domenica 25 luglio 2021

Garzanti vs. Sellerio: un pareggio - 25 luglio 2021

Questa settimana, visto che siamo in tempi olimpici, vi propongo una sfida tra due grandi case editrici, tutta al femminile. Per Garzanti abbiamo una turca che parla di Brasile ed una spagnola che ci riporta a Barcellona. Per Sellerio, invece abbiamo la finta autobiografia di Petra ed un intrigante libro quasi “juvenilia” che viene dalla Francia. Alla fine, un salomonico pareggio, purtroppo neanche tanto eccelso.

Aslı Erdoğan “La città dal mantello rosso” Garzanti s.p. (prestito di Fako)

[A: 03/06/2020– I: 19/01/2021 – T: 21/01/2021] - &&

[tit. or.: Kırmızı Pelerinli Kent; ling. or.: turco; pagine: 151; anno 1998]

Dopo tanto tempo, una nuova scrittrice turca, letto sotto il solito perverso impulso del mio amico Fako. Purtroppo, una piccola delusione che mi aspettavo qualcosa in più, o diverso. La Erdoğan è un’attivista ben nota, e noi siamo con lei (idealmente) nel contrastare il regime del suo omonimo non parente Recep Tayyip Erdoğan.

È anche nota e discretamente apprezzata come scrittrice, pur avendo seguito un percorso decisamente ellittico per arrivare alla scrittura. Laureatasi in Fisica all’Università del Bosforo, si specializza al CERN di Ginevra studiano il bosone di Higgis, quindi ai avvia ad un dottorato di ricerca in Brasile. Dove continuerà ad avere il suo gran colpo di fulmine verso la scrittura. Colpo già iniziato da tempo, ma proprio a Rio de Janeiro maturato e portato (quasi) ad un punto di non ritorno. Tornata in Turchia, intorno al ’96-’97 decide di abbandonare l’Università e di dedicarsi completamente alla scrittura, terminando la scrittura di questo romanzo che stiamo tramando e che prenderà la luce nel 1998.

Queste notizie non sono peregrine ma servono ad inquadrare meglio anche lo scritto. Per quanto riguarda invece la scrittrice, dall’uscita del libro, intraprende anche la via giornalistica, unita, ovvio, alla protesta sociale. Per arrivare alla Aslı oppositrice del regime che molti conoscono.

Il libro si muove su due piani, e già questo non è facile da gestire, né per la scrittrice né per il lettore. C’è il racconto della vita della protagonista, cui l’autrice dà il nome significativo di Özgür (che in turco significa “libera”). Intrecciato, c’è il racconto o meglio brani del libro che Özgür sta scrivendo, questa “Città dal mantello rosso”, che noi stiamo leggendo. Özgür arriva a Rio carica di aspettative: segue il suo corso di dottorando, e da trentenne in cerca della sua strada, prova anche a mantenersi dando lezioni di inglese (tanto che verrà presto chiamata “gringa”). Una volta inseritasi nelle pieghe della città, la sua vita ed il modo di percepirsi cambia. Cambiando anche lei, incuneandosi in un vortice di povertà, di solitudini, di privazioni e di eccessi.

Non è un caso, che Özgür si ritrovi alla fine a vivere in una favela, seppur non in una delle peggiori. Lì sentirà (e questo cercherà spesso di esprimerlo parlando delle passeggiate di un viaggiatore nella città) i denti della città che cominciano a morderla. La scrittrice reale, la scrittrice fittizia, ed il romanzo composito che stiamo leggendo, cominciano a descrivere allora quella che è la Rio più reale e quotidiana: rapine all’ordine del giorno in molte delle strade secondarie, morti, omicidi, stupri, traffici vari (droga e armi soprattutto), scontri tra bande rivali, epidemie e soprattutto caldo, tanto caldo che neanche i succhi di frutta gelati riescono a sedare.

Lì a Rio, nelle favelas dove l’arrivo di un nuovo carico di droga viene salutato da una selva di fucileria, si può essere uccisi per strada in qualsiasi momento. Per strada dove vivono e giacciano senzatetto, per strada dove vagano bambini affamati, con i segni delle percosse e di torture, persi nei meandri di prostituzione infantile, bambini tubercolotici fin dall’infanzia. E le donne, sensuali fino all’unghia. Ma anche le donne “ibride”, anime perse che sono l’ossatura della città, brutali, violente e violentate. Con una descrizione fenomenale nella sua non ortodossia, del Carnevale e del famoso “Sambodromo” di Rio.

Tutto porta Aslı a denunciare in fondo il contrasto immenso tra la città turistica, la spiaggia di Copacabana, e i sobborghi malfamati, che poi sono l’80% di Rio stessa. Ma la denuncia di Aslı è poi da un lato nota, dall’altro cosa apporta al suo superamento. Sappiamo che è così, ma cosa si può fare? E soprattutto, cosa può fare una turca con un libro, che non so quanto mercato abbia avuto nello stesso Brasile.

Seguiamo la vicenda di Özgür nelle non molte pagine, seguiamo idealmente il ritorno di Aslı in Europa, ma la vicenda non prende, non decolla. Anche perché in Italia arriva solo ora, venticinque anni dopo. Forse sono realmente troppi.

Poiché quindi il libro in sé non mi ha entusiasmato, e pensando al mio amico Maurizio, vi lascio con le raccomandazioni che Aslı fa ai viaggiatori: “Guardate il tramonto dal Corcovado (quella famosa e colossale statua di Cristo), uno spettacolo impressionante (ma veloce ai tropici) e provate sicuramente il succo di papaia fresco. Ma vi raccomando di ricordare per un momento l'AIDS di Rio e i record del crimine, di non vagare mai da soli in nessuna circostanza, di non indossare mai orologi, oro o gioielli e di prendere tutti i tipi di precauzioni razionali in modo che il sangue della città non ricada su di voi”.

Alicia Giménez-Bartlett “Autobiografia di Petra Delicado” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 12,75 euro)

[A: 18/01/2021 – I: 14/02/2021 – T: 17/02/2021] - &&   

[tit. or.: Sin Meurtos; ling. or.: spagnolo; pagine: 455; anno 2020]

Una lettura immediata, senza troppo tempo dopo l’uscita, in base ad una nuova serie di algoritmi di lettura. Anche perché appena uscito, è un libro che è balzato ai primi posti delle classifiche di vendita. Sarà per l’effetto “Cortellesi” dell’uscita televisiva, sarà per il nome di Alicia che in ogni caso attira. Certo, una volta letto, mi ha lasciato un po’ deluso.

Innanzi tutto, trovo molto più calzante il titolo spagnolo. In effetti, è un libro senza morti, o comunque senza indagini. Certo, Petra scrive con la penna di Alicia, raccontando la sua vita, dalle origini ai giorni nostri. Una bio-fiction perfetta. Cioè, non una biografia inventata di una persona reale, ma una biografia reale di una persona inventata. Magistrale.

Ma una volta reso omaggio all’idea, non è che sia entusiasmante, o che sia particolarmente coinvolgente. Perché noi attenti lettori degli scritti della brava spagnola, già sappiamo quasi tutto di Petra. E questa lettura poco ci aumenta nella conoscenza, ma in compenso ci priva delle storie e del quotidiano di Petra e di Fermín.

Il tentativo poteva anche avere una sua validità, o forse ce l’avrà per chi conosce solo in parte la vita di Petra. Ma noi, i caposaldi del suo percorso di vita li abbiamo seguito libro dopo libro, scoprendone alcuni, prendendo conoscenza di altri. Come il fatto che si è sposata due volte prima di avere questa forse ultima avventura con il buon Marcos. Con Hugo, il primo, in cui rivedeva forse la figura paterna, o comunque qualcuno cui affidare il proprio avvenire senza farsi tante domande. Laureandosi, senza tanta convinzione, in Giurisprudenza, facendo per un po’ l’avvocato, per poi rendersi conto che quella era la vita di Hugo, non la sua.

Quindi il primo divorzio, la decisione di entrare in polizia, e quel passaggio verso l’Ufficio Documentale, che non sembrava esserci altro per lei. E poi Pepe, dove i ruoli si ribaltano, e Pepe vede in lei la figura genitoriale che gli era mancata. Si, bello avere qualcuno che ammira sempre quello che fai. Ma meno avere qualcuno che dipende sempre da te, anche per scegliere i calzini. E che non ha mai una sua iniziativa propositiva.

Quindi il secondo divorzio, meno traumatico, tanto che Pepe rimarrà sempre un amico con la sua aria sfrontata ed un po’ tra le nuvole. Però questo coincide con il passaggio alla Sezione Omicidi, con l’incontro fondamentale e reciprocamente utile con Fermín. È inutile, qui, ripercorrere tutti i momenti della storia di questa che diventerà l’amicizia di fondo della vita di Petra. L’abbiamo seguita passo dopo passo. Abbiamo gioito quando Fermín decide di convolare con l’esuberante Beatriz. Abbiamo penato quando non si sapeva se tra Marcos e Petra c’era solo sesso. Ed abbiamo ringraziato Alicia di averli riportati su binari altri, con l’ulteriore sfida, per Petra, non solo di accettare le condivisioni con Marcos, ma anche le sue famiglie pregresse. E sappiamo bene, dai vari libri, quanto poi si si affezionata ai gemelli ed a Marina.

Quello che mancava, forse la sola parte di novità, anche se qualcuno si potrebbe domandarne l’utilità, sono i primi venti anni di Petra. L’infanzia, le due sorelle maggiori, la madre onnipresente ed onnigiudicante. I primi anni nella scuola delle suore, le ribellioni velate. E poi la scoperta dell’Università, di un mondo libero fuori dal mondo oppressivo, anche se liberale, di famiglie comunque segnate sia dalla Guerra Civile, sia dai lunghi anni del franchismo imperante.

Capiamo di più e meglio alcuni tratti del carattere di Petra, delle sue piccole ribellioni anche da adulta, del micro-femminismo che a volte mette nelle indagini. E sì, che qualche accenno c’è, e non può non esserci, alle indagini che ben conosciamo dai libri. Agli interrogatori duri, a volte più duri da parte sua che da parte di Fermín.

Ma alla fine, molte sono le domande che restano, e molte, purtroppo, forse senza risposta.

Il più importante, per me, è che benché collocata nel tempo, con precisi riferimenti anche agli avvenimenti esterni, non si ha la percezione precisa di quanti anni abbia Petra, e soprattutto di quando li abbia. Certo, i personaggi letterari sono un po’ nebulosi. È raro che qualche scrittore riesca a farli aderire alla realtà, passo dopo passo. Quindi, se ora, mettiamo, Petra potrebbe avere una cinquantina d’anni, ne avrebbe avuti solo sei-sette alla morte di Franco. E sarebbe andata all’Università in un clima molto post-franchista. Se invece stiamo ai suoi racconti, allora dovrebbe avere almeno sessant’anni, se non di più.

Se facciamo un po’ di calcoli, all’inizio Petra dice di essere poco al di sopra dei quaranta. Siamo in “Riti di morte” del 1996. In realtà arrivati a "Il silenzio dei chiostri" (2009) la nostra protagonista avrebbe dovuto aver superato abbondantemente i cinquanta! Infatti, nel primo libro, "Riti di morte" dice di essere stata sposata 14 anni con Hugo, conosciuto all'università, e che altri sette anni sono passati da allora: e fanno ventuno. In "Un bastimento carico di riso" (2004) afferma di lavorare con Fermín da sette anni. In "Nido vuoto" (2007) è passato ancora un altro anno. Il conto è semplice: almeno 29 anni dal momento del primo matrimonio, avvenuto dopo la laurea in giurisprudenza.

Ma probabilmente sono io che sono un po’ “rompino”. Alicia fa dire a Petra, per via traversa, che è nata negli anni Cinquanta. Così che ora si dovrebbe avviare ai settanta. Ma i personaggi letterari godono della sospensione temporale, per loro ogni anno sulla carta dura dure o tre anni reali.

Infine, per non tediarvi troppo con le mie elucubrazioni, quanto di Alicia c’è in Petra, visto che Alicia sì che è nata negli anni Cinquanta, per l’esattezza il 10 giugno del 1951, per cui quest’anno festeggeremo i suoi settanta bellissimi anni

Carolina Pobla “I gerani di Barcellona” Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 19/08/2020 – I: 02/03/2021 – T: 05/03/2021] - && e ½ 

[tit. or.: Geranios en el balcón; ling. or.: spagnolo; pagine: 407; anno 2018]

Uno dei tanti libri estivi di Alessandra, preso per l’estate passata che ci ha visto un po’ fermi e quindi anche più leggente. Inserito anche nel filone delle grandi storie familiari che l’anno scorso hanno un po’ dominato il mercato, sull’onda di Stefania Auci e dei Florio.

Qui, il tempo è più stringato, anche se comunque importante, visto che andiamo dal 1928 al 1953 (anno eponimo come non mai). Il solco narrativo è però sempre simile, anche se, cambiando i nomi, l’autrice confessa di parlare dei suoi nonni paterni. Facendo un po’ di conti, quindi, essendo Carolina del 1962, dovrebbe essere figlia di quel Santiago nato agli inizi degli anni ’30.

La vicenda si svolge (quasi) tutta in Catalogna, prendendo le mosse dal capostipite della famiglia Torres, uomo dai mille mestieri che ora si trova a governare traffici marittimi, con quattro figli a carico (per tradizione familiare tutti con la R): quattro femmine, Rosario, Remedios, Roscio e Rosa, ed un maschio, Rafaelito. Ovvio che comincia tutto con un dramma: la perdita della nave, da cui però il signor Torres si ricicla andando a vivere all’interno, e dedicandosi al commercio di armi da fuoco. Vediamo Rosario, la maggiore, la più bella, che si fa abbindolare da un artista che le millanta conoscenze e la spinge al canto per la sua comunque notevole voce. Vediamo la seconda, Remedios, succube del fascino della sorella, dedicarsi ai giardini e soprattutto ai gerani del titolo. Vediamo la terza, Roscio, sempre tra casa e chiesa. Vedremo anche il dramma dei due piccoli. Che porteranno Roscio a prendere le redini della casa, e chiudere per sempre con le due sorelle, che in cerca di avventure, si trasferiscono a Barcellona.

Lì, scoprono che il millantatore non aveva gran che da proporre loro se non una vita presso una anziana ex-tenutaria di bordelli. Certo, la signora Paquina ha ancora molte conoscenze, che istradano Remedios verso la sartoria, dove conoscerà il suo futuro marito e con il quale avrà lunga vita altrove. Ma conducono anche Rosario presso un imprenditore che, per farle fare strada nel canto, non ha altro mezzo che “venderla” ad un anziano ricco signore. Rosario inizierà la carriera facendosi chiamare Charito, avrà iniziali successi, fino a che conoscerà il bel Tobias. Di lui, nella prima metà seguiamo vita e peripezie in Canada, prima del ritorno a Barcellona, e l’incontro fatale con Charito.

Ci meravigliamo forse che i due finiscono presto a letto? Che Rosario rimanga incinta? Che debba decidere se previlegiare la famiglia o la carriera? Tutto un po’ scontatello. Ma tant’è, la vita di tutti cambia. Anche perché si approssima, e poi deflagra, la guerra civile. Questa è la parte più debole del libro, che viene affrontata un po’ dal basso (e non sarebbe una brutta idea), vedendo più le sofferenze quotidiane che le grandi manovre politiche. Ma questo passa la scrittura.

Tobias un po’ si barcamena, un po’ viene imprigionato, ma salvato da Magda, una anziana amica di Rosario. Fuori dal carcere, Tobias si rifà una vita lavorativa, riciclandosi in mille lavori, per poi finire l’ultima parte della sua storia inseguendo collezioni di francobolli.

Remedios sposa il suo Enrique, si trasferisce ad Alicante, dove la raggiunge la ormai vecchia Paquina, che lì morirà, lasciando tutte le sue sostanze alla cameriera Hortensia. Tobias e Rosario avranno intanto una seconda figlia, la bella Soledad. Non ci meravigliamo neanche che durante gli anni ’40, Charito incupisce, risvegliandosi solo al mattino, quando canta in casa accompagnata da un pianoforte di ignota suonata. Ma quando il pianista muore, Charito entra in depressione, andrà dentro e fuori istituti psichiatrici, uscendone dopo un elettroshock, assai stordita.

Tanto da non accorgersi che nel frattempo Tobias si consola con Juanita, che la mette incinta. Con Juanita che muore di parto, la piccola affidata ad Hortensia, e Tobias tornato nell’alveo familiare, accanto ad una Charito sempre più assente.

Una saga di 25 anni, un po’ moscetta, anche se con qualche spunto da “fiction di Rai1”. Anche i personaggi non hanno mai un rilievo forte, quasi attraversassero la vita senza rendersi conto della vita che stanno vivendo.

Ritorno solo sulla parte dedicata agli anni della Guerra Civile, che, per il modo in cui incise nella vita spagnola per quasi quaranta anni, andrebbe forse trattata in maniera meno “leggera”.

Penso che rimarrà una lettura isolata, tanto per riposare i due neuroni affaticati.

Finisco con la solita domanda: perché i gerani del balcone diventano “gerani di Barcellona”? Certo la capitale catalana è ben presente nel racconto, ma il titolo italiano dà un connotato alla vicenda che non è presente nel corso della scrittura di Carolina.

Ingrid Seyman “La piccola conformista” Sellerio euro 15 (consigliato d Robinson)

[A: 25/02/2021 – I: 13/04/2021 – T: 14/04/2021] - && e ½

[tit. or.: La petite conformiste; ling. or.: francese; pagine: 187; anno 2019]

Continuando nelle letture di libri nuovi suggerite dal supplemento repubblicano, mi imbatto in questo libro che pensavo nordico ed invece è francese. Opera prima di una giornalista da anni scrivente su “Marie Claire”. Si vede che Ingrid sa sbrogliarsi da difficili momenti di scrittura, come impara chi lavora ai periodici. Ma si vede anche il vezzo giornalistico di affrontare mille e mille problemi, in un calderone a volte un po’ pesante per la digestione.

Perché se è vero che la lettura scorre leggera, è anche vero che si parla di rapporti familiari, adolescenti (o infanti) in crescita, legami e dissapori tra religioni, ciclotimia, burrasche psichiche, emigrazione, vittoria di Mitterand e delusioni della sinistra al potere, pieds-noir e francesi doc. Vi basta? Forse troppo, vero?

Intanto, e di sicuro, non possiamo che plaudire all’ambientazione. Una Marsiglia non solo Izzo, anche se piena di contraddizioni. E lunghe puntate anche nei dintorni: Cassis e le calanche, La Ciotat, fino alle spiagge naturiste di Port Grimaud. Alcune gite che fanno tornare la voglia di frequentare di nuovo la costa mediterranea francese.

Tuttavia, la storia è imperniata, incistata direi, intorno all’io-narrante (se volessi fare il sapiente parlerei di narrativa autodiegetica, ma sorvoliamo), la piccola (quando inizia il romanzo) Esther Dahan. Una narrazione che affronta (anche) tutti i problemi sopracitati con un fare ironico ed a volte sapientemente comico. Esther che narra essere nata di destra da una famiglia di sinistra. Nata il giorno di Natale da Babeth, una madre atea ed hippie che ha fatto il ’68, e da Patrick, un padre ebreo non molto praticamente. Che in effetti ricorda le sue origini solo in alcune situazioni specifiche: per fare il bar mitzvah al fratello Jeremy, per litigare con Esther quando questa vuole (e farà) il battesimo e la comunione. Per sentirsi omologata nella scuola ipercattolica che frequenta, ma anche per fare un dispetto ai suoi.

Che sempre in antagonismo con Patrick si trova, ma sempre a Babeth che farà, involontariamente, del male. Patrick che l’assilla, anche, con il fatto che, benché siamo alla fine degli anni ’70, c’è sempre la possibilità che arrivino i cattivi e portino di nuovo tutti gli ebrei nei campi di sterminio. Patrick che vive nel mito, molto campato in aria, delle origini algerine della famiglia. Come stavano bene laggiù ad Orano, che vita si faceva ad Algeri prima che la famiglia fosse costretta a tornare in Francia. Di cui rimane solo un vaso di terracotta piena della terra del loro vecchio giardino.

Vediamo Esther con le sue manie di ordine e pulizia, che lei etichetta appunto di destra, in contrapposizione allo schema libertario di vita della famiglia. Che Babeth e Patrick girano sempre nudi per casa, non si fanno remore di darsi ad effusioni anche con i bambini in giro, che parlano di tutto. Laddove Esther vuole andare a letto alle otto, ama la grammatica, ordina i libri per argomento, anela vestitini blu e gonne a pieghe, invece dei pantaloni a zampa d’elefante di Babeth. Vorrebbe musica e televisione invece delle pantomime paterne, che si traveste da Alain Delon e si registra mentre canta canzoni di Jacques Brel e Georges Brassens.

Una situazione forte, per una bimba che, vessata e stressata, medita anche parricidi ed altre morti, immergendosi nella lettura integrale di Agatha Christie per avere spunti.

Pur non essendo riuscito fino in fondo, di sicuro merita una lettura per una serie di motivi. I siparietti comici: la circoncisione di Jeremy e la storia del vaso algerino, le visite antagonistiche alle famiglie borghesi ed i battibecchi con i nonni. Un modo di mettere alla berlina il progressismo di un tempo ormai passato. La storia di una famiglia “diversa” ma uguale tolstoianamente a tante altre, vista con gli occhi di una Esther controrivoluzionaria interprete di una ribellione anticonformista alle irrequietezze della sua famiglia e del mondo.

Ed il finale, che merita di essere letto senza essere commentato, che solo arrivati alla fine si legge e si interpreta quanto letto. Ma di ciò non dico altro, per tema di uscire dal seminato.

Personalmente, a volte trovo sbilanciato il troppo riso, enfatizzato il comico a spese dell’analitico, per cui non mi ci sono ritrovato fino in fondo. Mi sembrava promettesse molto nel primo capitolo. Ma non sempre si riesce a mantenere a lungo quel modo di leggere la realtà, e di viverla. Per cui, giudizio interlocutorio.

Essendo la quarta trama, vi faccio riposare con allegati et similia, ma non posso dimenticare una bella frase, di un libro che mi regalarono i miei compagni di lavoro quando andai in pensione. Ed era una frase (anzi è) molto giusta. Il libro è “E poi siamo arrivati alla fine” di Joshua Ferris che mi suggeriva: "È davvero irritante lavorare con persone irritanti".

Anche luglio volge al termine, e le incertezze, invece di diminuire, aumentano. Si riuscirà a partire? Ad agosto? A settembre? E per dove? Che ansia…

Per fortuna che ci siete voi, miei amici e sodali, che posso abbracciare ed a cui posso inviare un bacio. 

domenica 18 luglio 2021

New York, un po’ … - 18 luglio 2021

Una settimana tutta dedicata alla Grande Mela, per letture della collana di Repubblica, e perché, guardando di là dall’Oceano, si spera di tornare a viaggiare. Una quartina in salita, dove quello a me più noto, McInerney, comincia con buon passo, poi si perde. Meglio procedono O’Neill e Gopnik, per finire molto bene con Colum McCann, dove mi unisco anche io al suo bacio.

Jay McInerney “La luce dei giorni” Repubblica New York 3 euro 9,90

[A: 03/09/2018 – I: 09/01/2021 – T: 12/01/2021] - && e ½  

[tit. or.: Bright. Precious Days; ling. or.: inglese; pagine: 508; anno 2016]

Finisco questo libro praticamente in concomitanza con il 66° compleanno dell’autore. Che è un veterano della scrittura, anche se non un grande pubblicatore. Io lessi il suo primo libro, lui trentenne (“Le mille luci di New York”), interessante, ma già da allora (1985) troppo pieno di droghe e troppo vuoto di intrecci significativamente coinvolgenti. Infatti, Jay è anche considerato più che un autore minimalista (anche se andò a lezione da Raymond Carver) un autore della “brat pack”, la teppaglia (in senso ironico) di attori coagulatisi intorno a Demi Moore negli anni ’80.

Comunque, producendo poco, e di poco segnalatomi, non ho letto altro, fino a questo, che riprende due temi: una nel titolo, su cui torniamo, ed uno sui protagonisti. Dicevo del titolo: una grossa fette dei libri di McInerney contiene il termine “bright” nel titolo. Indicante sempre qualcosa di luminoso, e che spesso i suoi traduttori non riescono a rendere pienamente. Ad esempio, il primo libro sopra citato si intitolava “Bright Lights, Big City”. E questo, come vedete sopra, contiene sempre un accenno alla luce, chiosandola con quel “giorni preziosi” che la definisce e forse ne fa emergere una critica.

Il secondo tema viene dai protagonisti. Io leggo i libri senza prima compulsare quarte e risvolti, così che solo a libro finito ho scoperto che era il terzo libro della trilogia dei Calloway. Ora, l’autore è stato discretamente abile a non far trapelare nulla dal testo, ma alla fine, probabilmente, il libro stesso acquista una valenza diversa, non so se positiva o negativa, dal fatto che è appunto il terzo capitolo di una saga. E forse non sarà neanche il capitolo finale.

Nel primo libro, per voi che invece leggete le mie trame e non i miei libri, si parla della giovinezza di Russell e Corinne, del loro incontro all’Università, e del loro amore. Nel secondo, invece, il focus è sì sui protagonisti, ma anche sulle vicende dell’11 settembre, che i nostri vivono prima, durante e dopo. Nel primo, trasversale all’amore tra i nostri, c’era anche la presenza di Jeff, amico e sodale di Russell, scrittore promettente, innamorato di Corinne, e stroncato dalla droga. Nel secondo, è invece presente la storia tra Corinne e Luke, un ricco uomo d’affari, che è preso cotto da Corinne. Con cui lavora per aiutare i poveri e gli affamati dopo la caduta delle torri.

Qui, al fine, li ritroviamo tutti. Russell, editore di buon successo, con fiuto per i buoni libri, ma anche con grosse ingenuità. Sia personali (ogni tanto ha qualche scappatella) sia lavorative (andando a pubblicare un libro pieno di falsi che lo porta quasi alla rovina). Corinne ha ormai abbondonato la sua professione per lavorare in una associazione caritativa (“Nutrire New York”). Peccato che ritrova Luke sulla sua strada, per cui prenderà una sbandata che porterà la coppia sull’orlo della crisi definitiva. Ed i loro amici: i coniugi Lee, neri, con il marito che prende una sbandata per Casey, la più cara amica di Corinne. C’è come detto Luke, diviso tra New York e le sue vigne in Sud Africa, ma che non riuscirà mai a fare il passo definitivo per conquistare Corinne. C’è Jack, un giovane e promettente autore di provenienza sudista, che Russell lancia, ma che Jack tradisce ammaliato dal finto successo e dalle tante droghe.

Questi poi sono i due fili conduttori (più un terzo più valido): si scopa e ci si droga a tutta. Certo, l’ambiente è quello dei possidenti americani, pieni di soldi, propri e in prestito. Che l’unica cosa che sanno fare è andare a letto con qualcuno che non è il proprio coniuge, e riempirsi il naso di coca (se non le vene di ero ed altri sballi).

La vicenda è inzeppata, oltre che di sesso, di piccoli intoppi quotidiani: gravidanze eterodirette, liti familiari, bulimia dei figli, pesca alla mosca. Ma tutto scorre con quel minimalismo che in Leavitt ed epigoni poteva essere interessante, mentre qui scorre piatto, senza mai fare una grande presa.

Rimane il terzo filo, latente, ma di sicuro migliore: New York. I protagonisti ci vivono, camminano, girano tra SoHo e TriBeCa, tra Upper West e l’Upper East, tra gli Hamptons e Harlem. Con una capatina, che a me ha fatto tornare ai tempi in cui spesso sono capitato nella grande mela, a Brooklyn Heights ed alle sue casse in mattoni marroni, le “brownstone”, le case d’arenaria a schiera con i cinque gradini per entrare che danno sui marciapiedi.

Il tentativo di McInerney è stato anche qui di inserire la storia in un contesto sociale: siamo nel 2008, quindi i nostri WASP si dividono tra Hillary e Obama, e saranno contenti della vittoria del secondo. Ma è anche l’anno della crisi di Lehman Brothers, e molti dei nostri ne avranno conseguenze anche pesanti. Tuttavia, non prende, anche perché si spera che l’America sia anche altro. Pur se vedendo i Donald successivi ci si pongono forti domande. Però, alla fine, pur ammirando un autore che riesce a tenerti sveglio per 500 pagine, non lo ritengo un libro imperdibile.

Un ultimo accenno sempre alla traduzione. Ad un certo punto, Luke vuole convincere Corinne a venire in Africa per un safari, e vedere, così dice il traduttore, i “cinque grandi”. Detto così è insensato. Quelli, si sa, sono i “big five”, che certo letteralmente sarebbe giusto tradurlo così, ma se non si sa che i detti “big” sono l’elefante, il leone, il bufalo, il rinoceronte ed il leopardo, la citazione rimane monca. Speriamo in meglio in altre traduzioni.

“Aveva insistito sul fatto che quella non era una festa di compleanno, non avendo alcun desiderio di celebrare i propri …, a differenza di … che aveva fatto una gran baldoria per…” (66)

“Non conosco la musica recente … cioè me la cavo fino a … li Stones e i Led Zeppelin, ma dopo di loro … mi pare che il rock si sia esaurito.” (81)

“A colazione vuole sapere cosa c’è per pranzo, e a pranzo chiede della cena.” (214)

“Non era esattamente così che me l’immaginavo, sai, quando pensavo al mio futuro.” (270)

“Invecchia insieme a me. Il meglio deve ancora venire.” (493)

O’Neill “La città invincibile” Repubblica New York 8 euro 9,90

[A: 24/09/2018 – I: 01/02/2021 – T: 04/02/2021] - &&& 

[tit. or.: Netherland; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 2008]

Non sembra proprio un caso che il libro preferito da Obama, presidente americano di origini non africane, che lo ritiene il miglior libro su New York e sul post-11 settembre pubblicato in America, sia questo scritto da un irlandese di madre turca, vissuto a lungo in Olanda, che mette al centro visivo del testo il gioco del cricket, un suo alter-ego olandese ed una spalla che proviene da Trinidad.

O’Neill, infatti, è nato proprio a Cork in Irlanda, ma gira per molti posti, sino a stabilirsi a lungo in Olanda. Si laurea, diventa un buon giocatore di cricket, fa l’avvocato a Londra, poi nel ’98 emigra in America con la moglie. Vivono al Chelsea Hotel (quello dove morì Dylan Thomas nel ’53, tanto per ricordarsene), hanno tre figli. Poi la vita di Joseph prosegue in altro modo, ma tutta questa prima parte ha un suo riscontro bio-fiction nel testo appena letto. Dove però il protagonista è direttamente olandese, e si chiama Hans van der Boek.

Comunque, tanto per fare un salto sopra a quello appena detto, alla fine non è un romanzo né sul cricket né sugli immigrati delle Indie Occidentali. È di sicuro un romanzo che ha per protagonista New York, ed è un romanzo sull’amore, sula matrimonio e sui rapporti interpersonali.

La cosa che più mi ha colpito e fatto amare gran parte del romanzo è quel modo dell’autore di entrare ed uscire dal tempo, senza crearne fratture. Da tempo, leggo libri i cui autori ricorrono spesso ai flash-back per illustrare meglio momenti e situazioni. Qui, Joseph riesce, pur andando su e giù nel tempo, a creare un’unità descrittiva che non disturba. Seguiamo i pensieri di Hans, che, come in tutti noi, mentre vedono l’oggi che scorre, a volte svolazzano indietro o di lato nel tempo. Il tutto senza perdere ritmo. Molto interessante.

Hans è un analista dell’andamento mondiale del petrolio, ha una moglie-avvocato inglese, Rachel, che decide di andare a New York per la carriera. Lì i due prima vivono a TriBeCa (ricordo per i non newyorchesi, “Triangle Below Canal Street”, dove Canal Street è l’inizio di Little Italy), ma dopo l’11 settembre si spostano al Chelsea Hotel (vedi sopra), hanno un figlio ed il loro matrimonio entra in crisi. Per affrontarlo hanno strategie diverse: Rachel con il figlio Jake torna a Londra, Hans si dà al cricket.

Qui si apre una grande parentesi del narrato: primo, il cricket che è l’antenato del baseball, e che quindi avrebbe senso fosse ancora praticato in America; secondo, il cricket ancora che è uno sport cavalleresco, ma anche troppo lungo per la realtà statunitense (prima che venissero adottate regole restrittive, una partita poteva durare fino a cinque giorni); terzo, è nel cricket che Hans incontra sia una colonia di immigrati di colore sia, e ben più importante, l’arbitro trinidadiano nonché grande faccendier e megalomane, Chuck Ramkissoon.

Hans è l’unico bianco a praticare il cricket, ma Chuck lo prende sotto la sua ala protettiva, e lo introduce ai mille misteri della città e delle sue attività. Chuck è veramente innamorato della sua nuova patria, tanto da voler essere sepolto a Brooklyn. E sì, Chuck è megalomane, inventore di mille improbabili attività (come un ristorante sushi per ebrei) all’insegna del suo motto “think fantastic”.

Poi, c’è New York. I suoi luoghi chiave, le usanze, le solitudini, visti sempre attraverso gli occhiali di un immigrato del Vecchio Mondo. Così che da un lato vediamo gli strani personaggi di Chelsea: il gay turco che si aggira per l’hotel visto da angelo, un artista ben drogato ed i suoi occhiali da sole anche di notte, i proprietari di cani che fanno feste quadrupedi nella hall. Nonché luoghi inusitati della grande Mela: il Floyd Bennett Field (il primo aeroporto di New York), il Green-Wood Cemetery, con le sue tombe di Tiffany e Steinways, ma anche di Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart. Perfino la lunghissima (15 chilometri) Flatbush Avenue, che Hans descrive come zeppa di locali bucati "dedicati all'abbellimento ... di quelle parti del corpo che continuano a prosperare dopo la morte: ... barbieri, specialisti africani nell'intrecciatura dei capelli, fornitori di parrucche e acconciature ... "

Una bellissima ed ironica pagina è dedicata al tentativo di Hans di prendere una patente statunitense, laddove si scontra con la burocrazia quando sulla sua tessera sanitaria e sulla sua green card il suo nome è scritto con due grafie diverse.

Ma tutto poi torna a ruotare tra il rutilante Chuck e l’incerto Hans, fino al loro allontanarsi definitivo, per la decisione dell’olandese di tornare in Europa per salvare il suo matrimonio. Tentativo forse riuscibile, impreziosito da alcuni ricordi materni di toccante bellezza.

È un libro che ho letto con piacere, sia per ritornare alla mente a New York, sia per le peripezie mentali del protagonista, sia, infine, per quelle descrizioni di un gioco che pochi, al di fuori di una ristretta fascia asiatica conoscono in profondità. Per non dimenticare una bella anche se complessa vacanza della famiglia van der Boek nel Kerala. Ah, che ricordi!

Un’ultima menzione va al titolo. In inglese arcaico “nether” significa sotto, inferi, per cui, aggiungendo il suffisso “land” siamo da un lato vicino al nostro “Paesi Bassi”, anche se al singolare. Mentre dall’altro siamo nel territorio dei sobborghi (altro significato di nether) con l’aggiunta di un evidente connotato di inferiorità. Ed allora, da dove viene l’invincibilità di una città? Misteri editoriali.

“[citando Socrate] Sposati: se trovi una buona moglie sarai felice, se ne trovi una cattiva diventerai filosofo.” (205)

“Ho bisogno di due donne … una che si occupi della casa e della famiglia, l’altra che mi faccia sentire vivo.” (229)

Adam Gopnik “Una casa a New York” Repubblica New York 13 euro 9,90

[A: 01/11/2018 – I: 26/03/2021 – T: 29/03/2021] - &&& 

[tit. or.: Through the Children’s Gate: a home in New York; ling. or.: inglese; pagine: 436; anno 2006]

Interessante, anche se non semplice, questo nuovo scritto sulla città di New York (o almeno su scrittori che sono di profumo “newyorchese”). Non semplice anche perché di difficile collocazione. Quando lo presi, pensavo fosse un romanzo. Ma non lo è. Quando ho cominciato a leggerne, credevo di aver capito fossero racconti. Ma non lo sono. Alla fine, mi sono deciso ad approfondire notizie sull’autore, ed un quadro più chiaro ne è uscito (unito certo a quanto stavo leggendo).

Poiché io mi avvicino al libro (così come ai film quando vado al cinema), con quasi nessuna notizia precedente. Non voglio essere (troppo) condizionato da chi ne ha letto (o ne ha visto), o da chi sia l’autore (a meno che non sia già tra le mie conoscenze). È così che è cominciato questo viaggio attraverso il “Cancello dei Bambini” (sulla Quinta all’altezza della 76ima).

Scoprendo poi che Gopnik è un giornalista che dal 1986 (cioè da quando aveva 30 anni) scrive sul “New Yorker”, rivista per la quale si trasferì cinque anni a Parigi, per poi tornare, nel 2000, nella Grande Mela. Questi lunghi flash, che alla fine risultano essere venti, e che (in varie forme) sono usciti sulla rivista, illustrano sei anni della vita della famiglia Gopnik a New York. Ed è ovvio, quindi, che siano giustamente inseriti in una collana dedicata alla città.

Meno ovvia è la decisione degli editori italiani di tagliare la prima parte del titolo, lasciando la seconda, che quindi rimane monca. È attraverso il passaggio in quel cancello, infatti, che si celebra il ritorno dei Gopnik in America, soprattutto per la presenza dei due figli, Luke e Olivia, protagonisti e motori di alcune delle storie.

Iniziano così questi venti spezzoni di vita, descrittivi, spesso, ed impreziositi da richiami a lettere ed arti (non a caso Gopnik è anche laureato in arte). L’autore fa quasi un percorso a tappe, iniziando dalla ricerca di una casa, che sia confortevole, economica, con tante finestre sulla città. Per dimenticare la prima che lui e Martha presero trasferendosi a N.Y dal Canada. Poi i giorni con gli amici, i giochi, le reminiscenze, nonché, molto importante, il rapporto con il suo amico Kirk (che morirà di cancro, ed a cui sono dedicate pagine bellissime).

Visto che si trasferiscono nel 2000, è anche facile capire come una fetta sostanziosa sia dedicata all’11/9, alle Torri, ai sentimenti degli abitanti, allo smarrimento di quello uptown, ben diverso dal terrore di quelli downtown. Devo dire che sono le prime pagine che ne leggo senza che mi comunichino angoscia o astio. Non sono pagine né semplici né consolatorie, ma fotografano quel momento come pochi (nelle mie letture) sono riusciti a fare.

C’è anche una parentesi culinaria, che Gopnik è (o è stato) anche un “food writer”, così gustiamo descrizioni di ristoranti, di cuochi, del mercato di Union Market. Il tutto condito da un divertente “gioco di cucina”: Gopnik indica alcuni ingredienti, reperibili nel mercato, ed i cuochi li devono usare (insieme a tutto quello che viene loro in mente) per costruirci un menu.

Poi, e tante sono le pagine, i figli. La crescita, la diversità, le modalità di integrazione. Luke, il grande, era già “cosciente” a Parigi (credo quattro anni), quindi passa tutta una serie di modi per arrivare ad essere e sentirsi americano. Olivia ha più difficoltà, si inventa un amico immaginario, che, come tutti i newyorchesi, è sempre indaffarato. E poi un pesce da acquario (un “betta splendens” che l’autore avrebbe potuto chiamare con il nome italiano, “pesce combattente”, invece di lasciare l’anonimo “pesce betta”). Pagine molto interessanti, anche per il rapporto tra i figli e la città.

Non è comunque un libro raccontabile, ma di sicuro leggibile anche se non scorrevole. Menziono solo l’omaggio dedicato al suo amico Kirk, descritto negli ultimi mesi prima della morte non tanto nella sua veste ufficiale di storico dell’arte (ho trovato che è stato uno dei principali rivalutatori dell’impressionista Caillebotte) quanto nell’occupazione di allenatore di una squadra di decenni patiti di football.

E ricordo e termino con poche riflessioni derivanti dalle ultime frasi sotto riportate. Una previsione futuribile sui destini della razza umana inopinatamente colpita da un virus (una frase che certo ora colpisce molto più di allora). Una seconda riflessione sull’impatto delle nuove tecnologie nella vita quotidiana, con quell’immagine di “tolleranza nei soliloqui” (come faccio io con voi nelle mie trame).

Ma più di tutte, quel flash sulla Grande Mela, che abbiamo imparato a conoscere tra le sue pagine e quello che abbiamo visto quando l’abbiamo visitata in tutti questi anni. Una città di contrasti, una città compressa, al fine, in un’isola, quando tutto il resto dell’America è piena di grandi spazi aperti. Immagine che rimarrà nella mia mente, almeno fino a quando non riusciremo a tornare di là dell’oceano.

“Alla mia età … un uomo dovrebbe sentire che se continuerà a fare il suo dovere non sarà esposto alla sofferenza, né lui, né i suoi cari.” (51) [da “A Hazard of New Fortunes” di W. D. Howells]

“Sebbene la cosa non ti cambiasse il futuro, era bello aver fatto il viaggio.” (102)

“[ha fra le mani il ‘Times’ …] da qualche parte in queste pagine c’è una breve notizia che metterà fine a tutto questo: qualcosa riguardante un virus …”  (124)

“New York è una città di gente che si muove a piedi, in un paese di automobili; New York è una città compressa in un paese di grandi spazi.” (254)

“Quello che noi vogliamo non è uno scambio di idee, quanto piuttosto una mutua tolleranza di soliloqui.” (410)

Colum McCann “Questo bacio vada al mondo intero” Repubblica New York 15 euro 9,90

[A: 19/11/2018 – I: 06/04/2021 – T: 09/04/2021] - &&& e ½

[tit. or.: Let the Great World Spin; ling. or.: inglese; pagine: 464; anno 2009]

Un libro interessante, complicato, ben scritto, ed in effetti, intrinsecamente newyorchese, anche se alcuni personaggi vengono dall’Irlanda. Come dal Vecchio Mondo viene il titolo, la cui anodina traduzione mi lascia ancora perplesso.

Allora, cominciamo da qui. Il titolo originale è preso da uno dei versi finali del lungo poema di Alfred Tennyson intitolato “Locksley Hall”. Una poesia, tra le più famose del poeta inglese, che narra dell’amarezza di un amore non corrisposto. Il narratore ricorda i momenti felici a Locksley Hall con Amy, la donna che amava. Ma dopo che Amy lo lascia, affronta il mondo amareggiato e arrabbiato. Mormora maledizioni su di lei e sull'uomo che ha scelto. Ed alla fine conclude la poesia sperando che una tempesta distrugga Locksley Hall. Il verso che McCann riprende, posto verso la fine, recita quindi in italiano: “lascia che il grande mondo giri per sempre lungo i solidi solchi del cambiamento”. Gli editori italiani, senza un motivo apparente, lo hanno sostituito con un verso dell’”Inno alla Gioia” di Schiller. Mah!

Sebbene a posteriori si possano leggere le quasi cinquecento pagine come un inno alla vita (ma forse non alla gioia), rimango dell’idea che le giravolte del mondo siano il motore pulsante che tiene insieme queste pagine, unite da un filo che non è rosso, ma d’acciaio.

Tutto, infatti, fa riferimento al 1974, anno dove si svolgono i fatti, con il Vietnam e la sua guerra, con Nixon ed il suo Watergate, ma soprattutto per il giorno centrale del romanzo, il 7 agosto 1974, quando alle 7 del mattino, viene steso un cavo d’acciaio tra le due Torri Gemelle, ed un piccolo uomo lo percorre più volte avanti e indietro. Questo è in realtà l’unico elemento reale del romanzo, la straordinaria impresa di Philippe Petit (ne potete vedere immagini bellissime su YouTube). E mentre i newyorchesi, con il naso per aria, guardano l’acrobata folle, si dipanano le storie che alla fine costituiranno un arazzo capace di restituirci l’essenza della città. Un libro pienamente dentro New York, e non solo Manhattan, ma Harlem e il Bronx, insomma la città vera nella sua totalità.

Da buon irlandese com’è d’origine, McCann fa fare il controcanto del francese a due fratelli irlandesi. Cioran è una delle undici voci narranti che costruiscono il puzzle del romanzo. Che ci parla del suo amato fratello Corrigan detto Corrie. Che cerca Dio tra gli umili, che li aiuta, che accoglie diseredati e puttane nella sua casa sempre aperta. Da lì parte l’intreccio di voci e di situazioni che ogni capitolo illumina da un angolo diverso.

C’è appunto Corrie che cerca il suo Dio tra gli umili, portandosi al loro livello senza mai giudicarli. C’è Alicia, l’infermiera latina che si innamora ricambiata di Corrie, mettendo in crisi il rapporto di quest’ultimo con il suo cielo. C’è Tillie, la quarantenne prostituta madre di Jazzlyn anch’essa prostituta e nonna. Che racconta la sua vita in prigione, che vorrebbe le sue nipotine, quando la figlia muore in un incidente stradale. C’è Lara che, strafatta di droghe, prima provoca l’incidente, poi si mette a compassione dei morti che ha provocato, in cerca di una impossibile redenzione. C’è Claire che ha perso il figlio in Vietnam, che frequenta un gruppo di sostegno di madri private dei figli dalla guerra, che si vergogna della sua agiatezza nei confronti delle altre madri. Tra cui c’è Gloria, che con la sua umanità da persona nera e di Harlem porta raggi di luce nel mondo di Claire, che adotterà i nipoti di Tillie, ed avrà una lunga vita sempre vicina alla sua amica. C’è il marito di Claire, giudice in tribunale, che condanna ad una piccola pena Petit per la passeggiata tra le nuvole, ed una pena senza compassione Tillie per un furto di poca entità.

E tante altre persone, alcune interessanti, altre poco inserite nel contesto narrativo (o almeno poco che io abbia compreso). Per finire con la chiusura di Jaslyn, la nipote di Tillie, che torna a New York, trentadue anni dopo i fatti del romanzo, per la dipartita di Claire, ed in un certo senso, chiudo il cerchio del mondo che gira sui suoi binari, vorticando senza senso.

Alla fine, escono due belle sensazioni: la vita, vissuta nei suoi binari più profondi, dal ricco al povero, dall’ateo al credente, ma sempre degna di essere raccontata, e la città dove si svolge, con i suoi lati chiari ed i suoi lati scuri. Del tipo, le gang del Bronx ed una passeggiata sul ponte di Brooklyn verso lo skyline di Manhattan.

Ricordo solo per chiudere, una citazione che mi ha riportato molto indietro nel tempo, quando i protagonisti sentono Nancy Sinatra cantare “These boots are made for walking.” Un salto indietro per me di cinquant’anni. Ma che ricordi, ancora!

“La cosa più divertente della memoria … è che torna a sprazzi nei momenti più assurdi.” (209)

Come sapete, in attesa di tornare a leggere libri felici, vi “delizio” con dei florilegi delle citazioni a me care negli anni.

In più, dato che non tutti gradiscono gli allegati, vi porgo, da quel grande scrittore che fu Giorgio Scerbanenco una frase estratta da “Venere privata” che mi sembra di un’attualità disarmante: “avrei dovuto imparare qualcosa da quello che mi era successo. Ma solo più tardi imparai che non s’impara quasi mai niente. Noi rimaniamo sempre gli stessi”.

Infine, siamo già a metà luglio, e l’orizzonte, pur con alcune certezze, non ha tutte le chiarezze che meriterebbe, per i tempi e per i luoghi. Non posso quindi che continuare ad abbracciarvi, anche se da lontano.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di luglio

In questo mese problematicamente aperto, traguardiamo un periodo per me assai particolare. Quel tempo, tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, che mi portò lontano da tante cose (buone o cattive che fossero), ed in particolare che portò via mio padre. Ma mi diede anche tante cose che porto ancora nel mio bagaglio, sperando di conservarle a lungo.

S’era iniziato con un dicembre, carico per me di promesse, visto che alla fine di quell’anno mirabile mi sarei finalmente allontanato dall’ufficio. Mentre era carico di riso per l’esimia Alicia Gimenez-Bartlett, che appunto in “Un bastimento carico di riso” diceva: “gli uomini sono un disastro… o vogliono portarti a letto per superare le loro frustrazioni o sperano che tu gli faccia da madre o vogliono farti da padre… l’uomo come compagno sentimentale è rimasto un ricordo”.

Poco dopo, sempre la nostra Alicia Gimenez-Bartlett, nel successivo romanzo “Nido vuoto”, andava sostenendo una massima che stava per portare anche me fuori strada: “chi è abituato a stare solo con sé stesso finisce per non sopportare più nessuno”.

Sempre in quel dicembre, un’altra scrittrice, che in genere non ho mai amato, Rossana Campo, in quello che forse fu il suo più noto scritto: “In principio erano le mutande”, andava ripetendo almeno due frasi, di cui una non sua, che avrei sottoscritto, nei mesi e negli anni successivi: “Signori miei, velo dico, l'amore quando ci si mette è proprio bello", e “mi viene in mente una cosa che dice la mia scrittrice preferita Gertrude Stein che dice, qualunque cosa succede in un giorno arriva sempre la fine di quel giorno”.

Quell’anno terminò con un omaggio ad un poco più che ottantenne Andrea Camilleri, che ne “La luna di carta” mi ricordava un inesorabile passare del tempo e degli anni: “come pesa la neve sopra i rami, come pesano gli anni sulle spalle che ami”.

Il gennaio dell’anno liberatorio, che portandomi lontano dalle scrivanie, originò il mio futuro che porto ancora nel mio presente, inizia con una frase emblematica e profetica presente nel libro “L’accordatore di destini” di Salvio Formisano: “siamo quello che facciamo, la vita che viviamo. Quello che ci capita. O quello che ci facciamo capitare”.

Mentre ne riflettevo, gennaio volgeva in febbraio, quel mese che ho impiegato anni a superare. Ma aveva alcuni paletti, anzi anche alcune pietre che resistono al tempo, al vento, allo spazio.

C’era Carlos Ruiz Zafon che ne “L’ombra nel vento” mi invitava a riflettere sui miei rapporti femminili: “Sembri un altro uomo. [le disse] - Lo sono. ... [lei] mi ha fatto desiderare di essere migliore di quello che sono ... per meritarla... e a me quella donna piace più delle pesche sciroppate”.

C’era Azar Nafisi dove in “Leggere Lolita a Teheran” oltre a farmi desiderare un viaggio che non sono ancora riuscito a fare, mi ripeteva: “vivi più pienamente che puoi; non vivere è un errore. Non importa quello che fai in particolare, purché lei abbia la sua vita.” E molto più in profondo: “c'è un modo di dire persiano: la pietra paziente, che si usa nei momenti di difficoltà e smarrimento. Se un uomo riversa tutti i suoi problemi e i suoi guai sulla pietra, questa lo ascolterà, ne assorbirà i dolori e i segreti, e allevierà la sua pena.”

E soprattutto c’era un libro che non doveva esserci, ma da quando c’è non posso più farne a meno. C’era Laszlo E. Almasy ed il suo “Sahara sconosciuto”. Fotografie mirabili, pensieri sparsi, di cui questo lo avevo già in me, e, da allora, l’ho sempre portato nel mio cuore: “il deserto è terribile e spietato, ma chi lo ha conosciuto è costretto a ritornarvi”

Forse potrei scriverne di più di quel periodo, ma il nodo in gola blocca altri miei pensieri.

Al prossimo mese. 

domenica 11 luglio 2021

Qualche relax d’estate - 11 luglio 2021

Visto che siamo in luglio, dovremmo cominciare a meritarci un po’ di riposo, e rilassarci con qualche lettura che tolga i pensieri. Carofiglio sarebbe un buon viatico, ma l’avvocato Guerrieri è un po’ bollito, e il maresciallo Fenoglio, pur migliore, non prende tanto. Molto meno prende Carrisi, di cui non ho ancora letto nulla che me lo confermi ai livelli spinti dalla pubblicità. La chiusura avrebbe potuto far risalire il tutto, con una bella idea di ripercorrere i mille misteri della nostra Roma. Un tentativo, purtroppo, molto poco riuscito.

Gianrico Carofiglio “La misura del tempo” Einaudi s.p. (Regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e sig.ra Laura)

[A: 07/05/2020 – I: 15/11/2020 – T: 17/11/2020] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 281; anno: 2019]

Ecco un altro della tonnellata (metaforica) di libri acquistati con i buoni per il mio ultimo compleanno. Acquisto doppiamente motivato: sempre piacevole leggere le storie di Carofiglio, in particolare se compare come protagonista l’avvocato Guido Guerrieri e perché mi incuriosiva come uno dei candidati al Premio Strega (poi vinto invece da Sandro Veronesi).

Sbrighiamo il secondo assunto. Non mi è sembrato un libro che potesse aspirare ad un premio. Ben scritto, con qualche riflessione extra testo che si potrebbe approfondire. Ma non un libro che prende, che coinvolge, che riesce a tenere sulla pagina. Elementi che per me dovrebbero meglio caratterizzare la premialbilità di un testo.

Più interessante è l’evolversi della storia dell’avvocato. Ormai da tempo, la sua prima compagna, Margherita, si è trasferita in America. E lui si accompagna, senza un legame fisso, ma con buona frequentazione, con Annapaola, che poi agisce, in comunione con il bravo Carmelo, come tandem investigativo dello studio Guerrieri. Rimane anche, pur in sottotono, il suo sfogarsi con Mr. Sacco, il pungiball dove i pugni sostituiscono pensieri foschi. Scaricando pensieri e adrenalina. Rimane anche la lettura, uno dei motivi di simpatia del personaggio. Sia nelle letture nei tempi morti dei processi, sia nelle visite notturne alla stupenda e fantomatica libreria “L’Osteria del Cappuccino”. Una libreria aperta solo di notte, per i sonnambuli dei libri. L’idea è stupenda, anche se in questi tempi virali poco attuabile.

C’è anche un po’ di volontà di allargamento di prospettiva, nell’impianto generale, dove Guido viene coinvolto nella difesa di un possibile omicida, dalla madre di quest’ultimo, che presto scopre essere stata, ventisette anni prima, una sua fiamma per qualche mese. Qui si biforcano leggermente i due filoni tematici del testo.

C’è il tempo della giovinezza, anche se non della gioventù. Che Guido è già avocato quando conosce Lucrezia, donna libera e piena di interessi. Di letture, ma soprattutto di film, dove porta spesso Guido al cinema, in quell’estate dell’87 che vide nascere, crescere e morire il loro amore. Com’è trovare una fiamma persa dopo tanti anni? Cosa si pensa, cosa si prova? Guido ripensa al suo io di allora, alle sue speranze, al suo modo di affrontare la vita. Ripercorre tutta la storia con Lucrezia, arrivando alla conclusione che sì, è stata una bella storia, ma anche che è giusto sia finita e che ognuno abbia preso una sua strada. Ci si può ritrovare, ma se ci perse di vista una ragione c’era (vero Facebook?).

Poi c’è il tempo del “giallo”, che poi è giallo sino ad un certo punto. Iacopo, il figlio di Lucrezia, è stato condannato in primo grado per l’omicidio del suo amico Mino. Attraverso una montagna di prove indiziarie, ed anche per colpa di un difensore non all’altezza. Guido e la sua squadra provano a trovare, e trovano, tutti i fili perduti della storia. Iacopo incontra un amico dopo aver visto Mino e non prima. Iacopo potrebbe avere i vestiti con polvere da sparo (anche) perché si è andato ad allenare in una cava con un suo amico, e non per aver sparato a Mino. Insomma, l’avvocato Guerrieri ricostruisce tutta la dinamica del tempo dalle 17 alle 20 ipotizzando una diversa lettura di tutti i comportamenti. Insinuando anche il dubbio che Mino possa essere coinvolto in qualche resa di conti con persone di alto livello mafioso.

Arriveremo così al processo, tutto da gustare, ed alla sentenza. Sarà assolto? Sarà condannato anche in appello? Dov’è la verità? E ci si arriverà?

Quello che resta, visto che non c’è giallo, non c’è mistero, è un po’ di legal thriller, ma non così coinvolgente alla Grisham o alla Turow. Ma resta anche, e questo da quel mezzo voto in più, tutta una serie di riflessioni sulla giustizia, e soprattutto sul ruolo dell’avvocato di difesa, espresso in un capitolo tutto dedicato al tema, che forse è la cosa migliore del libro.

Carofiglio è del resto una persona simpatica, umanamente, e non cesserò di leggerne altro, che, in fin dei conti, porta sempre qualche sassolino nella mente di noi decerebrati e decadenti.

“Parlare da solo ad alta voce è una mia vecchia abitudine che tende a peggiorare con l’età.” (39)

Gianrico Carofiglio “La versione di Fenoglio” Repubblica Brivido Noir 12 euro 8,90

[A: 24/08/2020 – I: 26/01/2021 – T: 27/01/2021] &&& --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 158; anno: 2019]

In realtà, è tutto meno che un giallo. Forse un libro di formazione, forse un manuale per investigatori reali. Insomma, come “Brivido Noir” siamo alla frutta. Come romanzo, scrittura e qualche idea per riflettere potrebbe essere interessante studiarlo meglio.

Personalmente continuo a preferire il primo Carofiglio, quello dell’avvocato Guerrieri, e dico primo visto che nel tempo si è andato leggermente involvendo. Ho letto gli altri di Fenoglio, e devo dire che pur gradendoli, ne avverto un’aria di stanchezza, o forse di maturità verso la vecchiaia. C’erano le atmosfere cittadine, c’è il maresciallo Fenoglio e la sua dirittura morale, c’erano trame da dipanare, e casi umani da affrontare. Una scrittura in ogni caso che non ti abbandona per strada, e che, nei limiti del fantasticare, riesce a portare a termine (quasi) tutto quello che inizia a cucinare.

Come dicevo, non è propriamente un giallo, che la maggior parte del tempo si svolge in una palestra riabilitativa, che Fenoglio deve frequentare dopo un intervento all’anca. Potrei iniziare una disquisizione su questo argomento ma mi limito a segnalarvi la frase che ho riportato. Domandandoci se siamo anche noi sulla via di diventare anziani.

In palestra c’è la fisioterapista Bruna, prodiga di consigli e che ha di sicuro un debole per il buon Pietro (e di sicuro è ricambiata, ma questo sviluppo, forse, sarà materia di altri scritti).

Poi c’è Giulio, reduce da un grave incidente, che deve rimettere a posto le sue ossa. Cosa più semplice in quanto ventenne. Sotto la spinta tutelare di Bruna, i due cominciano a farsi confidenze, con la facilità della promiscuità del luogo, della curiosità di Giulio e della voglia di Pietro di riprendere nella memoria fili antichi. E forse farsi qualche domanda.

Così che Pietro racconta alcuni episodi della sua vita da maresciallo, anzi anche da appuntato. Nelle sue parole si dipanano le storie di fatti diversi, di sangue, di indagine, di persone che si sono conosciute, che magari hanno anche lasciato un segno, e che ora non ci sono più.

Con l’ottica di Fenoglio, seguiamo la prima indagine, giovane appuntato appena giunto in città. Ha fiuto ed occhio il buon Pietro, così da scorgere un dettaglio (una ricetta in bianco) sfuggito ai più. E magari non seguendo vie ortodosse, riesce a risalire ad un drogato di optalidon, abbastanza fuori di testa da uccidere il mite dottore che non voleva prescrivergli altre dosi di antidolorifici. Poteva finire male l’iniziativa di Pietro, invece il capo dell’investigativa, pur facendogli una giusta reprimenda, ne intuisce le doti, e lo imbarca nella sua sezione.

Incontriamo altri personaggi che hanno costellato la vita del maresciallo. Quello che sapeva parlare bene, tanto da riuscire a convincere un possibile suicida a desistere. Quello che aveva molte conoscenze nel demi-monde della malavita. Quelli che erano mezze tacche, e che invece di essere presi e messi in gattabuia, Pietro cercava una via per la loro uscita. Financo signorine di buon passo, che passeggiavano spesso alla sera. Capisci a me…

Ma questo è solo la trama visibile, quella più semplice da condividere, anche se, capite bene, dato che c’è uno che racconta ed uno che ascolta, noi che leggiamo non siamo coinvolti nella risoluzione dei possibili misteri. Siamo, in realtà, coinvolto dal resto, da quello più difficile forse da raccontare in maniera “piana”.

Potremmo forse dire che diventa, pagina dopo pagina, un manuale del buon investigatore, e perché no, anche del corretto personaggio sociale. Vediamo con Pietro che l’investigatore è uno che deve saper usare le parole, parole che servono a costruire storie, storie che convergono verso le spiegazioni di quello che abbiamo davanti. Il fatto criminoso.

Ma seppur partendo da un’indagine, il “metodo Fenoglio” porta sempre oltre: momenti di riflessione sulla vita, che serviranno a Giulio per capire quale possa essere la sua strada futura, e momenti platonici di filosofia, interrogandosi il nostro sull’uso della coscienza nella vita, sul dover mettere sempre da parte i pregiudizi, sull’ascoltare gli altri.

Dicevo momenti platonici, che tutto è spesso risolto nel dialogo, nel contraddittorio, e poi nelle esegesi che alle sue avventure di vita tira fuori Fenoglio.

Quindi, ecco perché l’ho anche definito un “manuale del buon investigatore”, laddove mi ha incuriosito l’ultima frase riportata sulla consonanza tra il suo lavoro e lo storico. Storico che deve ricostruire fatti cui non ha partecipato, basandosi su parole ed azioni altrui. Una bella riflessione per il mio amico Luciano.

Io continuo tuttavia a non essere del tutto soddisfatto del libro che in fondo ho trovato irrisolto, cioè che alla fine ci lascia, dopo averci accompagnato per un po’. Mentre noi aspettiamo di sapere altro, Pietro, Giulio e Bruna se ne tornano nell’ombra.

“La protesi all’anca … è un intervento che fanno gli anziani, i vecchi. In realtà non sono persone tanto più grandi di me, ma sono ‘anziani’. Ammettere di avere la protesi all’anca significa ammettere di essere anziani.” (13)

“Una parte del lavoro investigativo … ha molto a che fare con le parole. Per certi aspetti [è un lavoro che] assomiglia a quello dello scrittore di romanzi, o dello storico.” (40)

Donato Carrisi “L’uomo del labirinto” Longanesi s.p. (Prestito di Fako)

[A: 05/02/2020 – I: 01/04/2021 – T: 02/04/2021] && ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 390; anno: 2017]

Giusto perché il mio amico se ne voleva sbarazzare, che poco gli era piaciuto. Che alla fine del primo Carrisi di tre anni fa espressi grosse perplessità su questo autore. Perplessità che rimangono anche in questa prova, che nella bio dell’autore su Wiki, è considerata come il terzo volume della serie su “Mila Vazquez”. E direi che anche qui stiamo veramente fuori.

Intanto, riporto le mie (costanti) perplessità sulla scrittura dell’autore: poca attenzione ai luoghi (non ci sono indicazioni, ci sono nomi che possono andar bene ovunque), ricerca di effetti, magari non così spinta come ne “Il suggeritore” dove c’era un colpo di scena a capitolo, ma effetti ci sono, tanto che alla fine prendono la mano all’autore che non sa più maneggiarli, ce li butta alla rinfusa, ed alcuni sono poco credibili (e malamente spiegati). Infine, due ciliegine: la comparsa in finale di Mila, che era stata solo indicata a volte nel testo, ma messa lì come a voler creare quella continuità di serie che invece è manchevole (e mi domando chi legge questo come primo libro dell’autore se ne farà di domande). Poi la stampa Longanesi, “a maglie larghe”, tanto per aumentare il numero delle pagine, e conseguentemente, il prezzo del libro.

Certo, Carrisi ha sempre qualche idea interessante, cosa che consente di far salire (anche se di poco) il gradimento librario. Qui, ad esempio, si concentra sul ritorno, sul ritrovamento di persone scomparse. Già questa è un’idea interessante da sviluppare. Carrisi aumenta la dose, prendendo a spunto la vicenda di Samantha (con l’acca ovvio), che ricompare dopo 15 anni. Qui ci poteva stare un lungo approfondimento sui disturbi psicologici di persone che riappaiono dopo tanti anni (rimando solo per citazione e memento alla vicenda della famiglia Fritzl), e che Carrisi cerca di sviluppare, senza però prendere una via sicura.

Perché è preso dal resto della trama, e dalle complicazioni che vuole inserire. Di certo, pensava di far entrare in scena Mila, la cercatrice di fanciulle scomparse, ma non trovo (almeno nella prima parte) un modo “easy” di farlo. Si affida allora nell’incentrare le ricerche sulla figura dell’investigatore solitario Bruno Genko. Strano tipo, anche lui un po’ disturbato (ne vedremo momenti quando torna nella sua vera casa, si toglie la maschera da trasandato, e si aggira per un appartamento lussuoso, confortevole, con notevoli strumenti tecnologici a disposizione) che ha un serio problema: i medici hanno diagnosticato una degenerazione cardiaca che lo deve portare ben presto nella tomba.

Ma Bruno, pur cosciente della sentenza di morte, una volta saputo del ritrovamento di Sam, non può tirarsi, moralmente, indietro. Era stato lui a fare delle indagini quindici anni prima, senza cavare un ragno dal buco. Ora però ci sono elementi maggiori.

La strana liberazione della ragazza, il tizio che la ritrova e che dice di aver visto una persona travestita da coniglio nelle vicinanze. Bruno, con gli strumenti a sua disposizione (ma perché non li usa anche la polizia, visto che per trovare un filo rosso proprio nel computer della polizia Bruno si intrufola), vede profilarsi una traccia. Un bimbo, sparito per tre giorni, è associato al termine “coniglio”. Bruno allora segue questa pista, risale al bimbo, che ora dovrebbe avere sui trentacinque anni, risale alla famiglia adottiva, risale ad un libro di fumetti degli anni ’40, che ha per protagonista un coniglio di nome Bunny (sarà ispirato al mitico “Bugs” Bunny?), e che un mercante d’arti nonché fumettologo gli spiega essere un gioco di specchi: nei cuoricini che coprono gli occhi di Bunny sono miniaturizzate scene di sesso dal violento all’estremo.

Bruno risale all’infanzia di Ronnie, al sagrestano che forse lo ha rapito, all’identità di uno che forse è l’identità di un altro. Ritrova anche Ronnie, o forse una vittima di Ronnie. Compare un Peter che sembra essere stato plagiato da Ronnie, che uccide una trans amico di Bruno, che si fa ospedalizzare laddove è ricoverata Sam. E dove finisce anche Bruno inseguito all’infarto che ci aspettavamo dall’inizio.

Si salverà Bruno? Peter riuscirà laddove Ronnie ha fallito? Sam uscirà dagli incubi psicologici? Perché per tutto il libro c’è un dottor Green che cerca di curare Sam, e poi vediamo una dottoressa Green che parla con l’aiuto di Mila alle persone scomparse?

Carrisi tenta di far quadrare tutti i conti alla fine, ma ci sarebbero volute molte più pagine per rispettare i criteri del buon giallo come da decalogo Van Dine del ’29.

Quindi, qualche buon voto per alcune idee (soprattutto quella centrale), per la scrittura, mai sciatta, sempre concentrata. Ma poco altro: non avvince, non coinvolge, è dispersiva, si perde qualche personaggio nei rivoli della storia, e non ci fa mai appassionare ad uno dei “buoni”. Anche se, e l’ho detto nell’altra trama, nei libri di Carrisi non sembra che ci siano mai personaggi veramente positivi.

“Non era cattiveria, era sciatteria. Che … era imperdonabile più della crudeltà.” (230)

Autori Vari “Roma Noir” Repubblica s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 28/01/2021 – I: 28/04/2021 – T: 29/04/2021] && ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 113; anno: 2021]

Anche con questo “scritto” il giornale di Scalfari cerca di risalire la china delle vendite. Purtroppo, l’intenzione è buona ma il risultato è poco convincente. Perché la confezione, pur con tutte le buone intenzioni risulta particolarmente sciatta. Non si possono assemblare diversi articoli, anche ben scritte, e sbagliare le date degli avvenimenti: la morte di Alberica Filo della Torre è avvenuta il 10 luglio 1991 e non 1993, quindi andrebbe prima di quello descritto per il 25 febbraio 1993; il “suicido” di Mario Ferraro è datato 16 luglio 1995 e non 1985 come indicato a pagina 88. Così si dimostra una inaccuratezza sospetta.

Ma poco ci interessa, in fondo, capire i come ed i perché. Rimane una serie di dieci articoli più uno che toccano momenti “neri” della vita romana, con i suoi cold case da analizzare. Tutti meno due: c’è l’intervista iniziale a Nicola Lagioia, che serve solo a pubblicizzare il suo ultimo libro, che parla dell’omicidio di Luca Varani, di cui si sa tutto, e c’è la morte della contessa Alberica, dove, seppur a distanza di decenni, si sa chi ha fatto cosa. Certo, quel delitto è uno dei tanti esempi di mala investigazione, ma di certo non è irrisolto.

Irrisolti, invece, sono quasi tutti gli altri. E dico quasi, non perché ci siano delle soluzioni ma poiché almeno due sembrano essere suicidi, o tali sono stati archiviati anche se forse furono esecuzioni ver e proprie.

È anche vero, e questo non lo posso negare, che da buon romano, rileggere queste storie, mi fa fare un viaggio nella mia città, nella sua parte oscura, che in pratica avevo fatto ai tempi delle vicende. Ma poi ci si dimentica, si rimuove, si va oltre.

Ma qual è l’idea, lo schema proposto? Articoli, scritti o dai giornalisti che se ne sono occupati o da firme “celebri” della nera di Repubblica, al fine di ripercorrere alcuni dei misteri della capitale. In questo, devo dire, ho trovato una sicura spanna sugli altri gli articoli di Emilio Radice (anche a prescindere dalla lontana amicizia) e soprattutto di Massimo Lugli, che ritengo, per i misteri romani, quello che è Colaprico per quelli milanesi: due penne magistrali.

In così esimia compagnia, quindi, eliminati i due casi “risolti”, percorriamo la maggior parte degli altri, che si annida negli anni ’90 (sei su nove). Rimangono spuri i primi due e l’ultimo. E, in particolari i primi, non sono da poco. Si parte infatti da lontano, da quel ’77 che stavo impiegando nei miei sei mesi da professore, con l’uccisione di Ida Pischedda. Corpo ritrovato carbonizzato, vicenda annosa, mai risolta, con possibilità che sia una combutta del fidanzato e della madre di lui. Ma soprattutto, con l’83, sia per il caso, ben descritto ed argomentato, di Emanuela Orlandi, talmente noto che non ci torno sopra. Ma su cui sempre mi aleggia una questione irrisolta: ma c’entra anche Mirella Gregori, scomparsa un mese prima di Emanuela? Per passare poi all’ultimo, l’esecuzione, sul greto del Tevere, del fotografo Daniele Lo Presti, nel febbraio del 2013, con una tecnica che ritroviamo anni dopo anche nell’uccisione di Fabrizio Piscitelli detto Diabolik. Con un curioso parallelo: Daniele si allena, erano un runner, e viene ucciso in un posto isolato, Diabolik viene ucciso da un runner in un parco molto frequentato.

In mezzo i sei casi degli anni ’90. Alcuni super noti: la morte di Marta Russo alla Sapienza nel maggio del ’97, il tentativo multiplo poi riuscito per soffocamento di uccide Antonella Di Veroli nel ’94, il caso di Semeraro del ’90 (talmente noto che Matteo Garrone ne ha fatto un film). Poi i due “suicidi” il manager Castellari nel ’93, in piena Mani Pulite, e l’agente segreto Ferraro nel ’95, con molta probabilità, anche uccisi e/o morti per dare segnali “altri”.

L’ultimo che voglio menzionare è quello forse più vicino anche logisticamente: il massacro a via Poma di Simonetta Cesaroni. Una via che ho percorso migliaia di volte, sia per andare da mia zia a Piazza Mazzini, sia per andare al vicino Ufficio Postale. Uno stabile dove conoscevo anche delle persone che vi abitavano. Un mistero che, dopo trent’anni, attanaglia per la sua implausibilità. Certo anche gli altri sono delitti che lasciarono il fiato sospeso ad una Roma che meriterebbe senz’altro una migliore fama.

Quindi, alcuni buoni giornalisti, un ripercorrere quarant’anni di vita romana, dalla parte più oscura. Ma un pensiero finale alla deriva che le iniziative di Repubblica stanno prendendo negli ultimi tempi, anche a fronte del cambio di proprietà. Peccato.

Visto che ci siamo rimessi in riga dopo un po’ di confusione negli invii, questo essendo sicuramente il secondo invio di luglio, possiamo tornare a dedicarci anche agli allegati mensili, questa volta dedicato ai malesseri del ventunesimo secolo.

Visto che si stenta ancora a viaggiare, niente di meglio, almeno, che rivolgersi all’ottimo Claudio Magris che ci fornisce alcuni bei pensieri viaggianti: “Perché hai viaggiato sin qui? Risponde Don Chisciotte: qui io so chi sono”, “Kant, mai mossosi da Koninsberg, esortava a leggere letteratura di viaggio”, ma soprattutto “L’avventura più rischiosa … si svolge a casa: è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire”.

Perché, anche se non sappiamo quando, si risalirà su di un aereo, non spensierati, ma festanti. Ed arrivando in nuovi porti ci saranno tanti abbracci.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

LUGLIO 2021

Certo, che di malessere ne abbiamo incamerato tanto, speriamo che una risata lo seppellirà.

VENTUNESIMO SECOLO, MALESSERE DEL

Benoît Duteurtre          “Nuoce gravemente alla salute”

Gary Shteyngart          “Storia d’amore vera e supertriste”

Il senso di disagio che si prova e che è specifico per questo secolo nasce dalla distanza che separa il desiderio di una vita compiuta, soddisfacente e anche avventurosa e l’assurdità della società come la vediamo funzionare intorno a noi: la burocrazia, il “politically correct”, la normativa sulla sicurezza, la disfunzionalità individuale provocata dall’uso eccessivo della tecnologia... L’elenco potrebbe continuare.

Nessun romanzo coglie questo malessere con maggiore efficacia di “Nuoce gravemente alla salute” di Benoît Duteurtre. Il punto di partenza è il caso immaginario di Désiré Johnson che, sul punto di essere giustiziato per l’omicidio di un poliziotto, chiede un’ultima sigaretta. La richiesta getta nello scompiglio la direzione del carcere. Désiré si appella all’articolo 47, com’è suo diritto, ma all’interno della struttura è vietato fumare. L’assurdità della richiesta, assolutamente fuori tempo, e la determinazione con cui l’uomo insiste affinché venga esaudita mettono alla prova le capacità normative della direzione, finché non viene deciso che solo la Corte Suprema può pronunciarsi al riguardo.

Nel frattempo, un altro uomo sta vivendo una crisi diversa, che comunque riguarda le sigarette. L’uomo lavora come consulente tecnico per il Dipartimento Servizi Generali, e il fumo è il suo vizio segreto. Un giorno, mentre si fa una sigaretta e butta fuori il fumo dalla finestra del gabinetto, una bambina di cinque anni entra e lo trova con i pantaloni calati. Lo racconta a tutti e ben presto l’uomo si trova a dover affrontare un’accusa per molestie sessuali. Il romanzo, una satira diabolica nello stile de “Una modesta proposta” di Jonathan Swift, mette la giustizia nelle mani dei bambini. Condividete la frustrazione di Duteurtre per un mondo ormai fuori di testa. Rendersi conto che non siamo i soli a invocare un po’ di buon senso certamente aiuta.

In “Storia d’amore vera e supertriste” di Shteyngart, invece, Lenny ed Eunice vivono in un futuro non troppo lontano, dove un flusso di dati aggiorna costantemente gli individui sul loro punteggio di reputazione e relativo posizionamento nei social network, oltre a dare consigli per gli acquisti e riportare le ultime chiacchiere degli amici. Lenny ha trentanove anni ed è un ebreo arrivato dalla Russia che, in modo anacronistico, ama ancora - e li legge pure - i libri (soprattutto Tolstoj, che i suoi amici considerano dannoso per la salute). Il suo oggetto del desiderio, Eunice, è una giovane studentessa coreana. La loro storia viene raccontata attraverso quello che ciascuno scrive sul proprio diario, Lenny alla vecchia maniera, Eunice attraverso il suo account su Global Teens - una sorta di versione totalizzante di Facebook - e così ci divertiamo ad ascoltare Eunice che fa la teenager. Quello che scrive, comunque, mostra tutta la sua angoscia per il futuro, ma anche la contentezza che riesce a provare, con grande sorpresa, col suo «caro sciocchino» Lenny. Nel frattempo, New York comincia a disintegrarsi intorno a loro, l’America è in guerra con il Venezuela e tutti sono così indebitati con la Cina che da un momento all’altro Pechino può decidere di staccare la spina.

Dopo la satira di Duteurtre, questa scorribanda in un mondo post-letterario e ossessionato dai media, fatto di «amici» in cerca di immortalità che sanno tutto l’uno dell’altro ma devono mettere un «Emo-Pad» sul cuore per sapere cosa provano, vi scoprirete a desiderare un «manufatto stampato, rilegato e non riproducibile in streaming» - magari di Tolstoj - anche se questo farà scendere il vostro «punteggio di personalità». Capirete che Lenny Abramov, ultimo lettore sulla Terra, ha ragione su un sacco di cose.

Bugiardino

Non ho letto Duteurtre, anche se questa sintesi di fumopatia può renderlo interessante. Mentre ho letto questo libro di Gary dal cognome complicato (ed anche il precedente “Mi chiamavano piccolo fallimento”).

Gary Shteyngart “Storia d’amore vera e supertriste” Guanda euro 18,50 (in realtà, scontato a 13,87 euro)

[tramato il 5 novembre 2017]

Un libro che entra velocemente nella libreria e nelle letture in base ad un emendamento dei miei criteri di lettura. Ora c’è anche iBUK a suggerirmi mensilmente i più venduti. Che acquisto e metto in liste prioritarie, così che i miei amati lettori abbiano anche un po’ di attualità. Comunque, sarebbe un libro entrato in ogni caso nella mia libreria, per i suggerimenti delle nostre libropeute, anche come uno dei dieci migliori libri del 2010. Devo confermare che, nonostante qualche alto e basso, ed una parte finale un po’ scontato e non forse all’altezza del resto, il libro ha un suo interesse. Tra l’altro l’autore nasce Igor Semyonovich in quel di Leningrado esattamente 45 anni fa, per poi mutare il proprio nome in Gary, e, dopo alterne vicende, dedicarsi ad una letteratura di marcato stampo satirico. Anche se a volte, l’eccesso di satira rischia di essere un po’ vincolante per l’andamento del libro, in molte parti si riesce a trovare la misura.

In una epopea che non è, come il nostro marketing vorrebbe suggerire, la descrizione di una nazione marcata a fuoco da Trump. Ma è una proiezione visionaria, in tempi da Obama, di quella che potrebbe diventare l’America post-trumpiana. Cioè un’America devastata dalle ossessioni, nate in tempi non sospetti, ma portate all’esasperazione da Trump e dai suoi sodali. Gary esaspera i tratti attuali del mondo, politici, di vita quotidiana, ma quanto sarà lontana dal vero la sua visione? Un mondo dove ci sono due potenze che governano la vita di ognuno.

La Cina dal punto di vista economico, tanto da diventare presidente del FMI. La Norvegia dal punto di vista delle telecomunicazioni, che tutti sono connessi attraverso apparati elettronici, e la Telecom norvegese ne ha il monopolio. Scenari che non sono lontani da quelli attuali. L’America è pian piano regredita, ed il pensiero principale dello scenario americano è trovare il modo di allungare la vita, allungarla sino all’immortalità. Attraverso una compagnia, i Servizi Post Umani (SPU), che la governa più o meno occultamente. Mentre dal punto di vista politico, il management americano è praticamente asservito ad Israele. In questo mondo in bilico, con tanti poveri al limite della sussistenza e pochi ricchi che fanno il bello e cattivo tempo, si muove il nostro eroe Lenny Abramov.

Ebreo di famiglia russa (come Gary) alla ricerca del modo di vivere all’infinto, asservito al capo della SPU, che durante un anno sabbatico a Roma conosce un’oriunda coreana, Eunice, più giovane di lui di 15 anni (lui essendo un quasi quarantenne), e se ne innamora follemente. In questo mondo bislacco, vediamo il nascere di questa vera storia d’amore, punteggiata dalle due scritture di Gary: il diario di Lenny ed i messaggi elettronici di Eunice. Vediamo tutto il nascere e crescere del loro amore, anche se Eunice non si concede mai fino in fondo. Che rimprovera a Lenny il suo non essere presente in casa, nelle pulizie, nel mondo quotidiano.

Lenny ha anche un altro difetto: legge i libri! Mentre tutti il massimo che fanno è scansionarli con i loro apparati alla ricerca di qualcosa da ritenere, ma tutti in via elettronica. Non ci si meraviglia quindi che quando Eunice viene a contatto con Joshua, il capo di Lenny, venga abbagliata dalla sua potenza (procura cibo, sistema la famiglia coreana di Eunice, insomma è un berlusconiano ringiovanito). Ci avviamo così alla parabola finale, la parte supertriste. Che Eunice lascia Lenny. Ma lascerà anche Joshua, per andare a vivere e fare figli a Londra con un suo coetaneo. Lenny, scottato ma non domo, pubblicherà con successo il diario di questi suoi mesi allegri e tristi, cambierà il suo nome in Larry, ed andrà a vivere nello Stato Libero della Toscana. E incontrerà di nuovo Joshua, che vede fallire il suo progetto, dove il ringiovanimento delle cellule, ad un certo punto, provoca crisi di rigetto, ed i Post Umani falsamente ringiovaniti andranno anche loro incontro alla morte. Unica certezza del libro e della vita.

Il tutto è anche inframmezzato da altri momenti tipici di possibili scenari: guerre e guerriglie, blackout elettrici, ed altre ovvie e probabili amenità. Ma non è questo il bello del libro. Quello che atterrisce e colpisce è la visione di tutte queste persone attaccate al loro iPhone (che viene chiamato con altri nomi, ma sappiamo tutti che è lui). Che non si parlano ma si messaggiano. Tanto che a volte per uscire dalla routine decidono di verbalizzare, cioè di parlarsi a voce. iPhone che consente di seguire cosa accade. Dove un’amica di Lenny vive in streaming narrando le sue storie in diretta, anche durante la cena con gli amici. Come fa Noah, altro amico di Lenny, che invece fa il commentatore politico in diretta. Con Eunice che compra solo su iPhone nei mercati virtuali. E che, nel momento di blackout e bancarotta mondiale si ritrova con Lenny a comprare vestiti di cotone in un mercato tipo suq nel centro di New York. Questa visione, che Gary proietta nel futuro, è invece già qui. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, tutti i momenti. Andate cinque minuti in una metropolitana, e contate quanta gente ha un cellulare acceso! Sarà almeno l’80%. Andate in un ristornate e vede quante gente per parlare con un vicino di là dal tavolo, non verbalizza ma whatsappa! Ripeto, il libro ha cadute di tono, ha momenti anche troppo semplicistici. Ma è un campanello d’allarme gigante. Una campana direi! Cerchiamo di frenare, prima che sia troppo tardi. Prima che tutto sia talmente caldo da non poter essere più maneggiato né gestito. Un libro satirico dice il marketing. No, un libro che mette addosso una grande paura.

“Speravo che aggiungesse ‘faccia da sfigato’ [o ‘giurassico’] tanto per essere sicuro che fosse tutto a posto, ma non l’ha detto.” (132)

Conclusioni

Non era nelle corde degli autori, ma avrei con oculatezza aggiunto Paolo di Paolo ed il suo libro sugli anni Venti, con i malesseri paralleli di ora e di cento anni fa.