lunedì 25 novembre 2019

Pizzofalcone! - 24 novembre 2019


Maurizio De Giovanni “Gelo per i bastardi di Pizzofalcone” Einaudi euro 14,50
[A: 10/09/2018 – I: 05/07/2019 – T: 10/07/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 360; anno 2014]
Dopo aver quasi esaurito la saga del commissario Ricciardi (mi manca da leggere solo l’ultimo e definitivo volume, che comunque è già nella mia libreria), riprendo la seconda e fortunata serie dei Bastardi. Che, pur avendo una velocità diversa, gode tuttavia di una buona riuscita, grazie anche alla fortunata serie TV. Quella dove gli “occhi a mandorla” dell’ispettore Lojacono sono ben interpretati da Alessandro Gassman. Ricordo, per chi avesse mancato gli inizi, che, come tutti gli scrittori seriali, per cambiare registro, De Giovanni ad un certo punto prova delle uscite diverse dal filone principale. Cominciò allora questa nuova saga con un tentativo, “Le lacrime del coccodrillo”. Dove, per l’appunto, faceva la comparsa l’ispettore Giuseppe Lojacono, mandato in esilio a Napoli dopo aver combinato qualcosa sul filo del rasoio (ma noi crediamo più dalla parte dei buoni che da quella dei cattivi) nella Sicilia natia. Dato che i riscontri furono buoni, il nostro decide di costruire una serie più robusta, impalcando la storia su di un commissariato di cattiva fama per oscure vicende legate alla droga. Da qui, si viene costruendo un impianto alla “Ed McBain”, noto nel gergo giallistico con il termine di “police procedural”, le cui caratteristiche peculiari sono:
Ø  la presenza, come protagonista, non di un solo investigatore, ma di una vera e propria squadra di agenti che indaga e risolve i casi in modo corale. L'attenzione deve essere rivolta al gruppo di investigatori e non ci deve essere un solo ed unico protagonista;
Ø  la frequente raffigurazione di indagini su più crimini in una singola storia, anche non collegati fra loro;
Ø  mentre i gialli classici adottano la convenzione di far coincidere il climax con la rivelazione del nome del colpevole, nei police procedural l'identità del cattivo è spesso nota al lettore sin dall'inizio.
Ovvio che la bravura di un giallista nell’uso di questi schemi è di non venirne invischiato (leggi strangolato), ma di dosare i vari componenti onde ottenere una miscela fruibile. De Giovanni, come tocco “italianico” allo schema aggiunge le storie personali dei vari componenti della squadra che, invece di venire a galla un po’ alla volta, sono presenti tutti contemporaneamente sulla scena. Creando una sorta di corifeo greco che fa da contrappunto alle storie narrate. Abbiamo allora l’ispettore Lojacono, di cui sopra, che, oltre ad indubbie doti investigative, ha un inizio di relazione con il PM Laura Piras, deve gestire la presenza della quindicenne figlia Marinella, e cercare di capire se c’è amicizia o qualcosa in più con la cuoca Letizia. C’è il vice sovraintendente Ottavia Calabrese, maga dei computer, con figlio autistico, e con un inizio di passione verso il capo del commissariato, Luigi Palma. C’è il vicecommissario Giorgio Pisanelli, prossimo alla pensione, ossessionato da una serie di suicidi che avvengono in zona, verso i quali svolge le sue private indagini. C’è l’agente Alex Di Nardo, esiliata tra i Bastardi per aver esplose colpi di arma di fuoco al suo capo, in lite con il padre, e con sé stessa per la sua omosessualità repressa. C’è l’assistente capo Francesco Romano, manesco quando perde il lume della ragione, e lasciato dalla moglie dove che le ha dato un ceffone ingiustificato. Ed infine c’è Marco Aragona, raccomandato ma di buon cuore, che si atteggia a duro, ma che vive in albergo dove si innamora di una cameriera. In questo quarto romanzo della serie, De Giovanni non si smentisce. Segue i suoi 6 “bastardi” in modo parallelo, come da primo punto. Utilizza il secondo presentando due storie, una di base ed una di contorno. E lascia oscuro il terzo punto, anche se la dinamica dell’assassinio principale non lascia dubbi sul colpevole. Quindi abbiamo una mini-storia di presunto abuso su di una tredicenne, dove indagano Romano ed Aragona, che risolvono presto, sfruttando anche le doti da “attore” di Aragona, e sbugiardando l’incauta ragazzina che, sull’onda di social ed altre storie di rete, cercava di sbarazzarsi di un padre mediocre, solo per poter accedere ai soldi dell’amante della madre. La storia di base vede invece l’efferato delitto di due ragazzi calabresi, Biagio studioso ricercatore universitario e la sorella Grazia, bella, giovane e modella in fieri. L’indagine, affidata a Lojacono e Di Nardo, non sembra trovare appigli risolutivi. Non è colpevole il fidanzato di Grazia, musicista senza futuro, né il padre, uscito dopo 16 anni di galera per un omicidio insensato. La storia mette anche a rischio i “Bastardi” che non sembrano in grado di trovare il bandolo. C’è solo un elemento stonato nella storia: il basso compenso chiesto da Grazia per una sfilata. Sarà un’intuizione di Aragona a mettere Lojacono sulla giusta strada e stanare il colpevole (ma noi giallisti di vecchia data, avendo come i bastardi tolto di mezzi i possibili sospettati, avevamo puntato da subito il dito sul colpevole). E di contorno, proseguono le storie. Alex ha un inizio di relazione con la dottoressa Martone della scientifica, ma non sa ancora venir fuori alla luce del sole. Pisanelli continua le indagini sui “suicidi”. Romano non fa che passare le serate sotto casa dell’ex-moglie, macerandosi di rimorsi. E Lojacono cerca di fare un’uscita galante con il bel PM. Entrando in rotta di collisione sia con la figlia che con Letizia. E vedremo come proseguirà questa lotta. Che in un certo qual modo ricalca l’indecisione del commissario Ricciardi tra la bella vedova e la signorina del palazzo di fronte. Simile anche se non uguale. Come simili sono a volta gli inserti in corsivo, alcuni capitoli che vorrebbero entrare nella mente di qualche personaggio di contorno, ma che servono solo ad allungare il brodo del romanzo, senza portare elementi utili. Tanto che dopo un po’ si potrebbero saltare e piè pari, senza che la tensione narrativa subisca contraccolpi. Comunque, una buona trama, con qualche idea interessante, e qualche ipotesi di sviluppo che seguiremo sicuramente con interesse.
Maurizio De Giovanni “Cuccioli per i bastardi di Pizzofalcone” Einaudi euro 14,50
[A: 10/09/2018 – I: 10/07/2019 – T: 12/07/2019] - &&& -
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 353; anno 2015]
Come succede spesso nei mei “accanimenti” seriali, una volta preso in mano un filone, per una serie imperscrutabile di motivi, se ne segue l’andamento in maniera stretta e conseguente. Così, appena finito il “Gelo”, eccoci affrontare il capitolo “Cuccioli” della fortunata serie dei Bastardi. Anche qui sono salvi i primi due capisaldi del “police procedural” sopra elencati: ci sono almeno due storie, e si segue l’andamento corale della squadra. Ancora una volta non ci viene svelato in anticipo il cattivo della serie, anche se pure in questo caso le indicazioni sono abbastanza chiare. Si tratta solo di decidere tra due colpevoli equipotenziali. Intanto, per sgombrare il campo da divagazioni inutili, vediamo i margini dei nostri bastardi. Alex è sempre più combattuto tra la sua non palese omosessualità, l’amore per la bella Rosaria, ed il lavoro nella squadra. Mentre l’ultimo punto lo vedremo più avanti, sembra che Alex trovi il coraggio di uscire dal bozzolo, ma forse Rosaria ha altro in mente. Stiamo in un’impasse, che si scioglierà nelle prossime puntate. Pisanelli segue sempre la sua ossessione dei suicidi assistiti, di cui forse noi sappiamo più di lui. Inoltre, si comporta da ottimo alter-ego e capo nella vicenda secondaria. Ottavia continua a fare la maga dei computer, fornendo la solita valida assistenza, continua ad avere un rapporto di amore-odio verso il figlio autistico, ma soprattutto sembra cominciare a far breccia nella scorza del duro Palma. Lojacono è sempre sulla breccia, con le sue intuizioni che portano i casi oscuri a svolte importanti. Ha un inizio di storia più profonda con il PM Piras, fa la pace con la figlia Marinella e si domanda se verso la ristoratrice Letizia ci sia qualcosa in più (o qualcosa di diverso). I due che questa volta sono nell’occhio del ciclone per questa puntata sono Romano ed Aragona. Il secondo viene coinvolto dal bimbo srilankese William nella ricerca del suo perduto cane Artù. Vicenda che mette in moto tutti i meccanismi mega-maniaci di Marco, ma anche le sue virtù camaleontiche. Scopre così che i cani di piccola taglia, ma anche gatti ed altro di media grandezza, vengono rapiti da un fantomatico circo che li utilizza per inscenare truculente scene di pasto per la tigre. Aragona, con l’aiuto dei Bastardi, sventa il losco traffico. Scoprendo che il motore primo che lo ha coinvolto nella vicenda è proprio la bella cameriera Irina, che da tempo lui guardava senza aver il coraggio di avvicinarsi. Romano, invece, è al centro della vicenda principale. Imperniata su di un altro cucciolo, anzi cucciola di uomo, la piccola Giorgia che viene trovata in un cassonetto davanti al commissariato. Romano viene colpito in maniera esagerata dalla piccola, quasi a “risanare” tutte le malefatte rudi del suo carattere impulsivo. La prende, la porta in ospedale, e sarà sempre vicino, anche a scapito della ormai annosa vicenda della perdita (forse) della moglie Giorgia. Le notti in ospedale sono per Romano un momento per ripassare tutti gli episodi salienti della sua vita, e forse per cercare di invertire la rotta della sua durezza. Ma la piccola Giorgia nasconde altro. Indagando, la squadra scopre che è figlia dell’ucraina Lara, che viene trovata morta in un bell’appartamento nei quartieri bene. Lara che era stata per 4 mesi presso la famiglia dell’avvocato Nubila, per poi andarsene altri 4 presso uno sfaccendato ingegnere Sergio, e, quando la gravidanza era ormai palese, ritirarsi nella casetta. Sergio lo toglierei subito dai sospettati, che mi sembra un pesce che cerca di nuotare in mezzo alle balene e ad altri pezzi grossi, annaspando per non affogare. Ci sarebbe l’ex-marito di Lara, Nazer, che però si rivela un pezzo di pane, anche se alto due metri. Ci sarebbe Luca un malavitoso di mezza tacca, che si rivelerà amico profondo di Lara, e la aiuterà in varie occasioni. Chi ha visto lo sceneggiato saprà già, ma noi lo capiamo anche senza averlo visto, che quella di Lara è una gravidanza pilotata da chi vorrebbe avere figli e non ne ha. Peccato che Lara alla fine vorrebbe tenersi il frutto delle sue ovaie. Peccato che i committenti dell’utero in affitto non siano così disposti a mettersi da parte. Arrivando ad uccidere la bella ucraina. Per tenersi la bimba, che però si ammala. Di fronte al dilemma tra lasciarla morire ed abbandonarla, trovano il modo di coinvolgere Pizzofalcone. Per fortuna nostra, e della piccola Giorgia, i Bastardi sono una squadra dura ed efficacia, e grazie anche alle intuizioni del PM Piras, alla sfrontatezza di Lojacono ed a tutte le doti che ne faranno un buon commissariato, i cattivi vengono sventati ed i cuccioli troveranno i loro padroni. Sicuramente Artù. Probabilmente la piccola Giorgia, che, immagino, sarà coinvolta in una qualche sorta di riavvicinamento tra Romano e la moglie. Al solito, ci sono i capitoli in corsivo che cercano di dare profondità alla vicenda, ma che consiglio di saltare a piè pari. Non aggiungono nulla, ed anzi fanno perdere tempo e ritmo. Al solito, così come nelle serie televisive, da un certo punto in poi, è più interessante seguire le vicende della squadra, piuttosto che le singole storie. A me piace, anche per quel tono leggero che i contorni amplificano. Sicuro anche che De Giovanni farà di tutto per fare andare storte le varie storie. Spero non ci riesca.
Maurizio De Giovanni “Pane per i bastardi di Pizzofalcone” Einaudi euro 14,50
[A: 10/09/2018 – I: 16/07/2019 – T: 17/07/2019] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 367; anno 2016]
Eccoci ancora qui, al ritmo di due libri (almeno) all’anno, uno per il commissario Ricciardi ed uno per i Bastardi, De Giovanni continua ad andare per la sua strada, proseguendo, egregiamente, nel solco che si è prefissato. Anche se qui, per la mia pancia, siamo leggermente, seppur di poco, sotto la sufficienza. Per la nuova puntata di Pizzofalcone, il Nostro punta al solito sulle due storie, maggiore e minore, affidando il compito di “major” a turno ai diversi poliziotti del commissariato. La storia maggiore riguarda appunto il pane, che è Pasqualino Granato, panificatore da generazioni, ad essere inopinatamente ucciso davanti al suo forno, una triste alba estiva. Le implicazioni potrebbero essere grosse, che Pasqualino aveva visto uno sgarbo commesso dalla gente dei Sorbo, il clan che governa la città. Ma prima aveva detto di voler testimoniare, poi si era tirato indietro quando aveva capito che, per l’eventuale programma di protezione, avrebbe dovuto lasciare il suo pane. Si crea subito quindi uno scontro tra i Bastardi, difesa dal PM Piras (che però sta un po’ in rotto con Lojacono) e la DDA, che vorrebbe prendere tutto su di sé. Lojacono però dimostra subito che il delitto non è di mafia, ci sono troppe incongruenze che un malavitoso doc avrebbe evitato. Si ingaggia così una tacita gara tra le due strutture, di cui noi seguiamo come ovvio i nostri. Certo potrebbe essere stato un tentativo dei Sorbo, utilizzando magari uno scagnozzo alle prime armi. Ma potrebbe essere stata la moglie separata di Pasqualino, che ha instaurato un nuovo rapporto con un collega insegnante (seppur sposato) e che poteva voler vedere uscire di scena l’ex-marito. Potrebbe essere la sorella Mimma, che Pasqualino scopre avere una relazione extra-coniugale, che il marito ignora, e che il nostro vorrebbe denunciare. Potrebbe essere il cognato, con cui da tempo è in lite perché Pasqualino vuole mantenere la purezza del pane fatto con il lievito madre, mentre il cognato vorrebbe passare al lievito di birra, che renderebbe più veloce e redditizia la panificazione (anche se meno saporita). Con la solita arguzia che ad un certo punto contraddistingue le azioni dei Bastardi, Lojacono avrà l’illuminazione che porterà alla soluzione del caso. Contemporaneamente, Alex e Aragona indagano su di un caso di stalking che coinvolge due ragazzi, brutti, ma proprio brutti. Con l’aggravante che non tanto lui si chiami Arnoldo, quanto la fidanzata si chiami Bona. I nostri due detective, utilizzando prove classiche (tipo DNA) ed osservazioni acute (inaspettati graffi di gatti), trovano anche qui la soluzione. Ma è ovvio, che poi, è tutto il contorno delle attività dei Bastardi che interessa noi lettori seriali. Il Cinese è sempre più dilaniato tra un amore che sente inarrestabile verso Laura Piras, la scontrosità di quest’ultima, la crescita della diciassettenne figlia Marinella, e l’amicizia (che per lei sarebbe amore, ma non per lui) dell’oste Letizia. Al solito sappiamo la capacità di De Giovanni di mettere sempre i bastoni tra le ruote delle storie, per cui, non solo Laura è scontrosa, ma ha anche una fugace avventura con il capo della DDA. E son problemi grossi per Lojacono. Il Presidente continua la sua ricerca del folle che facilita l’uscita di scena di persone vicine al suicidio, uccidendole prima che commettano l’insano gesto. Noi sappiamo (qui sì, utilizzando la terza regola dei seriali che finora aveva scansato) chi sia il vero colpevole, e vediamo come Pisanelli questa volta stia quasi per arrivarci anche lui, se non che scivola su di una buccia di banana proprio all’ultima curva. Poco abbiamo su Mammina, se non qualche accenno che Palma la pensa e che Ottavia sa che Palma la pensa, e via incartandosi. Ed anche su Serpico, che il nostro Aragona, a parte battute stupide, sta solo cercando di trovare il modo di intavolare un discorso serio con Irina, non riuscendoci. Sono gli altri due, che nell’ombra si fanno più strada. Calamity ha finalmente preso il toro per le corna, ed è andata a vivere da sola, riuscendo, almeno parzialmente, ad uscire dalle grinfie del padre ossessivo e possessivo. Che però sembra soltanto preoccupato sulla sorte di una figlia che sta a contatto con la malavita. Tanto da farsi venire un infarto. Evento che scatena le seguenti reazioni: Alex capisce che la madre sa che lei è lesbica, ma che non lo dirà mai, sa che il padre non lo capirà mai e non pensa sia il caso di porlo davanti a fatti che dall’infarto lo porterebbero alla tomba, e si chiarisce finalmente con la bella Rosaria, dove, alfine, sembra possa nascere, o rinascere, un bel rapporto. Hulk, invece, è super-colpito dalla fine della storia precedente con la piccola Giorgia, che ora è fuori pericolo, che sta in una casa-famiglia, che lui vorrebbe avere per sé. Sta anche facendo un lungo percorso emozionale sulle sue pulsioni violente. Consigliato da una avvocatessa di cause femminili, riprende anche in mano il suo rapporto troncato con la moglie Giorgia, scoprendo che se si fosse mosso prima, magari qualche incomprensione sarebbe svanita anzitempo. Così che ci avviamo ad assistere alla nuova sfida di Francesco: trovare il modo di ricostruire il rapporto interrotto, e far in modo che i tribunali comprendano la loro voglia di avere una figlia, e nella fattispecie proprio la piccola orfanella. Rimarcando, se ce ne fosse il bisogno, che la scrittura scorre al solito per suo conto, come fa un fiume quando trova un alveo che gli si addice, non posso che sottolineare i soliti punti di debolezza delle storie. Queste divagazioni, di tanto in tanto, sui tempi, sul titolo, inserendo anche a volte microstorie, per carità significative, ma poco utili ai flussi narrativi principali. Ricordiamoci di Flaubert, ogni tanto.
“Un grande amore ti riempie la vita e la supera: in profondità, in altezza, in lunghezza … il contatto non lo perdi più … il dialogo continua sempre, anche dopo la morte.” (82)
Maurizio De Giovanni “Souvenir per i bastardi di Pizzofalcone” Repubblica Italia Noir 13 euro 7,90
[A: 10/09/2018 – I: 17/07/2019 – T: 18/07/2019] - &&&--  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2017]
Ed eccoci ad un nuovo episodio dei nostri Bastardi, sempre su due binari, sempre con i nostri eroi in primo piano, anche se, ed è qui la bravura di De Giovanni, si alternano i protagonisti del coro. Non nelle indagini principali, dove c’è sempre Lojacono, bene o male, a tirare le fila. E c’è sempre Aragona che ogni tanto esce fuori con delle idee che indirizzano le indagini. Ormai la serie si sta consolidando, ed anche la tipologia di scrittura che la contraddistingue. Certo, alcuni svolazzi, alcune digressioni. Ma più contenute della serie del mio amato Ricciardi. Inoltre, il Nostro si diverte a sfidare spesso il lettore, inserendo capitoli che possono andare avanti e indietro nel tempo, e siamo noi, poi, a doverli collocare. Come dobbiamo collocare bene le lettere che vengono inserite. Anche se, ma questa è una mia presa di posizione personale, spesso preferisco saltarne la lettura. Non mi sembrano necessarie. Non solo, ma alterano i ritmi narrativi, e non sempre favorevolmente. Qui la sotto storia è di poco spessore investigativo, ma di forte impatto. Il nostro Serpico viene inviato a controllare un magazzino dove potrebbero transitare borse contraffatte. E viene scelto perché il padre, maneggione, è coinvolto nell’affare. Aragona è combattuto tra il dovere e l’affetto. Sarà il Presidente a far pendere la bilancia dal lato giusto, inventando una soluzione per tirare fuori l’amico dai guai, e mettere nei guai i trafficanti. Peccato che la tempra di Pisanelli, almeno credo, stia arrivando alla fine. Lo vedremo nel prossimo episodio. La storia principale è legata a quel “Souvenir” del titolo. Che non è solo un ricordo, ma anche il titolo di un film, interpretato a Sorrento dalla bella Charlotte Wood. Dall’incipit e dall’epilogo si capisce che Charlotte ha avuto una storia durante la lavorazione, con un bel ragazzotto campano. Sapremo, ma non ci interessa qui, come si è evoluta la storia, perché e percome Charlotte sia tornata in America, ed abbia partorito il vivace Ethan dal locale Mimì. L’attrice ha poi avuto una figlia, che chiamerà Holly. E come dice Marco, ci vuole del fegato a chiamare Holly una persona che di cognome fa Wood! Anche Mimì ha avuto una figlia, Angela. Triste, solitaria, maga dei numeri. Tristezza che viene circuita da Nicola, un bel tomo legato al clan dei Sorbo (ancora loro che ritornano). Angela, a parte aiutare nei conti e nelle cifrature il marito, rimarrebbe nell’ombra, se non che rimane incinta. E la maternità le dà la forza di ribellarsi. Chiede aiuto al fratellastro Ethan che si precipita con sorella e madre dall’America per un tentativo di salvataggio. Nelle more, Angela scompare. De Giovanni in un prima tempo cerca di depistarci facendoci credere che sia stata rapita, ma scopriamo ben presto che la realtà è un’altra. Intanto, i nostri Bastardi vengono coinvolti perché Ethan, chiedendo di Angela, si scontra con degli scagnozzi del clan Sorbo, che lo riducono in fin di vita. Motivo per cui ecco i nostri alla riscossa. Cercano di capire i motivi della famiglia Wood. Alex ha la prima intuizione di cercare i collegamenti tra Wood e Angela, e poi di cercare nel passato della ragazza. Scoprono così Ciro e la sua trattoria (dove Mimì faceva il cameriere e dove aveva incontrato la bella Charlotte). Qui è Marco che ha la sua intuizione, che si domanda perché se dall'interno ci sono 4 finestre, dall'esterno ce ne sono 5. Di idea in idea, di comprensione in comprensione, vediamo alla fine uscir fuori la bella storia “da ricordare” dell’attrice e dello scugnizzo. Una storia che va avanti per 40 anni, anche se solo sulla carta. Con tutti i rivoli attuali. Dove vediamo Lojacono convincere la bella Piras ad aiutarli, nonostante… E la Piras convincere Buffardi ad abbassare la cresta, nonostante… Insomma, anche la storia principale va al suo lieto fine, o forse amaro fine o forse entrambi. Continuano comunque, anche se von meno peso, le storie laterali. Di Serpico e del Presidente si è detto, anche se bisogna aggiungere che Irina è tornata dal Montenegro (per cui Marco dovrà pur far qualcosa) e Pisanelli capisce che anche il suo amico frate gli ha mentito. Il Cinese non ha grandi novità, che Marinella e Letizia praticamente non compaiono, e restano solo i suoi tormenti con Laura, verso Laura, tra lui e Laura. Certo che, al solito, De Giovanni ha sempre voglia di incasinare la vita di tutti, e per ora non vediamo la via d’uscita per Giuseppe, Laura e Letizia. Come non vediamo la via d’uscita tra Ottavia ed il capo, che si avvicinano con il cuore, rimanendo sempre e consapevolmente lontani. Come rimane ingarbugliata la storia di Hulk e della piccola Giorgia. Anche qui sembrava prossimo avviati ad una fine scontata, con il riavvicinamento tra Francesco e la moglie al fine di adottare la piccola orfanella. Peccato che qui, l’omone si ritrova, per una serie anche comprensibile di motivi, a baciarsi e ad avvicinarsi alla piccola dottoressa Susy. Ovvio che il nostro benamato scrittore non se ne fa mancare una. Lui direbbe per rendere avvincente la trama. Io ribatto per fare confusione e rendere difficile la vita a tutti. Forse meno che ad Alex che sembra aver ritrovato la strada del cuore di Rosaria ed anche del padre. Ma credo che nelle prossime puntate De Giovanni riuscirà ad incasinare anche questa storia. Resta una trama leggermente superiore alla precedente, sul filo sempre della sufficienza, poco sopra o poco sotto.
Basta lamentarsi un po’ e tutto va per smentirti. Così, dopo trame e trame passate a ripensare ai viaggi passati, ecco che ci si piò dedicare anche a quelli futuri, con una buona idea di ritorno all’India amata. Magari con quel salto verso il deserto indo-pakistano che tutto sommato manca. Come mancate voi, belle amicizie di ogni dove.

domenica 17 novembre 2019

Di tutto un po' - 17 novembre 2019


Ariel Magnus “Un cinese a Buenos Aires” Gran Via s.p. (prestito di Fako)
[A: 22/12/2017– I: 17/06/2019 – T: 24/06/2019] - &&   
[tit. or.: Un chino en bicicleta; ling. or.: spagnolo; pagine: 264; anno 2008]
Ariel è un 44enne argentino, che si occupa di scrittura, e che, partendo da un fatto di cronaca, poco più che trentenne scrive questo romanzo-apologo. Mi avevano fin dall’inizio incuriosito, nell’omaggio dell’amico Fako: il nome dell’autore, il cognome dell’autore, l’editore, la copertina, il titolo. Poi verrà anche il testo ma… Intanto, Ariel, più che la Sirenetta disneyana, mi ricordava angeli custodi vari, e qualcosa di ebraico. Andando a fondo, si è proprio un nome ebraico, nonché uno degli antichi nomi di Gerusalemme. Il cognome, poi, mi riporta ad uno dei più grandi fumettisti italiani, Roberto Raviola in arte Magnus, ma non entra per nulla con argentinerie varie. Di “Gran Via” avevo già avuto contatti, che meritoria mi sembra l’idea di promuovere la letteratura di lingua spagnola in Italia. La copertina invece mi rimanda alle case della Boca, il quartiere più colorato e più italiano di Buenos Aires, quello con lo stadio del Boca Junior (cioè di Maradona, Batistuta e compagnia), anche se poi è solo uno specchio per le allodole, che mai ci si aggira per questo quartiere. Infine, ‘sto titolo appiccicato che, ovvio che stiamo a Buenos Aires, ma il titolo originale riguarda “Un cinese in bicicletta”, che ha senso anche con la storia stessa. Infatti, nel 2006 in diversi luoghi di Buenos Aires ci fu una serie di incendi, tutti in negozi di mobili, tutti nel cuor della notte, finché la polizia ha fermato un cinese in bicicletta che aveva con sé bidoni di benzina, fiammiferi e pietre per rompere le vetrine. Un colpevole perfetto, da prendere per spunto, per tirar fuori una storia di immigrazione e di rapporti tra strati sociali e culturali diversi. da qui, allora Ariel prende l’avvio per la sua narrazione. Retrodatandolo un pelino, alla notte del 2 settembre 2005. Ramiro, il protagonista, sta tornando da casa della fidanzata e si imbatte nell'arresto di Li, poi soprannominato Cerino perché accusato di essere il responsabile degli undici incendi di negozi di arredamento avvenuti tutti nella stessa zona di Buenos Aires e nel mese di agosto. Ma noi ci affacciamo al romanzo un anno dopo, un anno in cui al povero Ramiro accadono disgrazie una dopo l’altra. Non ultima la scoperta del tradimento della fidanzata con il suo migliore amico. Inoltre, il giorno in cui deve testimoniare al processo lo licenziano. Come se non bastasse, al processo Li viene condannato, e decide allora di scappare. Ovviamente usando come ostaggio il buon Ramiro. Ruba una volante, e dopo una carambolesca fuga, nasconde l’ostaggio in una bettola cinese, dall’augurale nome di "Tutti soddisfatti". Siamo nel quartiere Belgrano, una specie di Chinatown in Argentina. Ramiro, rinchiuso in due stanze insieme ad un anziano, una coppia e una sarta con suo figlio, mangia cibo cinese, ascolta dialoghi cinesi, guarda in televisione canali satellitari cinesi, sfoglia riviste cinesi. Cerca di superare la noia della prigionia inventando dialoghi immaginari. Pensa che qualcuno, i suoi amici, la polizia, lo stia cercando, ma nessuno sembra notare la sua assenza. Dopo due settimane di reclusione, insieme a Li comincia ad uscire, a scoprire il quartiere, nonché aiutare il suddetto Li a provare la sua innocenza. Detto che sarà il risultato finale positivo (almeno uno), Ariel approfitta di questa “estraneazione” per fare un po’ di antropologia sulla vita di una comunità all’estero, e sui giudizi e pregiudizi reciproci. Che poi in fondo è la cifra che Magnus voleva dare al testo. Tutta questa parte è forse la più divertente. Ad esempio, quando Ramiro è alle prese con una prostituta cinese, si lancia in questa riflessione: “Ammetto di averla tenuta un po' sotto osservazione anch'io, fino a quel momento non lo avevo mai fatto con un cinese, tuttavia la mia indagine durò pochi secondi, giusto il tempo di verificare che non ce l'hanno orizzontale”. E poi lo spaesamento quando, a contatto con un gruppo di cinesi: “feci uno sforzo di memoria e ricordai che era quello che aveva lasciato la stanza …  prima che ci entrassi io, quello che mi spaventò non fu tanto il fatto di incontrarlo lì, quanto piuttosto il rendermi conto che riuscivo a distinguere così bene un cinese da un altro da essere in grado di dire con certezza quando due erano lo stesso”. Il tutto collassa verso una fine annunciata, che Ramiro si trova talmente bene con i cinesi, che non solo aiuterà Li, ma si troverà una fidanzata con gli occhi a mandorla. Tuttavia, il romanzo non è bilanciato, e nella seconda parte è un po’ prolisso e scontato, Tanto che non si risolleva più ai fasti della scrittura iniziale. Al fondo, però, ci pone una domanda, che lui non risolve, ma che è giusto girare a tutti noi che viviamo in città con forti presenze asiatiche: quanto in realtà sappiamo e capiamo di questi immigrati? Che sono tra l’altro regolari. Se ne dovrebbe parlare.
“Provelbio cinese è: se hai ploblema che non ha soluzione, pelché ti pleoccupi? E se ha soluzione, pelché ti pleoccupi?” (162)
“Più lontano si viaggia meno si sa (Lao Tse)” (217)
“Non capisco perché ci sia bisogno di tutte queste coincidenze per raggiungere la felicità. - Hai mai pensato che noi non ci saremmo mai dovuti incontrare?” (264)
Michele Serra “Le cose che bruciano” Feltrinelli euro 15
[A: 13/05/2019 – I: 27/06/2019 – T: 28/06/2019] - 🕮🕮🕮--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 2019]
In realtà sono rimasto leggermente spiazzato, che, erroneamente, pensavo si trattasse non dico di un saggio, ma quanto meno di un lungo elzeviro sulla vita moderna, così come Michele ci ha abituato da anni dalle pagine di Repubblica. Invece si tratta di un romanzo, anche se, ed è ovvio dato il personaggio, è un romanzo a tema. Un tema “minimale”, ma di certo interessante per essere dibattuto e commentato. Un politico in carriera incappa in un intoppo del suo brillante panorama. Si intestardisce, contro ogni evidenza, nel portare avanti una proposta di legge, pur interessante nella sua formulazione, ma anacronistica nel panorama attuale. Attilio, il protagonista, propone che tutte le scuole di ogni ordine e grado ritornino alle divise scolastiche di un tempo. in questo modo si potrebbero annullare gli effetti perversi dei giovani che si vogliono esibire, nel vestire, nel tatuarsi, nell’ostentazione di inutili differenze sociali. Idee non peregrina, ma inattuabile (lo capite bene tutti). Attilio, sconfitto, decide che poco altro ha senso, e si ritira in un mondo contadino, dove, giorno dopo giorno, amicizia dopo amicizia, riscopre valori fondamentali che la frenesia del mondo moderno aveva fatto sparire. La lentezza, la decrescita, la solidarietà. Insomma, una specie di summa laica del pensiero e delle opere di Don Milani. Si industria, trova anche un modo di convivenza con la moglie in carriera, che gira il mondo costruendo e guadagnando montagne di soldi di cui Attilio, pur con qualche riserva, attinge per vivere. Rovesciando il rapporto uomo – donna, con la donna che guadagna e l’uomo si casalingheggia. Attilio ha anche una diversa ossessione, rispetto ad una serie di eredità di parenti decedute: mobili, carte, tante cose inutili, di cui disfarsi, e di cui tenta di fare un falò (sono appunto le cose che bruciano). Qui arriva il punto di doppia svolta, nel rapporto con i suoi vicini amici, Severino e sua moglie, la Bulgara. Che Severino lo convince ad iniziare una coltivazione di zafferano, pianta assai redditizia, ma che va trattata con garbo e delicatezza. Non c’è macchinario per farne una raccolta efficace. Bisogna rimboccarsi le maniche e spaccarsi la schiena. Cosa che Attilio accetta di buon grado, quasi a punirsi della sua dissoluta vita precedente. E c’è la Bulgara, che, visiti i tentativi di falò abortiti di Attilio, lo convince a lasciare a lei i brutti divani e le poltroncine anacronistiche. Cui, con pazienza ed amore, fornisce nuova vita e nuova linfa, rigenerandole. L’apologo avrà una fine scontata, e forse a me poco piaciuta. Attilio, con pazienza e perseveranza, metterà in piedi una fiorente produzione di zafferano, diventando uno dei maggiori produttori italiani. Ci sono altri elementi di contorno, che servono a riempire le pagine, visto che i fatti narrati ne occuperebbero la metà. C’è la sorella di Attilio, Lucrezia, con la sequela di mariti ricchi da cui divorzia con cospicue libagioni. C’è Federico, il ragazzo fuggito dalla città per fare il pastore. C’è Saverio, il predicatore solitario, con il quale Attilio istaura un rapporto di discussione teologica, e che nominerà Attilio, anche se del poco che ha, uno dei suoi eredi. Insomma, un apologo sul ritorno al poco per ottenere il molto, che tuttavia non riesce a bucare la pagina. Non si ride di nulla. E si riflette un po’, ma in modo poco convinto. Non ci sono elementi nuovi, scatenanti, urgenti che vengono alla mente durante la lettura. Che alla fine passa, senza troppo colpo ferire. Rimangono solo due momenti di collegamento, personale, e forse poco interessanti, ma che vi riporto. A pagina 36, Attilio imita il verso del rigogolo, ripensando ad un orologio, non so da chi avuto, che scandiva le ore con i versi degli uccelli. Immagine che mi ha rimandato ad un libro di Danila Comastri Montanari e del suo Publio Aurelio Stazio, investigatore della Roma di Claudio, che appunto risolve un caso proprio per mezzo di un tale orologio. Che inopinatamente era stato fatto suonare due volte con lo stesso verso uccellifero, cosa che aveva consentito ad Aurelio di ricostruire le movenze di un assassinio. La seconda è invece più personale, che a pagina 61 Attilio si domanda “che fare delle decine di carte stradali d’Europa – le più recenti degli anni ottanta – che conservo in ricordo dei miei viaggi giovanili, tutte piegate male, bozzute … con una attendibilità ridotta allo zero”. Una riflessione che sottoscrivo, perché se apro il grande cassetto del mobile del salone, proprio decine di carte stradali inutili saltano fuori. Forse aspetto anch’io di ripensarle come ad una giovinezza trascorsa sulle strade francesi, o sui tornanti trentino-veneti. O forse aspetto di bruciarle. O che qualcuno, prendendomi per mano, mi faccia finalmente crescere. Come diceva Battiato, “quant’è difficile invecchiare senza diventare adulti”.
“Essere vivi non è un diritto, è un prodigio.” (80)
Ian McEwan “Miele” Einaudi s.p. (prestito di Fako)
[A: 28/08/2017 – I: 01/07/2019 – T: 04/07/2019] - & +
[tit. or.: Sweet Tooth; ling. or.: inglese; pagine: 353; anno 2012]
Pur riconoscendo e sapendo che McEwan è un degno scrittore, nella mia biblioteca (e nelle mie letture) compare soltanto con due romanzi e due racconti. Essendo che da più di dieci anni non ne prendevo in mano un nuovo testo, ho accolto, seppur con i dovuti ritardi delle mie endemiche letture, il suggerimento dell’amico Roberto. Sperando che nessuno si dispiaccia (e sperando che il nipote di mio cugino Stefano si chiami Ian per altri omaggi, che so per Rankin ad esempio o tuttalpiù Fleming) devo dire che questo libro ribadisce il mio poco lusinghiero giudizio sull’autore. Il libro non mi è piaciuto, non mi ha preso, ed ho trovato involuto e poco amichevole nei confronti del lettore il finale che, pur conseguente alla scrittura, il nostro ci propina quasi come un colpo di genio. Intanto, come al solito mi domando il senso del cambio di titolo. Che in effetti, idiomaticamente, in inglese sta a significare “goloso di dolci”. Da dove salta fuori allora questo sdolcinato “Miele” che ci propinano gli editori italiani? Al solito rimarrà un mistero. Come molti acuti osservatori hanno fatto notare, la storia è (anche) una parafrasi con qualche licenza della vita stessa dell’autore. Che un po’ si nasconde sotto il fantomatico Tom Haley. Studi nell’Università del Sussex e non nelle prestigiose “Oxbridge”. Testi dei racconti narrati dall’io narrante Serena con molti punti di contatto con i primi testi di McEwan. Presenza, nel narrato, di persone realmente a contatto con il nostro: Martin Amis, ad esempio, ma soprattutto il mentore di McEwan, Ian Hamilton. Nonché, ed è questo l’elemento che credo abbia scatenato la voglia di scrivere. L’idea di ripercorrere i turbolenti inizi degli anni ’70, irti di difficoltà per il popolo britannico: guerra con l’IRA, problemi di equidistanza tra USA e URSS, crisi petrolifera, l’alternanza al potere tra Edmund Heath (tory) e Harold Wilson (Liberal). Tutta una congerie di cause che porterà pochi anni dopo al crollo del Labour ed alla ascesa al potere per tutti gli anni ’80 della Iron Lady, Margaret Thatcher. Inciso, l’unico elemento positivo, in un certo senso, che ricordi, è il fatto che fu proprio Wilson ha chiedere alla Regina Elisabetta II di nominare baronetti certi strampalati musicisti inglesi (Lennon, McCarthy, Harrison e Starr, per chi fosse di labile memoria). Venendo al testo, la prima difficoltà (mia) è che si imposta come un racconto in prima persona della sedicente signorina Serena Frome. Come già sapete, io diffido alquanto degli scrittori maschi che vogliono rappresentare il mondo visto dalla parte femminile. Il doppio inganno è poi capire se il testo che stiamo leggendo sia stato scritto (non pensato, ma materialmente svolto) da Ian che pensava come Serena o da Ian che pensava come Tom che avrebbe pensato come Serena. Un mini-mistero che lascio da risolvere a chi avrà la pazienza di leggerne. La trama, fatti i debiti tributi a quanto detto sopra, è linearmente complicata. Abbiamo la buona Serena, che vorrebbe dedicarsi alla Letteratura, essendo una lettrice onnivora quasi quanto me. Per una serie di vicende che tralascio, si laurea in Matematica, ma non segue l’istinto dei buoni numeri. Dopo aver passato del tempo con il buon Jeremy, che poi si rivelerà un simpatico gay, si innamora del maestro di Jeremy, Tony. Storia d’amore turbolenta, che, ma sapremo solo alla fine perché, Tony tronca, facendo però il regalo di inserire Serena nell’ambito ministeriale dei ranghi di basso livello dell’MI5 (i Servizi Segreti). Dove ha un piccolo penchant verso l’odioso Max, per poi entrare a capofitto nella storia con lo scrittore Tom, quando viene inserita nell’ambito del programma “Goloso di dolci (à Miele)”. Una sovvenzione nascosta per permettere a supposti promettenti scrittori di dedicarsi alla scrittura percependo un salario mensile da una fondazione dietro cui si celano i Servizi. Serena è incaricata di ingaggiare Tom. Cosa che fa, prima riraccontandoci i racconti scritti da Tom (ed è uno dei due punti interessanti del libro, una meta scrittura di un romanzo in cui si parla di un racconto), poi incontrando e venendo travolta dalla passione per Tom. Tutto fila liscio, sembra, con scrittura di libri, vincita di premi, ed amore corrisposto. Peccato che Serena viva nella menzogna, non avendo confessato il suo ruolo a Tom. Peccato che ci sia l’odioso Max che sembra voler mettere bastoni tra le ruote. Peccato che, alla fine, i giochi saltino fuori. Si scoprono gli altarini. I giornali pubblicano la storia. E tutto precipita. Ma che ruolo ha realmente Tom? E quanto l’amore Tom-Serena può essere più forte delle convenzioni esterne? McEwan ci fornisce elementi per risolvere il mistero, ma in un modo criptico, che, in un certo senso, lascia la decisione al lettore. Ed ogni lettore deciderà secondo le proprie sensibilità. Io trono solo su di un punto minore, unione di matematica e scrittura, quando Serena propone a Tom il problema di Monty Hall, e Tom ci costruisce sopra un racconto (che ritengo uno dei punti minori del libro). In poche parole, il problema è il seguente: “Supponi di partecipare a un gioco a premi, in cui puoi scegliere fra tre porte: dietro una di esse c'è un'automobile, dietro le altre, capre. Scegli una porta, diciamo la numero 1, e il conduttore del gioco a premi, che sa cosa si nasconde dietro ciascuna porta, ne apre un'altra, diciamo la 3, rivelando una capra. Quindi ti domanda: "Vorresti scegliere la numero 2?" Ti conviene cambiare la tua scelta originale?” Intuitivamente, si dice che le probabilità sono sempre le stesse. Analizzando il problema in termini rigorosi, invece, se all’inizio la probabilità di vincita sono 1/3, dopo la proposta del conduttore, cambiare porta conduce ad una probabilità di 2/3. Quindi, conviene cambiare. Piccola critica, il racconto che Tom imbastisce (dietro le porte ci sono adulteri e l’uomo deve capire quale porta aprire per cogliere la moglie in flagrante) è errato, perché una delle porte viene aperta dall’interno. Sarebbe stato più corretto, matematicamente, che una coppia salisse e scegliesse una porta, che quindi sa non essere occupata dai fedifraghi. Solo allora, l’uomo può decidere quale porta aprire per trovare moglie e amante. Se volete, ne riparliamo. Per quanto riguarda il testo, è inutilmente lento, anche se, per dar sugo al testo, i riferimenti agli anni Settanta sono tanti e corretti. Ma a me continua a non piacere.
“Se non avessi sprecato tre anni ad annaspare in matematica, magari avrei studiato letteratura ed imparato a leggere.” (122)
Graham Greene “Il fattore umano” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 4,75 euro)
[A: 09/05/2017 – I: 23/07/2019 – T: 26/07/2019] - &&& -
[tit. or.: The Human Factor; ling. or.: inglese; pagine: 325; anno 1978]
In realtà, non ricordo proprio perché ho comperato questo libro. Forse nella mania di possedere tutto di tutti gli autori. Pensavo fosse all’interno di qualche lista che nel tempo stilo, ma negativo anche quello. Comunque, l’ho letto. E, seppur non bellissimo, è quanto meno interessante. D’altra parte, Greene ha una scrittura di una lievità che taglia in profondo. Da studiare. Ed è forse solo per questa bravura dello scrivere che il libro risulta di una soddisfacente lettura. Che la storia in sé non decolla mai, non riesce a coinvolgere, anche se in vari punti ci sono elementi di entomologia scrivana di sicuro interesse. Come più volte accade negli scritti di Greene, siamo in un ambiente tipicamente, marcatamente inglese. Con personaggi che tipizzano diversi modi di essere. Soprattutto, poi, siamo negli ambienti dei Servizi Segreti, che nella mia testa hanno rimandato subito sia a quell’eponimo “Il nostro agente all’Avana”, sia a quel forse meno noto, ma sicuramente molto più forte, per me, “Un americano tranquillo”. Certo, qui non siamo più negli anni Cinquanta in Asia o Sessanta nei Caraibi. E si sente. Tutto si svolge nella tranquilla Londra, anche se i protagonisti hanno vissuto pesanti anni sudafricani, nel mezzo dei più duri forse dell’apartheid. La figura centrale è l’agente Castle, per diversi anni a Johannesburg, dove, in barba alle leggi razziali, si innamora di una donna di colore. Sta per essere incriminato dai funzionari del Partito al potere (per l’apartheid frequentare una donna di colore era un reato penalmente perseguibile), quando, con l’aiuto di un agente russo infiltrato, prima fugge in Mozambico (in particolare a Lorenço Marques, la capitale, ora rinominata Maputo), poi, raggiunto dalla bantu Sarah, con lei riesce a tornare a Londra. Dove gli viene affidato un lavoro d’ufficio, anche se sempre riguardante il sud emisfero africano. Si sposa con Sarah, riconosce il di lei figlio come proprio, e comincia una vita apparentemente tranquilla. L’azione ora si svolge sette anni dopo la fuga. Castel divide l’ufficio con l’esuberante Davis, ha una routine senza scosse con Sarah ed il figlio Sam, ha contrasti normali con la madre (un po’ cacacazzi), ha rapporti sereni con i superiori. Ma è tutta apparenza, che in realtà, per un debito d’onore con chi lo ha salvato dalle grinfie della polizia sudafricana, diventa un oscuro agente segreto russo. Passa una serie di informazioni ad un contatto, che non conosce, lasciando notizie di una banalità sconcertante, in improbabili nascondigli. Tutto potrebbe continuare all’infinto, se il nuovo capo sezione non subodorasse una fuga di notizie. Qui c’è tutta la descrizione dell’aristocrazia dei Servizi, quella scottata, e molto, da Philby e compagnia. Il capo dell’MI5, il patologo principe, i capi sezione, sono descritte, anche se brevemente, ma con un forte distacco. Sono persone abituate a giocare sulla scacchiera della vita, vanno alla caccia alla volpe, alla pesca alla trota, mangiano nei loro Club esclusivi. Proprio sulla scacchiera possono decidere di sacrificare un alfiere, per cercare di dare scacco matto all’avversario. Così, ipotizzata la fuga di notizie, decidono che il colpevole sia Davis, che viene presto eliminato. Crisi morale di Castle, che cerca di uscire dal gioco. Peccato che abbia sottomano un’ultima, nodale notizia. Decide di fare l’ultima trasmissione, ma sa che così dovrà uscire di scena. Che verrà scoperta l’innocenza di Davis, e, due più due fanno quattro, la sua colpevolezza. Ma in Castle l’onore può più dell’ideologia. Agisce, e deve sparire, lasciando però moglie e figlio a Londra. Tutta la parte finale è giocata sul filo della vita moscovita dei fuorusciti inglesi, e dai ricatti che in patria i Servizi Segreti fanno alla moglie ed al figlio. Riuscirà la famiglia a ricongiungersi? Riuscirà Castle a far capire la sua posizione? Ed altri analoghi temi. L’idea di Greene, in fondo, era semplice e duplice. Far vedere l’orrore quotidiano di un mondo che stava soccombendo all’idea che lo spionaggio fosse tutto “alla James Bond”. Anche Green aveva fatto parte di quel mondo, e ben sapeva che, per la maggior parte del tempo, era un lavoro di lettura intelligente di scartoffie, e di riordinamento delle stesse all’interno dei diversi scenari internazionali. L’altra freccia nell’arco dello scrittore è la volontà di criticare l’ipocrisia che il mondo occidentale stava utilizzando nei confronti delle misure segregazioniste sudafricane. Non a caso, pochi mesi prima della scrittura del romanzo, una trentina di nazioni africane non parteciparono alle Olimpiadi di Montreal per boicottare questo atteggiamento lassista verso il governo Vorster (uno dei più duri difensori del regime). Ma se questi propositi sono interessanti, la loro realizzazione nel testo riesce fino ad un certo punto. Rimane sospesa, non affonda, né verso il completo orrore, né verso l’assoluzione totale. Insomma, un libro che vaga nel limbo di quelli possibilmente ben riusciti, ma non completamente realizzati.
Come sapete, la terza settimana è dedicata alla ricerca della felicità, in qualsiasi libro si trovi. Ed anche se Ende non mi convince, c’è sempre qualche sprazzo di ombra da tenere in considerazione.
Che dire poi di una settimana in cui molte caselle sono andate al loro posto (nell’infinita lotta con tutte le aziende pubbliche di servizi), ed anche la campagna ha avuto il suo giusto spazio di riposo e di ricarica. Va bene così, anche se si viaggia poco fisicamente e molto mentalmente. Per questo abbraccio tutti, anche se in modo umido com’è questo tempo uggioso.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
NOVEMBRE 2019
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella disamina di libri con rilascio immediato di benessere.

SOLUZIONI A RILASCIO RAPIDO 2

LIBRI CITATI:
LA STORIA INFINITA di MICHAEL ENDE (1979)
“Momo” di Michael Ende (1973)

“L’ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafón (2002)

Se non credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone. Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il mondo.

LA STORIA INFINITA di MICHAEL ENDE

Alcune storie ci catturano a tal punto da intrappolarci nel libro che stiamo leggendo. Alcune sono così coinvolgenti che vorremmo avere il potere di influenzarne gli eventi. Alcuni personaggi, poi, li sentiamo così vicini da desiderare di parlare con loro, consigliarli, aiutarli o chiedergli aiuto. Questo è esattamente quello che succede al protagonista de La storia infinita, metaromanzo a scatole cinesi e straordinaria metafora del piacere della lettura e del suo potere sulla nostra vita. Siamo oltre la semplice fantasia, siamo nel regno del fantasy. Anzi, siamo nel regno di Fantasia, un mondo fantastico minacciato dal Nulla, una forza misteriosa che lo sta lentamente inghiottendo. Le cose non vanno meglio nel mondo reale per Bastiano, un ragazzino con problemi a casa e a scuola che si sente una nullità. Dopo l’ennesimo maltrattamento da parte dei compagni, si rifugia in una vecchia libreria, dove la sua attenzione viene attratta da un misterioso libro: “La storia infinita”. Il ragazzo inizia a leggere e si ritrova coinvolto negli eventi, letteralmente chiamato in causa per aiutare il giovane guerriero Atreiu a salvare Fantasia e l’Infanta Imperatrice dall’inarrestabile avanzata del Nulla. Tra amuleti magici, creature fantastiche, luoghi misteriosi e personaggi incredibili che popolano un mondo magico che è una metafora dell’inconscio collettivo e individuale, Bastiano diventa protagonista di una straordinaria avventura iniziatica che lo trasforma in un eroe. E come ogni eroe, per sconfiggere il male che minaccia il regno e la vita dell’imperatrice, dovrà affrontare il suo lato oscuro, misurandosi con le sue paure e i suoi desideri, imparando a gestire entrambi.
Partiamo dal presupposto che questo classico della letteratura per ragazzi realizza il sogno di ogni inguaribile lettore: venire risucchiato in un libro appassionante e diventarne il protagonista. Di fatto ogni libro ben scritto è capace di assorbirci totalmente e se non siamo in grado di modificarne la trama, la trama ha il potere di modificare noi, influenzando il nostro modo di vedere le cose e aiutandoci a fare ordine nella nostra vita. Questo è ciò che succede a Bastiano. Nonostante il fantasy sia il genere letterario d’evasione per eccellenza e nonostante “La storia infinita” consenta una lunga e rigenerante vacanza dalla realtà, Michael Ende non vede nella fantasia una via di fuga dai problemi reali ma un mezzo con cui riuscire ad affrontare le proprie debolezze. Infatti, Bastiano, dopo aver corso il pericolo di rimanere intrappolato a Fantasia (la fantasia se mal gestita può effettivamente diventare una trappola), torna a casa, nel mondo reale. Ma torna cambiato, più sicuro di sé, coraggioso e forte.
Oltre a essere una bomba per contrastare lo scetticismo letterario, “La storia infinita” è un farmaco che cura i malesseri causati da una routine eccessivamente ripetitiva e prosaica ristabilendo i giusti livelli d’incanto e magia. Aiuta a spurgarsi dagli eccessi di razionalità, riscoprendo il valore della fantasia come fonte creativa generatrice di sogni, arte e libero pensiero con il quale recuperare la parte più autentica dell’essere umano. Rimedio efficace per ritrovare fiducia in sé stessi in caso di cali d’autostima provocati da amici, parenti, colleghi, datori di lavoro, insegnanti o compagni, “La storia infinita” è utile anche per ridare il giusto valore ai ricordi evitando di essere inghiottiti da un Nulla spesso scambiato per un frenetico Tutto dietro cui, in realtà, si nasconde un vuoto esistenziale. Eventuali vuoti e solitudini emotive possono essere curate anche con un altro capolavoro di Michael Ende, “Momo”. La piccola protagonista di questo romanzo di fantasia è una portatrice sana di empatia il cui contagio provoca un’incredibile e immediata sensazione di benessere incrementando la capacità di ascoltare, amare e accogliere.
La cura non può dirsi completa se non è coadiuvata dalla trasposizione cinematografica del romanzo, realizzata nel 1984 da Wolfgang Petersen. Diventato un classico proprio come il libro, nonostante le numerose differenze, “La storia infinita” è uno di quei film la cui mancata visione nella fase della crescita potrebbe provocare seri danni e carenze nell’età adulta. In un periodo in cui gli effetti speciali non erano solo digitali ma veri giochi di magia, è un’orgia d’immaginazione allo stato puro tra avventura, sogno e divertimento. Chi, dopo aver visto il film, non ha desiderato volare sul drago Falkor o indossare l’Auryn? Se vi considerate troppo grandi e seri per condividere questi desideri, vi avverto che difficilmente sarete immuni da un altro effetto collaterale della visione: canticchiare per un paio di giorni, come minimo (un lasso di tempo che vi sembrerà infinito), il famosissimo tema della colonna sonora: “Never Ending Story”. Letteratura, cinema e fantasia: fatevi coinvolgere in questo incredibile ménage à trois.
Un consiglio: se le storie di libri misteriosi e magici vi appassionano, lasciatevi coinvolgere dal groviglio d’intrighi che lo scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafón ha costruito ne “L’ombra del vento”. Quando il giovane protagonista viene condotto da suo padre nel Cimitero dei Libri Dimenticati ed entra in possesso di un misterioso volume, la sua vita non sarà più la stessa. Il desiderio di scoprire qualcosa di più sull’autore di quel libro “maledetto” lo condurrà in un labirinto di misteri inquietanti sullo sfondo di una Barcellona ferita dai postumi della Seconda guerra mondiale. Avvincente.

Commenti

Andando a riprendere notizie su Ende, ho scoperto che è sfortunatamente deceduto sin dal 1995. Io lessi la sua storia agli inizi degli anni ’80, una bella lettura, ma forse mi stavo già allontanando dalla fantasia e stavo lottando nella realtà, per cui mi lasciò poche sensazioni. E quindi non lessi, né allora né poi, il suo “Momo”. Mentre ho letto, e qui ne riporto, il libro spagnolo, interessante di certo, ma forse a volte un po’ sopravvalutato.
Carlos Ruiz Zafón “L’ombra nel vento” Mondadori euro 12 (pagato con sconto 10,20)
[pubblicato il 07 febbraio 2008]
Si legge finalmente anche Zafón, il caso spagnolo nato dal tam-tam dei lettori. E si legge d'un fiato. Una favola adolescente. Un libro di formazione, sul passaggio all'età adulta avendo uno scopo, un'idea che determinerà tutta la vita.  A Barcellona una mattina d'estate del 1945 il proprietario di un negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo segreto dove vengono sottratti all'oblio migliaia di volumi di cui il tempo ha cancellato il ricordo e chiede a Daniel di scegliere un libro che dovrà però impegnarsi a proteggere per il resto della sua vita, un libro di Juliàn Carax . Si mescolano diversi generi: thriller, romanzo (amore e passione), saga familiare e una riflessione sulla letteratura e sul ruolo dei libri nella vita delle persone. Volendo si scopre ben presto chi è Juliàn, ma forse è meno importante dei rapporti tra le persone. Tra genitori e figli, tra giovani amanti, tra amori della vita e sesso. C'è un lato a volte buonista che forse avrei ridotto. C'è la felicità di leggere una bella storia, con castagne e vino caldo.
“Sembri un altro uomo. - Lo sono. ... mi ha fatto desiderare di essere migliore di quello che sono ... per meritarla... Lei è nata per essere madre... e a me quella donna piace più delle pesche sciroppate”.

Finalino

Queste soluzioni di rapida felicità a volte sono così rapide che non lasciano neanche il tempo di un commento. Come ora, a parte il consiglio di non leggere altro di Zafón, che le altre sue prove non mi hanno convinto per nulla.

domenica 10 novembre 2019

Polar o crime fiction - 10 novembre 2019


John Grisham “The Whistler” Hodder euro 9
[A: 20/07/2017 – I: 10/01/2019 – T: 19/01/2019] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 407; anno 2016]
Come certo sapete, se no ve lo ricordo, la maggior parte dei libri in lingua derivano da viaggi, da ricordi di viaggi, o altre vagabondaggini. Così questo, pur non legato ad un territorio specifico, è stato colto all’aeroporto di Muscat, al ritorno di un caldissimo viaggio in Oman. Poiché non ho (ancora?) la capacità di leggere in arabo, e poiché non ho trovato nessun autore omanita, a ricordo del viaggio stesso ho preso questo libro di un autore che generalmente è per me di piacevole lettura. Lasciando quindi il viaggio e tornando al libro, devo rilevare inizialmente una mia difficoltà nel seguire la trama, non tanto per la lingua, che l’inglese di Grisham è generalmente scorrevole. Quanto per la presenza di termini tecnici e legali che, nelle traduzioni, vengono traposti con terminologie accessibili. Qui, oltre a ricordi di altri libri (ad esempio i “diritti Miranda” relativi alle dichiarazioni degli imputati durante il primo interrogatorio), ho dovuto barcamenarmi anche con la rete, per capire che “subpoena” significa “citazione giudiziaria”, ma soprattutto che “rico” non è il nome di uno spagnolo ma sta per “Racketeer Influenced and Corrupt Organizations”, cioè una legge americana per combattere le organizzazioni criminali, co-imputando un membro dell’organizzazione nei reati commessi dalla stessa anche se non vi ha preso parte. Leggendone in rete, mi sono poi ricordato che fu questo l’atto utilizzato per condannare Silvia Baraldini a 20 anni di carcere. Fatti salvi questi ed altri equilibrismi legislativi, il libro risulta alla fine meno avvincente delle sue premesse. Come spesso in altri libri di Grisham, c’è un atto, un’azione criminale (o simile) che viene combattuta da qualche persona di buona volontà. L’attrazione in generale viene dalla debolezza dei buoni rispetto alla quasi onnipotenza dei cattivi. Però, verso la fine, c’è qualche imprevisto, qualche momento di difficoltà dei buoni che solo con qualche colpo di genio riescono poi a vincere. Perché il buonismo finale dell’autore è quasi un marchio di fabbrica. I buoni lavorano in favore del buon nome degli Stati Uniti, e nel nome di America uber alles, tutto va al suo posto. Qui lo schema si ripete, ma manca quella parte finale che fornisce del pepe alla storia. Certo, Grisham tenta di mettere qualche bastone di traverso all’inizio, dato che, almeno per la prima parte, il cattivo è una donna giudice che avrebbe, con le sue sentenze, favorito dei criminali. E questo non mette certo in buona luce il sistema giudicante americano. I tre assi su cui si poggia la trama sono poi (almeno in qualche punto) interessante. Il primo è il BJC (“Board Of Judicial Conduct”), un organismo che deve indagare e, quando giustificato, agire in merito ai reclami contro i giudici. È quello cui fa parte la nostra eroina del libro, la trentacinquenne Lacy. Un organismo con pochi poteri, ma che, per quei pochi che ha, può essere di buon auspicio per mettere alla gogna i corrotti (e non sarebbe male estenderlo anche qui). Il secondo è l’ambiente, che la maggior parte dei crimini (almeno quelli di maggior spicco e per i quali nasce e si sviluppa tutta la storia) è legato ai nativi americani ed alle concessioni normative e fiscali che riescono a raggiungere. Ad esempio, i nativi possono, nel territorio a loro assegnato, costruire casinò che non devono sottostare alle leggi americane, e quindi sono praticamente esentasse. Nella fattispecie ho controllato che ci sono quasi 500 luoghi per gioco d’azzardo gestiti dalle 250 tribù dei nativi. Questo è l’asse “forte” del romanzo, che i cattivi utilizzano il giudice corrotto per poter costruire il loro piccolo impero di gioco d’azzardo, compresa l’uccisione del capo degli oppositori. Ma questa è una storia nella storia, poco coinvolgente anch’essa. Il terzo asse è quello del titolo: “whistler”, tradotto in italiano “informatore”. Qui c’è qualcuno che informa Lacy delle malefatte del giudice, fornendo nomi, date, fatti. Il gioco complesso di Grisham è che l’informatore iniziale è solo il primo di tre livelli, cioè nella fattispecie è un avvocato che conosce un tramite che conosce il reale informatore. Tutta la storia si basa allora sulla ricerca di Lacy e del BJC di trovare prove sufficienti per iniziare un atto giudiziario, e sul tentativo dei cattivi di bloccarli, con le buone o con le cattive. Nel corso del libro la trama si complica, qualcuno si fa male, qualcuno sparisce, viene alla fine coinvolto anche l’FBI perché i crimini risultano più complessi addirittura di quanto sembra inizialmente. Tuttavia, nella volata finale, c’è poco di interessante, tutto scivola verso l’atteso finale. Con una serie di notizie para-legali che riempiono anche l’epilogo di notizie poco rilevanti per il succo del romanzo. Almeno per quello che poteva essere un buon thriller. Infatti, ad esempio, non ho capito, forse perché magari legato ad eventi a me ignoti, perché il terzo livello decide di intentare la causa. Avrà qualche beneficio economico? Non lo so e non mi è chiarito dal libro. Che alla fine quindi risulta abbastanza piatto. Con addirittura alcuni rami delle vicende che mi sembrano morire senza una spiegazione convincente.
Fred Vargas “Quand sort la recluse” J’ai lu euro 9,50
[A: 24/09/2018 – I: 05/06/2019 – T: 26/06/2019] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 478; anno 2017]
Se è vero che Frédérique Audouin-Rouzeau in arte Fred Vargas scrive un libro ogni tre anni, è anche vero che io ne leggo con lo stesso ritmo. Quindi, anche se del ’17, solo ora lo prendo in mano (anche perché, per un mio tic personale ho deciso che i libri della scrittrice li leggo in originale), quasi tre anni dopo la saga ambientata nella mia cara Islanda. Tra l’altro il libro, come tutti i buoni seriali si collega al precedente e comincia con il commissario Adamsberg ancora nell’isola di ghiaccio (in particolare su di un’isola di fronte ad Husavik, dove vidi le mie prime balene). Richiamato urgentemente a Parigi dal vice Danglard, in poche battute risolve lo spinoso caso, dopo di che la sua mente comincia a perdersi tra le nebbie, vagando con i suoi percorsi laterali, qua e là, connettendo informazioni, chiedendo notizie apparentemente scollegate. Anche se tutta la truppa (o quasi) del suo XIII arrondissement (quello con Place d’Italie e Gare d’Austerlitz, per chi sa della città delle luci) è contenta del ritorno. Ritroviamo i personaggi che abbiamo amato nelle nove precedenti uscite. Il sodale Veyrenc, con cui rinverdire il passato pirenaico dell’infanzia, Froissy, la maga della rete, Estalère con i suoi caffè, nonché sempre presente la giunonica Retancourt. Solo Danglard sembra infastidito da qualcosa. E noi siamo pensieroso. Il colto vice non piò mettersi contro il grande capo. Non è corretto. Ci sarà una schermaglia neanche tanto sotterranea tra i due, che avrà anche momenti duri, pur trovando uno sbocco soddisfacente verso la fine. Con il solito gusto delle mescolanze, poi, non posso che compiacermi del cammeo che ci offre Mathias, l’archeologo protagonista del ciclo di romanzi dei Tre Evangelisti. O delle cene sul filo dei ricordi pirenaici, dove apprendiamo a conoscere la “garbure”, un piatto veramente di montagna, una minestra con molte verdure (cavolo verde, fagioli, fagioli, patate, rape, piselli, cipolle) ed insaporita da pezzi di carne (anatra, oca, stinco o collo di maiale, ossi di prosciutto, salsiccia). Un piatto che serve a scaldare, perché la trama “polar” (termine francese analogo al nostro “libro giallo”, derivato dalla contrazione dei termini “policier” e “noir”) è fragilina. Rovistando tra le nebbie sue e di Veyrenc, Adamsberg si imbatte nella misteriosa morte di alcuni (per ora tre) ultraottantenni dovuta al morso di un ragno. Appunto quello del titolo, che è sempre rintanato, ma quando esce, e morde, provoca una particolare necrosi detta loxoscelismo (se volete maggior dettagli, collegatevi alle ultime righe della trama). Il morso non dovrebbe essere mortale, ma le persone sono anziane e debilitate. Le morti, all’inizio scollegate, trovano via via dei punti di contatto, fino a restringersi ad un gruppo di ragazzini ospiti di un orfanotrofio negli anni ’40. La banda aveva bullizzato i compagni proprio con i ragni, provocando amputazione di arti o impotenza permanente. Crescendo i bulli aveva anche approfondito le “cattiverie”, dedicandosi anche a stupri, su maschi e femmine, purché minorenni. Una volta messi sotto controllo i pochi rimasti, Adamsberg è colpito dal fatto che, nonostante la protezione, le morti continuano. Non solo, ma risulta a volte misteriosa anche la dinamica delle aggressioni. Il nostro commissario approfondisce i suoi proto-pensieri ossessionato dal nome del ragno (la reclusa bruna), la pratica stessa della reclusione soprattutto conventuale, episodi giovanili, ed altre “lateralità”. Arrivando così al nodo finale, ed a sbrogliare per sé, per i suoi e per noi, tutte le matasse presenti. Come in tutti i suoi scritti, la Vargas non segue i soliti sentieri, ma cerca sempre nuove strade. Non ci ossessiona con sesso e sangue, ma si (e ci) concentra su trame, ragionamenti, intrecci, dialoghi, voli pindarici, battibecchi tra poliziotti che sono, in tutto e per tutto, persone normali, anche se con una etica molto elevata ed una moralità di fondo irreprensibile. Se dobbiamo fare qualche osservazione, manca un po’ il rapporto di Adamsberg con il suo vissuto privato, che ci aveva accompagnato nelle prime uscite. Manca inoltre una vera tensione “noir”, dato che molto si sposta nei rapporti interpersonali tra Adamsberg e Veyrenc, tra Adamsberg e Froissy e, soprattutto, tra Adamsberg e Danglard. Gradevole ma mi aspetto sempre qualcosa in più. Per finire, come è ovvio, c’è tutta una parte (anzi diverse, devo dire) dedicate ai ragni, ed alla specie protagonista del libro, il Loxosceles Reclusa, che ha buon gioco in francese dove si chiama “araignée recluse”, meno in italiano, dato che è comunemente noto come “ragno violinista” o al massimo “ragno eremita”. In effetti, in libreria, il testo della Vargas è uscito con il titolo “Il morso della reclusa”, dando quindi per saltabili tutte le prime cinquanta pagine, per arrivare direttamente alla comparsa del ragno. Se ci fosse un aracnologo anche minimo, avrebbe miglio potuto suggerire un tiolo come “Quando esce l’eremita”…
“Il est des lieux … qui accompagnent un voyage. Le voyage s’achève et ce lieu s’en va avec lui.” [Ci sono luoghi che accompagnano un viaggio. Il viaggio finisce ed i luoghi finiscono con lui.] (477)
S.S. Van Dine “Il caso del terrier scozzese” Newton Gialli 52 s.p. (regalo di Fako)
[A: 10/01/2019– I: 21/08/2019 – T: 22/08/2019] - &&&
[tit. or.: The Kennel Murder Case; ling. or.: inglese; pagine: 126; anno 1933]
La confezione è poco invitante. Un vecchio Newton pubblicato nel 1993, nell’ambito di una collana di gialli di buona fattura, ed essenzialmente già privi dei diritti d’autore. Anche la stampa è di difficile lettura, pagine piene con una linotype ombrata e non molto interlineata. Peccato perché Van Dine è un degno, seppur datato, scrittore. Non solo, anche la trama, pur concentrata, ha un suo sviluppo interessante e, come ci si sarebbe ben aspettato, seguendo abbastanza fedelmente le venti regole della costruzione di un romanzo poliziesco. Intanto ricordo che l’autore si chiamava in realtà Willard Huntigton Wright, ed era, principalmente, un esperto d’arte. In genere, avendo letto molto di Van Dine, si considerano “migliori” i romanzi scritti prima del 1930, quelle chiamati della tetralogia dei “Murder Case”: Benson, Canary, Greene e soprattutto Bishop. Era il periodo in cui Van Dine riuscì a disintossicarsi dalle dipendenze da droghe varie. Voleva, dopo aver scritto gialli controvoglia, tornare agli studi d’arte. Ma il “writing business” glielo impedì, continuò a scrivere, riprese le droghe e morì nel ’39 a 52 anni. Secondo me, tuttavia, questa, pur essendo degli anni ’30, ha una sua dignità, come ho detto. Intanto, è uno dei più classici casi di “assassinio nella camera chiusa”. Il morto, Arthur Coe, ha una ferita da arma da fuoco in testa, una pistola in mano, ed è dentro una stanza chiusa all’interno da un catenaccio. Suicidio? Sul posto intervengono i “soliti” personaggi del nostro scrittore: Philo Vance, il suo “uomo ombra” Van Dine, ed il mentore delle indagini, il procuratore Markham. I tre cominciano a disquisire sul presunto suicidio, che il dottor Doremus, medico legale, sconfesserà dopo aver seguito le dritte di Vance. Prima si trovano segni di colpi intesta. Poi il colpo fatale, una coltellata alla schiena. Il tutto sempre dentro la stanza chiusa. Pian pianino entrano in scena i vari attori della trama: Hilda, la nipote, farfallina e con qualche astio verso lo zio che lesina i soldi, Raymond, collezionista e amico della famiglia Coe nonché aspirante fidanzato di Hilda, Edmondo, l’italiano venuto a comprare la collezione Coe e nel frattempo anche preso da Hilda, il cuoco cinese Liang, nonché, ma solo per menzione, Brisbane, il fratello di Arthur, che si diletta di letture di criminologia, stranamente in viaggio per Chicago. Stranamente, perché poco dopo se ne scopre il cadavere in uno sgabuzzino. Colpito a morte dallo stesso pugnale del colpo inferto ad Arthur. Entra anche in scena il terrier scozzese del titolo italiano (non di quello inglese, che invece fa riferimento a “kennel” cioè canile, e vedremo perché più avanti), un cane anche lui colpito, questa volta da un’arma come del primo colpo inferto ad Arthur. Il tutto ruota poi intorno alla collezione Coe, che Edmondo vuole acquistare, fatta di molti pezzi cinesi, per la maggior parte rubati, trafugati e sottopagati da Coe. Un motivo che tenderebbe a far convergere i sospetti sul finto cuoco Liang, che scopriamo essere più un letterato, o intellettuale cinese, interessato alle ceramiche rubate, che un vero cuoco. Il gioco letterario dello scrittore prosegue a lungo per tutto il romanzo, con elucubrazioni del buon Vance, inframmezzate da citazioni colte sulle ceramiche cinesi, da intermezzi sulle genealogie canine, nonché da qualche divagazione culinaria. Inciso: divagazioni che riprenderà il buon Rex Stout, grande ammiratore di Van Dine, che collocherà il suo Nero Wolfe sempre nella zona Ovest di New York, come da molte situazioni di Van Dine, esasperandone poi il lato culinario. Alla fine, anche se spezzata in vari capitoli, abbiamo la ricostruzione degli avvenimenti. Il colpevole affronta Arthur, gli dà una botta in capo con l’attizzatoio (primo colpo), poi lo pugnala con un coltello cinese (tentativo di incolpare Liang), che cerca di nascondere in una ceramica, purtroppo talmente esile da rompersi, benché sporcandosi di sangue. Convinto della morte, se ne va. Peccato che l’emorragia interna non sia fulminante, così che Arthur torna al piano di sopra, comincia a svestirsi per andare a letto, ma dopo essersi messo la vestaglia, muore. L’assassino ha visto la luce al primo piano, mentre il morto doveva essere a pian terreno. Preso dal panico, ritorna nella casa. Nel frattempo, Brisbane, che aveva programmato di uccidere il fratello per suoi oscuri motivi, torna a casa, trova Arthur sulla poltrona, non si accorge che è già morto, gli spara alla tempia, poi, con un trucco che Vance impiega due lunghe pagine per spiegarci, chiude la stanza con il catenaccio all’interno. Il cattivo intanto, entra dal cortile, lasciando la porta aperta da cui entra il terrier, vede una persona camminare, pensa che sia Arthur, e lo pugnala di nuovo, portandolo al buio nel vestibolo. Ovviamente il colpevole, il giorno dopo, cade dalle nuvole vedendo Arthur morto in una stanza chiusa e Brisbane morto al piano terra. La soluzione avverrà dai canili: scoprendo il proprietario del terrier, Vance capisce come sia entrato ed uscito il colpevole dalla casa per non lasciare traccia (anche se poteva essere e non ve lo rivelo, uno degli stessi abitanti della casa). Scopre anche che il colpevole aveva un doberman che maltrattava con ferocia. E proprio questo, unito al canile di cui dicevo sopra, eseguirà la sentenza finale. Come detto, è un giallo di parole, non succede nulla, se non una serie di dialoghi tra Vance ed il resto del mondo, che consentono a noi lettori di avere le stesse informazioni degli attori del dramma, con la scommessa su chi arriverà alla soluzione. Certo se sapessimo le regole di Van Dine a memoria, la numero 11 (che non vi dico, rimandandomi ad altri commenti di romanzi dello scrittore) ci avrebbe portato a restringere talmente il cerchio dei possibili colpevoli, che forse, anche senza le spiegazioni di Philo Vance, avremmo capito anche noi dove puntare il dito. Personalmente, avevo pensato anche io, e sin dalla sua comparsa sulla scena, che il colpevole fosse…
Michael Connelly “La strategia di Bosch” Pickwick euro 10,90 (in realtà, scontato a 9,30 euro)
[A: 04/04/2017 – I: 15/09/2019 – T: 18/09/2019] - && e ¾
[tit. or.: The Burning Room; ling. or.: inglese; pagine: 370; anno 2014]
Pur essendo, secondo la bibliografia ufficiale, il 17° caso di Harry Bosch, nella mia personale cronologia dell’opera di Connelly, questo dovrebbe essere il 20° romanzo in cui il nostro eroe compare. Come potete immaginare dai numeri, ormai Bosch le ha passate tutte, dai tempi “duri e puri” dei primi casi alla LAPD (per i non addetti la “Los Angeles Police Department”) alle ultime uscite che lo vedono verrebbe da dire relegato, ma non è proprio questo il termine, ai “Casi Irrisolti” (o Cold Case o, come viene chiamato dal Dipartimento “Open-Unsolved Unit”). Bosch, lo sapete, è uno dei miei pallini, che seguo da anni, per due particolarità che ripeto: il nome e la musica. Il suo nome completo è  Hieronymus Bosch come il famoso pittore olandese, detto Harry che se non è complicato. La musica è il jazz, che gli serve di distensione e riflessione, soprattutto nel suo brano preferito “Lullaby” del sassofonista Frank Morgan. Ma sul jazz farei una nota (ah ah) più avanti. Secondo la cronologia ricostruita, Bosch dovrebbe essere nato nel 1950, e quindi ora ha una sessantina d’anni, e si avvicina, neanche tanto pericolosamente, alla pensione. Intanto gli viene affidato uno strano caso “irrisolto”. Perché deve indagare sulla morte di un “mariachi”, un suonatore da strada messicana, Osvald Merced, appena deceduto in seguito però ad un colpo d’arma da fuoco che da dieci anni lo costringeva su di una sedia a rotelle. Ora che muore, l’estrazione della pallottola fa riaprire il caso, sul quale si getta Harry con la sua nuova partner, Lucia “Lucky” Soto, giovane promettente, forse un po’ troppo pronta a sfoderare le armi, che Harry prende a ben volere, e che pensa di istruire proprio per la sua vicina pensionabilità. Il caso è complicato, perché Merced fu preso a simbolo dall’ex-sindaco che sulla sua paraplegia ha costruito la fortuna per due mandati e che ora mira anche alla carica di governatore. Si era pensato ad una banda e ad un colpo casuale, dato che nulla nella vita di Merced porta a possibili episodi delinquenziali. Dato che poco sfugge ad Harry, nel corso delle indagini capisce che Lucia sta anche seguendo una sua personale indagine su di un incendio, avvenuto venti anni prima, in cui morirono nove bambini. L’abilità di Connelly è nel portarci, indizio dopo indizio, a capire meglio i due casi e ad alternarne la narrazione, giocando su due diversi registri narrativi. Perché l’incendio viene ben presto collegato con una rapina, quasi ne fosse stato un diversivo. In tutti e due i casi si tratta di trovare collegamenti tra vari pezzi di puzzle che si accumulano. Un’impiegata della banca rapinata abitava nel palazzo bruciato. Un’impiegata che andava a letto con due pregiudicati forse implicati nella rapina (o almeno uno dei due sembra implicato). Un’impiegata che poi sparisce per comparire anni dopo in un Convento di suore, e farsi missionaria in Sud America. Dall’altra parte uno dei mariachi della banda di Merced scompare, e, ritrovato, confessa di essere stato l’amante di una signora bene. Con marito altolocato e ben messo politicamente. Ma anche focoso. Forse era il fuggiasco il vero bersaglio. Forse ci fu un errore di mira. Purtroppo, quando si avvicinano troppo ai puntini finali, Harry e Lucia trovano sempre qualche intoppo. Qualcuno che muore. Altri che spariscono. Molti che mettono i bastoni tra le ruote. I due casi verranno comunque risolti, pur se probabilmente senza processi e condanne. Notiamo solo che Bosch si comporta sul filo del rasoio, per trovare prove. A volte al di là del rasoio, tanto che tra pressioni politiche e sbavature varie, questa lunga doppia puntata finisce con una sua diremo solita sospensione dal servizio. Vedremo nei prossimi libri se e come Connelly deciderà di proseguire. Anche perché, come detto Bosch è vicino alla pensione. Come spesso accade nelle ultime scritture, Connelly è meno cupo del solito, riesce a gestire trame apparentemente complesse con una buona mano. Portando avanti anche le storie di contorno. Carina la vicenda personale di Lucia, che vedremo se avrà peso per restare nella serie. Promettenti gli sviluppi di Bosch con la figlia Maddie, che vedremo se deciderà, come sembra, di entrare anche lei in polizia, magari per farci seguire le vicende di una Bosch 2. Infine, come detto all’inizio, da sottolineare gli inserti jazz che in Connelly non mancano mai. A parte l’immancabile Morgan di cui sopra, ad un certo punto Bosch va a sentire un concerto jazz, dove suona una giovane sassofonista. Si tratta della sino-americana Grace Chung Kelly, che all’epoca dello scritto aveva 22 anni. Si esibisce al sassofono, in una versione di “Somewhere Over the Rainbow”, che immagino di sicura presa (uno dei miei pezzi preferiti però nell’assolo di Keith Jarrett al pianoforte). E Grace Kelly negli anni successivi avrà sicuro successo e premi. Buon occhio Connelly, ed alla prossima.
Seconda domenica di novembre, al solito, comunque, dedicata intimamente, ai miei morti ed a quelli dei miei cari, ma anche, per voi lettori, con una puntata dedicata ad uno dei piaceri della vita.
E seppur si frequentano luoghi, spazi e persone, l’uggiosità del tempo non lascia spazio a momenti sereni, ed a prospettive rilassanti nel breve orizzonte temporale che riusciamo ad ipotizzare. Ma, come diceva qualcuno molti ma molti anni fa: “Tirem innanz!”. 
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE  2019
Esiste una malattia simile? E perché cercarne un rimedio? Misteri dell’uomo!
Sesso, fare troppo
Fay Weldon                 “Vita e amori di una diavolessa”
Charles Bukowski          “Donne”
Vitaliano Brancati          “Paolo il caldo”
Gabriel García Márquez  “Memorie delle mie puttane tristi”
Yasunari Kawabata        “La casa delle belle addormentate”
Sì, è possibile avere una sessualità eccessiva.
Gli uomini che pensano di essere ossessionati dal sesso dovrebbero gettarsi addosso un secchio d’acqua gelata sotto forma di “Vita e amori di una diavolessa” di Fay Weldon. Quando Bobbo, il bel marito di Ruth, l’abbandona per la minuta e delicata Mary Fisher - un cliché femminile preso direttamente dai romanzi rosa di successo che la Fisher scrive - Ruth decide di abbracciare il proprio demone interiore. Se la fa con chiunque, finché il sesso per lei non significa più nulla. Lo utilizza allora per ottenere ciò che vuole: rovinare la vita a Bobbo e Mary, con un aplomb devastante. Se siete sposati e tentati da un’avventura, con questo romanzo ci penserete due volte. Sposati o no, rifletterete sulla conclusione alla quale giunge Ruth, ovvero che le belle donne usano il sesso per controllare i loro uomini. Dopo questo libro, un lungo periodo di stretto celibato comincerà a sembrare altrettanto seducente di una strizzatina d’occhio.
Le donne che hanno bisogno di una doccia fredda la troveranno nelle pagine voraci di Charles Bukowski. Il narratore, Henry Chinaski - liberamente ispirato allo stesso Bukowski - è un cinquantenne perennemente arrapato e sempre in cerca di sesso. Mezzo litro di whisky da vomitare prima di colazione e via dietro al prossimo paio di blue jeans attillati, a baciare e a litigare - e a domandarsi se il proprio stomaco reggerà al sesso orale. C’è dell’anima in queste pagine, e una bellezza cruda e volgare che qualcuno troverà affascinante - soprattutto se ha buon orecchio per la prosa poetica; di sicuro, però, vi farà venire voglia di lasciare la biancheria sexy nel cassetto.
Se non vi siete ancora risanati sarà necessario allora completare questo piccolo ciclo di vaccinazione dai pericoli della lussuria con un ultimo richiamo. Oltre al relativo girone dantesco (Inferno, canto V), leggetevi, se non l’avete ancora fatto, le dolorose e illuminanti avventure di “Paolo il caldo”. La sensualità dilagò in lui come una tetra ossessione da quando, sopra un tram catanese, lo sfiorò il corpo di una donna. Aveva dodici anni. Da quel momento l’amore gli timbrò il viso di un’inguaribile pallidezza. La sua lotta fu quella di cercare di vedere la luce del mondo (che per lui era la luce della Sicilia) dalla parte ridente ed “espellere dal cervello le influenze della sua ripresa buia”, dalla quale derivano l’apprensione e la libidine. Ma il barone Paolo Castorini si aggrovigliò sempre di più in sé stesso e nei propri esaurimenti nervosi “fino a sentire l’ala della stupidità sfiorargli il cervello”. Se neppure questo monito vi condurrà a una vita sessuale più ragionevole, non resterà per voi che aspettare la vecchiaia come una liberazione, magari tenendo sul comodino, non si sa mai, le “Memorie delle mie puttane tristi” di Gabriel García Márquez e “La casa delle belle addormentate” di Kawabata.

Bugiardino

Fay Weldon la lessi negli anni Novanta, e non mi lascio né impressioni né eccitamenti. Kawabata, addirittura, mi accompagnò che stavo ancora in casa di mamma e papà (e lascio a voi fare calcoli). Di Brancati ho letto “Don Giovanni in Sicilia”, senza troppo entusiasmo. Allora rimangono il solito eccessivo Bukowski, e l’ormai allora anziano (ed ora purtroppo morto) Marquez.
Charles Bukowski “Donne” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[tramato il 1° novembre 2016]
Forse vi sorprenderete nel vedere un così basso indice di gradimento in un libro di cui, credo, parlerò in termini non dico elogiativi, ma sicuramente problematici e propositivi. Ho letto altro di Bukowski, ho commentato “Post Office”, e continuo a ripetermi: non riesco ad entrare nel suo mondo alcolico. Come non riesco a sintonizzarmi con tutti i libri con elevati tassi di vini e liquori. Non che sia astemio, ma ritengo sia qualcosa di genetico che mi blocca. Tanto che, per ricordare qualcosa ai miei amati lettori, anche le letture di Harry Hole di Jo Nesbo ad un certo punto mi son venute a noia. D’altra parte, Bukowski è tutto un eccesso. Ovvio, non solo nel bere, anche se si ubriaca ogni tre pagine e mezzo (e vomita ogni quattro). Ma anche nel sesso. E qui è un panegirico di incontri sessuali, descritti più o meno esplicitamente. Crudi anch’essi come le bevute. Come gli spinelli (pochi), la coca, ed altre droghe più o meno pesanti. In un mondo vissuto sull’orlo sempre del baratro. Perché? Forse posso capire il sesso. In fondo fa bene (e non solo in fondo), ma bevute e stravizi che fanno sballare a cosa servono? Non credo che sballando s’impara. Se avesse scritto il libro anni e anni dopo, avrei ben visto un titolo ammiccante come “Bevi, scopa, ama”. Dove però l’amore non c’è mai, che Henry Chinaski (il protagonista di “Donne” ed alter-ego di Bukowski) non ama nessuna. E forse nemmeno sé stesso. Se poi fossimo colti ed esegeti, non potremmo che ripensare al libro come ad una sua biografia, vera ed inventata allo stesso tempo. Sicuramente, l’inizio e la fine ripercorrono due momenti fondamentali della vita di Charles-Henry. Dopo aver lasciato le Poste Americane (vedi la fine di “Post Office” in proposito), incontra ed inizia una turbolenta relazione con Linda King (rinominata nel libro Lydia Vance), di venti anni più giovane. Rapporto burrascoso per gli appetiti sessuali di Linda, per il suo odio delle corse dei cavalli (passione fondamentale di Henry), per l’alcolismo perenne di Henry, e per il suo attaccarsi a qualsiasi donna gli mostra un minimo di apertura. Ed evitate di fare battutacce su questa frase infelice. Tralasciando (non siamo qui per fare un elenco di prestazioni sessuali) tutte le donne che seguono Linda, arriverà alla fine ad avere una relazione più equilibrata con Linda Lee Beighle (ribattezzata Sara), che riuscirà anche a fargli diminuire il tasso alcolico. Sara è una salutista, devota del santone indiano Mehar Baba (uno strano tipo che dal 1925 alla morte nel 1969 rimase in silenzio, comunicando a gesti con i suoi discepoli). Quello che emerge di Chinaski è appunto il suo lasciarsi vivere. La sua filosofia sembra essere: se accade, lasciamolo accadere. Come un bambino che non sa, non riesce a dire no. Tanto che ad un certo punto, il giorno del Ringraziamento, si trova invischiato in una situazione ingestibile: tre donne con cui ha fatto sesso vogliono passare il giorno con lui. E Henry non sceglie, tanto che, giustamente, alla fine lo passerà da solo. Non nego che alla fine, nei ricordi che lascia una lettura quando chiudi il libro, di Bukowski-Chinaski mi resta in mente questa parte (l’incapacità di decisione) e la spinta verso l’altro sesso. Una spinta forte, come succede in tutte le persone. Ma dove la spinta delle possibilità è mitigata dal bagno di realtà. Non si è più bambini che si può volere tutto. Bisogna, imperativamente, fare delle scelte. Le scelte che il proprio modo di vivere reputa consone al proprio essere. Ed io, quello del nostro pur grande scrittore, non riesco a districarle dal grande ammasso di cose che non sono mie e che quindi non capisco. Il giocare ai cavalli piuttosto che passare del tempo a parlare con una donna. Bere sino a stordirsi, bere sino a vomitare ogni poche pagine (anche perché, pur amando un sano bicchiere, ritengo che questo, come il fumo, come le donne, vada preso per il piacere e non perché va bene tutto). Scopare con tutte le donne che capitano a tiro, solo per soddisfare un bisogno fisico, quando il sesso, pur esteso, pur grande deve essere anch’esso legato ad un piacere. Per questo ho continuato a leggere il libro anche se non mi ha mai preso, non mi ha mai coinvolto, come in genere succede in (quasi) tutti i libri che leggo. Caro Bukowski, sei stato un grande, ma non un grande della mia scala di valori. Non so se leggerò altro dei tuoi scritti. Con stima ma senza affetto, arrivederci.
“Vivi per scrivere? No, mi limito ad esistere. Poi cerco di ricordare e buttar giù un po’ di cose.” (201)
“Vivere fino alla morte è una gran fatica.” (213)
Gabriel Garcia Marquez “Memoria delle mie puttane tristi” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 7, 05 euro)  
[tramato il 18 giugno 2017]
Si legge in un sospiro, rimane però dentro con qualche passaggio indimenticabile, anche se alla fine ha una stentata sufficienza, o come direbbe l’autore, una sufficienza triste. Perché l’impianto generale, ed almeno un passaggio, sono una rivisitazione in salsa sudamericana del bellissimo “La casa delle belle addormentate” di Kawabata Yasunari (scritto però più di 40 anni prima). È anche l’ultimo romanzo scritto da Gabo, già quasi ottantenne. Poi niente più romanzi negli ultimi dieci anni della sua lunga ed intensa vita. Qui appunto, riprendendo l’idea giapponese di una casa di “signorine” (capite a me) che dormono contemplate da persone (anziane o meno) che stanno al nadir della loro virilità, ne fa un elemento cardine per l’avvio alla conclusione della propria vita di un giornalista eccentrico novantenne, che in molti tratti ripercorre momenti e modi della vita stessa del nostro amico colombiano. L’abilità, indubbia, di Gabo è quella di restituirci l’immagine di un percorso che inesorabilmente porta alla morte, con la delicatezza della descrizione di un fiore. Anche con parole crude (come quelle del titolo), anche con richieste e momenti che ci spiazzano. L’io narrante ha amato molte donne, e spesso, nelle more dei suoi percorsi amorosi (che se volete ripercorrono in pochi tratti quelle di Florentino da poche descritte) si ritrova a frequentare bordelli di tutte le risme. Ed a questo si rivolge, questo della sua di poco più giovane tenutaria Rosa, per chiedere di festeggiare il suo compleanno con una vergine. Richiesta soddisfatta, ma la quattordicenne Delgadina dorme tutta la notte. Il nostro giornalista però rimane affascinato dal corpo, dalle visioni, e sommerso dai ricordi che un corpo nudo risveglia nel suo corpo anziano. Mentre procede il rapporto con la sempre dormiente e sempre vergine Delgadina, affiorando ricordi, seguiamo i brevi tratti della vita del protagonista. La vita felice della gioventù, accanto alla tanto amata madre italiana. La crescita, la morte dei genitori, la scrittura, soprattutto di piccoli elzeviri e di recensioni di brani di musica classica. Le piccole storie più di sesso che d’amore. Le paure, in particolare quella di mettere al mondo dei figli. Perché sarebbe disposto anche a sposarsi, come sta per fare con la bellissima Ximena. Tuttavia, bloccato dalla possibilità di procreare, anzi spaventato, non si presenta il giorno delle nozze. Vediamo l’anziana Damiana, che lo avrebbe amato, ma di cui lui si accorge solo perché lo accudisce ora che è sì vecchio e stanco. Poi le baruffe per incomprensione con Rosa, l’allontanamento da Delgadina, ed il definitivo ritorno, con quell’immagine in cui pensa di potersi mettere a lavorare scarpette per neonati all’uncinetto. Certo, è un po’ tardi per decidere di avere una progenie, quasi che potesse farlo solo ora che il tempo tiranno non può più tollerarlo. Finisce così la cronaca di questo anno tremendo, in cui allo zero dei novanta finalmente si sostituisce il primo numerale. Con il protagonista che, pacificato nell’animo, guarda radioso al futuro, ed alle sempre più vicina dipartita, circondato dall’amore di Delgadina (benché mai consumato), dall’affetto di Damiana e da un gatto che pur vecchio anche lui non verrà simbolicamente soppresso, ma rimarrà a fare da terzo incomodo nella casa avita. Se tuttavia la storia è breve e lineare come consentono le poco più di cento pagine del libro, Gabo riesce ad infiorettare dei momenti, da anziano, che diventano in ogni caso, momenti eterni per tutti noi. Come le frasi che ho sotto riportato. Come la descrizione di quella fotografia presa al giornale quando aveva trenta anni, ed era uno dei momenti forti della stampa locale (per qualche evento poco importante, ora). Con quelle crocette che qualcuno ha segnato accanto alla testa di tutte le persone che in questi sessanta anni sono morte. E lui guarda e ci dice che sono rimasti in quattro. O come la visita al medico, nipote di quello che lo aveva visitato una volta nel volgere dei suoi cinquanta. E che fisicamente ed anche operativamente risulta identico al nonno medico, anche nella diagnosi che gli fornisce (“Lei è perfetto, rispetto all’età che ha”). Di passaggio riporto anche altri due momenti di ricongiunzione con lo scritto di Kawabata: entrambi constano di cinque capitoli ed in entrambi, ad un certo punto, muore una persona all’interno del bordello frequentato dal protagonista. Forse se non avessi notato tutte queste rivisitazioni, poteva il libro avere più consistenza nella mia memoria? Non so, di certo mi ha lasciato sconcertato, anche se, capisco, che, come qualcuno ha scritto, tutti scrivono lo stesso libro: quello pieno delle parole che vogliamo sentire. A volte ci accorgiamo delle similitudini, a volte no. Come direbbe Borges.
“L’età non è quella che si ha ma quella che si sente.” (75)
“Scrivevo … con la voce di un uomo di novant’anni che non ha imparato a pensare come un vecchio.” (83)
“È impossibile non finire per essere come gli altri credono che uno sia.” (117)
“Sto diventando vecchio … Il fatto è che non lo si sente dentro, ma di fuori tutto lo vedono.” (120)

Conclusioni

Rimango sulla domanda iniziale. E sulla risposta che non è mai “troppo”. Può essere tanto, ma soprattutto, deve essere momento di felicità. Se, come Bukowski, vomito, forse è meglio fare altro.