domenica 25 dicembre 2022

La saga di Libera - 25 dicembre 2022

Anche questa settimana ci dedichiamo ad un solo autore, anzi una sola scrittrice, ed alla serie, di cinque libri (quelli da me letti, anche se ne sono usciti altri due), che lei ha prodotto, ponendo al centro della trama, come eroina, ex-libraia, giardiniera, ed investigatrice, la simpatica Libera. E sono contento di dedicare questa trama natalizia ad una donna, in primis, e ad una donna di nome Libera, che sia libera lei, e che noi ci si liberi di tutte le angosce di questi anni.

La serie esce dalla penna di Rosa Teruzzi, giornalista televisiva che dalla metà degli anni ’10 si dedica con successo alla scrittura delle vicende della famiglia Deidda, tutti di una piena sufficienza, e gradevoli per le citazioni letterarie e musicali che ne infarciscono la pagina.

Rosa Teruzzi “La sposa scomparsa” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)

[A: 06/08/2020 – I: 21/07/2022 – T: 24/07/2022] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2016]

Cominciamo con questo romanzo un viaggio nel mondo giallo composito di Rosa Teruzzi, specialista di cronaca nera, nonché appassionata di libri gialli, ed amante (ma non è la sola) del lago di Como e delle sue placide sponde.

Inoltre, è una scrittrice italiana che, seppur ha pubblicato (credo per Sonzogno), con un accordo con Feltrinelli, fa uscire la serie basata sulla famiglia Deidda dove ci si aspetta (non sarebbe una sorpresa) che prima o poi qualcuno ne faccia uscire una serie televisiva.

Perché è vero che c’è una trama gialla, ma il filo rosso è appunto aggrovigliato alle tre donne di famiglia, anche se, alla fine, è la donna di mezzo che ha il sopravvento, come personaggio centrale. Di lontano, vegliano su di loro gli spiriti dei nonni, la mai conosciuta (ma che fornisce spesso capelli rossi) nonna Ribella (che nome evocante) ed il patriarca nonno Spartaco. Poi c’è la figlia, Iole, ormai verso la settantina, ma indomita cercatrice di “toy-boys” ed avventure (e gira sempre senza mutande). In mezzo c’è la nostra eroina, Libera, figlia di Iole, amante dei gialli (forse una rimembranza autobiografica) e madre di Vittoria, la giovane ventenne.

La famiglia è stata colpita, vent’anni prima, dalla morte in servizio di Saverio, marito di Libera e agente di polizia in lotta contro la mafia. Una morte da cui Libera non riesce a liberarsi, e che Vittoria tenta di esorcizzare e risolvere entrando anche lei in polizia.

Molta parte della trama è legata alle vicende familiari. Le incomprensioni tra Vittoria e Libera, le mattane di Iole, e la presenza del grande amico di Saverio, Gabriele, ora capo della squadra omicidi, capo di Vittoria, nonché da sempre innamorato di Libera, senza che però tra i due riesca a nascere una scintilla. O meglio, le scintille ci sarebbero ma, per allungare sempre i brodi della trama, la nostra scrittrice riesce sempre a frapporci qualche impedimento.

Libera aveva una libreria, ma la penuria di lettori nella periferia milanese (siamo dalle parti di Corsico) ne ha forzato la chiusura. Così che lei si dedica alla sua seconda grande passione, i fiori. Laddove, una fortuita circostanza, la porta sulla cresta dell’onda. Realizza un bouquet di nozze per una stellina influente, che ne meraviglia la fortuna che i bouquet le hanno portato con articoli di giornale. Così che il tranquillo ex-casello ferroviario di Spartaco viene preso periodicamente d’assalto da sposine in cerca di fortune nuziali. E questo è uno dei leitmotiv della scrittura. Unito al fatto che, come vedremo in questo primo episodio, Libera & co sono coinvolte in indagini più o meno giallo, così che gli editor italiani hanno pensato bene di intitolare la serie “I delitti del casello”. Anche se i delitti che Libera va risolvendo non avvengono nel casello, come sottintenderebbe il titolo. Tanto che sarebbe più corretto chiamare le storie “La detective del casello”. Ma si sa, io e gli editor, raramente andiamo d’accordo.

Venendo alla parte d’indagine, tutto comincia quando Libera viene mossa a pietà dalla storia di una madre che ha visto sparire ventisei anni prima la figlia, poco dopo che erano andate in fumo le nozze con un suo spasimante. Non è facile trovare collegamenti, ma la nostra autrice ha la brillante idea di inserire un aiuto laterale (che penso continuerà nella serie): Libera coinvolge un giornalista di nera, Temperante Cagnaccio (detto “Dog”) e la sua giornalista di punta, Irene (detta la Smilza). Si ripercorrono scene, si cerca di scomparse parallele, si indaga sulla vita dell’ex della sposa, e poi sugli strani conti della stessa, strapieni di soldi di incerta provenienza. Tutti fanno del loro meglio, anche se per tutti vediamo in prima linea Libera e Irene, con Iole e Dog in rincalzo, mentre Vittoria ed il suo capo remano contro.

Libera riesce a smontare l’alibi dello sposo mancato, ma non è convinta della sua colpevolezza, così che continua a percorrere e ripercorrere le tortuose strade dell’ultimo giorno in cui è stata vista viva. Con la capacità, da brava detective, di fare quel collegamento, a 40 pagine dalla fine, che permette di arrivare alla soluzione del rebus.

Per mettere gli ultimi bastoni alle ruote delle storie di famiglia, poi, compare un vicino di casello, un grasso e simpatico cuoco, che alleggerisce le soventi paturnie di Libera, creando una potenziale situazione di concorrenza con la corte, non certo assillante, di Gabriele. Infine, come nei migliori seriali alla Victor Hugo, Libera trova un biglietto nella giacca del marito che non toccava da venti anni che rimette in moto anche le idee ed i dubbi sulla lontana morte.

La scrittura è discretamente effervescente, anche se il tramone giallo è un po’ all’acqua di rose, e possibili soluzioni, tra cui quella giusta, sono di facile interpretazione ben prima della fine. Ma a me piace anche per quelle citazioni trasversali, su musica (De André su tutti), sullo yoga, sui libri (tra Jane Austen ed altre illustri scrittrici d’amore). Penso quindi che procederò con discreta speditezza alla lettura delle altre puntate. Per ora, è una buona lettura estiva.

Rosa Teruzzi “La fioraia del Giambellino” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 8,55 euro)

[A: 10/10/2020 – I: 25/07/2022 – T: 31/07/2022] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 167; anno: 2017]

Detto e fatto, il giorno dopo la chiusura del primo libro della detective del casello (nome mio che preferisco a quei delitti degli editori che poco calzano), mi immergo nella seconda puntata. Che si legge di sera, dopo le lunghe fatiche diurne del bel viaggio in terra d’Islanda. Così che ci si immerge nelle vicende delle nostre tre amiche, la figlia Vittoria, la mamma Libera e la nonna Iole. Ma per loro, e per la vicenda, sono passati due anni. Dato che nel primo episodio si parlava di “vent’anni dopo la morte di Saverio” (il marito di Libera), avvenuta nel ’92, e quindi si era nel ’12, ora nei capitoli in “italico” compare subito la data, agosto 2014.

Sottolineo l’italico, che questa volta ci sono capitoli in corsivo, che riportano vicende esterne e passate, e dove, come al solito, mi trovo in disaccordo con le scelte stilistiche. Certo, l’effetto sorpresa delle ultime parole è spiazzante, ma ritengo che l’andare su e giù nella linea temporale sia a volte più dannoso che proficuo.

Intanto, torniamo lì, al nostro casello, dove si accumulano gioie e dolori, speranze e tremori. Intorno alle nostre tre eroine. La giovane Vicky-Vittoria, entrata in polizia per scoprire chi, come e perché uccise il padre ormai ventidue anni prima. La matura Iole, nonna hippie e femminista, maestra di yoga e tombeuse de homme. In mezzo, la nostra eroina, Libera piena di legacci (ci vuole qualche finto ossimoro per avviare la lettura e la scrittura). Libera salita agli onori delle cronache mondane per un primo articolo che esalta le virtù propiziatorie dei suoi bouquet da sposa. Articolo che le porta clienti e problemi.

Ma anche Libera che, per quanto fatto due anni prima, è ormai etichettata come “Fioraia del Giambellino risolve il mistero della sposa scomparsa”. Non solo ma l’articolo prosegue esaltandola come sosia di Julienne Moore (per i capelli rossi) ed emula di Agatha Christie (per il mistero risolto). Fatto sta che a lei si rivolge Manuela, che si dovrebbe sposare a breve. Ma non per un bouquet, quanto per ricercare un padre che non ha mai conosciuto.

Vorrebbe sapere di chi è figlia, ma la madre, pur malata, si ostina ad innalzare un muro impenetrabile a questa richiesta. Libera tentenna, ma la sua vocina interna le fa suonare il campanellino: come, tu che cerchi la verità sul padre di tua figlia, ti tiri indietro sulla ricerca della verità su di un padre di una figlia altra? Tra l’altro, alla fine del primo episodio aveva trovato un compromettente biglietto di grafia femminile molto legato alla morte di Saverio.

Quindi, un po’ per voglia e molto perché Iole la figlia dei fiori che si traveste per fare indagini, e spesso si spoglia per i suoi non più giovani pretendenti, la forza verso l’indagine. Che non può che vedere anche l’intervento del mitico giornalista “Dog” (vedi primo episodio) ma soprattutto di Irene, che, puntata dopo puntata, si avvicina sempre più alla sensibilità di Libera. Così, si scava nel passato della famiglia di Manuela, nei frequenti cambi di casa, nel mistero di non far amicizia con nessuno, nella malattia della madre, nelle missive tenute dal confidente sacerdote. Certo, i corsivi aiutano non poco a diradare le nebbie del mistero, che si erano infittite anche perché c’è una morte sospetta al tempo delle fughe.

Il risultato delle indagini arriverà dopo la morte della madre di Manuela (tumore) lasciando Libera nel dubbio se palesarlo o tenerselo per sé. Quello che sicuramente palese è il famoso biglietto femminile, che mette di nuovo in moto le indagini di Vittoria, ma anche del suo capo, il famoso/famigerato Gabriele. Per ora, di questo filone non se ne vede la fine, ma chissà.

Comunque, è bene capirsi subito: non è la trama gialla che attira in questi libri. Sono i personaggi e la loro vita milanese di periferia. Oltre a Iole, di cui si è detto troppo, c’è Vittoria che mette pensiero alle sue parenti per la frequentazione con uno sbandato, forse ai limiti della legge, che a Libera non va giù (domanda di riserva: ma i genitori debbono/possono interferire nella vita dei figli?). Ma soprattutto c’è lei, Libera, stretta tra due fuochi. Il pensiero di Gabriele, il capo della Omicidi, presenza costante, che lei vorrebbe più vicina, scontrandosi con le proprie resistenze, con la figlia che la guarda storto se si avvicina al suo capo, con Gabriele stesso, che non sa resistere a presenze femminili diverse (magari anche più giovani). Di là, c’è la presenza della garbata corte di Furio, chef simpatico, esuberante e sovrappeso. Che la fa una corte discreta, che la fa ridere, ma che sembra non poter aspirare a più di un’amicizia.

Al fine, un libro esile, agile, non imperdibile, ma necessario, a completare un quadro che serve a scacciare pensieri molesti, per concentrarsi sulle cose belle della vita. E ce ne sono.

Rosa Teruzzi conferma le sue capacità di scrivana, con una giusta dose di leggerezza e di pensieri. Certo, avevamo iniziato la lettura con le domande del primo episodio, e finiamo il secondo con più domande che risposte. Mi sa che si dovrà passare ai successivi libri per saperne di più.

Rosa Teruzzi “Non si uccide per amore” Feltrinelli euro 8,50

[A: 19/03/2021 – I: 04/08/2022 – T: 05/08/2022] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 2018]

Passa solo qualche giorno, ed ecco come una droga la voglia di tornare ad alleggerire la testa con le avventure (e le disavventure) delle detective del casello. Affronto quindi la terza puntata della serie, che, in un certo senso, si congiunge con la precedente. Di sicuro temporalmente, visto che le mosse di Libera e parenti si incamminano verso nuove avventure nello stesso agosto del ’14. Tanto che viene da pensare ai “mastodonti” del giallo italiano, come Costantini che ne avrebbe fatto un solo volume.

Per fortuna Rosa è di animo leggero, scrive veloce, e chiude le sue storie sempre ben al di sotto delle duecento pagine. E nella sua scrittura, come già sottolineato, sono spesso i personaggi che hanno il peso maggiore. Anche se qui, una storia, un giallo si propone in maniera quasi classica. Libera aveva trovato delle tracce che la portano a riflettere sull’uccisione del marito Saverio. E da quelle tracce parte per un nuovo “cold case”, che questa volta è però assai personale. Ora decide di indagare per sé stessa.

Sappiamo tutto del retroterra della storia. C’è nonna Iole, quasi settantenne, spirito libero, molto alternativa, che ci conquista con le sue pazze idee. Tipo mettersi una parrucca quando indaga per non farsi riconoscere, visti i capelli rossi della famiglia. Ed all’opposto c’è Vittoria, entrata in polizia perché vuole scoprire tutto sulla morte del padre. Seria, dura, dritta verso le mete senza deragliare, anche se le mete non sempre sono chiare se non a lei.

In mezzo, appunto, c’è Libera, quella “normale”, anche se ha una serie di pregi che ce la fanno cara. È un’accanita lettrice (un tempo aveva un libreria, ora fallita), in special modo di gialli. Ma non disdegna tutto il leggibile (e qui ci sono citazioni di Rossella O’Hara da tenere in conto). Ed è anche una profonda conoscitrice dei fiori, visto che ora si è reinventata (con successo) fornitrice di bouquet nuziali portafortuna. Per finire ha anche le mani d’oro in cucina, tanto da attirare un nuovo e discreto spasimante nel vicino nonché chef Furio.

Di traverso, appunto, ci sono gli uomini. Furio, come detto. Ma anche il capo cronista di nera che spesso aiuta le nostre, il terribile Cagnaccio (non il soprannome, che è “Dog”, ma proprio il cognome). Tutti gli episodi sono poi punteggiati da Gabriele, il miglior amico del marito, ora capo della Squadra Omicidi (e quindi anche di Vittoria), che ondeggia verso Libera senza decidersi, per poi rimanere invischiato in altre situazioni, che lasciano il segno, anche se non nella storia. Ultima attrice non protagonista, almeno per ora, Irene la Smilza, giornalista capace e silente, che, romanzo dopo romanzo, riesce sempre più simpatica e sempre più empatica con Libera.

Veniamo ora a questa puntata.

Il biglietto misterioso sembra indicare un appuntamento con una donna. Aiutata da Dog, scopre che contemporaneamente alla morte del marito è scomparsa Loredana, la moglie di un mafioso in carcere. Della mafia calabrese su cui indagava Saverio.

Ed è in Calabria che portano tutte le piste che trova per lei Irene. Quindi si parte alla grande, Iole, Irene e Libera alla scoperta di misteri e collegamenti. Solo Vittoria è fortemente contraria, che tutti i primi indizi portano anche a sospettare connivenze interne alla Polizia, e lei ne sembra più che altro spaventata.

Si scava su Loredana, sul marito di Loredana che, uscito dal carcere si allontana dalla mafia, frequenta altre donne, senza mai rifarsi completamente una vita, su Elvira, l’amica di Loredana che ospitava la donna quando veniva a Milano.

Non mancano neanche i soliti, pesanti flashback temporali del tempo in cui Saverio indagava. Che hanno il pregio di sollevare qualche velo anzitempo, ma il difetto di rompere il ritmo della trama.

Quando tutte le trame sembrano portare in direzione mafiosa e pericolosa, sono le intuizioni delle nostre donne che rimettono il giallo in carreggiata, portandolo verso situazioni più vicine ai femminicidi attuali che alle stragi degli anni ’90. Rimane un po’ il dubbio se il titolo, infine, sia più un monito od un consiglio.

Lasciando perdere il romanzo, e venendo alle troppe morti odierne, concordo in pieno che tutte queste (troppe) morti non sono dovute all’amore, ma a tutta quella congerie di sentimenti odiosi che permeano chi non sa accettare la realtà. Se io ti amo veramente, e tu mi lasci, io provo a riconquistarti, non ad ucciderti. E se qualcosa ostacola il mio amore, provo a sconfiggerla, non ad eliminarla, un modo che, spesso, non fa che creare ancora più ostacoli.

Una volta risolto il giallo, non si fa in tempo a chiudere la pagina che già si pensa a cosa potrà succedere. Come evolve Achille il tatuato amante delle piante e di Vittoria? Come finirà la lotta tra Furio e Gabriele? Come si muoverà Irene? Che nuovi/vecchi libri leggerà Libera?

Poiché poi Rosa ha ben appreso la lezione di Victor Hugo e dei feuilleton francesi dell’Ottocento, in finale di libro ci lancia un nuovo amo. Come è veramente morta Ribella, la madre di Iole? Vedrete che qualcosa uscirà fuori, che una leggera lettura come questa non ti delude mai.

Rosa Teruzzi “Ultimo tango all’Ortica” Feltrinelli euro 8,50

[A: 25/03/2021 – I: 08/08/2022 – T: 09/08/2022] &&&  -

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 141; anno: 2019]

Un libro dopo l’altro, che la magia delle Miss Marple del Giambellino ha fatto presa. Come dice una recensione più abile della mia, è come indossare un pigiama in inverno dopo averlo scaldato sul termosifone. Ci si coccola con le avventure delle donne del casello, e si aspetta di vederne le gesta. Anche se mi aspettavo qualcosa in più dai personaggi.

Invece, qui si riorna su di un filone classico, che però fa la sua presa. Che le indagini diventano due, come si confà ai più classici seriali. C’è quella di fondo, legata strettamente ai personaggi, e c’è quella in prima linea, a volte nata anche occasionalmente.

La prima la intuiamo, piuttosto che vederla sbocciare. Sappiamo, fin dal primo episodio, della morte di Ribella, la madre di Iole e quindi la nonna di Libera. Sappiamo che il nonno Spartaco non si è più ripreso interamente da quella morte, anche se non ne ha mai voluto parlare. Suona nel fondo, la personalità di Ribella, tace anche per molta parte del libro, per poi uscire alla fine, dove ci aspettiamo che ci dia appuntamento ad un nuovo episodio.

Dedichiamoci quindi alla morte in primo piano. Quella di un piacente signore, che sembra far il filo alla bella Katy, una magistrale ballerina di tango, che si esibisce nella balera dell’Ortica. Prima di continuare, apro due piccole parentesi. La prima dedicata al tanfo, che quando leggo di questa balera, non posso non pensare alla mia amica Mirella, grande interprete di tanghi e milonghe. La seconda dedicata al quartiere, l’Ortica, che per me rimane per sempre legato a Jannacci ed a quella ballata che celebrava uno sfortunato malfattore, di mestiere “palo nella banda dell’Ortica”. Quello che, pur facendo il palo “Ha visto nulla, ma in compens l'ha sentii nient. Perché a vederci non vedeva un'autobotte. Però a sentirci ghe sentiva on accident”. Mitico Enzo!

Ma torniamo al testo. Che le indagini partono in modo sghembo, all’introdursi di un personaggio talvolta apparso nei precedenti romanzi, senza però gran peso. Si tratta della ricca Enrica (ricca perché sa scegliersi mariti facoltosi da cui eredita o divorzia in modo redditizio). Enrica chiede aiuta a Iole, sua grande amica, che del delitto hanno incolpato Amelio, il suo maggiordomo. Ora Amelio è ben attempato, ma da tempo seguiva come un’ombra Katy e le sue danze, quasi fosse nata un’attrazione fatale.

L’elemento che crea la tensione narrativa è anche la frattura tra le nostre donne. Iole e Libera si butterebbero nelle indagini a capo chino, mentre Vittoria intima loro di rimanerne fuori, che se ne occupa la sua struttura poliziesca. Sotto la spinta di Enrica, però Libera non ce la fa a tirarsi indietro, e chiede allora l’aiuto dei suoi amici giornalisti, di modo da sembrare di avere le mani libere (orrendo gioco di parole).

Sono allora il Dog e la simpatica Irene che cominciano a tirar fuori dubbi ed altre piste per dipanare il mistero. Intanto, si scopre che il morto era un gran puttaniere, sempre a caccia di donne, che, quando si stufava, lasciava senza por tempo in mezzo. E quando era lasciato, si incaponiva a seguirle, a “stalkerizzarle”. Inoltre, era anche uno che sulle donne alzava le mani.

Libera comincia quindi a seguire la pista delle donne del morto, scoprendone gioie e dolori, nonché intrecci vari di segugi, inseguimenti, pistole che vanno e che vengono, con Amelio che rimane muto ad ogni richiesta, senza spiegare i motivi del suo attaccamento alla Katy.

E sarà sempre Libera che unirà i puntini del disegno arrivando alla ricomposizione finale di tutta la vicenda. Che, come al solito, vi lascerò leggere in tranquillità. Gustando l’evolversi delle nostre donne. Vittoria che comincia ad ammorbidirsi quando Libera l’assilla di meno. Iole che qui rimane un po’ nell’ombra, senza i suoi grandi slanci ironici che ce l’avevano fatta apprezzare. Pian pianino, Irene si delinea meglio, emergendone alcuni aspetti di empatia con il mondo che vedremo come e se saranno sfruttati. Libera, invece, si incarta sempre più nelle sue storie di vita, nel rapporto sempre più irrisolto (e forse irrisolvibile) con Gabriele, tra le sue piante ed i suoi fornelli. Ci vorrebbe forse uno slancio vitale in più, soprattutto ora che non ha più il tarlo della morte di Saverio.

Ma non disperiamo che tra poco ci sarà un nuovo episodio.

Rosa Teruzzi “La memoria del lago” Feltrinelli euro 8,50 (in realtà, scontato a 8,05 euro)

[A: 18/05/2022 – I: 12/08/2022 – T: 13/08/2022] &&&  --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 142; anno: 2020]

Siamo al quinto episodio, quelli pubblicati in serie nell’economica Feltrinelli. Sebbene credo siano presenti altre puntate, con questa mettiamo qualche (non tutti) punto fermo alle vicende delle nostre amiche, le detective del casello, dette anche le Miss Marple del Giambellino.

Dopo la pausa del quarto episodio, qui, finalmente, come avevamo sospettato alla fine del precedente, si mette di nuovo la mano su vicende molto personali. Quando Irene consegna a Libera che legge con attenzione un dossier intitolato “Notizie sulla morte di Ribella Sgheiz, avvenuta in Colico, l’8 agosto 1946”. Che ribella era la madre di Iole, quindi la nonna di Libera e la bisnonna di Vittoria.

C’è anche una vicenda poliziesca parallela di furti commessi con strani travestimenti, ma è un di cui del quale non vale neanche la pena di accennare. Quello che vogliamo e dobbiamo seguire è il percorso delle nostre donne, aiutate da quella che a me sta più simpatica, Irene la Smilza, cronista d’assalto.

Rimangono anche in sottofondo le altre vicende delle protagoniste. Il rapporto tra Vittoria e lo sbandato amante delle piante, che, una volta forse accettato da Libera, permette a madre e figlia finalmente di riavvicinarsi. La presenza dello chef Furio e delle sue idee imprenditoriali. L’atteggiamento, verso la vita e verso gli altri, di Iole che, una volta dipanata tutta la vicenda, assume una fisionomia molto meno “leggera e farfallona” di quello che sembra a prima vista. Ma soprattutto, gli alti e bassi dei rapporti tra Libera e Gabriele. Entrambi, per versi diversi, con una bloccante paura dell’amore.

Tuttavia, è la vicenda di Ribella che ci preme seguire. Morta, appunto, un tragico 8 agosto, a guerra da poco finita. Lì nel paesino di Colico il personaggio principe è Tarcisio Planetta, contrabbandiere al tempo di mezza tacca. Con un bel figlio, Alfredo, bello da far perdere la testa a Ribella, ma anche alla lontana cugina Matilde.

Girando e scavando, cercando riscontri di difficile reperimento (infondo sono passati settant’anni dalla vicenda, e la maggior parte delle persone sono morte), leggendo brani di documenti polizieschi e di diari del prete parroco al tempo dei fatti, Libera comincia a ricostruire i fatti e le connessioni. Con difficoltà, che Tarcisio, dopo la guerra, diventa un personaggio importante, imprenditore, commendatore, insomma, quasi intoccabile, anche se morto.

Combinando i fatti, comunque, Libera scopre che Tarcisio era intoccabile che aveva fatto favori a tutti, fascisti e partigiani, ma si era arricchito anche facendo lo “spallone” di guerra, cioè facendo emigrare persone in Svizzera. Con qualche buco nero. Scopre che Alfredo aiutava Tarcisio anche non volendo. Scopre che Ribella, vista la poca chiarezza della famiglia Planetta decide di troncare e di sposare il buon e mite Spartaco. Scopre che Matilde era e sarà sempre gelosa di Ribella, anche se, lei morta, sposerà Alfredo. Ma scopre anche che l’8 agosto del ’60 Matilde si butta in un dirupo.

Ci sono tutti gli elementi per svelare i segreti, quelli che uccidono. Servirà a qualcosa, oltre a pacificare i vivi con i propri morti? Questo segreto non lo svelo, ma svelo che gli intarsi in flashback, sempre in corsivo, daranno a noi poveri lettori tutte le chiavi della vicenda.

Se devo fare un appunto alla vicenda, è che forse la soluzione del caso avviene un po’ troppo in fretta, e per una via che non è usualmente utilizzata nei gialli. Ma sappiamo che Rosa scrive non solo per il giallo. E qui, i personaggi tornano a venir fuori. Con tutte le irrisolutezza che ho indicato, ma che ne fanno persone. Che tutti noi, in fondo, non è che siamo sempre limpidi fino all’ultima goccia. Né tantomeno siamo sempre lucidi, quando siamo nel mezzo dei problemi. Merito quindi alla scrittrice di averci calato in una realtà, che possiamo o non possiamo accettare ma che è reale con tutte le sue contraddizioni.

Alcune piccole storie finali per chiudere il ciclo.

La prima riguarda un modo di dire, riportato a pagina 30, quando Dog si lamenta che Libera rimugina sulle “storie del tempo di Carlo Codega”. Questo è un modo di dire lombardo, di incerta origine, riferito a cose ormai sorpassate. L’etimologia più certa li fa risalire al vezzo di ungersi i capelli con il grasso (la cotica o codega) usanza già ritenuta obsoleta ai primi dell’Ottocento. Figuriamoci ora.

La seconda riguarda citazioni che compaiono di tanto in tanto tra le righe, con alcuni brani delle poesie di Alda Merini, testi di canoni da Jannacci e Battiato, e qualche Dino Buzzati che non fa mai male.

L’ultima riguarda i libri che legge Libera. Dove a pagina 113 cita il mitico Giorgio Scerbanenco ed il suo magistrale “Traditori di tutti” (leggetelo). E dove a pagina 58 prima si dedica ad uno dei miei must, lo scozzese Alexander McCall Smith. Poi cita un giallo poco noto che però risulta molto particolare se lo cercate in rete: “Il caso Collini” scritto nel 2011 da Ferdinand von Schirach. Libro interessante anche se pare introvabile.

“Le parole non dette cambiano il corso delle cose.” (44)

Visto che siamo nel giorno di Natale, e che io non riposo (quasi) mai, mi sembra giusto condividere un pensiero di Jasper Fforde contenuto nel suo libro più noto: “Il caso Jane Eyre”, e che ci ricorda che “Tutti facciamo degli sbagli in certi momenti della nostra vita” (197).

È anche l’ultima trama di questo 2022, la quarantacinquesima. Considerando che ho tramato 5 libri per ogni uscita, sono stati presi in considerazioni, quindi, 225 libri. Comunque, sono anche contento di aver “lisciato” solo 7 uscite, visto il numero di settimane nell’anno.

Bilanci, propositi ed altre amenità li lasciamo al nuovo anno. Ora si deve solo esser contenti di quello che abbiamo raggiunto, così che possiamo stringerci in un abbraccio.

domenica 18 dicembre 2022

Simenon e i "romanzi duri" - 18 dicembre 2022

Una nuova tornata dei romanzi di Simenon, quelli senza Maigret, tutti di un livello molto buono. Caratterizzati spesso anche da buone trasposizioni cinematografiche, in particolare quelle con protagonista Jean Gabin. Quella che incuriosisce noi amanti del cinema (e sappiamo perché) è però l’ultimo, quello di Férchaux, dove nel ’63 esce un film in cui Belmondo interpreta Michel il segretario di Férchaux, e nel ’93 invece Belmondo interpreta Férchaux (dopo trent’anni…). Inoltre, questo, dal ’42 al ’45, è uno dei periodi più ispirati per lo scrittore belga.

Georges Simenon “La vedova Couderc” Repubblica Simenon 5 euro 9,90

[A: 25/10/2019 – I: 20/06/2022 – T: 21/06/2022] - &&&&   

[tit. or.: La veuve Couderc; ling. or.: francese; pagine: 173; anno 1942]

Nella sempre maggiore confusione che Gallimard induce nella vita letteraria di Maigret, eccoci ad un altro romanzo che subisce le sorti editoriali francesi. Complicate, invero, dall’occupazione nazista, dalla guerra, e da tutto quello che succede in quel periodo. Infatti, questa bellissima vedova viene composta prima del viaggiatore sopra citato. E viene redatta a Nieul-sur-Mer, quella località poco sopra la Rochelle dove Simenon e famiglia vivevano all’inizio degli anni ’40.

Viene addirittura scritta nel maggio del ’40, poi lasciata nel cassetto. Simenon, come detto sopra, si sposta prima nella foresta di Mervent-Vouvant, dove scrive il romanzo successivo a questo, poi a Fontenay-le-Comte in Vandea, dove come detto scrive invece quello pubblicato prima, “Il viaggiatore del Giorno dei Morti”. Sarà sempre in Vandea che passerà tutto il 1941, avendo molti contatti con gli scrittori della scuderia Gallimard, Gide in particolare, con il mondo del cinema, ed aspettando l’inizio del ’42 quando finalmente anche questa vedova vede la luce.

La storia in sé è essenziale, anche se, come vedremo, riprende tutta una serie di “luoghi fisici e mentali” di Simenon. Siamo in campagna, in una piccola cittadina auvergnate, Le Gué-de-Saulnois, dove ci sono soprattutto contadini e agricoltori. Magari c’è un canale dove qualche anziano pesca. Oppure un mulino per il grano. Si allevano polli e conigli, ed il sabato le donne vanno in città, a Montluçon, al mercato, a vendere e comperare.

In questa cittadina, si trasferisce diciassettenne la giovane Tati, per entrare come tuttofare nella famiglia Couderc, dove il patriarca, rimasto vedovo, deve accudire alla fattoria ed ai tre figli. Tati si inserisce nella famiglia, si fa mettere incinta dal figlio Couderc, diventa il motore della casa. Laddove le due cognate non fanno altro che lamentarsi ed occuparsi d’altro. Françoise passa di uomo in uomo, rimane incinta, nasce Félicie, e con lei va a vivere nella casa oltre il canale. Amélie si sposa un imbelle velleitario che pensa di muovere mari e monti, ma sarà sempre in bolletta alla ricerca di soldi.

Passano gli anni, e quando comincia l’azione, Tati ha 45 anni, è vedova, il figlio entra ed esce da prigione, ed ora è coscritto in Africa. Félicie ha 16 anni, e segue le orme della madre, essendo già madre single. Nella cittadina capita Jean, uscito di prigione dopo cinque anni, per omicidio accidentale (anche se poi scopriremo che è stato l’abile avvocato a fare in modo di ribaltare una sicura condanna capitale).

Jean è tutto il contrario di Tati. Giovane, 28 anni, istruito, anche se ha studiato senza profitto, figlio di una famiglia abbiente, ma ripudiato dal padre. È un giovane che cerca pace, che cerca di dimenticare. Che trova un simulacro di serenità diventando il garzone di Tati. Ma si sa che le cose in campagna evolvono presto, e di Tati diventa anche l’amante.

Una vicenda che sconvolge le cognate, timorose che Jean aiuti Tati a prendersi tutta la fattoria, riuscendo a ritrovare soldi ed agiatezza che loro non hanno e che hanno perduto. Una tipica situazione, non solo contadina, di odii, di ripicche, di piccinerie. Tati sembra anche lei trovare la pace con Jean, nonostante l’ovvia gelosia verso il “toy-boy”. Con l’unico punto fermo: che Jean non vada mai con Félicie.

Che ve lo dico a fare? Ovvio che i due giovani diventeranno amanti. Anche se Jean vive tutto come in un sogno, come vedendosi vivere, e non sapendo come affrontare la vita. Tati, malata per una colluttazione sfortunata con le cognate, scoprirà le magagne di Jean, ed il romanzo si avvierà al suo scontato epilogo. Che fece saltare di gioia Gide, vedendolo come una descrizione della disperazione della vita molto più profonda del libro uscito lo stesso anno di questo, cioè “Lo straniero” di Camus.

Non sono così fine critico da addentrarmi in questa diatriba, ma ritorno su due punti. Il primo, dato che come sappiamo Simenon scrive molto in fretta, e quindi spesso trova facile appoggiarsi ad i suoi elementi costitutivi del racconto, è dato dalle sue tematiche ricorrenti. La presenza dell’acqua, e dei canali in particolare (come spesso nei primi Maigret, “La chiusa n.1”, ed altri). Le donne, che sono sempre presenti e potenti, sempre meglio degli uomini. Che qui sono ottusi (il vecchio Couderc), immorali (il figlio di Tati) o velleitari (il marito di Amélie). La libertà, cercata, voluta, sognata, spesso irraggiungibile. La caduta in disgrazia di una famiglia che da opulenta diventa meschina alla ricerca del denaro, possibilmente facile. E la solitudine. Tati e Jean sono soli nei loro mondi, e capiscono la rispettiva solitudine con quel primo sguardo, sulla corriera, nelle prime pagine del romanzo. In ultimo, i sogni che si scontrano con la realtà, così che Jean diventa un nuovo epigono del già incontrato Mr. Hire.

Il secondo elemento è il cinema. Simenon è sempre stato vicino e dentro l’ambiente, tanto che più di sessanta sui romanzi sono passati sul grande schermo. Qui ci sono voluti trent’anni, ma nel ’72 un grande regista francese di buona fattura Pierre Granier-Deferre ne trae uno dei migliori e più premiati film. Anche perché con una platea d’onore di interpreti: Simone Signoret (Tati), Alain Delon (Jean) e Ottavia Piccolo (Félicie). Vi risparmio una comparazione libro-film (che lascio al mio dotto cugino cinofilo), basti pensare che in italiano, venne intitolato “L’evaso”. E già mezzo film è stato svelato.

Il libro, comunque, è per me, uno dei migliori Simenon che ho letto.

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Le Gué-de-Saulnois, villaggio tra Saint-Armand e Montluçon (Auvergne)

La vedova Couderc, 45 anni, soprannominata Tati, vedova, un figlio in Africa, contadina

Jean Passerat-Monnoyeur, celibe, 28 anni

Françoise e Amélie, cognate di Tati

Félicie, nipote di Tati, madre single, 16 anni

Alcuni mesi

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “La verità su Bébé Donge” Repubblica Simenon 5 euro 9,90

[A: 14/10/2019 – I: 06/07/2022 – T: 07/07/2022] - &&& e ½    

[tit. or.: La vérité sur Bébé Donge; ling. or.: francese; pagine: 174; anno 1942]

Come sappiamo, all’inizio del ’40 riesce a sistemare tutti i rifugiati del Belgio e termina così la sua missione ufficiale. Ed anche in queste condizioni poco stimolanti, continua sia a scrivere che a spostarsi. Inoltre, dobbiamo sempre tener conto che la pubblicazione ormai, in tempo di guerra e per le bizze editoriali di Gallimard, è molto rallentata. Simenon, quando riesce a concentrarsi, in una settimana compone le sue opere, poi si aspettano mesi o anni per vederle su carta.

Comunque, terminati gli incarichi ufficiali, decide di lasciare la costa e di rintanarsi nelle foreste della Vandea. Il primo luogo è una fattoria, la fattoria del Pont-Neuf, nella foresta di Mervent-Vouvant. Una zona ormai scomparsa sotto le acque di una diga che ha “costruito” un lago di sbarramento alla foresta.

Qui, nel settembre, termina la scrittura di questo romanzo. Come molte scrittura, uscirà prima a puntate sul bimensile “Lectures 40” dal giugno al dicembre del ’41. E solamente un ulteriore anno, nel dicembre del ’42, Gallimard lo farà uscire in volume. Due libri fa avevo già parlato sia degli spostamenti tra il ’40 ed il ’42 della famiglia Simenon, sia dei problemi psicologici legati alla falsa diagnosi tumorale di un medicastro locale. Il nostro scriva molta della sua autobiografia, alcuni romanzi, e, come detto, si stabilisce per un anno a Fontenay-le-Comte.

Ma ora siamo in Vandea, Simenon ha ancora il tarlo se sia malato o meno, e riesce a comporre un libro magistrale, in cui da un lato va molto oltre la sua supposta misoginia fornendoci un magistrale ritratto femminile, dall’altro sviluppa la sua tematica sui rapporti uomo – donna all’interno del matrimonio, sulla fedeltà e sull’infedeltà. Nonché, una grande analisi di uno dei suoi pallini fondanti di tutta la sua opera. Non tanto chi è stato a commettere un crimine, ma perché l’ha fatto.

Ci sono anche altre “perle” letterarie in questo romanzo. L’intreccio dei tempi del racconto, che si incastrano non con crudi flash-back, ma avvolgendo il nastro del tempo intorno ai pensieri di François. C’è la stagione in cui si svolge il dramma, i circa tre mesi tra il “fatto” e la sentenza. E ci sono i dieci anni di matrimonio di François e Bébé, dove il primo, ripercorrendoli, tenta di dare una spiegazione agli avvenimenti contemporanei. L’altro colpo di maestro è il riproporci tutta l’istruttoria processuale non in modo narrativa, ma attraverso la trascrizione “a domanda risponde” tra il magistrato inquirente e Bébé.

Come detto, la vicenda si svolge in una stagione, a partire da una domenica d’agosto, in alcune cittadine tra Montpellier ed i boschi del Parco delle Cevenne. Siamo a casa Donge, con le due coppie intrecciate di fratelli e sorelle: François e Félix Donge che hanno sposato rispettivamente Bébé e Jeanne d’Onneville. È presenta anche la suocera. In questa atmosfera all’apparenza idilliaca, Bébé avvelena, con l’intento di ucciderlo, il marito.

François, che nasce chimico, si accorge dell’arsenico, e si salva. Bébé non rinnega il suo gesto e viene arrestata. Da quel momento, a parte la descrizione degli avvenimenti contemporanei, parte l’introspezione di François. Chi è realmente la moglie? Perché ha fatto quello che ha fatto?

François ripensa a tutta la sua storia con lei, il primo incontro, il corteggiamento, il doppio matrimonio di Donge. La difficoltà di entrare nel mondo della moglie. Come se ci fosse (e di sicuro c’è) anche altro, oltre la superficie. Altro che lui non vede, così che non trova di meglio che mantenere un rapporto corretto ma superficiale, ed usare il sesso fuori dall’ambito familiare.

Ma ora si domanda se questo gesto estremo non nasconda un urlo di richiesta d’aiuto. Forse, oltre ogni sua previsione, la moglie lo ama davvero, e lui non se n’è mai accorto, rinchiudendola in una realtà lontana dal suo mondo quotidiano. Limitandone attività e slanci. Capisce che Bébé ha fatto del suo meglio per entrare in contatto con lui, e trovandosi ad un bivio finale abbia capito (e così dice al magistrato), visto che tutto quanto aveva fatto in dieci anni non era servito ad entrare in comunicazione con il marito, che era una questione di sopravvivenza: o lei o lui!

Simenon gioca molto con le parole: Bébé in francese significa bambina, che diventerà donna eliminando chi blocca la sua crescita. Solo così Bébé potrà finalmente diventare Eugénie. Una Eugénie che ama veramente suo marito, che da lui pretende sincerità sino all’ultimo stadio. E per sottolineare questa necessità, l’autore usa alla grande il tema del doppio: la descrizione del diverso modo di affrontare la vita delle due coppie è illuminante.

Da leggere, con calma e senza salti, l’ultimo capitolo, di cui nulla vi dico. Insomma, un capitolo della scrittura di Simenon che giunge a buone vette (qualche caduta, al solito, c’è) riportandolo in quell’atmosfera cui lui sempre tende. Ma che raramente gli veniva riconosciuta.

Due curiosità. Nel ’52 Jean Gabin interpreta François in un magistrale, pur se senza successo, film tratto dal libro. Peccato che le necessità cinematografiche cambino molte carte in tavola. Dieci anni fa, invece, un gruppo di artisti romani decide di incidere un disco (dalle melodie forse un po’ troppo pop) sulle ali di quel libro, ribaltandone l’ottica, ed intitolandolo: “La verità di Bébé Donge”. Disco cui farà seguito anche una interessante graphic novel, scritta da Valentina Grenier. Quindi, i lasciti di Simenon vanno sempre oltre Simenon stesso.

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Villaggi tra Montpellier e la campagna

François Donge, ricco industriale in vari settori (conceria, plastica, formaggio, allevamento di suini). Sui 30 anni

Eugénie «Bébé» Donge, nata d’Onneville, sposa di François e sorella di Jeanne

Félix Donge, fratello e socio di François

Jeanne Donge, nata d’Onneville, sposa di Félix e sorella di Bébé

La vedova d’Onneville, madre di Bébé e Jeanne

Una stagione

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “La finestra dei Rouet” Repubblica Simenon 14 euro 9,90

[A: 22/01/2020 – I: 01/08/2022 – T: 03/08/2022] - &&&&    

[tit. or.: La fenêtre des Rouet; ling. or.: francese; pagine: 173; anno 1945]

Gli anni dal ’42 al ’45, prima per la guerra, poi per alcune vicende personali, non sono facili per Simenon. La penuria di carta lo costringe a scrivere poco (riuscirà a completare un paio di romanzi ogni anno). E la stessa costringe gli editori a ritardare l’uscita dei libri. Come il precedente, ancora in Vandea, a Château de Terre-Neuve, Fontenay-le-Comte, termina questo libro. Poi si sposta a Saint-Mesmin-le-Vieux, sempre in Vandea, dove resterà fino alla fine della guerra.

Sono ormai dieci anni che Simenon fa parte della scuderia Gallimard, ma non è soddisfatto del rapporto con l’editore. Si sente uno tra tanti, mentre vuole essere una prima donna. Attraverso i Maigret ha un buon pubblico, e riesce ad ottenere un aumento di proventi. Ma Gallimard non ama i gialli, e gli fa un po’ di guerra. Inoltre, con la fine della guerra, Simenon ha anche dei problemi politici, che viene accusato di collaborazionismo, per aver venduto ad una casa cinematografica tedesca i diritti di alcune opere. Ne uscirà, anche se a fatica, aiutato da un amico di Gallimard, il gollista Felix Garas. Questi è anche proprietario di una piccola casa editrice, “La Jeune Parque”, dove, per riconoscenza, Simenon decide di pubblicare tre romanzi, tra cui questo. Che comunque uscirà in stampa solo nel 1945.

Nel frattempo, quell’anno torna a Parigi, e fa la conoscenza di un giovane danese, Sven Nielsen, deciso ad entrare nel mondo dei libri. I due si trovano a meraviglia, e decidono di fondare una casa editrice, “Presse de la Citè”, di cui saranno proprietari al 50% (circa). Da questa avventura, e dalla fuga che la famiglia Simenon effettuerà verso il nuovo mondo, nascerà tutta una nuova possibilità di vita, per Georges e per la sua scrittura. Ma questo sarà materia di altre trame, che ora si torna alla finestra di questo romanzo.

Una finestra aperta sulle vicende della famiglia Rouet, che viene “vissuta” in maniera surrettizia dalla dirimpettaia, la povera, solitaria, insoddisfatta Dominique. Sulla soglia dei 40 anni, ha vissuto sempre una vita altrui, in giro per il paese al seguito del padre generale. Poi, lì, a Parigi, accudendolo fino alla morte. Senza mai una pausa, senza mai un sorriso, senza mai un amante, un fidanzato. Ed ora, con pochi mezzi, è anche costretta ad affittare una stanza agli esuberanti Albert e Lina. Di cui lei sente gli amplessi amorosi, al di là della sottile parete.

Ma la sua vita è verso il palazzo di fronte, quello della famiglia Rouet. Che sta sempre con le finestre spalancate (d’altra parte, il romanzo comincia in piena estate), così che lei, non vista, ne vive le vicende. In particolare, quelle di Antoinette, la nuora. Che Dominique vede non soccorrere il marito cardiopatico, che muore. Che vede entrare sempre più in collisione con Madame Rouet, che non ne approva il liberalismo.

Mentre il dramma e la tensione all'interno della famiglia aumentano, aumenta anche il coinvolgimento vicario di Dominique, che si identifica sempre più con la nuora. Tanto che incomincia anche a seguirla per Parigi, a vederne gli incontri con gli amanti, a vedere le delusioni della giovane che spesso viene anche lasciata.

Il voyeurismo di Dominique è sempre più spinto, tanto che cominci a capire quanto sia sola, nei pochi momenti in cui non riesce a stabilire il contatto. Sola anche perché Albert e Lina, pur nelle ristrettezze, si godono la loro vita, e presto se ne andranno. Ma non è questo il colpo finale, che le viene da Antoinette, che, scoperta in casa con il suo amante mulatto, rompe finalmente con i Rouet, e lascia la casa. Lasciando più avanti un accenno a questa fuga, rimaniamo con Dominique, con la sua solitudine, con la comprensione del vuoto che non riempie nulla della sua vita, ora che tutti i punti di sostegno surrogati la lasciano sola. Potrebbe avere uno scatto di orgoglio, un momento di riscatto. Oppure potrebbe sprofondare nella più nera depressione. Al maestro belga lascio la scelta.

Io torno su due punti. Il primo, con il gusto delle coincidenze che ha Simenon, riguarda il momento topico del romanzo, quando i nodi vengono al pettine. E Simenon, che raramente parla di date, ci dice che tutto ciò avviene il 12 febbraio. Ricordiamo ai distratti che Simenon nasce il 13 febbraio del 1903 (ha l’età di Dominique quando scrive il romanzo).

Il secondo punto, che fa salire di tono tutto il romanzo, è il modo di presentare la vicenda. Non c’è nessun dialogo diretto, è tutto immaginato, da Dominique, che si pone nella testa di tutti i Rouet di fronte, e ne immagina le schermaglie. Così che seguiamo la vicenda nelle azioni, ma tutti i pensieri sono sempre e soltanto pensati, sognati, agiti anche da Dominique. Poteva essere un romanzo di difficile lettura. Invece, la bravura di Simenon lo rende un piccolo capolavoro.

Una vicenda che nasce, si costruisce e si conclude, tutta nelle parole che a sé stessa dice la nostra eroina. Un voyerismo che ricorda quello di dieci anni prima, del signor Hire. Ma che qui raggiunge una perfezione formale veramente molto coinvolgente. Soffriamo con Dominique, soffriamo con Antoinette, soffriamo il caldo, ed alla fine ne usciamo contenti della bella lettura.

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Paris (faubourg Saint-Honoré)

Dominique Salès, figlia di un generale, senza professione, celibe, 39 anni

Germain Rouet, ingegnere e la sua sposa

Antoinette Rouet, la nuora, verso i trent’anni

Albert et Lina Caille, affittuari di Dominique

Dall’estate al marzo dell’anno dopo

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “La fuga del signor Monde” Repubblica Simenon 15 euro 9,90

[A: 22/01/2020 – I: 23/08/2022 – T: 24/08/2022] - &&&& ---   

[tit. or.: La fuite de Monsieur Monde; ling. or.: francese; pagine: 158; anno 1945]

Un giorno, se riuscirò a smuovere un’eterna pigrizia interiore, dovrò fare in modo di fare una lista attenta degli scritti di Simenon, comparandone la data di scrittura con quella di pubblicazione. Che, come già detto, soprattutto in questi romanzi, tra le reticenze di Gallimard e le restrizioni dovute alla guerra, c’è un forte iato tra le due date.

Intanto, come sappiamo, è un periodo di stasi. Finiti gli impegni con il governo belga, continua la sua vita ritirata a Saint-Mesmin-le-Vieux in Vandea. Siamo nei primi mesi del ’44, ed avrà modo solo di fare una piccola sortita a Parigi, per un consulto medico, che finalmente lo libererà dall’incubo della morte imminente. Mentre lì in Vandea, cullando il figlio Mark, barcamenandosi tra amori muliebri ed ancillari, scrive poco. Due libri in quest’anno di pensieri, e poi un anno prima di mettere la penna al servizio della sua immensa fantasia.

Uno dei due libri è questo molto “personale” sulla fuga del signor Monde, che poi vedrà la stampa solo ad aprile del ’45, e sempre per quella piccola casa editrice, “La Jeune Parque”, quella del gollista Garas, che lo aiutò nei duri momenti successivi alla Liberazione, come ho detto altrove. Ma il libro ha anche un altro debito, dovuto a quella visita a Parigi sopra citata, visto che la prima edizione, porta in ex ergo una dedica ai medici di Parigi: "Per il professor Lian e il professor Griore e il dott. Eriau in ricordo del febbraio 1944!”.

Il testo è comunque denso di suggestioni e di rimandi. Anche perché torna su uno dei temi forti di Simenon, quello che indicò nei suoi scritti autobiografici, come “l’attraversamento della linea”, quasi a ricalcare, in tutti e due i sensi, quella “Linea d’ombra” di Conrad, un romanzo che ha formato generazioni di scrittori, di lettori, di uomini. Dicevo in tutti e due i sensi, che in molti scritti di Simenon si attraversa la linea per passare da un’esistenza “buona” ad una “malvagia”, ma anche per l’attraversamento contrario. C’è un momento, un episodio che consento al protagonista di questi scritti di guardare dentro di sé, e di decidere quale sé essere.

Qui abbiamo Norbert Monde, direttore di una ditta di import-export, divorziato e risposato, una vita onorata e rispettosa, che al compimento dei suoi 48 anni sparisce. Si taglia i baffi, acquista abiti dimessi, ad un certo momento cambia anche il nome in Désiré Clouet, attraversa la sua linea d’ombra e si ritrova solo, diverso, senza programmi. Nessuno si interessa a lui, e lui può interessarsi a sé stesso. Così prende senza porsi domande un treno per Marsiglia, dove si trascina in sordidi alberghetti di periferia.

Avrà modo di riflettere su di sé, avremmo modo di sentire i suoi ricordi, le sue rimembranze su tutto quanto lo ha sempre storto nella vita, e su di cui è passato sopra senza accorgersi che tutto ciò lasciava ferite profonde. Come, tanto per citarne una, quando giovane scolaro sovrappeso, non partecipava a giochi ed altro con i compagni, rimanendo silenzioso in un angolo.

A Marsiglia conosce Julie, una “intrattenitrice” in locali di basso ordine, che salva da un maldestro tentativo di suicidio. Comincia allora a pensare, o meglio ad agire senza pensare, verso modi di essere che non lo rendono ansioso. Si accompagnano lì, e si accompagnano a Nizza, dove entrambi, con le loro specificità, lavorano al “Monico”, uno dei tanti locali molto notturni della Costa Azzurra. Norbert-Désiré fa quindi l’economo, imbozzolandosi come un bruco nella sua nuova vita.

Il secondo momento di svolta avviene quando al Monico incontra Thérèse, la sua prima moglie, di cui conosciamo le peripezie, ma soprattutto ne vediamo la discesa nell’inferno della morfina. Come se improvvisamente vedesse la vita in modo diverso, aiuta Thérèse, la porta per curarsi a Parigi, lasciando la sua vita nel Sud senza rimpianti. Ma non torna per lei, torna per sé stesso, con cui si è pacificato. Riattraversa la sua linea d’ombra Monde riprende la sua vita, che ora affronta con la serenità che la vita può essere vissuta.

Abbastanza banale trovare analogie tra Monde e Simenon, che ogni personaggio è sempre una parte dell’autore. Ma ci sarebbero tanti spunti da approfondire. Il cognome di Norbert, quel Monde come se volesse interpretare tutti i malesseri del mondo, lì in quel ’44 in cui il mondo è ancora pieno di guerra. La fuga intesa come voglia anche di Simenon di potersi muovere dall’esilio forzato in Vandea. Una fuga che anche il nostro vorrebbe poter fare verso il Mediterraneo, magari verso la sua amatissima isola di Porquerolles. L’incontro tra Norbert e Thérèse che spinge anche noi lettori alla comprensione che non possiamo mettere da parte il nostro passato. Possiamo modificarci, ma solo accettandolo ed inglobandolo nel nostro io presente.

Forse non tutto è di altissimo livello, ma anche qui la scrittura di Simenon è profonda, e fa pensare. Che non è da tutti gli scritti.

“Non riusciva ad abituarsi all’idea di essere un uomo avviato verso la fine discendente della vita … si ricordò che quel giorno compiva quarantotto anni.” (18)

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Parigi, Marsiglia, Nizza

Norbert Monde, 48 anni, direttore di una ditta di import-export, divorziato, poi risposato, due figli adulti

Madame Monde, la seconda moglie

Thérèse, la prima moglie

Julie, giovani “intrattenitrice” in un locale di Nizza

Alcuni mesi

Epoca contemporanea

 

Georges Simenon “Il primogenito dei FerchauxRepubblica Simenon 20 euro 9,90

[A: 07/02/2020 – I: 01/09/2022 – T: 04/09/2022] - &&&& -   

[tit. or.: L’aîné des Ferchaux; ling. or.: francese; pagine: 347; anno 1945]

Sappiamo ormai che la produzione, anzi l’uscita pubblica, dei romanzi di Simenon segue solo le voglie dell’editore, non quelle della scrittura dell’autore. Così, visto che ormai sto rompendo con Gallimard, questo romanzo, finito di scrivere il 7 dicembre 1943 sempre in Vandea a Saint-Mesmin-le-Vieux vedrà la luce editoriale solo il 30 maggio del ’45, presso Gallimard, dove se è pur vero che usciranno altri romanzi, sono tutti titoli scritti durante la guerra.

Con il libro nel cassetto, Simenon deve risolvere alcune questioni. Con Gallimard è rottura completa, e Simenon, parlando in giro, conosce e stringe un rapporto di ferrea amicizia con un giovane libraio, figlio e nipote di librai, il franco svedese Sven Nielsen. Contratto di ferro e tutti i nuovi romanzi usciranno per questa nuova casa, la “Presses de la Cité”, facendone ovviamente una fortunata casa editrice.

Il secondo problema è dovuto all’interdizione di muoversi in quanto sospettato di connivenza con i nazisti, cosa che Simenon ha sempre rigettato. Si trova così costretto a passare parte del ’44 in Vandea a Les Sables-d'Olonne. Solo all’inizio del ’45 l’ambasciata belga riuscirà a revocare il procedimento, anche se il processo parte ed andrà avanti sino al ’49. Ma Simenon ora si può muovere, torna prima a Parigi, poi in agosto è a Londra, aspettando un visto per l’America.

Torneremo più avanti sulle vicende americane, che il momento da avventuriero quarantenne che vive alla fine della guerra ben si adatta al libro scritto due anni prima e che stiamo tramando.

Intanto, c’è una particolarità che non comparirà più nei suoi romanzi. Simenon, prima del testo, presenta un prologo, scritto in modo giornalistico come lui ben sapeva fare, in cui spiega i contorni dell’affare Ferchaux. I due fratelli che poco più che ventenni vanno in Africa a cercar fortuna. Che trovano, costruendo un grande impero, con tutte le sregolatezze che possiamo ipotizzare nel comportamento di coloni ad inizio Novecento in un Congo senza regole. Il giovane Emile Ferchaux torna in patria a gestire le fortune, mentre Dieudonné il primogenito rimane in Africa. Comportandosi da vero “colonialista di ferro”: corruzione, spregiudicatezza, soppressione di neri che non vogliono sottomettersi all’uomo bianco. Poi, come ci narra il giornalista Simenon, dopo quasi trent’anni (quindi intorno al ’35) qualcuno comincia ad indagare, a censurare l’operato dei Ferchaux, tirando fuori tutte le possibili accuse. Tanto che Emile crolla suicidandosi.

A questo punto parte invece il romanzo che, sebbene abbia per titolo il primogenito, è tutto incentrato su di un’altra figura: Michel Maudet. Giovane di vent’anni, appena sposato con la bella Lina, si trova a dover cercar lavoro. Scriveva articoli ma i giornali in crisi l’hanno messo alla porta, costringendo i giovani a continue visite al Monte di Pietà. Poiché sappiamo che Simenon ricicla molte delle sue idee, inizialmente in Michel e Lina Maudet rivediamo molto di Albert e Lina Caille incontrati ne “La finestra dei Rouet”.

Maudet, giovane senza qualità, cerca solo un mezzo per arrivare da qualche parte, per diventare altro, meglio se ricco. Dopo mille illusioni, trova il modo di farsi assumere come segretario dal vecchio Dieudonné. Michel e Lina partono d Parigi per Caen, dove lui si presenta solo al vecchio squalo. Comincia qui la prima trasformazione, il primo passaggio “della linea”. Lina è in albergo, sola. Michel è nel castelletto dei Ferchaux, affascinato dall’uomo della giungla, quello che si è fatto da solo, che ha lottato ed ucciso per arrivare.

Ma Dieudonné, proprio perché uomo della giungla, non ha vita facile nel tessuto urbano. Minacciato, risponde con minacce. Attaccato, non può che cercare di spostarsi. Così con Michel e Lina, che nel frattempo si palesa al fianco del giovane, si spostano a Dunkerque. Lo squalo è accerchiato, ma mantiene la calma esteriore, affascinando Lina, mentre Michel si barcamena tra l’ardore di aiutare Ferchaux e la gelosia. Troppi nemici, si deve fuggire, senza por tempo in mezzo. E Michel, tra Dieudonné e Lina sceglie il primo.

Troviamo i nostri due tre anni dopo a Panama. Lo squalo invecchia, si aggrappa a Michel in cui aveva visto dei tratti di sé giovane. Michel invece è ovunque fuori posto. Non ha rimpianti, ma non ha futuro. Cerca nel femminile, d’alto e di basso rango, sollievo per le proprie pene, rimanendo sempre fuori del mondo avventuroso di Panama. Non ha amici, né futuro. Anzi, potrebbe averne con la ricca Gertrud Lampson, ma avrebbe bisogno di disporre di denaro.

Il vecchio ed il giovane dovranno trovare il modo di affrontarsi, come due leoni della giungla. Il vecchio che sa il giovane essere determinato. Il giovane che sa il vecchio essere indebolito. Simenon ci fa capire come sia proprio Dieudonné a condurre la danza, ed a portare il romanzo al finale che vuole lo squalo.

Un libro denso e cupo, che risente in modo pesante delle costrizioni di guerra. Un libro dove, per la prima volta, le donne non hanno un ruolo di primo piano, ma servono ai personaggi per costruirsi le proprie identità. Un libro che potrebbe tradursi in una pièce teatrale a due, con i tre passi verso il finale: Caen o la nascita del mito, Dunkerque o l’involversi del giovane, Panama o finale riscatto della lotta tra padre e figlio. Che in un certo senso, possiamo vedere la lunga lotta tra Dieudonné e Michel come quella tra padre e figlio. Dove il padre inizia illudendosi che il figlio sia ciò che forse non è. Dove il figlio finisce capendo che deve liberarsi della figura paterna.

Anche il titolo può essere letto in due modi: il primogenito è sia Dieudonné, reale, sia Michel che il vecchio potrebbe volere come figlio, come suo primogenito. Ovvia quindi la realizzazione del finale, anche se non avessimo letto Freud. Con Michel che, comunque, rimarrà uno sterile avventuriero per tutta la sua vita. Un libro pieno di fascinazione, anche se a tratti, troppo cupo.

Come molti libri di Simenon, anche questo fu adattato per il cinema, in un film del 1963, diretto da Jean-Pierre Melville, con Jean-Paul Belmondo nella pare di Michel Maudet. I fortuiti casi della cinematografia, vollero poi una riedizione quarant’anni dopo, in cui Belmondo passa ad interpretare l’anziano Ferchaux. Magico sesto potere.

 

Dove

Protagonista

Altri interpreti

Durata

Tempo

Caen, Dunkerque, Panama

Michel Maudet, ventenne, segretario di Dieudonné Ferchaux

Dieudonné Ferchaux, l’uomo di “Oubangui”, colono e uomo d’affari

Emile Ferchaux, fratello di Dieudonné e suo socio

Lina, la sposa di Michel

Mme Lampson, ricca americana di passaggio a Panama

Rénée, amante di Michel a Panama

Tre anni e qualche mese

Epoca contemporanea, dopo il 1935

 

In ricordo di miei passati viaggi nel deserto, e ricordando con affetto chi mi donò regalo ed amicizia, vorrei condividere una frase di Lorenzo Angeloni nel suo libro “In Darfur”: “Un detto Tuareg dice … che Dio ha inventato il deserto affinché gli uomini possano trovarvi la loro anima” (133).

Siamo quindi in un clima natalizio, anche se il clima fa fiorire le bouganville in terrazzo. Siamo in un clima di bilanci, ma non li faremo qui. Qui ci fermiamo solo per abbracciarci ancora.