domenica 15 aprile 2018

Sempre meglio al femminile - 15 aprile 2018


Altra settimana con una piccola infornata di gialli, noir, polizieschi e simili. Tutti autori seriali, che continuano a pubblicare le gesta dei loro eroi, quasi costruendone immense giallogonie. In ogni caso, tre donne, tutte vicine o comunque degnamente sufficienti, mentre l’unico maschietto a fatica riesce ad arrivare ad un dignitoso insufficiente. Comunque ecco che ci rituffiamo nelle grandi serie: l’ispettore Lynley di Elizabeth George, Arkady Renko di Martin Cruz Smith, Peter Decker e Rina Lazarus di Faye Kellerman e Hanne Wilhelmsen di Anne Holt.
Elizabeth George “Un piccolo gesto crudele” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015– I: 05/12/2017 – T: 14/12/2017] - &&& ---
[tit. or.: Just One Evil Act; ling. or.: inglese; pagine: 715; anno 2013]
Proseguiamo (dopo ben tre anni di sosta) nella lettura della saga dell’Ispettore Thomas Lynley e del suo contorno di colleghi, amici, amanti, e via discorrendo. Ormai la nostra Elizabeth scrive romanzi ad anni alterni, ed io ho sempre più difficoltà a leggerne in tempo. Ma poco importa che il tempo smussa gli angoli e porta letture più meditate. Il difficile è che, facendo passare più tempo, i suoi scritti tendono ad allungarsi oltre misura, come questo che supera le 700 pagine, senza tuttavia aggiungere tantissimo al nocciolo della storia. Intanto, comincio con la solita piccola tirata d’orecchie ai “titolatori” italiani che trasformano “Solo una cattiva azione (o solo un gesto crudele)” in un “piccolo”. Perché piccolo? Da dove spunta fuori questa “diminutio” della cattiveria di quel gesto, che poi non sappiamo ancora bene alla fine se sia di Angelina, di Taymullah o di Lorenzo. Ma di questo ne riparliamo più avanti. Seconda tirata d’orecchie sul sottotitolo “Un’indagine in Italia per l’ispettore Lynley”. Perché se è vero che parte della vicenda si svolge in Italia, ed in particolare a Lucca, questa è solo una parte del romanzo. Dove inoltre l’ineffabile Lynley svolge sì un ruolo, ma non centralissimo, che tutta la vicenda si basa sui tormenti e sulle prese di posizione (il più delle volte errate) del sergente Barbara Havers. Allora, essendo un romanzone, la nostra Elizabeth, oltre alla storia principale, ci fornisce qualche elemento laterale della saga del “mondo Lynley” e dintorni. Un piccolo cammeo dell’amico St. James, utile a dirimere un problema marginale di struttura di un laboratorio universitario. Un lungo duello a colpi di fioretto, cioè gentile e senza affondare i colpi, almeno all’inizio, tra Lynley e la sua ex-fiamma ed attuale capo Isabelle Ardery (che finalmente metterà un punto fermo a quella storia che da almeno un paio di libri doveva essere già conclusa). L’inizio di una possibile futura storia tra Lynley e Deidre, la simpatica dottoressa veterinaria che abbiamo incontrato 3 libri fa, e che poi è rimasta nel limbo. Ora torna alla ribalta, con una schermaglia sul filo del cuore e della posizione sociale, nonché di qualche punto oscuro nel passato di Deidre. Ricordo infatti che Lynley è anche un Lord e che lavora per passione e non per guadagno. Mentre Deidre è sul lato borghese. Differenze che in Inghilterra si sentono, eccome. L’autrice inoltre inzeppa con altre storie senza sviluppi interessanti ed un po’ fini a sé stessa, come quella della mancata suor Domenica, ed altro che non vale menzionare. Mentre altre storie sopracitate lasciano possibili sbocchi positivi, tutto il resto della trama centrale è ben incartato, direi aggrovigliato, intorno alla (abbastanza) simpatica Barbara. Ricordate, o ve lo dico io, che lei aveva un debole per il pakistano Taymullah, nonché un trasporto emotivo verso la di lui figlia Hadiyyah. Inoltre, nel precedente romanzo, era tornata dal pakistano la madre di Hadiyyah, Angelina. Tutta la vicenda, che si svolge dal novembre al maggio dell’anno successivo, prende il via dalla scomparsa di Angelina con la figlia. Scomparsa legittimata dalla legge in quanto Angelina è la madre, e Taymullah, benché padre, non l’ha mai riconosciuta, né ha fatto test di paternità. Inoltre il pakistano ha già una moglie e due figli, anche loro pakistani, che vivono sempre a Londra, ma da cui non ha divorziato. Certo, dal punto di vista morale è un rapimento, anche perché Angelina scompare senza lasciare tracce. Qui comincia l’odissea negativa di Barbara. Non potendo indagare legalmente come poliziotta, convince l’amico a servirsi di un detective privato. Che ben presto si rivela un losco individuo, che lucra in maniera poco pulita sulla sua professione. E che dice ai nostri due di non aver trovato tracce delle scomparse. Traccheggiando tra il liscio e il brusco, arriviamo ad aprile, quando si scopre che Hadiyyah è stata rapita anche ad Angelina. La quale era fuggita dal suo nuovo amore, Lorenzo, in quel di Lucca. Qui nasce quindi il versante italiano della storia, imperniato sulla simpatica figura dell’ispettore Salvatore Lo Bianco, anche lui nobile tanto da vivere al centro di Lucca nella Torre di famiglia. Ma senza la moglie, da cui ha divorziato, e senza i suoi due figli (inciso: con una caduta di stile letterario, la figlia dell’ispettore si chiama Bianca Lo Bianco; improponibile!). Angelina accusa il paki del rapimento, lui si trasferisce a Lucca per aiutare le ricerche, con Lynley che fa da collegamento (in quanto il nostro parla anche italiano). Barbara rimane a fare stupidaggini a Londra, coinvolgendo, erroneamente, un giornale scandalistico, disubbidendo ai suoi superiori, ma scoprendo che il detective sapeva che Angelina era in Italia, e lo aveva detto al paki. Quando si scopre un biglietto di Taymullah e Hadiyyah di sola andata per il Pakistan, a Barbara cadono almeno quattro o cinque veli. L’amico pakistano, che sta diventando sempre più antipatico, in combutta con il detective aveva fatto rirapire la figlia, per poi presentarsi a Lucca come salvatore della patria. Però il detective intrallazzone aveva sub-appaltato il tutto ad alcuni italiani che fanno casino, rischiando di far fare una brutta fine alla figlia. Questa è tutta una storia nella storia, assolutamente ed inutilmente pesante. Sembra tutto finito con il ritrovamento della piccola. Invece no, perché subito dopo Angelina muore avvelenata. Tutti i sospetti cadono di nuovo sul paki, che ha motivi e mezzi per poterlo fare. Qui si apre tutta una parte poco sostenibile, allacciando i problemi di lavoro di Barbara, le sue delusioni verso Taymullah, il suo affetto per Hadiyyah, le sue stupidaggine con i giornalisti, i tentativi di ricatto e contro-ricatto con il detective inglese. Alla fine, e con molta fatica, sarà proprio Barbara, guardando un video che riprende Angelina e Taymullah alla TV, con tutti gli altri attori sullo sfondo, a risolvere il rebus. Intanto però ci siamo anche dovuti sorbire: le mosse sbagliate di Barbara in tutta Europa, Lynley che non sa che pesci prendere, Lo Bianco che litiga con il suo superiore, ma che alla fine sarà lui a risolvere brillantemente il caso (tra l’altro con un piccolo trasporto amorevole verso Barbara assolutamente inspiegabile). Come detto, alla fine, Barbara riguadagna punti avendo risolto il caso, molti cattivi, ma non tutti, vengono puniti, Taymullah e Hadiyyah si spera che non si facciano più vedere, Lynley, forse, comincia una nuova storia. Vedremo alle prossime puntate (ne sono uscite due in America). Ora direi che basta anche con questa tramona, un po’ troppo lunga, così come il libro. La storia non è sostenibile sempre, e questo non va a favore dell’autrice. Buoni, al solito, alcuni momenti ambientali. Personalmente, ovvio, ho apprezzato Lucca, oggetto di frequentazioni recenti e discretamente soddisfacenti. Mai dimenticare le passeggiate sui bastioni e la cena al ristorante in piazza Anfiteatro. Scusate la lunghezza, ora si passa ad altro.
“A volte non vediamo le persone come sono davvero. Preferiamo credere che siano come le vogliamo vedere noi, perché la verità sarebbe troppo dolorosa.” (223)
Martin Cruz Smith “Tatiana” Repubblica Agenda Noir 4 euro 7,90
[A: 27/07/2015– I: 28/12/2017 – T: 29/12/2017] - && e ½
[tit. or.: Tatiana; ling. or.: inglese; pagine: 283; anno 2013]
Un libro da fine anno, letto nelle more delle mie mansioni infermieristiche tra Balduina e Nomentano. Un libro che mi ripropone a distanza di anni un personaggio interessante, nei suoi inizi, ma che si è un po’ perso per strada. Cruz Smith, agli inizi degli anni ’80, fece un discreto boom editoriale con il suo “Gorky Park” dove mise in campo il poliziotto, allora sovietico, Arkady Renko. Ambientando le sue avventure in una Mosca in ebollizione, ma ancora non disgregata. Ricordo infatti a chi non li avesse presente che i primi tre libri pubblicati tra il 1981 e il 1992 formano una trilogia che culmina con la caduta dell'Unione Sovietica, nel Colpo di Stato dell’agosto del 1991. L'azione di “Gorky Park” si svolge prevalentemente in Unione Sovietica, “Stella polare” è ambientato a bordo di un sovietico peschereccio nel Mare di Bering mentre “Piazza Rossa” si destreggia tra la Germania occidentale e la Russia sovietica dell'era Glasnost. “Havana Bay” è ambientata a Cuba; “Lupo mangia cane” è ambientato nelle aree colpite dal disastro di Chernobyl. Mentre “Il fantasma di Stalin” restituisce Arkady a una Russia ora presieduta da Vladimir Putin, ed è seguito da “Tre stazioni” e “Tatiana” che per ora conclude il ciclo, tutte ancora a Mosca, ad illustrare il degrado attuale della Russia. Il difficile percorso di Cruz Smith è farci vedere come si evolve il personaggio di Arkady, nato culturalmente nella nomenklatura, a fronte anche dei cambiamenti ambientali. Sempre pronto a combattere bugie e corruzioni, anche per lavare l’onta di aver avuto un padre generale e stalinista, dopo la caduta del regime fa anche esperienze in Occidente. Ma anche da queste viene deluso, che ovunque c’è malaffare e corruzione. Così che ritorna stabilmente in Russia, cercando di afre quello che sa fare meglio. In questo, da “Lupo mangia cane”, aiutato da Zhenya, un orfano di Chernobyl con problemi di socializzazione, conosciuto per caso da Arkady che diverrà, nonostante problemi quasi insormontabili, il suo miglior amico ed una sorta di padre putativo. Ultimo elemento distintivo è anche la presenza, per alcune puntate, di donne cui Arkady si lega, almeno temporaneamente. Così abbiamo Irina, per le prime tre uscite, poi per altre tre la dottoressa Kazka. Ma niente è stabile in questi anni turbolenti. Così che questo ultimo romanzo si apre ancora una volta sulle ultime miserie putiniane: mafiosi che muoiono e giornalisti scomodi che “si suicidano”. Mentre quindi Arkady ed il suo aiutante Orlov stanno con gli occhi aperti per vedere se si scatena qualche lotta di mafia in seguito alla morte, violenta, del mafioso Grigorenko, una giornalista, Tatiana Petrovna, autrice di articoli scomodi per tutti, casca dal balcone di casa sua. Suicidio o omicidio? Benché non coinvolto direttamente, essendo Tatiana amica di amici, Arkady cerca di capirne di più, scoprendo ben presto che il corpo è sparito, e poi cremato. Tra l’altro, Tatiana era in possesso di un taccuino di un interprete pentalingue che aveva fatto da tramite in una riunione poco chiara a Kaliningrad. Anche l’interprete muore. E Arkady scopre che la riunione era presieduta proprio da Grigorenko. Senza molto mordente, seguiamo allora il figlio del boss che cerca di impadronirsi del taccuino, Arkady che non ne capisce un acca, mentre Zhenya, in rotta con il padre putativo, comincia ad avere dei barlumi. Aiutato da Lotte, una sua coetanea e l’unica che è riuscita a batterlo agli scacchi. Mentre Zhenya e Lotte, faticosamente, e pericolosamente, arrivano a decifrare il tutto, dando ad Arkady elementi per incastrare il figlio del boss, dei cinesi mafiosi essi stessi, nonché qualche intrallazzone del Ministero della Difesa russa, Arkady sposta il suo raggio investigativo a Kaliningrad. Dove, scavando nei misteri locali, scopre che Tatiana è ancora viva, che la “suicidata” è la sorella, che ci sono appunto trame mafioso-istituzionali da sventare. Cosa che fa operando al meglio, anche se non entro nel come e nei perché. Né in chi c’è e chi no. Ovvio, dato il “tipo” Arkady che finisca anche a letto con Tatiana, mentre nasce una interessante simpatia tra Zhenya e Lotte. Vedremo se sfocerà in qualcosa di meglio. Che questo libro, appunto, vale lo spazio di una vacanza natalizia. Ma che ha due meriti collaterali, anche se dal libro poco dipendenti. Il primo è di portare alla ribalta l’exclave di Kaliningrad, cioè di una parte di territorio di uno stato sovrano che giace all'esterno dei confini della nazione-madre. Nella fattispecie poi, Kaliningrad non è altro che la vecchia Köningsberg, quella che diede i natali, in epoca prussiana, al grande Immanuel Kant. L’altro merito è che, parlandone amichevolmente, è nata l’idea di organizzare un viaggio tra quelle zone, magari puntando anche a Smolensk e San Pietroburgo. E sapete che quando si parla di viaggi, il vostro lettore è sempre in prima linea. Vedremo, anche se sarà difficile.
“- Tu non sei un detective e nemmeno un investigatore. – Sono un poeta, il che è più o meno la stessa cosa.” (146)
Faye Kellerman “Kippur – Il giorno dell’espiazione” Repubblica AgendaNoir 15 euro 7,90 (in realtà, scontato a 4,75 euro)
[A: 03/10/2015 – I: 13/01/2018 – T: 17/01/2018] - &&& -
[tit. or.: Day of Atonement; ling. or.: inglese; pagine: 410; anno 1991]
Non intendo replicare la (mia) introduzione al primo libro di Faye Kellerman di cui scrissi un paio di anni fa, se non per riprendere alcune temi e correggere imprecisioni. Faye non è mia coetanea, come scrissi, ma ha un annetto di più, essendo del luglio del 1952. Ma è vero che a circa 35 anni comincia a scrivere la saga di questi detective – investigatori ebrei ortodossi che vivono a Los Angeles e sono ben inseriti quanto meno nella cultura americana, anche se vi permangono mantenendo i loro riti e, tendenzialmente, il loro modo di vivere. Due anni fa parlai del primo libro della serie, in termini giustamente e concordemente elogiativi. Un tentativo onesto di dar vita ad una descrizione inusuale del mondo americano. Questa seconda lettura (che tuttavia è il quarto libro della serie) ribadisce alcuni punti interessanti, anche se a volte è lenta, e fuori contesto (giallo). Intanto, nei due libri “saltati” i due protagonisti della serie, Peter Decker e Rina Lazarus, sono sempre più fidanzati ed alla fine sposati, tanto che questo quarto libro inizia con la loro luna di miele. Peter ha una figlia dal suo precedente matrimonio, Cindy, che mi si dice entrerà meglio nella serie più avanti (ho scoperto che alla fine sono circa 25 i libri prodotti da Faye su questo tema). Rina ha due figli, Sammy e Jacob, dal suo primo matrimonio (il primo marito è morto per un tumore al cervello), ed è un’ebrea ortodossa (così come l’autrice). Ho inoltre scoperto, nelle more del libro, la differenza tra ebreo ortodosso (quelli che seguono più strettamente e si attengono con maggior fedeltà alle leggi della Torah scritta e di quella orale, ricevute, secondo la tradizione ebraica, da Mosè direttamente da Dio sul monte Sinai) e la corrente (molto americana) dell’ebraismo conservativo (spesso tradotto con conservatore, con un termine inappropriato) dove le leggi orali devono essere aggiornate al momento attuale in cui viviamo (una sorta di ebraismo riformato). Mi scuso della parentesi ebraica, ma la religione è una delle componenti fondamentali della serie, che spesso ruota proprio intorno a temi religiosi. Come questo libro, appunto, che giustamente in inglese si chiama “Giorno dell’espiazione” o, in termini ebraici, “Yom Kippur”. Non solamente “Kippur” come nell’edizione italiana, che tendenzialmente non vuole dire nulla. Perché Rina e Peter, per la loro luna di miele, decidono di andare a trovare la famiglia allargata di Rina a New York (i due vivono a Los Angeles) anche perché coincide con il “Rosh haShana”, il capodanno religioso ebraico, primo dei 10 giorni di pentimento, durante i quali l’ebreo esamina il proprio anno passato per individuare i peccati commessi, e culmina appunto con lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, quando, pentiti, si viene redenti dai peccati. A New York, Peter ha un primo grande stravolgimento: scopre, durante il “Seder”, la cena di capodanno, che una stretta amica della famiglia Lazarus, Frida Levine, non è altro che la sua madre biologica, che lo abbandonò in fasce e lo diede in adozione. Per questo, anche se adottato da una famiglia cattolica, essendo l’ebraismo matrilineare, Peter è ebreo a tutti gli effetti, e non un convertito. Conosce quindi i suoi fratellastri Ezra, Shimon e Jonathan (costui pecora nera, in quanto conservativo e non ortodosso). Ovviamente, sia per non essere lui in imbarazzo, sia per non sbugiardare la madre Frida davanti ai parenti, entrambi tacciono di questa relazione, anche se il libro è pieno di pagine su questo tema, e sul tema dell’abbandono, ed altri accidenti minori (quello che rende un po’ meno vivace il libro stesso). Secondo e più importante accadimento, Noam, il secondo genito di Ezra, scappa di casa, insieme ad un mascalzone psicopatico amante dei coltelli di nome Hersh. Tutta la prima parte è dedicata alla ricerca di Noam all’interno della comunità ebraica newyorchese, dove Faye ci introduce in tutta una serie di ritualità ebraiche locali. Nella seconda, una volta scoperta la fuga di Noam e Hersh a Los Angeles, è invece dedicata alla ricerca dei due da parte di Peter e Rina, tornati a casa. Salto tutta una serie di passaggi, poco rilevanti (e purtroppo anch’essi discretamente pallosi), per arrivare all’epilogo. Che Hersh, senza soldi, rapina, con o senza Noam, gay isolati, arrivando anche ad ucciderli e sfigurarli con i coltelli. In base alla conoscenza di Peter del territorio, lui e Rina arriveranno a scovarli, anche se, durante la caccia, il loro rapporto è spesso messo in crisi dal protettivismo di Peter e dall’indipendenza di Rina. Come già ci aspettiamo dal titolo, alla fine tutto si condenserà nello “Yom Kippur”, dove, visto che avete molta immaginazione, potete indovinare cosa accadrà e come. Alla fine, c’è poco di giallo, di nero o di thriller, e molto di religione e rapporti umani. Non che sia un peccato, ma la resa finale è un filo inferiore alle attese.
Anne Holt “Quota 1222” Einaudi euro 13
[A: 01/11/2016 – I: 16/02/2018 – T: 18/02/2018] - &&& -
[tit. or.: 1222; ling. or.: norvegese; pagine: 354; anno 2007]
Ottavo capitolo della saga che la scrittrice norvegese Anne Holt dedica al suo personaggio principe, Hanne Wilhelmsen. Pur avendoli letti quasi tutti (ho saltato un paio di romanzi molto precedenti), ed avendo letto anche la saga parallela dedicata ai detective Vik&Stubø, mi sono perso, nelle more, il capitolo in cui la nostra Hanne viene colpita da una pallottola alla spina dorsale che la costringe da quel momento in poi su di una sedia a rotelle. So di averne letto, ma ho scordato quando. In ogni caso, ormai è assodata la disabilità di Hanne, e qui, in un romanzo interessante anche se con qualche caduta (di stile, ah ah), viene imbastita una trama interessante. Come per far fare un salto all’indietro nelle ormai avanzate tecniche poliziesche, e per fare in modo che la nostra disabile possa muoversi (ah ah, di nuovo) nelle indagini, la scrittrice imbastisce una trama molto “teatrale”. Hanne si sta recando da Oslo a Bergen per un consulto sui suoi problemi motori. Non volendo prendere l’aereo, per evitare imbarazzi, decide di usare il treno. È un inverno da paura, ed il treno viene coinvolto in un incidente ferroviario, quando raggiunge quota 1222, nella cittadina di Finse. Tutti i quasi duecento passeggeri vengono allora accolti da un albergo locale e dalle sue dependance. Bloccati dall’uragano Olga, sono costretti ad aspettare il salvataggio. E nelle more, cominciano a morire delle persone. Prima il macchinista per lo scontro, e ci può stare. Poi un passeggero per infarto. Infine, due preti, o meglio due ecclesiastici, che i luterani norvegesi sono un po’ particolari. Il primo con un colpo di pistola, il secondo con un ghiacciolo affilato. Nell’andamento claustrofobico dell’isolamento forzato, Hanne, riconosciuta da un dottore come poliziotta, viene coinvolta nell’imbastire un’indagine. Che sarà molto complicata proprio per la situazione estrema che si ritrovano ad affrontare, nonché per alcuni elementi che concorrono a complicare ulteriormente il tutto. C’è una carrozza misteriosa attaccata la treno che forse porta un personaggio famoso o forse un personaggio pericoloso, visto che è guardata a vista da gente armata. Ci sono due (forse) curdi che guardano, controllano, e non socializzano. C’è il giovane Adrian, quindicenne in fuga solitaria, che prima si attacca ad Hanne, poi trova meglio unirsi in comunella con Veronika, una ventiquattrenne molto dark e molto stramba. C’è infine un volto televisivo (giornalista? Capopopolo? Altro?) molto islamofoba, salutista e soprattutto desiderosa di prendere lei in mano la situazione, non avendone però capacità, ma solo carisma mediatico (e questa volta non basta). A Finse, invece, ci sono Grieg, che ha coordinato i soccorsi e che diventa l’aiutante preferito di Hanne, e Berit, la direttrice dell’albergo, energica e molto organizzata. In tutto questo Hanne, per seguire il filo delle morti violente, non può che affidarsi al ragionamento, all’osservazione, ed anche a domande che, qui e là, affiorano mentre la situazione (metereologica) continua a precipitare. La capacità dell’autrice è di restituirci l’atmosfera di chiusura che si respira nell’albergo, le tensioni dovute all’aumentare del maltempo, ed alla comprensione, di tutti, che “c’è un assassino tra noi”. Quello che per Hanne risulta molto strano, tra l’altro, è che il primo morto, Cato, era anche molto conosciuto. Quasi che tutti, prima o poi, hanno avuto a che fare con lui. Non solo passeggeri del treno, ma anche Grieg e Berit, nonché Roar, il secondo morto. Certo, questi era anche lui un prete, ed avevano (almeno così capiamo) trascorsi comuni. Capiamo anche che Roar viene ucciso perché, come dice ad Hanne, ha capito chi ha ucciso Cato. Sarà soltanto risalendo ad una vicenda di una decina di anni prima che anche Hanne ha l’illuminazione. In un bel finale, quando finalmente arrivano i soccorsi, e tutti vogliono tornare a casa, che Hanne, scenograficamente alla Maigret, ricapitola gli avvenimenti e svela, ai presenti ed a noi, chi ha fatto cosa, come e perché. Ecco, mentre tutta la costruzione della trama interna all’albergo isolato, in un crescendo di tensione, ha un suo fascino, lo svelamento l’ho trovato un po’ moscio, quasi appiccicato, e chi ne legge mi saprà dire. Come un po’ messi a caso, accenni vari alla vita altra di Hanne, a Nefis che l’aspetta, alla bambina ed alle sue vicende private. Vedremo come si evolverà nel futuro. Per ora, continua ad essere una buona lettura, e, ripeto, una interessante costruzione “anti-tecnologica”.
Terza trama di aprile, e per tirarci un po’ su un allegato di malizie “scandalose” per sorridere e rimanere allegri.
Mi scuso anticipatamente di qualche mancanza di presenza, ma da un lato l’allestimento campagnolo prende più tempo e spazio di quanto pensavo all’inizio. Dall’altro, come i miei più vicini sodali sanno, si avvicina il momento del mio viaggio celebrativo ed augurale. Per cui sono costretto a lasciarvi senza altri commenti per almeno due settimane. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

APRILE 2018
Per questo aprile effervescente eccoci ad una serie di libri “scandalosi”.

COMPRESSE EFFERVESCENTI PER BRIVIDI DA RELAZIONI SCANDALOSE

Libri citati
Pierre Choderlos de Laclos       “Le relazioni pericolose”
Vladimir Nabokov                    “Lolita”
Marguerite Duras                    “L’amante”

Pierre Choderlos de Laclos “Le relazioni pericolose”
È uno dei capolavori della letteratura francese del XVIII secolo nonché uno dei più famosi e fortunati romanzi epistolari di tutti i tempi. Tutt’altro che datato, “Le relazioni pericolose” fa ancora venire i brividi per l’attualità di alcune sue tematiche. I brividi di passioni pericolose diventano brividi di paura al pensiero di quanto facilmente la seduzione possa trasformarsi da “ars amatoria” in arma di distruzione di massa. E quello che accade in questo romanzo in cui nessuno si salva dalle spietate e subdole macchinazioni ordite dal visconte Valmont e dalla marchesa Merteuil. I due perfidi libertini, astute anime nere che pianificano diaboliche mosse come strategie di guerra, agiscono con la destrezza di esperti burattinai, muovendo con i fili di una seduzione fatale la giovane e ingenua Cécile, l’appassionato Danceny e la romantica madame de Tourvel, manovrandone con destrezza a proprio vantaggio insicurezze, debolezze e pulsioni. Il fine unico di questa messinscena è appagare la propria vanità, dimostrando attraverso giochi erotici e intellettuali il potere di manipolare le persone. Il secolo dell’Illuminismo sta volgendo al termine, i lumi cominciano ad affievolirsi, la ragione ha perso il suo lume trasformandosi in esercizio di malefica persuasione e l’intelletto lascia il posto all’astuzia, perversa forma di plagio che cerca di soggiogare anche l’amore. Il libertino non è più un anticonformista, ma il licenzioso e dissoluto sostenitore di una condotta immorale che si traduce nell’esercizio di una perversa e narcisistica volontà di dominio. Dietro la maschera di nobili aristocratici, la marchesa e il visconte si dilettano a compiere misfatti terribili in nome della propria libertà di divertirsi. Siamo nel 1782 e la Rivoluzione francese è alle porte: voleranno teste e cadranno maschere, presto i lumi si spegneranno definitivamente, i cuori si infiammeranno di Romanticismo e l’amore, sofferto e disperato, trionferà. Ma non nel romanzo di Choderlos de Laclos dove l’amore viene sconfitto e mortificato anche se i malvagi vengono puniti, feriti là dove volevano trionfare, vittime di un delirio di onnipotenza che li conduce all’autodistruzione. Valmont muore ma, cosa più atroce, solo dopo aver perso l’amore, lui che pensava di esserne immune, mentre la marchesa perde la sua rispettabilità. Così, da romanzo incentrato su “liaisons amoureuses”, “Le relazioni pericolose” diventa un drammatico e amaro atto d’accusa contro cinismo, ipocrisia e vanità.
Come tutte le storie in cui passione e seduzione si mescolane senza veli e freni, mostrando fatti e misfatti sotto le lenzuola anche “Le relazioni pericolose” fu considerato all’epoca empio e scandaloso. Scritto con uno stile raffinato ed elegante, non c’è nulla di pruriginoso in questa sottilissima indagine sui meccanismi delle emozioni umane. Se vi state chiedendo dove siano i brividi promessi, è presto detto. In questa storia dove si parla d’amore dalla prima all’ultima pagina nessuno ama veramente ma tutti vengono ingannati e tutti si ingannano in un perverso gioco erotico. Come dichiara il frontespizio del romanzo, si tratta di “lettere raccolte da una società e pubblicate per l’istruzione di qualche altra” e, infatti, quello che ancora oggi “Le relazioni pericolose” ha da dire, mette i brividi. Di eros, ma anche di paura al pensiero di come l’amore possa diventare un pericolosissimo strumento di potere e manipolazione. I libertini oggi sono fuori moda, ma la vanità di una società che ruota intorno alla promozione della propria immagine rischia sempre di trasformare la seduzione in un gioco mistificatorio per mostrare la capacità di dominare e di vincere, sempre, anche in amore. Tutto sommar fa meno male un colpo di frustino sul sedere dato da Mr Grey nelle “Cinquanta sfumature” che le menzogne di tanti visconti e marchese in borghese.      “Le relazioni pericolose” è indicato per i soggetti a rischio di influenza. Influenza negativa, ovvero chi è particolarmente sensibile al potere ammaliatore di seduttori seriali. L’incanto della prosa di Choderlos de Laclos svela tutta la forza mistificatoria della parola, aumentando le difese immunitarie in chi, assetato d’amore e attenzioni, è afflitto da uno stato confusionale che gli impedisce di discernere verità e bugie. Avviluppando con la sua trama teatrale, il romanzo stimola la creazione di anticorpi utili a contrastare il rischio di essere imbambolati e raggirati, mettendo in guardia dalle “liaisons dangereuses”.
La sua formula epistolare lo rende particolarmente tollerato dai lettori amanti del gossip. Leggendo il carteggio tra il visconte e la marchesa, l’impressione è quella di impicciarsi di fatti altrui e, così, tra fremiti di curiosità pettegola e di piacere sensuale, si rabbrividisce scoprendo le falsità, gli inganni, le invidie e le cattiverie che possono nascondersi dietro l’attrazione.
In caso la seduzione non fosse mai stata la vostra arma vincente, la lettura vi garantirà un rapido sollievo unito alla piacevole sensazione di essere una persona onesta e pulita.
Per un’eventuale terapia cinematografica sostitutiva, si può ricorrere a “Le relazioni pericolose” di Stephen Frears con John Malkovich, Glenn Close, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman e Keanu Reeves per una trasposizione piuttosto fedele anche se un po’ accademica. In alternativa, “Valmont” di Milos Forman con Annette Bening e Colin Firth è una versione più originale che si concede anche qualche libertà.
Vladimir Nabokov “Lolita”
Pubblicato nel 1955 da una casa editrice erotica francese, “Lolita” ha letteralmente e letterariamente travolto il pubblico diventando subito un best seller. A sconvolgere, e stuzzicare, i lettori è stata la scelta di raccontare la relazione molto pericolosa e piuttosto morbosa tra un annoiato professore universitario e una dodicenne smaliziata e provocante. L’impatto del romanzo è stato tale che non solo ha rafforzato lo stereotipo dell’uomo maturo che perde la testa per una ragazzina (la sua figliastra, per giunta), ma la parola “Lolita” è diventata sinonimo di adolescenti con la tendenza ad attirare l’attenzione di uomini generalmente più grandi con una precoce e ambigua carica erotica fatta di malizia e innocenza. L’incipit ci catapulta subite al nocciolo della questione: “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”. Come un pensiero che s’insinua nella mente (per poi scendere verso i lombi) e non l’abbandona più, la dodicenne diventa l’ossessione di Humbert Humbert, trasformandone la vita in un inseguimento folle per le strade degli Stati Uniti nel tentativo di afferrare l’inafferrabile, quella luce, quel fuoco fatuo che lo porterà dritto nel buio di una prigione, oltre che nell’oscurità dell’animo umano. Dolores è il vero nome di Lolita, ragazzina spregiudicata, ribelle, noiosa viziata, insensibile, egoista, bella, sfuggente ed esasperatamente monella. Perdonate il gioco di parole, ma da quando il professore la vede per la prima volta, sono “dolores de panza”: per possederla si spinge, senza troppe remore, oltre i limiti dell’abiezione umana, arrivando alla pedofilia, all’incesto e all’omicidio. Humbert rievoca la sua delirante storia dalla cella della prigione dove è richiuso per aver assassinato l’uomo che gli ha portate via la sua Lolita. Mentre aspetta di essere giustiziato, invece che tacere, almeno per pudore, racconta la sua ossessione cercando perfino di accattivarsi la simpatia del lettore, giustificando in chiave psicanalitica la sua passione malata. Ma il lettore non deve lasciarsi manipolare dai ripetuti tentativi del protagonista di nobilitare la sua perversione, Humbert è colto e astuto e il rischio è di diventare suoi complici. Non vi lasciate intenerire perché non è affatto pentito: “In fondo io potrei anche accertare di essere messo in carcere per aver violentato una ragazza ma non per aver ucciso l’uomo che me l’ha portata via. Quelle quello che ho fatto è stato giusto”. A rendere spaventoso e potente il romanzo di Vladimir Nabokov è la scelta di non ricorrere a parole o dettagli osceni per raccontare questa relazione erotica e perversa. Il suo stile è elegante, allude, evoca senza mai descrivere. Come già per “Le relazioni pericolose”, anche se in maniera diversa, ci ritroviamo scossi da fremiti che hanno a che fare con la paura più che con l’eros. A spaventare è ancora il pericoloso fascino che la parola e la seduzione esercitano sull’animo umano, fascinazione che possiamo provare sulla nostra pelle durante la lettura di “Lolita”. Nabokov, infatti, è un principe del male, un mago, un genio perché irretisce il lettore con il suo stile, lo tiene incollato alle pagine, voglioso di ascoltare le sue parole in uno stato di eccitazione, trasformando così il disumano protagonista, il depravato letterario per eccellenza, in un affabulatore capace di incantare con le parole, attirando nella sua ragnatela, invischiando nella sua torbida storia, coinvolgendo a tal punto con la sua sfacciata confessione da spingere quasi ad assolverlo. Humbert parla divinamente (perché Nabokov scrive divinamente) e si corre il rischio di perdonargli tutto. Diverso, ma altrettanto perverso, è il potere seduttivo di Lolita. Lei è una “ninfetta”, ovvero una di quelle “elette creature” “comprese tra i confini dei nove e i quattordici anni che rivelano a certi ammaliati viaggiatori la propria vera natura che non è umana, ma di ninfa, cioè demoniaca”. Riesce diabolicamente a impadronirsi della mente di Humbert con la possessione erotica, esercitando il suo precoce potere sessuale. Non c’è traccia d’amore in questo romanzo, ma solo ossessione, e non si palpita di passione né di altro piacere se non quello dell’illecito e del proibito.
Se assunta nelle giuste dosi e con mente ben disposta, la scrittura di Nabokov aiuta a contrastare i rischi della seduzione verbale e sessuale (la cura si può affiancare, per affinità, a una somministrazione delle “Relazioni pericolose”). Se ne prescrive una lettura approfondita a tutti quegli uomini che rischiano di essere contagiati dal fascino perverso delle ninfette, ma anche a tutte le potenziali ninfette che giocano con la propria carica seduttiva stuzzicando il piacere altrui. Se il titolo del romanzo è diventato sinonimo di ragazzine precoci e maliziose con la tendenza a sedurre uomini più grandi, vuol dire che la malattia è piuttosto diffusa. Il mondo è pieno di Lolite, ma anche di Humbert, perciò è bene immunizzarsi per evitare un eventuale contagio.
Come coadiuvante della cura, sarebbe opportuno procurarsi la versione cinematografica di Stanley Kubrick. Come lo scrittore russo, che partecipò alla sceneggiatura, anche il regista ha lavorato sull’erotismo soprattutto per sottrazione, per allusioni ed elisioni, riuscendo a stuzzicare morbosamente la curiosità dello spettatore senza mai scadere nella volgarità. Basta un piede mosso con ben studiata nonchalance per trasformare la giovane Lolita (nel film più grandina per evitare problemi con la censura) in una maga Circe minorenne. James Mason è Humbert, Sue Lyon è la sua ossessione mentre uno straordinario Peter Sellers è l’uomo che gliela porta via.
Un consiglio: un’efficace compressa per brividi di relazioni scandalose è “L’amante” di Marguerite Duras. Quando fu pubblicato nel 1984 fece scandalo per il linguaggio forte e la cruda veridicità della trama che racconta il legame d’amore e sesso tra un’adolescente e un uomo maturo, un’appassionata storia d’amore che sfida le convenzioni. Ambientato nell’Indocina degli anni Trenta e fortemente autobiografico, il capolavoro delia scrittrice francese è una cura intensa, forte e sconvolgente con un persistente retrogusto dolce e malinconico.

Commenti

Non ho letto il primo, pur avendo visto il film, quindi non ne parlo. “Lolita” invece rappresenta uno dei miei due punti neri: uno dei due libri che ho iniziato e non sono riuscito a terminare. Mi ha annoiato dopo poche pagine. Chissà se quando ne leggerò (e quando vi dirò l’altro libro abbandonato). Mentre ho letto, e leggerò ancora di Marguerite Duras.
Marguerite Duras “L'amante” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 18 settembre 2011]
La scrittura è la solita, difficile andata su e giù per la lingua, che a volte mi lascia indietro. Ma il libro è bello, intenso, in alcuni punti folgorante. Ho sempre un rapporto difficile con la scrittrice e non sempre ne sono riuscito ad apprezzare scritti (come l’ultimo recensito su Occhi blu…). Qui in definitiva però mi è piaciuta, soprattutto per lo sforzo autobiografico di ricostruire, più di cinquanta anni dopo, una vicenda di formazione della giovane Marguerite. Siamo intorno agli anni 30, in Indocina, e lì, sulle rive del Mekong sboccia l’amore proibito tra la quindicenne francese ed il ricco e trentenne cinese. Amore proibito dalle convenzioni, dall’età dei protagonisti, osteggiato dalle due famiglie, inviso alla società coloniale che comunque non accetta relazioni tra asiatici ed europei. Il racconto, tutto in prima persona, senza dialoghi, va su e giù tra le vicende, tra le piccole cose della vita, ma non è solo un racconto d’amore o sull’amore. Perché è un racconto sulla vita della giovane francese sperduta nella landa indocinese. E dove la Duras racconta i piccoli e grandi drammi della sua vita: l'odio per il fratello maggiore, il rapporto conflittuale con la madre e l'omosessualità latente della stessa Duras nei confronti dell'amica Heléne. Sono folgoranti alcuni momenti (il primo traghetto sul fiume, alcune scene d’amore con il bel cinesino, il cappello da uomo in testa a Marguerite, il ritorno in Francia, la morte senza riappacificazione con la madre). E molto spesso non sono le vicende ad essere narrate, ma il modo in cui la scrittrice le vive, il modo in cui le racconta ed è sul filo dell’immaginazione che la Duras ritrova sé stessa a 16 anni. Ed è forte e duro il modo in cui esce fuori il rapporto con la madre. Ah quanto sarebbe stato bello, utile dirsi tutto in faccia, magari urlando, invece di andare avanti tra tutte le cose non dette. Ma detto di questi punti a favore, rimane questo modo di uscire dal narrato, di non concludere, di saltare qua e là nel tempo e nello spazio, senza in realtà volere (riuscire) a chiudere tutti i discorsi aperti. È qui che la scrittura si fa difficile, è qui che, a volte, perdo un po’ il filo e non riesco ad esprimere un giudizio totalmente positivo sul libro. Ma è stato utile leggerlo (ed anche veloce, che il racconto non tocca le 100 pagine). Questo, sì, un classico del Novecento (e niente a che vedere con l’orrendo film che poi se ne è tratto).
“Sono come voglio apparire, anche bella se gli altri lo vogliono, o carina … insomma posso diventare come gli altri vogliono che sia.” (19)
“Fin dai primi giorni [del nostro amore], sapendo che è impossibile un avvenire in comune, eviteremo di parlare dell’avvenire.” (43)

Finalino

Ovvio che il termine scandaloso l’ho anche io usato in termini impropri, che nulla ha di scandalo, soprattutto il libro della Duras. Ripeto, di Nabokov ho letto altro, e con piacere. Ma della grande scrittrice francese leggo e leggerò ancora.


domenica 8 aprile 2018

Maigret 9 - 08 aprile 18


Come dicevo l’ultimo Maigret inviato, ecco che questa volta passano ben 7 mesi tra le due scritture. Tuttavia i mesi non sono passati invano, per la mia scrittura su Maigret, che da questo ultimo volume “all american”, ho aggiunto uno specchietto finale ad ogni trama dove riporto il luogo dell’azione, i personaggi e i tempi del romanzo. Un lavoro di ricerca che mi ha divertito e che spero sia utile a voi lettori. Per questo libro che risale nei giudizi assestandosi ad un buon livello generale, dove leggete anche le note biografiche, per conoscere meglio l’autore ed il protagonista.
[A: 13/07/2015 – I: 15/12/2017 – T: 26/12/2017] - &&&&
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 789; anno 2015]
Un volume di Maigret tutto americano. Anzi, tutto scritto nella fattoria della Roccia Ombra di Lakeville. Cinque scritti interpuntati da altri scritti non-Maigret, e dalla gravidanza e poi nascita dell’unica figlia di Simenon, Marie-Jo. Rispetto al precedente volume, anch’esso “lakevilliano” questo non è proprio uniforme, che Simenon affronta una serie di temi, a lui cari “a prescindere”. Nell’ordine, l’invecchiamento e la pensione, la giustizia, il rapporto con le donne, il rapporto con i bambini, l’empatia con le vittime. Sono temi che Simenon ha nel cuore, si sente, e la resa è migliore delle precedenti uscite.
Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
Maigret e l'uomo della panchina
11 – 19 settembre 1952
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
Gennaio 1953
Maigret ha paura
20 – 27 marzo 1953
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
3 luglio 1953
Maigret si sbaglia
24 – 31 agosto 1953
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
16 novembre 1953
Maigret a scuola
1 – 8 dicembre 1953
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
13 marzo 1954
Maigret e la giovane morta
11 – 18 gennaio 1954
Scritto a Shadow Rock Farm, Lakeville, Connecticut (Stati Uniti d'America)
11 giugno 1954
[tit. or.: Maigret et l'homme du banc; ling. or.: francese; pagine: 11–171 (160); anno 1953]
Simenon è tornato ormai in America, nella routinaria vita tra Lakeville con la nuova famiglia, e la vicina casa con la prima moglie ed il figlio maggiore. Un periodo di relativa calma, dove il nostro continua ad alternare gli scritti “Maigret” a quelli che considera puri e duri. Calma che è interrotta, ma ancora non lo sa, dalla nuova gravidanza di Denise. Quindi in settembre, con la solita settimana che dedica alla scrittura dei gialli, sforna un nuovo episodio di Maigret. Al solito, tuttavia, oltre ad un’idea (quasi) nuova, si accompagna con elementi o ripresi da precedenti uscite o mescolati un po’ alla rinfusa, dato che ogni tanto fa anche lui confusione con nomi ed altro. Tra l’altro, secondo me, questo uomo della panchina si colloca quasi a metà strada tra le sue produzioni, che c’è poco del giallo in quanto tale e molto di atmosfera e di riflessione. In particolare sulla vita che una vorrebbe vivere se potesse, sull’impossibilità di praticarla, soprattutto in presenza di elementi negativi. La storia, in realtà, è discretamente lineare, si svolge in un ristretto circolo spaziale (poche centinaia di metri intorno a Boulevard Saint-Martin) e nel solito breve spazio temporale (l’inchiesta dura realmente dal 19 al 23 ottobre, anche se la fine finale si avrà solo più in là nel tempo). Proprio il 19 ottobre (casualmente il compleanno di mia madre) viene trovato morto il signor Thouret. Pugnalato. In poche pagine e pochi tratti, Simenon ci fa entrare nel suo mistero: perché il magazziniere Thouret passeggiava in Boulevard Saint-Martin in un’ora in cui avrebbe dovuto lavorare da Kaplan e Zanin, l’ufficio che lo aveva in forze da 25 anni? Perché Thouret aveva le scarpe gialle invece di quelle nere con cui era uscito di casa? Maigret vede subito che la famiglia Thouret è problematica: la moglie invidiosa delle sorelle che hanno mariti che lavorano in ferrovia, figlia finto ribelle, con giovane e balordo amante. Soprattutto, Maigret scopre che Kaplan e Zanin ha chiuso da anni, che Thouret ha continuato a far finta con la moglie di lavorare, che dopo un periodo di poca fortuna ha cominciato ad avere molti soldi, che spesso stava seduto su di una panchina sempre lì sul Boulevard, che frequentava un uomo dalla faccia buffa. Infine scopre che Thouret aveva affittato una stanza da Mariette Gibon, una tenutaria di stanza ad ore (capite a me), dove si incontrava con la sua amante Antoinette. Simenon cerca un po’ di imbrogliare le carte, facendoci credere che Albert, l’amante di Monique la figlia di Thouret, abbia una parte nella di lui morte. Anche perché Monique era l’unica della famiglia che conosceva la doppia vita del padre, e Albert aveva a volte frequentato la casa della signora Mariette. Ma i due volevano solo soldi per fuggire in Sud America, accumulando menzogne su stupidaggini. Anche Mariette, ed il suo mantenuto Marco, sapevano dei soldi di Thouret, tanto che Maigret posiziona il fido Lapointe a controllare i movimenti della casa. Ma da dove venivano i soldi? Alla fine, arrestando l’uomo dalla faccia buffa, che non è altro che Jef Schrameck detto Fred il Clown, ex-acrobata di circo, dedicatosi poi a furti in appartamenti e negozietti (inciso da Fred il Clown rimando la mente a “Maigret e la stangona” dove c’era invece Fred il triste). Thouret, in realtà, faceva il palo individuando dove, come e quando effettuare il colpo. Jef esegue e divide i soldi. Peccato che a Jef servano solo per perdere ai cavalli, mentre a Thouret servono per costruirsi la vita che avrebbe voluto. Lontano dalla moglie e dalla figlia, insieme alla dolce Antoinette. Peccato che chi cerca di fuggire utilizzando menzogne, per Simenon fa sempre una fine poco consona, non riuscendo a godere i frutti delle sue attività non dichiarate. Tra l’altro, Thouret aveva poco senso pratico, che i soldi rapinati li teneva in stanza, dove sapevano che erano lì, sopra l’armadio: la figlia Monique, il di lei amante Albert, la di lui amante Antoinette, la tenutaria Mariette, il di lei amante Marco, e la prostituta Arlette. Uno di loro commissiona la cattiva azione. Uno di loro la esegue. Chi, come e non vi dico perché, dato che è il solo ovvio, lo lascio agli appassionati lettori del corpus maigrettiano. Io torno su alcuni punti accennati. Il primo è l’utilizzo di materiale di tutta la sua produzione precedente. Infatti, questo uomo dalla panchina deve molto sia ad uno dei primi romanzi, “Il defunto signor Gallet”, sia ad un racconto di 7 anni prima. Come in Gallet, abbiamo i protagonisti che non hanno il lavoro che crede la famiglia, abbiamo una moglie non in sintonia, abbiamo la prole (lì il figlio, qui la figlia) che vuole andare via, andare verso il Sud (della Francia in Gallet, dell’America in Thouret). Nel racconto del 1946 (“Non si uccidono i poveri diavoli”) abbiamo alter coincidenze: i due uomini (Thouret e Tremblet) hanno una seconda casa, nella quale allevano canarini, nella quale ricevono l’amante, e dove ci sono molti libri che possono leggere in pace, e vestiti di colori diversi da quelli che usano abitualmente. Mi sembra abbastanza per pensare ad un riciclo intelligente. Altre tre “chicche” finali: una serie di avvenimenti, collegano pedinamenti ed altro alla stazione della Metro di Saint-Martin. Una stazione curiosa, aperta nel 1931, ma chiusa nel 1939 (e poi mai riaperta) perché troppo oneroso mantenere tante stazioni in periodi di guerra. Stazione che negli anni Cinquanta veniva anche utilizzata come rifugio per i senza tetto. La seconda è la sbadataggine di Maigret e, come sempre, il ricordo di altre storie. Nei primi capitoli Maigret ci dice che Mariette ha tre affittuarie, quelle che “esercitano il mestiere”. Poi, durante il romanzo, ne nomina quattro: Lucile, Yvette, Olga e Arlette. Tra l’altro è propria quest’ultima che svela alcuni elementi che consentono a Maigret di capire. Per proteggerla le mette a disposizione Lapointe, come per ricordare che lo stesso ispettore, in “Maigret al Picratt’s” si era innamorato di una certa Arlette… Infine, ogni tanto butta qua e là indizi che ci permettono di costruire poi tutto il “mondo Maigret” come se fosse realmente un mondo coeso ed unico. Si cita un’indagine iniziata da una visita al dentista della signora Maigret (e si riferisce a “L’amica della signora Maigret”), si nominano i ranch del Texas (da “Maigret va dal coroner”), si entra nella biografia del nostro commissario (parla della figlia avuta e morto dopo pochi giorni, parla del suo essere orfano di madre). Insomma, un romanzo esemplare della produzione di Simenon, con i suoi alti ed i suoi bassi. Con l’empatia del commissario verso le persone che non hanno vita facile, e che fanno scelte sbagliate. Con la disperazione con cui l’autore guarda il mondo dal suo osservatorio americano. Ci resterà ancora un anno o poco più, ma già si sentono le avvisaglie dell’inquietudine.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi, Juvisy-sur-Orge
Louis Thouret, circa 50 anni, ex-magazziniere, sposato, una figlia, vittima
Émilie Thouret, moglie di Louis
Monique Thouret, 22 anni, loro figlia, impiegata
Albert Jorisse, 19 anni, fidanzato di Monique
Jef Schramek, detto "Fred le Clown", 63 anni, scassinatore
Mariette Gibon, circa 50 anni, locataria di Thouret
Marco, circa 30 anni, amante di Mariette Gibon
5 gg.
19 – 23 ottobre
[tit. or.: Maigret a peur; ling. or.: francese; pagine: 175 – 327 (152); anno 1953]
La scrittura di questo 42° romanzo di Maigret segue di circa un mese un avvenimento importante nella vita dello scrittore: il 23 febbraio, infatti, nella clinica Sharon di Lakeville nasce Marie Georges, detta Marie-Jo. La figlia di Georges e Denyse sarà battezzata pochi giorni dopo avendo come madrina l’attrice francese Jacqueline Pagnol. Nonostante questo, l’atmosfera della scrittura di Simenon invece rimane più cupa. Negli States si comincia a respirare un’aria che Simenon conosce bene e non apprezza. Quella delle persecuzioni per motivi politici, che dopo pochi mesi giungeranno al culmine (ma ne riparleremo allora). I suoi romanzi, gialli o meno, ne risentono. Sembra quasi che lo scrittore pensi comunque ai suoi grandi temi, e su quelli costruisca le trame dei suoi lavori. Qui, in particolare, Maigret si trova in vario modo a riflettere, pur nel contesto giallo, intorno alla vera colpevolezza dell’uomo che commette un atto contro la legge, alla legittimità della giustizia, ma anche alla difficoltà ed alla paura di invecchiare, legate allo spauracchio (di sicuro per Maigret, ma velatamente anche di Simenon) di andare in pensione. Siamo in un aprile piovoso, e l’azione si situa in Vandea, e precisamente a Fontenay-le-Comte. Vandea che Simenon ben conosce, avendoci trascorso un paio d’anni nel periodo 1940-41, scrivendoci 7 romanzi, ma avendone un ricordo negativo sull’amicizia e la disponibilità dei locali. Tanto che se ricordate vi fa passare un anno a Maigret quando entrò, ma non sappiamo perché, in rotta con il suo capo, e che descrive in “Maigret e la casa del giudice” del ’40. Episodio che in un’autocitazione Simenon ci rammenta nel primo capitolo. Qui però siamo a Fontenay, dove abita il suo vecchio sodale Julien Chabot, magistrato. Di ritorno da un congresso a Bordeaux, Maigret decide di andarlo a trovare. E si trova immerso in una inchiesta complicata. Ci sono tre morti, tutti con la stessa tecnica: un colpo con un tubo in faccia. Prima viene ucciso, in casa, Robert de Courçon, parente povero e mantenuto della famiglia dei possidenti della zona, i Vernoux de Courçon. Poi la signora Gibon, ostetrica che fece nascere Alain, il figlio del capostipite della famiglia Hubert. Infine il povero Gobillard, un ubriacone senza arte né parte. Anche quest’ultimo con Alain nelle vicinanze. Alain che compare sempre n prossimità, fisica o morale, delle tre vittime. Alain che studiò medicina senza laurearsi e che si dedica a ricerche sugli alienati mentali, per poter impiegare del tempo dei suoi inutili 36 anni. Maigret si accorge subito che la cittadina è spaccata in due: da una parte i notabili, legati da vincoli familiari con le vittime, e che comprende anche il suo amico Chabot. Dall’altra il popolo che pensa i primi cercare di coprirsi le spalle a vicenda. Maigret nei tre giorni che passa in città è coinvolto, suo malgrado, nell’inchiesta, ed ha subito modo di vedere come lo Chabot della sua giovinezza non è questo magistrato invecchiato, impaurito, celibe e con madre anziana. Qui partono tutte le riflessioni sulla vecchiaia, su come se Chabot è diventato così, forse anche Maigret, senza saperlo, è anche lui invecchiato, indurito, inasprito dalla vita. Il secondo elemento di riflessione e tristezza per Maigret è il ritrovare antiche amicizie, e trovarle diverse, anzi, come dice nel capitolo 7, forse si era sbagliato. Spesso è così, come quando incontra Malik ne “La collera di Maigret”. Solo uno sarà amico presente e costante, il dottor Pardon, un amico a metà tra il confidente ed il consigliere. Non riescono a risollevarlo neanche un paio di telefonate alla moglie. Il clima triste della storia è aumentato dal fatto che per tutto il tempo cade sulla città una pioggia fredda, insistente che bagna tutto e tutti. Tuttavia Maigret non si tira indietro, fumando la sua pipa segue i suoi ragionamenti, soprattutto cercando di capire la personalità del giovane Alain. Che scopre avere un’amante, la ventenne Louise Sabati. Ma scopre anche che è geloso e violento. Sebbene tutti gli indizi convergano su di lui, Maigret ne intuisce l’innocenza (nei delitti), ma non riesce a salvarlo dai suoi demoni. Timoroso che sia messa in piazza la sua relazione con Louise, Alain si suicida. Ma ormai Maigret ha fatto breccia nel cerchio dei notabili, ne intuisce le debolezze, soprattutto frequentando la casa dei Vernoux de Courçon, vedendo Hubert tiranneggiato dalla moglie, e dalle altre donne di casa. In una domenica piovosa, i nodi vengono al pettine, anche perché Maigret ci fa notare che solo il primo crimine è stato commesso sotto l’impeto dell’ira. Gli altri sono serviti a mascherare, a coprire, a costruire falsi indizi. Quindi certo Maigret indaga, ma non è lui il titolare dell’inchiesta, anche se sono le sue riflessioni che portano alla soluzione del caso. Ma ormai Maigret sale sul treno per Parigi, dove ritrova il sole. E soprattutto la moglie che lo consola: Chabot è invecchiato perché non si è sposato. Mitico finale! Per Simenon, il passare del tempo è sopportabile solo in compagnia. Magari anche utili trasporti sessuali, che non gli mancarono mai. Come sempre altri rimandi sono presenti, velati o palesi. Come la tristezza della domenica, già approfondita in “Il mio amico Maigret” o l’utilizzo di scatole per conservare tesori. Qui le lettere d’amore tra Alain e Louise, ne “Il cane giallo” le conchiglie di Emma. Per i puristi della lingua, notiamo che Simenon sta assorbendo un po’ di cultura anglosassone, quando chiama i libretti di propaganda di un personaggio minore non con il termine francese “brochure de propagande” ma con il termine anglofono “pamphlet”. Un'altra piccola chicca è dedicata al bridge: ne “La balera da due soldi” Maigret gioca a bridge, qui si rifiuta dicendo di non saper giocare ma fa l’angolista per apprezzare il modo di approcciare la vita di Hubert.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Fontenay-le-Comte
Alain Vernoux de Courçon, 36 anni, medico che non esercita, sposato senza figli, suicida
Hubert Vernoux, poi diventato Vernoux de Courçon dopo il matrimonio, 67 anni, sposato, padre di Alain
Robert de Courçon, 73 anni, cognato di Hubert, celibe, prima vittima
Julien Chabot, circa 60 anni, amico di Maigret, giudice istruttore
Louise Sabati, 22 anni, amante di Alain
Émile Chalus, maestro di scuola
3 gg.
aprile
[tit. or.: Maigret se trompe; ling. or.: francese; pagine: 331 – 483 (152); anno 1953]
Non succede molto in questi cinque mesi dal precedente romanzo. Almeno molto nella vita di Simenon. È nata Marie-Jo e lui si gode i primi mesi della sua prima figlia. Inoltre in luglio, con tutta la famiglia, lato Denyse, passa le sue vacanze a Edgartown, sull’isola di Martha's Vineyard, nell’Harbourview Hotel. Intanto segue in modo appassionato il dibattito sulla condanna e poi sull’esecuzione dei coniugi Rosenberg. Comincia a sentire in America un clima teso e di persecuzione, che non ricordava nel Vecchio Continente. Anzi vede che in Europa si prepara un boom economico aiutato da un clima che, da lontano, gli sembra stimolante. Mette quindi mano a questo nuovo romanzo, anche qui mescolando i suoi temi preferiti. Non torna molto sulla tristezza del precedente, ma in questo fa fulcro sul rapporto con l’altro sesso. Possiamo ben vedere che il professor Gouin, luminare della chirurgia, è un alter ego di Simenon stesso, e quasi un doppio di Maigret. Ricordiamo in fatti che nelle finte memorie, Maigret dice di aver passato due anni a medicina, prima che problemi familiari lo costringessero a trovare un lavoro sicuro in Polizia. E Maigret si domanda se, avendo proseguito gli studi, sarebbe potuto diventare come il professore. Un dotto luminare, altero e alieno da contatti umani, bravissimo ma freddo, anche se poi cura gratuitamente i meno abbienti. Sul lato Simenon, il professore è invece un collezionatore di avventure femminili. Il sesso lo distende e lo distrae, ma non vi partecipa quasi mai con la testa. Non dirà mai che ama qualcuna delle donne con cui va a letto, sia le compagnie occasionali, sia la moglie, sia l’amante stabile. Un po’ come il nostro scrittore, che passa di letto in letto, quasi fosse un esercizio da palestra. Ma torniamo al testo, per indicare un primo elemento di nascosto messaggio. Il titolo. In nessuna parte del testo Maigret dice di essersi sbagliato, ma noi sappiamo che spesso, quando ricapitola le vicende, lui dice la frase fatidica “Si je ne me trompe pas…” cioè “Se non mi sbaglio...”. Qui vediamo che agisce come se pensasse il professore autore dell’omicidio al centro della scena, per poi indicare, correttamente l’autrice in una delle sei donne del libro. Anzi, cinque, visto che una è la morta. La morta, uccisa con un colpo di pistola, è l’amante di Gouin, una ex-prostituta da lui salvata con una difficile operazione al cervello. E che, in modo naturale, passa al ruolo di amante. Tanto che Gouin la sistema in un appartamento dove vive con la moglie. Louise, anzi Lulu, è ben riconoscente della sistemazione ottenuta. Ma vive male nell’appartamento di lusso di avenue Carnot, e non rinuncia a frequentare il suo amante, con cui forse vorrebbe andare a vivere se avesse soldi, il sassofonista Pierre Eyraud detto Pierrot. La morte di Lulu avviene proprio il giorno in cui svela a Pierrot di essere incinta e di dover decidere se tenere o meno il bambino. Gravidanza che Gouin aveva intuito, da medico qual è, e che aveva comunicato alla moglie. Pierrot aveva incontrato Lulu poco prima della di lei morte, ma Maigret è ben convinto che non sia il colpevole, cosa che ben presto riesce a provare. Infatti il colpevole non può essere che uno dello stabile, visto che nessun altro estraneo è entrato o uscito dal palazzo. Certo, è poco probabile che sia stata la donna di casa, Désirée Brault, né tanto meno la portiera Madame Cornet. Ma, oltre al professore, possono aver commesso l’omicidio la moglie Germaine, la cognata Antoinette o la sua segretaria Lucile. A lungo si aggira nei meandri delle piccole acquisizioni di informazioni, ma più che altro per conoscere meglio gli attori del dramma. Incontra presto Germaine, che è la prima a svelargli i misteri di casa Gouin, nonché le motivazioni di infatuazione professionale che l’hanno portata da semplice infermiera a diventare moglie del professore. Va a trovare sul lavoro la bibliotecaria Antoinette, che la sera dell’assassinio era presente nel palazzo in visita alla sorella, visto che non c’era il professore, verso cui lei non nasconde una profonda avversione, soprattutto per il modo in cui tratta le donne. Infine, si presenta a casa di Lucile, per scoprirne l’infatuazione intellettuale verso Gouin. Lei, segretaria ed amante occasionale, è sempre presente con lui nelle operazioni chirurgiche, nel lavoro quotidiano. Né è praticamente un personal helping in tutte le faccende. Solo nel penultimo capitolo, però, Maigret si decide a confrontarsi con Gouin, ed assistiamo, per quasi due capitoli, ad un confronto intellettuale di due esseri simili eppur diversi. Nella schermaglia verbale, Maigret capisce chi sia Gouin, come si muova nel mondo, e come sia fuori dai suoi schemi mentali pensare di uccidere la povera Lulu. Sembra perfetto Gouin, ma alla fine scopriamo il suo grande “difetto”: ha paura di restare solo, anzi di morire solo. Per questo si circonda di tante donne che, affascinate dal suo carisma, non lo lasceranno nel momento del bisogno. E come detto, Maigret alla fine non si sbaglia, e punta il dito sulla persona giusta. Dicevo, romanzo di donne, perché sono loro che costellano la scena con la loro presenza. C’è come detto Louise Fillon, detta Lulu: ex-prostituta, che cerca la sicurezza economica in Gouin, senza amarlo, visto che il suo cuore è per Pierrot. Qui abbiamo il contrasto sociale, altro elemento del romanzo: Lulu vive in Avenue Carnot, ma starebbe altrettanto bene là da dove nasce, tra Barbés, in cui ha vissuto, e il quartiere de la Chapelle, dove suona Pierrot. Poi c’è Germaine Gouin, anche lei venuta dal basso, e sebbene non sia molto altro che una specie di tappezzeria nella vita del professore, è ben intenzionata a mantenere il suo ruolo sociale, a conservare i suoi privilegi. E c’è Antoinette, la sorella, l’unica a resistere al fascino del professore, che anzi odia ed evita di frequentare. È anche fondamentalmente misandrica (che sarebbe il contrario di misogino), con un odio combinato alla volontà di aiutare la sorella a mantenere le sue posizioni. Infine, come ultima possibile colpevole, c’è Lucile, l’assistente tuttofare del professore, verso cui ha una passione più per la funzione che per l’uomo, anche se è disposta a qualsiasi azione affinché Gouin possa continuare ad essere Gouin. Ed infatti Gouin nella sua lucidità ne dà un ritratto fulmineo: “Lucile sarebbe disposta a d’amare qualsiasi persona, purché sia celebre”. Nella galleria delle donne del romanzo non possiamo non citare anche Désirée Brault: un personaggio spesso incontrato da Maigret nelle sue inchieste, con una storia simile a Lulu di prostituzione e borseggio, ma senza aver trovato vie d’uscita. Quindi ora fa la donna ad ore, diventando un contraltare di Lulu. Ciò di come Lulu sarebbe potuta diventare, dura e cinica, se non avesse incontrato Gouin. Detto del romanzo e dei personaggi, lasciamoci ora qualche righe per delle considerazioni stilistiche e contenutistiche. Mentre in genere è sempre dall’occhio di Maigret che vediamo lo svolgersi del romanzo, nel capitolo 2 quest’occhio è passato ai suoi collaboratori, vediamo cioè l’azione svolgersi dal punto di vista di Janvier e di Lucas. Secondo elemento è la voluta non rilettura del testo, che Simenon scrive e fa stampare. Lasciando a volte elementi poco chiari (ne abbiamo già parlato) o vere e proprie sviste, come nel capitolo 4, dove manda Janvier a fare la guardia nell’appartamento di Lulu, e poi telefona allo stesso appartamento da casa, dicendo che vi si era installato Lapointe. Inoltre poi, c’è la continua contrapposizione tra il mondo alto, di Avenue Carnot, della vita del professore, dell’Ospedale di fama, con quello basso del musicista Pierrot, della casa di Désirée, del quartiere di Barbés. Infine, un elemento che andiamo a rimarcare qui è la confessione che Simenon fa per conto di Maigret. Quasi come elemento scaramantico, se in un’inchiesta comincia a bere qualcosa, rimane fedele a quel tipo di bevanda per tutta l’inchiesta. Qui, infatti, comincia con l’acquavite, e lì rimane fedele, anche quando avrebbe voglia di una buona birra. Ma se la maggior parte delle inchieste sono in realtà “inchieste alla birra” (citata 207 volte nei 75 romanzi), ci sono inchieste “al calvados” (come abbiamo visto in “Maigret e la vecchia signora”), inchieste “al vino bianco” (come in “Maigret e l’affittacamere”), inchieste “al pernod” (come il “Maigret e la stangona”), per non dimenticare quelle “al whisky” (specialmente a quelle americane come “Maigret, Lognon e i gangster”). Insomma, anche qui siamo riusciti a trovare tanti elementi di scrittura. Simenon è senza dubbio una miniera (quasi) senza fondo.
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi (XVII e XVIII arr.)
Étienne Gouin, 62 anni, professore di chirurgia all'università sposato, senza figli
Germaine Gouin, nata Ollivier, 45 anni, moglie del professore, già infermiera
Antoinette Ollivier, 50 anni, sorella di Germaine, bibliotecaria
Pierre Eyraud, detto "Pierrot", 29 anni, musicista di musette
Louise Filon, detta "Lulu", 26 anni, amante di Gouin e di Eyraud, 26 anni, ex-prostituta, vittima
Lucile Decaux, 36 anni, assistente di Gouin
Désirée Brault, 50-60 anni, domestica, vecchia conoscenza della polizia
2 gg.
novembre
[tit. or.: Maigret à l’école; ling. or.: francese; pagine: 487 – 634 (147); anno 1954]
La seconda metà del 1953 trascorre senza particolari scosse in quel di Lakeville. Simenon e le sue famiglie sono lì, intenti alle attività quotidiane, Georges alterna le sue scritture tra romanzi alti e romanzi con Maigret, i figli crescono, Tigy con Marc e Denyse con John e Marie-Jo. Ma in Simenon cresce l’ansia della vita americana che si va guastando, ne sente la cattiva strada dopo essere stato tre giorni ad Harvard, ospite di un seminario sul romanzo contemporaneo. Cominciano a maturare idee e decisioni che presto arriveranno a mosse drastiche (presto nel senso di Simenon, che, a parte quando si tratta di donne, non è certo un fulmine di guerra). In questo clima matura il terzo romanzo di idee piuttosto che di polizia. Abbiamo finito da poco quello dedicato all’invecchiamento, poi quello dedicato alle donne. Ora abbiamo un nuovo argomento a doppio taglio: i ragazzi. Perché se da un lato Simenon è circondato da figli (e si domanda, comincia a domandarsi come trattarli), dall’altro Maigret non ne ha avuto (a parte una bambina morta dopo pochi giorni). Abbiamo quindi un romanzo pieno di ragazzi, ed anche di ricordi del Maigret ragazzo, che in loro, nei loro comportamenti, nell’atmosfera della cittadina di Saint-André-sur-Mer, vicino a La Rochelle, ritrova, ricorda, ripensa alla sua infanzia. Due giorni di inchiesta primaverile (come il 38% delle sue inchieste), che inizia al solito al Quai des Orfevres (dove iniziano il 28% dei romanzi di Maigret), per poi spostarsi verso il mare. Sia per l’empatia che Maigret prova per il maestro Gastin che chiede il suo aiuto, sia perché ha voglia di ostriche e vino bianco. Avrà successo sul primo fronte, mentre sarà uno scacco totale per le ostriche. Mentre lasciamo perdere ostriche ed altri piatti che si offre nel soggiorno in Charente (anche se non posso dimenticare il coniglio al vino bianco di Louis Paumelle o l’agnello con i fagioli del dottor Bresselles), ritorniamo sulla storia e sui suoi sviluppi. Nel paesino charentois muore la vecchia Léonie, una megera mal voluta da tutti e che a tutti vuole male. Era l’ex-postina, talmente odiosa che, una volta morta, trovano cassetti di lettere non consegnate, che lei le leggeva e si faceva i fatti di tutta la città. Ma Léonie era comunque una della città, mentre il maestro Gastin viene da fuori, non solo è capitato, o mandato lì, in esilio dalla natia Courbevoie (dove passai alcuni dei migliori momenti della mia giovinezza), poiché la moglie lo tradiva con un maggiorente del posto, ed una vola scoperta la tresca, vengono emarginati e spostati. Ed è appunto su Gastin che si appuntano i sospetti del paese, che, secondo la confessione del giovane Marcel, esce dalla rimessa dove è nascosto un fucile simile a quello che ha colpito Léonie. Tra l’altro, un fucile che hanno molti ragazzi della cittadina, utilizzato per far finta di cacciare uccelli e topi. Maigret deve penetrare su due fronti le resistenze paesane: quella degli adulti, che lo vedono corpo estraneo, e che fanno fronte comune contro Gastin, e quello dei ragazzi, dove nascono e prosperano amori ed odi profondi e difficili da scalzare. Al centro c’è anche Jean-Paul, il figlio del maestro Gastin, che sarebbe il primo della classe, se non fosse il figlio del maestro, che, per non fare favoritismi, lo colloca sempre al secondo posto, dietro a quel Marcel la cui testimonianza lo inchioda. Jean-Paul lo riporta all’infanzia, quando anche lui, Maigret, era emarginato in quanto figlio del maggiordomo del castello. C’è una specie di rapporto asimmetrico a tre, con appunto Jean-Paul, il supposto primo della classe ma isolato in come detto, Marcel, che sarebbe secondo ma prende sempre voti migliori, e Joseph Rateau, scapestrato amico di Marcel, quello che va male a scuola ma è autore di tutti gli scherzi. Come quello di gettare gatti morti a casa di Léonie, e poi fuggire, ed essere investito da una motocicletta. Incidente che fa venire in mente al padre, sempre a corto di soldi, con l’aiuto del dottore del paese, di chiedere un risarcimento anche spropositato rispetto all’accaduto. Per fare ciò Joseph deve stare a casa più del dovuto, con Marcel che lo va a trovare, e con entrambi, come tutti i ragazzi, insofferenti all’immobilità. E Léonie lo vede camminare anzi tempo, e minaccia il padre di denunciarlo. C’è Jean-Paul con la sua carabina e con il padre Gastin che potrebbe averlo preso, c’è Marcel che potrebbe aver visto Gastin o Rateau con il fucile in mano, c’è Joseph che potrebbe aver sparato in aria o potrebbe aver coperto il padre che sparava in aria. Certo il colpo mortale per Léonie è sicuramente casuale, che con una carabina giocattolo è difficile colpire Léonie in un occhio a più di 30 metri di distanza. Nei due giorni a Saint-André-sur-Mer, immerso nelle sue rimembranze infantili, riesce ad indirizzare la locale tenenza di polizia sulla giusta strada, per poi tornare alla sua primavera parigina, ed alla signora Maigret. Alcune ulteriori note di costruzione e di velocità e di ricordi. Il romanzo si apre al Quai des Orfevres con la descrizione della Sala d’attesa, sala che compare nel 28% dei romanzi di Maigret. Abbiamo poi altri incroci con i precedenti romanzi (ricordo che Simenon impiega una settimana per scrivere i suoi Maigret, ed è facile che peschi nel cappello delle sue memorie). C’è il ponte di Aiguillon, che viene citato anche ne “La casa del giudice”, c’è la storia del portafoglio rubato simile a quella narrata in “Maigret e la stangona”, c’è il racconto di Marcel in veste di chierichetto che rimanda immediatamente a “Il caso Saint-Fiacre”, c’è un cane giallo che Maigret incontra nel primo capitolo, e come allora non ripensare a “Il cane giallo” (scritto più di 20 anni prima). Infine, nel sesto capitolo c’è la descrizione di un giornalista che importuna Maigret, che riprende in modo pedissequo la descrizione di sé stesso che Simenon fornisce ne “Le memorie di Maigret”. Come cominciate a vedere, andando avanti nel “corpus maigrettiano”, aumentano coincidenze e rimandi. E siamo solo al 44° romanzo!
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi, Saint-André-sur-Mer (vicino a La Rochelle)
Marcel Sellier, Jean-Paul Gastin e Joseph Rateau, scolari di circa 12 anni
Léonie Birard, 66 anni, postina in pensione, nubile, vittima
Joseph Gastin, maestro di scuola e segretario del sindaco, sposato, un figlio (Jean-Paul)
Marcellin Rateau, macellaio, un figlio (Joseph)
Daniélou, tenente della gendarmeria
Thérèse, circa 30 anni, cameriera dell'hotel
3 gg.
primavera
[tit. or.: Maigret et la jeune morte; ling. or.: francese; pagine: 637–789 (152); anno 1954]
Qui abbiamo una piccola stranezza nel lavoro di Simenon, che tra il precedente romanzo di Maigret (scritto nel dicembre del ’53) e questo (redatto nel gennaio del ’54) scrive solo di Maigret. Simenon, come detto, sta rintanato a Lakeville, rimuginando come portare avanti sé stesso e la sua famiglia (o le sue?). producendo una serie di romanzi che fissano alcuni punti chiave del “maigrettismo”, come abbiamo visto. Qui, invece di darsi ad elementi esterni, a recriminazioni sulla vecchiaia (e Simenon ha superato già i 50 anni), sulle donne e così via, pensa di dedicarsi al suo commissario, presentandolo in una delle sue più tipiche esibizioni. Che non solo l’andamento della storia è punteggiato dalle caratteristiche salienti di Maigret (attenzione ai particolari, ricerca della personalità della vittima prima che di quella dei colpevoli, ricostruzione finale meticolosa e a volte “sherlockiana”), ma anche da quel carattere ironico del personaggio che ben risalta nel confronto con l’ispettore Lognon, qui alla sua seconda delle tre apparizioni. Altro elemento che accumuna questi scritti americani è che in ben tre Maigret si trova a confronto con giovane ragazze di nome Louise (qui, in “Maigret ha paura” c’è Louise Sabati, in “Maigret si sbaglia” c’è Louise Fillon, e la moglie di Maigret si chiama Louise…). Per cominciare, vediamo che la storia si svolge in marzo, un po’ piovoso, ma che preannuncia già la primavera piena. Tanto che Maigret, che sappiamo utilizzare la stessa bevanda per tutta l’inchiesta, qui comincia con bere un pernod (mentre pensa agli sviluppi del caso in quel di Nizza) ed al pernod rimane legato per tutto il romanzo. Un’inchiesta di tre giorni per scoprire chi sia la giovane morta trovata in Place Vintmille (un po’ sopra la Gare Saint-Lazare, verso rue de Clichy) e chi e come l’abbia uccisa. Quasi per caso, avendo finito una precedente inchiesta, che non ci riguarda, prima di tornare a casa, risponde al telefono ad una chiamata della Centrale di Polizia, e si imbatte nel cadavere. Dove già era pronto il triste Lognon, che è un poliziotto disciplinato, cui Maigret chiede di continuare ad investigare sul caso in parallelo, che si troverà quasi sempre un passo avanti a Maigret. Ma Lognon non ha l’empatia del nostro commissario, ed all’ultimo gradino inciampa, proprio perché non ha capito la personalità della morta, di questa giovane, silenziosa, e molto poco fortunata Louise Laboine. Louise è figlia di tal Germaine, che dopo una vita errabonda, porta avanti la sua magra esistenza giocando ai Casinò di Nizza, quel tanto che le serve per tirare avanti. Il padre è un tale Julius Van Cram, che scopriremo essere un truffatore internazionale, che sparisce ben presto dalla vita di Germaine e Louise. Ricostruiamo allora, seguendo gli indizi che Maigret scopre a poco a poco, la vita di Louise. Perché scoprendo gli indizi, vediamo come Maigret si cali “nella pelle” della morta. Louise, scontenta della vita con la madre, a 16 anni fugge da Nizza per andare a Parigi. Sul treno incontra e fa amicizia con Jeanine che, mossa a pietà, la fa abitare, visto che Louise è senza dimora, con lei ma di nascosto. Jeanine però ha altre mire, vuole sfondare, mentre Louise si accontenta di vivere la sua piccola vita. Dopo 6 mesi, Jeanine si allontana, Louise è cacciata di casa, ma ritrova l’amica e va a vivere con lei in rue de Ponthieu (un po’ sopra gli Champs-Elysées). Vi resteranno un paio d’anni, quando Jeanine, ormai stufa dell’ignavia di Louise, fugge senza lasciar traccia. Per un po’ Louise resiste ma deve lasciare anche questa casa, e si sposta a rue d’Aboukir. È ottobre, lavora in un magazzino, ma quando schiaffeggia il suo superiore che le vuole mettere le mani addosso, è licenziata. Senza molti soldi, deve cercare un nuovo alloggio, che trova in gennaio in rue de Clichy. In febbraio, leggendo i giornali, scopre che la sua “amica” Jeanine fa la bella vita con tal Marco, trovandosi spesso la sera da Chez Maxim. Per riprendere contatto, va dalla sarta Irène, si fa prestare un abito da sera, ma non trova Jeanine nel locale. In marzo tutto precipita: lei non ha più un soldo, e la sua affittuaria la caccia, sul giornale scopre che Jeanine da la sua festa di fidanzamento al “Romèo”, affitta di nuovo un abito da sera, e cerca di contattare Jeanine. Si installa in un bar a rue Caumartin (vicino alla Galèrie Lafayette), e mentre beve tre grog per tirarsi su, telefona a più riprese a Jeanine. Finalmente, all’uscita del locale le parla, Jeanine la caccia, ma le dice che c’è una lettera per lei al Pickwick’s-Bar, dietro l’Arc de Triomphe. Una lettera lasciatale da un americano che però deve tornare in patria. Scopriremo poi, nel resoconto finale che ne farà Maigret, che è una lettera del padre, che le indica come venire in possesso di una refurtiva la sua ultima truffa. Ultima perché, ormai malato, sta per morire in carcere. Il barista del bar è una vecchia conoscenza di Maigret, già dedito a truffe e piccolo cabotaggio del crimine. Avendo letto la lettera, escogita insieme ad un suo compare un modo per sostituirsi a Louise e rubarle i soldi. Ma la carta d’identità di Louise è dentro la borsetta di Louise. Una piccola pochette, che per non essere persa, ha una lunga catenella attorcigliata al braccio di Louise. Vi lascio immaginare il seguito. L’empatia di Maigret e la professionalità “ottusa” di Lognon, si confrontano proprio al bar. Lognon, come al solito, arriva prima, sente la storia del barista che gli parla di Louise, del “martini” che beve, e dell’americano che si era allontanato verso Bruxelles. Dove Lognon si reca subito in treno. Mentre Maigret, arrivato al “martini”, capisce che c’è del falso. Per come aveva ricostruito empaticamente la vita di Louise, il “martini” è fuori contesto. Quindi qualcuno, Louise o il barista, mente. Un divertente finale ironico, con Lognon che trona mestamente a casa dalla moglie bisbetica, sul treno da Bruxelles. Oltre a notare il largo quadrilatero in cui svolge la storia, riprendo un altro elemento, oltre all’empatia, di particolare spicco per cui questa mi risulta essere uno dei migliori romanzi di Maigret. La descrizione accurata del sottobosco del malaffare parigino, e di coloro anche che, pur non di malaffare, vivono “alla giornata”. I duri che Maigret debella nel primo capitolo, la gente dei bar, Jeanine che cerca di arrampicarsi socialmente usando la sua bellezza, Louise che non si fa usare, preferendo farsi continuamente licenziare, e tanti altri che si aggirano tra il Commissariato e la Centrale di Polizia. Finisco con una annotazione culinaria importante: qui è la seconda volta che Maigret si offre una zuppa di cipolle, la prima avendola gustata in “Firmato Picpus”. Ebbene, stando alle ricerche con-testuali, queste sono le uniche due zuppe di cipolle di tutti e 75 i romanzi. E pensare che ipotizzavo fosse uno dei piatti più menzionati
Dove
Protagonista
Altri interpreti
Durata
Tempo
Parigi
Louise Laboine, 20 anni, nubile, senza professione, vittima
Ispettore Lognon, detto "Malgracieux"
Ispettore Janvier
Jeanne Santoni, detta Jeannine, nata Armenieu, 22 anni, sposa di Marco Santoni, rappresentante di vermouth italiano in Francia
Germaine Laboine, circa 60 anni, madre della vittima, vive a Monte Carlo dove è conosciuta come Lili
Julius Van Cram, olandese, padre di Louise, conosciuto anche con i nomi di Hans Ziegler, Ernst Marek, John Donley, Joey Hogan e Jean Lemke
Albert Falconi, barman corso, noto alla polizia
Mme Crêmieux, 65-70 anni, affittuaria
3 gg.
marzo
Dato inoltre che è la seconda trama di aprile, vi allieto anche con una piccola dose di libri legati alla paternità.
Nuove mete chiamano ad antichi viaggi, ma questa volta sarà solo una escursione personale di riposo e di pensieri. Tanti. Mentre il vostro umile scribacchino incasella appuntamenti e visite per rendere accogliente anche la campagna. Un pensiero a tutti in questo aprile che comincia a rischiarare.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2018
Spesso mi sono interrogato sul tema della paternità, e sui rapporti genitori-figli. Il caso vuole che proprio ora ne esca fuori un commento. Che vi lascio leggere attentamente.

PATERNITÀ

Cormac McCarthy           “La strada”
Carlo Collodi                   “Pinocchio”
L’aspetto migliore dell’essere padri è la possibilità di vivere di nuovo la propria infanzia - proprio mentre si precipita in una nuova fase della maturità, sia come padre che come partner. Vi dà l’opportunità di trasmettere le vostre passioni e tutto ciò che avete imparato, ma anche responsabilità enormi, che possono cambiare il vostro rapporto con il partner in modi che non vi piacciono - e talvolta questo risentimento viene sfogato sul bambino. Se la paternità vi mette a disagio, o volete rafforzare un legame padre-figlio che forse è stato danneggiato da questo genere di transfert emotivo, vi proponiamo l’equivalente narrativo di un manuale di comportamento per padri, lo straziante ma stupefacente “La strada” di Cormac McCarthy.
Il presupposto della vicenda è più tetro di quanto qualsiasi vita - ce lo auguriamo - potrebbe mai essere: a seguito di un evento catastrofico, l’esatta natura del quale i superstiti possono solo cercare di immaginare, l’America - e forse anche il resto del mondo - è ridotta a una terra desolata. La cenere oscura il sole. Le città sono bruciate, gli alberi sono morti. Su questa terra “sterile, silenziosa, senza Dio” un uomo e suo figlio (che noi conosciamo solo come “l’uomo” e “il ragazzo”, come si addice a un mondo senza colore e di scarsissima umanità) seguono la strada verso sud, dove sperano di trovare un po’ di calore e aumentare così le loro possibilità di sopravvivenza. Lungo la strada cercano di trovare un poco di sonno in notti lunghe, buie e “più fredde di quanto abbiano mai sperimentato”, recuperano tutto il cibo che possono -dai funghi selvatici a qualche occasionale scatoletta - e sono sotto la costante minaccia dei “cattivi”, uomini sporchi e terrificanti, che si spostano in branchi, indossane maschere e tute protettive, brandiscono mazze e tubi metallici, e saccheggiano e uccidono come animali.
Il mondo non potrebbe essere più spoglio di qualsiasi bellezza. Il ragazzo, spesso, ha tanta paura che non riesce nemmeno a correre quando il padre glielo ordina. È mezzo morto di fame, ha nostalgia della madre, di un compagno di gioco, per non parlare dei normali piaceri dell’infanzia - i giocattoli, lo sport, l’erba, una torta - che ormai ha dimenticato. A un certo punto il padre trova una lattina di Coca-Cola in un distributore automatico che qualcuno ha aperto con un piede di porco e dice al ragazzo di berla tutta, e lentamente. “E perché non potrò berne mai più, non è vero?” domanda il ragazzo. E così, per mezzo di una lattina di Coca-Cola, accusiamo fino in fondo il colpo della perdita di un universo che non tornerà più.
Ma dal punto di vista emotivo è un mondo ricco. Perché qui, dopo che si è stati defraudati di tutto, si rivela nella sua forma più pura e primordiale lo straordinario amore che esiste tra un padre e un figlio, in cui l’unica cosa che conta è fare in modo che per il ragazzo vada “tutto bene”. Se il figlio morisse, l’uomo sa che vorrà morire anche lui. Cos’è l’essenza della paternità se non la speranza per la prossima generazione?
Il romanzo ci lascia con questa nota di speranza - un ingrediente essenziale per la vita. Celebrate la vostra paternità, allora, e lungo la strada abituatevi all’assoluta onestà che esiste tra questi due personaggi. Guardate la loro fiducia reciproca, il bisogno del figlio di sapere che il padre manterrà sempre la sua promessa, e non lo lascerà mai, e gli dirà sempre la verità se gliela chiede - tranne, forse, di fronte alla morte. Guardate il bisogno del ragazzo di essere rassicurato che loro sono i “buoni” che “portano il fuoco”. Se garantirete onestà, amore, alcuni saldi principi morali e una presenza affidabile, non potrete sbagliare. Non fatela troppo complicata: dovete solo amare i vostri figli e comunicare con loro con onestà.
Ma la più tenera rappresentazione del sentimento di paternità in letteratura proviene curiosamente da un paese matriarcale per eccellenza e porta il nome di Mastro Geppetto. È anche un esempio di adozione al rovescio: l’adozione di un padre da parte di un figlio, anzi da parte di un pezzo di legno che piangeva e rideva come un bambino. Il pezzo di legno in questione fu infatti recuperato da Mastro Ciliegia che lo regalò a Mastro Geppetto per il suo sogno circense di farne un burattino. Iniziò così quel giorno una lunga schermaglia affettiva tra un falegname e una marionetta. La loro sarà una vicenda di candele steariche, di panni smessi, di fughe e disubbidienze. Il racconto “di una casa che non esiste, ma che si lascia inventare”, ha scritto Giorgio Manganelli, com’è la casa di Mastro Geppetto, con il disegno di un caminetto e di un fuoco acceso con “una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo” incisi sul muro.
La ricerca del padre è uno dei temi universali della letteratura di tutti i tempi. L’antichità la riassunse principalmente in due ipotesi: la prima tragica, quella di Edipo; l’altra elegiaca, quella di Telemaco. Il padre si può uccidere o al contrario si può partire per trovarlo. Così inizia l’Odissea, con un figlio che si mette in mare.
Ma anche la storia di Pinocchio la si può leggere come una Telemachia. È, lo ripetiamo, la più bella e commovente storia di paternità che sia stata scritta, una paternità non decisa dal sangue, e dunque adottiva. Pinocchio è un “senza madre” nato in inverno, uno sradicato come lo sono tutti i pezzi di legno da catasta strappati da un albero. Dopo una serie di prove e di naufragi ritroverà l’uomo che si è preso cura di lui nella pancia di un pescecane, alla luce di una candela “infilata in una bottiglia di cristallo verde”. Se lo caricherà sulle spalle, come un Enea con il suo vecchio Anchise, e si getterà a nuoto verso la riva.

Bugiardino

Pinocchio l’ho letto, riletto, visto e rivisto. Così come credo abbiate fatto voi. Per questo non ci torno sopra, dedicando tutto lo spazio ad uno dei libri che meno mi hanno convinto di McCarthy.
Cormac McCarthy “La strada” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[tramata il 16 febbraio 2014]
Confesso immediatamente e senza ombra di dubbio: questo libro non mi è piaciuto. Pur riconoscendo al solito la bella scrittura di McCarthy, la sua capacità descrittiva (nei suoi libri, quando descrive paesaggi, mi fa immediatamente volare dentro la pagina, chiedendomi come si possa essere così abili nel tratteggiare luoghi anche desolati), questo libro non mi ha per nulla coinvolto. Purtroppo siamo lontani da quelli che considero i suoi momenti migliori. Quando la sua prosa spazia nelle ampie praterie americane, magari selvagge, magari piene di cow-boy. Quando parla di quelle vite vissute ai margini, spesso anche oltre i margini stessi. Le cattiverie, le piccolezze. Il quotidiano essere lontano da quei punti focali che noi qui vediamo nell’America. I suoi personaggi non si muovono a New York, a Los Angeles, a Las Vegas, a Chicago, a Boston, e neanche nelle lande della Florida. I suoi eroi stanno dalle parti dei monti del Vermont, del Montana, delle pianure tra Texas e Arizona. Insomma sono altrove. Ma sto divagando, per rimpiangere quello che in questo libro non c’è. Anche perché quello che c’è non mi ha coinvolto. Sarà che ho un discreto passato di cultore della fantascienza in tutte le sue forme (e qui si potrebbe aprire un bel dibattito su questa forma espressiva, cara alla mia giovinezza, e sulla forma “poliziesco di attualità” che sta cullandomi in questi anni; anzi sulla forma in generale di letteratura popolare, se vogliamo essere dotti, nel senso in cui la descriveva Gramsci in uno dei suoi quaderni dal carcere), ma il plot di McCarthy è tipico di quella che viene battezzata come “fantascienza post-apocalittica”. Ora senza scomodare le pietre miliari di questo genere (come “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley, “La macchina del tempo” di H. G. Wells o “La peste scarlatta” di Jack London), basterebbe pensare a “Io sono leggenda” di Richard Matheson del 1954 esempio preclaro di come si può scrivere di orrori dopo una “fine del mondo”. Qui abbiamo solo un tale con il figlio che si aggirano per una terra forse devastata ma non si sa (e non si saprà) da cosa. Che cercano di andare verso un fantomatico mare, emblema di una qualche speranza. E ne assistiamo agli incontri con altri derelitti. Le lotte. Le fughe. Le città senza vita, dove si cerca disperatamente qualcosa da mangiare. E si mangia di tutto. Tanto che non ci meraviglia la nascita di un cannibalismo orrorifico. McCarthy mette qua e là spunti sempre più crudi della degradazione possibile degli altri, mentre i nostri due cercano di mantenersi al di qua di un certo modo di essere. Non a caso il bambino continua a chiedere a più riprese al padre se loro sono i buoni e se continueranno ad esserlo. Con qualche flash-back assistiamo anche alla presa di coscienza della madre del piccolo, al suo “andare fuori di testa” e lasciare soli i due (si sarà uccisa? avrà cercato altre vie? Chissà, di certo sappiamo solo che ora non c’è più). I due troveranno il mare, ma non la speranza. Troveranno altri derelitti, forse buoni quanto loro. E finalmente anche il padre potrà mollare e morire. Lasciando al piccolo l’eredità di continuare a vivere nel mondo devastato. Così ci vuole comunicare allora il nostro scrittore? Che di fronte a crisi estreme i comportamenti umani sono impredicibili? Che i mostri sono dentro di noi? Che non c’è speranza? Non lo so. Ma so che non esce fuori da questo romanzo. Che passa di orrore in orrore sino alla sua naturale fine. Forse McCarthy ha cercato di usare dei registri per ribadire quanto dice in altri suoi (e migliori) scritti, sulla solitudine umana, sulla cattiveria interna ad ognuno di noi. Continuo ad essere perplesso. E continua a preferire chi coscientemente e volutamente usa questo tipo di scrittura, con risultati per me più interessanti. Come, e qui finisco le citazioni, in “Un cantico per Leibowitz” di Walter M. Miller in cui dopo il crollo dell’umanità, i sopravvissuti a poco a poco recuperano le conoscenze perdute, ricostruiscono, ricominciano a vivere, fino a ricadere di nuovo negli errori del passato ed a scatenare una nuova guerra nucleare devastante. Questa sì senza speranza. Aspettiamo di leggere di meglio dal nostro texano.

Conclusioni

Dato che tanto ho parlato dell’americano, non torno qui se lo scritto aderisca o meno all’assunto. Perché qui invece voglio sottolineare come invece Collodi è un punto fondamentale dell’assunzione di paternità. Che è uno stato mentale, oltre che, a volte, accidentalmente, biologico.