali mozzafiato). A me è sembrato un finale che vuole fare effetto, ma che tronca tutte le discussioni. Perché sul quadro c’è scritto Caravaggio, unico a non aver mai dipinto San Sebastiano? Perché e come viene scatenata la furia omicida? E venendo sul personale, perché Merisi lascia la moglie? Che senso ha la sua storia con Giulia? Insomma, dopo 170 pagine, Zannoni ci lascia insalutato ospite, con questo prodotto, ribadisco, non a caso intitolato “imperfetto”. Sarà difficile che se ne legga altro.
“- Poteva finire in modo migliore? … - Non esiste un modo migliore per lasciare una persona, e qualcuno deve soffrire.” (130)
Giacomo Guglielmone “La stagione da Iseo” Sole 24 ore – Noir Italia 34 euro 6,90
[A: 14/03/2014– I: 24/07/2014 – T: 26/07/2014] - & e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 189; anno 2013]
Ho impiegato tutto il libro, nonché una ricerca sul primo editore di Guglielmone (il benemerito Robin di Roma), per capire che Iseo era (è) una locanda rinomata in quel di Lerici. Collegata al fatto che la vicenda è ancora una volta spezzina (un giorno o l’altro farò un’analisi dei luoghi di questa collana), sembra avere un senso. Ma soltanto sembra, che il mangiare ed i ristoranti non sono di certo al centro delle indagini che il commissario D’Imporzano porta avanti lì, tra le Bocche del Magra, per venire a capo dell’uccisione di tal Setubal Santiago, ex-portoghese naturalizzato italiano, molto fascio in gioventù, poi legato ad ambienti “di soldi”, ed infine imprenditore in prima persona, abbiente e sempre ben ammanicato. L’autore attinge un po’ al suo retroterra (un po’ giornalista, un po’ specializzato in comunicazione sociale) per condire la vicenda con molta carne al fuoco. Peccato che si passino giorni senza reali costrutti. E peccato per quel vezzo da “noir” di belle fatture, di utilizzare pesantemente flash-back, e tutti in corsivo. Così alla vicenda del morto, si intreccia la vicenda di Silvestri, a suo tempo sodale del figlio di Santiago, e poi persosi in varie vicende. Estremista più per denaro che per convinzione, partecipante a pestaggi, poi all’incendio di una scuola. Ma soprattutto messo in prigione per aver malmenato il figlio di Santiago per questioni di droga. Ed in prigione a sua volta pestato, ridotto a mal partito, ed ora invalido al 100% per la perdita della vista. Tanto che ha diritto ad accompagni, svolti da giovani del servizio civile. C’è la storia di uno di questi, in flash-back, toscano di quel di Prato, trombato alle specializzazioni per mancanza di appoggio, poi dentista di medio profilo. Che dopo aver servito il Silvestri, trova il modo di avere una relazione con la di lui bella sorella, Arianna. Una tipa che ha cavalcato di molto in gioventù, e che si è sistemata dopo una notte di sesso con un pittore, indicato con le iniziali KH, che tutti riconoscono nel grande muralista gay Keith Haring, che gli autografa una T-shirt, con la quale appunto sistema il suo futuro (compra casa, e vive di rendita). Dedicandosi alla bella vita, soprattutto con dottori, lasciando un po’ di spazio al dentista di cui sopra, il Guelfi. Il nostro commissario, nel corso della sua indagine, trova anche il tempo di consolare “fattivamente” la ancora piacente vedova di Santiago (molto consolabile, in quanto il morto aveva ormai una relazione stabile con una giovane tunisina). Guglielmone cerca di inzeppare sospetti a destra e sinistra (il fratello della tunisina, la vedova stessa, gli ex-compari di Santiago, Silvestri e la sua cricca di sbandati) riuscendo solo nell’intento di rendere confuso l’andamento del libro. E poco coinvolgente. Così che tra un giro e l’altro, tra una trasferta in Lunigiana ed una in Toscana, un pranzo, l’ascolto di Silvestri che di notte fa il DJ, ci si avvia mestamente a conclusione. E come tutti i gialli mancati, ci si avvia senza che vengano sciolti tutti i nodi. Certo, Ines, un’amica di Silvestri, lavora da talpa e copia alcuni indirizzari “segreti” di un vecchio a suo tempo (e forse tuttora) sodale di Santiago. Passa i nomi a Silvestri, che utilizzandone uno (probabilmente si tratta di vecchie storie legate alle torbide vicende liguri degli anni ’70, dove non a caso c’è un ex ergo di frase del buon vecchio e dimenticato Arnaldo Forlani) convoca Santiago ad uno strano appuntamento notturno. Dove Arianna aiutata probabilmente da Guelfi, fa la festa a Santiago. Ed i cerchi si chiudono. Con poco lustro e poca voglia di saperne di più. Tutto sommato la parte migliore (che invece puristi del giallo di cui ho letto commenti in rete ritengono minore) è proprio la descrizione dei luoghi. Tanto che il primo capitolo, che ci parla di Spezia e dei suoi luoghi (e dove ritroviamo piazza Brin al centro di uno dei precedenti e di certo migliori noir della seria), per me è la parte migliore del libro. Insomma, un libro un po’ troppo di testa, che vuole ammiccare troppo, e, facendolo, perde verve e simpatia. Da dimenticare.
Bruno Morchio “Bacci Pagano. Una storia da carrugi” Sole 24 ore – Noir Italia 1 euro 6,90
[A: 03/08/2013– I: 21/08/2014 – T: 23/08/2014] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 279; anno 2004]
Entrato finalmente nella roulette strampalata delle mie letture, questo primo libro. Primo come romanzo della serie pubblicata dal Sole 24 ore con il titolo “Noir Italia” ed iniziata a luglio dello scorso anno. Primo romanzo scritto dall’autore con protagonista l’investigatore Giovanni Battista “Bacci” Pagano. E primo romanzo da me letto di Bruno Morchio, di cui avevo visto più volte pubblicità in libreria, ma che non era ancora entrato nelle mie letture. Ed anche se questo libro mi ha un po’ deluso (e cercheremo di capire perché), credo che sarà un autore a cui ritornerò. Morchio, come Licalzi, viene poi dalla psicologia, ma al contrario dell’autore delle Bocche del Magra, non si dedica all’ironia, ma utilizza il noir come descritto da Varasi per “illustrare il nostro mondo”. Lo fa immergendo il simpatico Pagano nel pieno dell’Italia berlusconiana, con un’ottica (anche se a volte disincantata) che mi è congeniale. Purtroppo (e qui veniamo subito ai difetti piuttosto che ai pregi), cercando di descrivere e di far toccare con mano l’Italia dei Servizi Segreti deviati, del malaffare, della politica corrotta, nonché dei guasti che l’esimio Silvio ha prodotto in 20 anni di (mal) governo. Tutto vero, tutto giusto. Ma il modo anche un po’ amaro che ci riserva il finale, dove (almeno sembra) l’attentato al Capo del Governo può andare a buon fine, mentre Pagano viene sconfitto (e la sua amica africana rimpatriata come prostituta indesiderabile) lascia a desiderare. Non per la sua credibilità (che è credibile e molto) ma perché viene come lasciata in sospensione, quasi che siano state tolte una ventina di pagine che (come insegna il decalogo di S.S. Van Dine sul buon uso del poliziesco) servivano a fare una ricostruzione degli avvenimenti, ed a sciogliere eventuali nodi irrisolti. Ma d’altra parte, le regole sono fatte per essere trasgredite (basta che si sappia quali siano le regole e quale le trasgressioni). Per il resto, ed è tanto, il libro ha un suo andamento gradevole, e discretamente coinvolgente. Primo punto a favore, ovviamente, la descrizione di Genova, dei suoi quartieri, ed in particolare dei carrugi, e della fauna che vi abita. Dall’extra alle prostitute, dagli impiegati ai grandi uomini d’affari. E lì nei carrugi, vive il nostro Bacci, direi sulla cinquantina (o poco meno). Alcune storie di donne alle spalle, gioventù tra manifestazioni e contestazioni, nonché (per un errore giudiziario cui lui non si sottrae) cinque anni di carcere a Novara. Passati che lo aiutano nel presente da detective, che tra amici e conoscenti, folta schiera di persone riconoscenti ha in giro per la città. L’oste con le sue gallette tipo bretone, il tassista, le prostitute, ma soprattutto il commissario Totò Pertusiello, suo alter-ego istituzionale, che spesso (ma non sempre ci riesce) cerca di tirarlo fuori dai guai, condividendone filosofie di vita, anche indossando la divisa. Pagano s’immerge nel romanzo chiamato a risolvere questioni di spionaggi industriali conditi da amori ancillari, per conto di una delle famiglie bene dei carrugi. Compito che ben assolve, anche se, mosso da strane pulsioni verso la commessa Alma, non lo porta alle estreme conseguenze. E sarà un errore. In parallelo, un suo vecchio sodale, ora gestore di una radio alternativa, lancia in onda provocazioni para-brigatiste. Dove però il fucile che esibisce quasi per gioco e quasi a voler ripercorrere i (ne)fasti delle P38, viene rubato. Questo scatena guerre di bande tra Polizia e Digos. Viene alla luce un vecchio killer (o presunto tale) del tipo Zorzi di Piazza Fontana. Killer che Pagano per due volte sta per arrestare e per due volte ne viene beffato. Ovviamente la Digos avrà la meglio su tutti, togliendo la licenza a Pagano e lasciando che il killer faccia (forse) quello che deve fare. Ma se tutto ciò è interessante, perché così poco gradimento, mi chiederete. Colpa di tutte quelle lungaggini su i mali dell’Italia, sulla politica, sui mafiosi nostrani (e forse su quelli cinesi). Pagine che non aggiungono nulla alla vicenda, e sembrano servire soltanto ad illustrare i pensieri dell’autore. Interessanti, forse, ma in altri contesti. E per come finisce la storia, mi domando con curiosità come farà a costruire altri episodi (visto che almeno altri due libri con Bacci Pagano li ha scritti). Sperando che le prossime letture genovesi restituiscano l’asciuttezza tipica della Liguria, per regalarci ancora delle belle storie (e delle belle passeggiate per una Genova sempre presente nella mia mente, grazie ai ricordi di mia nonna).
“Solo libri, libri, tanti libri per riempire la mia solitudine e impedire che divenisse disperazione … dopotutto siamo fatti di quello che mangiamo e di quello che leggiamo, e poco di più.” (67)
Rosa Mogliasso “L’assassino qualcosa lascia” Sole 24 ore – Noir Italia 9 euro 6,90
[A: 09/09/2013– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217; anno 2009]
Stava veleggiando alto questo libro dell’esimia collana del Sole, scritto dalla torinese Rosa Mogliasso. Per buona parte univa una scrittura accattivante ad una storia che, pur nella sua non evidente complessità, teneva desto l’interesse. Peccato la caduta finale, quando si vanno a raccogliere i frutti di quanto seminato. Troppo di corsa, qualche passaggio solo accennato, qualcosa lasciato cadere (forse sarà ripreso in altri libri, immaginando una vicenda seriale). Sin dalle prime pagine si respira un’aria da “Donna della Domenica” di Fruttero & Lucentini: qualche profumo di ambiente bene torinese (la famiglia Peressi), assaggi di quartieri diversi (non dico il Valentino, ma la stazione, i Murazzi ed altro), e la questura, dove troviamo il commissario Barbara Gillo, personaggio centrale dell’inchiesta e non solo. In questa fase è soprattutto la scrittura che avvince: dice e salta, ma non dimentica, presenta i personaggi e ne fa intuire potenzialità e possibilità. In primo piano la famiglia Peressi: l’avvocato, impaccato di soldi e con la passione del golf, ma soprattutto con la passione verso giovani ben dotati di attributi virili, possibilmente neri, ma anche rumeni vanno bene, la moglie Alma, rifatta da capo a piè, dedita alla bottiglia in mancanza del marito, e presenza costante di quella Torino bene fatua e senza scopo, e la figlia Titti, anoressica da adolescente, ed ora ventenne tossica senza speranza. Intorno a loro un po’ di “fauna”: giri di tossici ed investigatori in cerca di prova intorno alla Titti, il finto romeno Guy (o forse rumeno ma molto francese) che ronza intorno all’avvocato, cedendo alle sue avances, ma con suoi scopi precisi, ed il cameriere cingalese Solomon, conforto delle serate solitarie di Alma. In questura intanto il commissario Gillo impazzisce intorno ad un serial killer di prostitute (rebus che verrà risolto a metà romanzo, in un capitolo molto veloce, uno delle tante accelerazioni della scrittrice che non mi hanno convinto), invischiandosi nelle trame che la sorella Mariù cerca di rifilarle, cercando di trovarle un uomo. Purtroppo la sorella è “del lato Alma”, cioè bene e svampita, così che ad un certo punto si ritrova sola e con due figli, che il marito fugge con una giovinetta. Ed è un secondo punto che poi lascia in sospeso, sembra un dramma epocale, Mariù vuole fuggire in India, poi due capitoli passano e non se ne parla più. Il nodo centrale però avviene quando viene uccisa la Titti con un colpo di bastone da golf alla testa. Il delitto fa scoprire un po’ degli altarini dell’avvocato, ma soprattutto la scrittrice ci mette al corrente dei piani di Guy e della sua banda. Perché il sedicente gay è in realtà il capo di una banda di palestrati fascisti che vuole sfruttare soldi e conoscenze del Peressi per mettere su una banda eversiva. Peccato che il contatto primario tra la banda e la famiglia è lo spacciatore tunisino Aziz (che riforniva la Titti), ucciso a sua volta appena mette piede a Torino. Della banda fa parte la bella Angelique, che ogni tanto scopa con Guy, e l’oscuro Bruno. Si aggirano tra Parigi e Torino (con un’unica divertente battuta: Torino è un modo economico di vivere a Parigi), ma a parte le attività sessuali di Guy, e qualche accenno di ricatto, poi sembra tutto cadere nel nulla. Che l’avvocato scompare, Alma ne inscena la morte per avvelenamento (almeno così crede) insieme a Solomon. Il cingalese torna a Bangkok dove l’avvocato vuole rifarsi una vita. Peccato che Alma nella sua nullità mentale si auto-accusi della morte. E Solomon (l’unico con un po’ di pietà verso la svampita) una volta saputo il fatto, faccia in modo (ma non si sa come, perché anche qui si corre molto), di avvertire il commissario, di coinvolgere Guy a Bangkok, e di far precipitare tutte le trame. Nelle more, il commissario Barbara Gillo trova il modo di invaghirsi e poi di essere ricambiata dal commissario Massimo Zuccalà. Una piacevole storia d’amore e di sesso agli inizi, foriera di possibili interessanti sviluppi. Ma come detto, se per due terzi la vicenda si segue bene, con il divertimento di mettere titoli ai capitoli una frase contenuta nel capitolo stesso (e non la prima), con citazioni di Nietzsche da parte del palestrato, e dotte disquisizioni sulla filologia del crimine e delle prove annesse da parte di Zuccalà, alla fine tutto corre. Con passaggi misteriosi (Barbara deve andare dalla sorella e la troviamo invece dalla Peressi, Guy sembra introvabile poi lo troviamo in questura, l’avvocato sembra scomparire a Bangkok, e poi al suo letto d’ospedale per la chirurgia facciale troviamo Guy, funzionari dell’ambasciata italiana, e chi più ne ha…) che portano alle conclusioni diverse della vicenda, di cui scopriamo praticamente tutto (e non ve ne narro, lasciandovi qualche suspense), anche se il ricatto di Guy rimane misterioso ed irrisolto. Insomma, la scrittura mi è piaciuta, l’autrice mi ha convinto che può essere seguita in altre prove, mi aspettavo qualcosa di meglio date le premesse, ma alla fine un prodotto discreto (ed alcune belle passeggiate per Torino, dove ci si tornerà, prima o poi).
Ho scritto la settimana scorsa che mi stavo “avvantaggiando” in vista delle assenze di dicembre, così trovate in allegato anche il solito mensile sulle “cure”, che questa volta, con due libri di valore, surclassa tutta la trama settimanale: non è un caso che si parli di decisioni ed indecisioni. Intanto si va stringendo anche l’ultima settimana di preparazione alla lunga trasferta vietnamita. Torno quindi allo studio degli itinerari.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2014
In questo dicembre anticipato per ragioni di viaggio, ecco che ci imbattiamo in un disturbo veramente invalidante, dove però le nostre libropeute ci mostrano un caso irrecuperabile ed un rimedio “sicuro”.

COGLIERE L’ATTIMO, INCAPACITÀ DI

Un mese in campagna, James Lloyd Carr
Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, Jonas Jonasson
Viviamo solo un numero limitato di giorni. E all’in­terno di quel prezioso arco di tempo, i giorni in cui arriva qualcuno o succede qualcosa di speciale sono dav­vero pochi. Se esitiamo, o non abbiamo il coraggio di agguantare ciò che il destino ci ha offerto, potremmo rimpiangerlo per il resto della nostra vita.
In nessun romanzo l’eroe - e in un superlativo atto di osmosi, anche il lettore - è più tormentato dalla con­sapevolezza di non essere riuscito a cogliere l’attimo che nel classico degli anni Ottanta di James Lloyd Carr, “Un mese in campagna”. Subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale, portando con sé una tremenda balbuzie e un tic che gli è rimasto dalla battaglia di Passchendaele, Tom Birkin arriva nel villaggio di Oxgodby aspettandosi una «meravigliosa» estate rigenerante. È stato assunto per portare alla luce un affresco medievale sul soffitto della chiesa del villaggio, e nel frattempo vivrà nella cella campanaria. L’esperienza riesce salutare quanto ci si aspetta - perché in questo «rifugio tranquillo» Tom passa le giornate in beata solitudine, arrampicato in cima alla scala, nutrendosi di carne di manzo in scatola e dei pasticcini da tè al ribes della signora Ellerbeck, facendo amicizia con Charles Moon, un altro sopravvissuto alla prima linea, e innamorandosi di Alice Keach, bella e giovane moglie del vicario.
Lui non chiede niente. Alice lo va a trovare regolarmente - ma lo fa anche la giovane Kathy Ellerbeck, e in qualche modo fa tutto parte della magia di quell’estate che lui vorrebbe non finisse mai. Un giorno, nel campanile, si affacciano insieme e quando Tom le mostra il prato dove Charles sta scavando sente la pressione dei seni di lei contro il proprio corpo. Sa che è ora o mai più. Che cosa lo ferma? Una certa abitudine all’infelicità che ha contratto negli ultimi anni, forse. Il senso inglese della correttezza. Un’ipotesi che ha fatto a proposito di Alice. Alla fine di questo romanzo ci sentiamo più tristi – a meno che, ovviamente, non cogliamo l’occasione per impegnarci a non commettere mai lo stesso errore.
Se, come Tom, sospettate di avere la tendenza a essere, nella vostra vita, più passeggero che pilota, potrebbe esservi utile una lezione su come farlo. Il vecchio protagonista di “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” di Jonas Jonasson è un uomo che naviga a meraviglia attraverso una vita lunga e movimentata. Allan ha sempre vissuto la propria vita con leggerezza, più con curiosità che per convin­zione, eppure in un modo o nell’altro ha partecipato a molti degli eventi chiave del Novecento. Alla vigilia del suo centesimo compleanno, che si festeggerà alla casa di riposo di Malmköping, e a cui sono stati invitati i giornalisti, il sindaco, il personale e gli altri ospiti della struttura, Allan decide che quella casa non sarà, dopo tutto, la sua ultima residenza sulla Terra e che morirà «in un altro momento, in un altro luogo». Non è solo ottimista, ma anche fortunato, poiché una delle prime cose che gli capitano dopo la fuga è trovare una valigia piena di soldi.
Quello che segue è una vivace retrospettiva sulla vita di Allan, dalla nascita nel 1905 al suo nuovo inizio a centouno anni a Bali, con una donna più giovane (ottantacinque) al fianco. Lungo il tragitto contribuisce alla realizzazione della bomba atomica e fa da consigliere a vari leader mondiali, tra cui Winston Churchill e Mao Tse-Tung. Le sue avventure nel presente continuano, portando lui e la sua valigia, grazie anche a una serie di omicidi accidentali (Allan ha un rapporto molto rilassato con la morale), in molti splendidi luoghi. Il messaggio di Jonasson è chiaro. Se vi capita di domandarvi se «do­vreste», la risposta è sempre «sì».

Bugiardino

Questa volta, pur a distanza di anni (e sotto la spinta proprio di questo regalo) ho completato l’insieme dei libri citati. Il secondo, grazie ad un gradito regalo, letto, consigliato e ripensato sorridendo. Il primo da poco condiviso con gli amici, con ritorni diversi: a chi è piaciuto, a chi lo trova un po’ “moscio”. Andiamo a vedere cosa se ne scrisse al momento della lettura.
James Lloyd Carr “Un mese in campagna” Fazi editore euro 12,50
[trama del 14 settembre 2014]
È uno di quei romanzi in cui non succede niente, e proprio per questo è pieno di tante cose. Inoltre, anche se ha scritto altro, l’autore è una specie di single-book man. Il buon J. L. Carr, tra l’altro, è morto una ventina di anni fa. E questo suo romanzo, scritto a 66 anni, dopo essere andato in pensione come ex-preside di liceo, gli valse anche premi ed onori. Direi giustamente. Dicevo, non succede niente, ma è pieno di tanto. Se volessimo chiudere la storia in poche note, da quarta di copertina, dovremmo parlare della piccola storia del ragazzo Tom, appena finita la Prima Guerra Mondiale (il romanzo è ambientato nel 1920), ripreso in mano il lavoro di restauratore di dipinti ed altri oggetti in deperimento, viene chiamato da un parroco di campagna per rimettere alla luce un affresco probabilmente celato dietro l’altare. Ovviamente Tom è rimasto segnato dalle esperienze militari. E la comunità campagnola non facilmente accetta estranei. Mentre Tom mette alla luce il dipinto, lavora al suo fianco il giovane Charles che invece sta cercando una tomba. Nasce solidarietà tra i due, entrambi reduci dalle rovine militari. Ma Charles ha qualcosa in più, essendo stato cacciato dall’esercito in quanto gay. Durante il suo lavoro, Tom viene avvicinato solo da due persone: la ragazza Kathy e la giovane Alice. La prima, tredicenne e spensierata, coinvolge Tom prima nella vita domenicale (il padre è predicatore), poi nell’aiutare dei bimbi disadattati, poi in tutta una serie di attività di aiuto in cui Tom con la sua naturale empatia si mostra vincente. Alice, invece, è la moglie dell’attempato parroco. E si capisce ben presto che ha un debole per il nostro Tom. Che si domanda il perché di questa unione tra Alice ed il prelato. Che si domanda se deve fare qualcosa, anche lui sentendo del trasporto. Ma il mese trascorre. Charles trova la tomba, Tom ripulisce l’affresco. Alice ed il parroco chiedono il trasferimento in una diversa parrocchia. Ve l’avevo detto, no, la trama è ben presto riassunta. Ma è tutta la carica di inespresso e/o di velato che c’è dietro e dentro che rende molto interessante il romanzo. Innanzi tutto, le tonalità che usa Carr, perché narra appunto come se fosse il Tom anziano che ricorda un periodo della sua giovinezza. E quindi sappiamo, a posteriori, che, in effetti, non successe gran che in quel mese in campagna. Se non che Tom – Carr matura e prende coscienza di se. Capisce di avere comunque un mestiere tra le mani (restauratore). Capisce che può riprendere il rapporto con gli altri (aiutato da Kathy), cosa che sembrava fosse stata interrotta dalla guerra e non più riprendibile. Capisce che se fa un gesto, un piccolo gesto, la sua vita, quella di Alice e quella del parroco, potrebbero cambiare. Quindi romanzo di possibilità. Ma anche romanzo di rimpianto. Che Tom si chiederà sempre e per sempre cosa sarebbe successo se… Una specie di contraltare delle domande irrisolte che si farà il narratore del bellissimo libro di Barnes “Il senso di una fine”. Se potesse continuare a restare lì in campagna. Se accettasse di fare il maestro ai ragazzi del paese. Se avesse baciato Alice. Se avesse iniziato a fare il predicatore, come il padre di Kathy. Insomma, un piccolo momento in cui Tom fa un salto in avanti nella sua vita ed un momento in cui non tornerà più (“non ho più incontrato nessuno di quel paese sperduto”) ma gli servirà per costruire la sua vita. Mi ricorda e mi fa venire in mente tanti piccoli istanti che ognuno vive. In particolare, un viaggio in treno da Siviglia a Madrid, fatto più di quarant’anni fa, e la conoscenza che feci sul treno della giovane Monika, turista tedesca. Non ci fu gran che di più di quello che successe tra Tom e Alice, ma modificò e di molto, la mia percezione dell’altro (o meglio delle altre e del mio rapporto con loro). E come Tom, dopo quel luglio di quaranta anni fa, più nulla seppi di Monika, delle sue amiche e della loro vita. Per tornare al libro, l’unico elemento che mi ha leggermente disturbato è l’introduzione di Penelope Fitzgerald. Non perché non dica cose condivisibili, ma perché le dice prima del romanzo. Guastando un po’ il godimento che se ne trae leggendolo. Io ritengo che le introduzioni debbano soltanto inquadrare, se del caso, l’autore ed il momento della scrittura. Mentre lascerei alle postfazioni il compito di entrare nei dettagli del narrato, che ora, avendolo letto, consente di condividere e di comprendere meglio quanto si dice. Evitando di anticipare cose che il prefatore vede, e magari io lettore no. Ma in fin dei conti, amici, leggete il romanzo. E non tiratevi indietro come il nostro Tom. Meglio una domanda ben posta che una ricerca di una risposta per tutto il resto della vita.
“Per quanto mi riguarda, avrebbe potuto girare l’angolo e morire di colpo. Ma questo vale per la maggior parte di noi, non è vero? Ci scambiamo sguardi vuoti. … Che facciamo qui? … Sogniamo ad occhi aperti. … Sì, quelli sono la mia mamma e il mio papà. … Vado a lavorare alle otto e torno a casa alle cinque e mezzo. Quando andrò in pensione mi regaleranno un orologio… Adesso sai tutto di me.” (52)
“Ciascuno di noi vede le cose con occhi diversi, e non serve a nulla sperare che anche uno solo su mille la pensi alla tua stessa maniera.” (96)
“Siamo entrati in questo mondo e prima o poi lo lasceremo. … Siamo qui a tempo determinato.” (101)
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p.
[trama del 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una scoperta di un autore (di 13 giorni più piccolo di mio fratello) che non conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43 anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il controinterrogatorio in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos. Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov, ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)

Conclusioni


Questa volta le conclusioni sono brevi e plaudenti. I libri illustrano bene l’assunto iniziale. Il primo facendoci vedere i “mali” a cui si può incorrere esitando. Il secondo consigliandoci, come dicono le due scrittrici, che nel momento di prendere qualche decisione, sarebbe bene rispondere sempre “si” (e sicuramente rispondere e non tacere).