domenica 31 maggio 2015

Alain vs. Andrea - 31 maggio 2015

Per questa settimana un bello scontro di scrittura. Da un lato lo svizzero (che però scrive in inglese) Alain de Botton, con una scrittura a mezzo tra il saggio ed il biografico. Dall’altro il lagunare Andrea Vitali, con due nuove puntate delle sue saghe bellanesi. Devo dire che lo svizzero vince alla grande. Sarà che Vitali si sta un po’ ripetendo, sarà che sono capitate due storie non del ventennio (dove Vitali si esprime meglio), ma Alain sfoggia due ganci micidiali. Uno, anche se datato, è un buon colpo con intriganti considerazioni sull’amore. L’altro è un uppercut che usa Proust per stenderci al tappeto. Da leggere.
Alain de Botton “Esercizi d’amore” Guanda euro 11
[A: 16/02/2014– I: 02/09/2014 – T: 04/09/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: Essays in love; ling. or.: inglese; pagine: 212; anno 1993]
Devo dire che nonostante tutto questo “intellettuale” mi diverte. Certo, non è una persona che ha dovuto sudare per farsi largo nella vita, anche se ha studiato, è eclettico, cosmopolita, plurilingue, multinazionalista. Nel senso che nasce in Svizzera da una famiglia ebrea, dove impara, oltre l’ebreo tradizionale anche se non ne professa la religione, francese e tedesco. Poi si trasferisce in Inghilterra, dove si laurea in storia, dove vive e lavora, dove riceve a 30 anni un’eredità del padre di qualcosa come 250 milioni di euro. Aveva già comunque cominciato a scrivere. Ed ha continuato, senza troppi problemi, anche se sostiene di mantenersi solo con i diritti d’autore. Ma tant’è. Ne avevo sempre sentito parlare tra un orecchio e l’altro, ma non avevo avuto l’occasione di leggerne sino ad ora. In attesa di cimentarmi con un “saggio” puro (su Proust o sul viaggio vedremo), ho letto e discretamente gradito questo che nel sottotitolo inglese porta il termine “saggi”, sottolineando che sono una serie di considerazioni filosofiche e pratiche sull’amore. Per rendere poi più seguibili le sue lunghe tirate, l’autore le intreccia con la descrizione della nascita, la crescita e la morte di un amore tra lo scrittore soggettivo ed una ragazza di nome Chloe. Motivo che consente di collocare il libro fuori da molti schemi, e che gli estensori italiani etichettano “romanzo”, termine su cui ho dubbi e riserve. E naturalmente non è neanche un saggio nel senso classico del termine. Per cui, lo inseriamo nello scatolone degli scrittori moderni di sesso maschile, e cominciamo a parlarne. Non per farne una trama, invero, che come “romanzo”, appunto, si riassume in meno di otto righe. Il pensatore e Chloe si incontrano su di un aereo che torna da Parigi a Londra, lui comincia ad abbordarla, qualche scaramuccia, ristorantino, prima scopata, sinfonie varie, cinema, musei, colazioni, non vita in comune ma amore con la valigia (in fondo sono poco più che ventenni), e quando lui dopo un annetto comincia a pensare per cicli storici, lei si fredda, e va a vivere in California con un altro, lui si incazza, pensa al suicidio, passano mesi, ed alla fine… Ed il resto? Le altre 200 pagine di cosa parlano? Essendo de Botton essenzialmente un filosofo, parlano di tutto. Ma in sostanza, analizzano, sminuzzano e commentano ogni piccolo gesto ed accidente della vita quotidiana, con le armi della filosofia. Mette in campo Platone e Hegel, Marx e Lacan, Nietzsche e chi più ne ha più ne metta. Ci si interroga su tutto: che cos’è che mi ha fatto innamorare di lei? Estetica o etica? Perché mi piacciono le sue imperfezioni? Cosa voleva dire, quando ha detto? Ma non può non piacergli quella musica. Perché si è irrigidita quando la baciavo? Perché mi ha lasciato? Cosa ho fatto io di male, io che l’amavo di un amore così totale? Potrei continuare ora si per decine di righe, ma avrete già capito l’andazzo. Intanto, se incontro uno che impiega dodici pagine per dire che vuole analizzare i motivi per cui ha avuto un colpo di fulmine, e si è innamorato, giuro lo ammazzo. Inoltre, se dopo la prima scopata e la prima notte insieme, facciamo colazione guardandoci con gli occhi dolci, e lui mi viene a fare una pippa perché ho solo marmellata di fragole, non solo lo lascio, ma impiegherò i successivi 12 mesi ad impasticciargli la scrivania con tutte le fragole che trovo. Il lui della storia è talmente logorroico che alla fine risulta appunto divertente. Con il suo marxismo amoroso, il terrorismo romantico e via discorrendo. Ecco, discorrendo. O pensando. O studiando. Sembra che per duecento pagine e più di un anno il nostro non abbia fatto un passo senza analizzare perché lo abbia fatto, i motivi, le contromisure. E bla e bla e bla. Dicendo tante cose che, per come le dice, sono delle banalità colossali (e spesso si è accusato di questo il nostro tenace scrittore). Ma facciamo anche un passo indietro, e diamo ad Alain ciò che è di Alain. Se veramente ci si interrogasse su tutte le motivazioni dei nostri innamoramenti e disamoramenti, troveremo certo una scrittura che renderebbe una strofa di Baglioni tutto il libro appena letto. Ricordo ancora un me quindicenne che si disinnamorò di una ormai dimenticata lei perché non mi piacevano le sue unghie. E di cui, ora, ricordo solo le unghie, non il nome, né il luogo, né altro. In conclusione, prendiamo il libro per quello che è, divertiamoci un po’ sopra, ed utilizziamolo per domandarci qualcosa di noi stessi. Non tanto perché quello o perché quell’altro, che diventa tutta un’operazione cerebrale infinita. Ma, visto che stiamo amando (o abbiamo amato o ameremo) godiamocelo, e facciamo in modo di essere noi stessi, in tutto. Anche quando finì, anche quando ricomincerà. Solo così potremmo affrontare quello specchio, guardarci negli occhi e sostenere il nostro  sguardo, e dicendo a quella faccia: io sono così, quando sono solo, quando mi innamoro, insomma sempre. E finisco mandando un mio messaggio personale ad Alain: solo dopo aver imparato a stare da soli, si riesce ad amare, ad essere amati, ed anche a ritornare soli.
“È sempre di sconosciuti che ci innamoriamo.” (22)
“Se lei/lui è davvero così speciale [tanto che io me ne sono innamorato/innamorata] com’è possibile che lei/lui ami qualcuno come me?” (52)
“Ciò che rende l’erba del vicino più verde e desiderabile è il fatto che non appartiene a noi.” (60)
“Non esistiamo finché non c’è qualcuno che ci vede esistere, che non parliamo finché qualcuno non è in grado di comprendere ciò che diciamo; in sintesi, che non siamo del tutto vivi finché non siamo amati.” (119)
Andrea Vitali “Zia Antonia sapeva di menta” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 17/07/2014– I: 22/12/2014 – T: 23/12/2014] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 147; anno 2011]
Di ritorno dal lungo viaggio vietnamita, in attesa dei riposi natalizi, mi dedico alla rilassante lettura di un altro dei libri dedicati alla saga di Bellano, e scritti dal magistrale dottore – scrittore Andrea Vitali. Ormai tanto di lui ho letto e scritto che non ci torno ancora sopra, ricordandovi solo, che, dalla nascita delle trame, ben 15 suoi libri sono già passati sotto la mia attenta lente. Qui siamo nelle avventure oserei dire “contemporanee”, anche se direi che siamo comunque nel 1970, come ci ricorda la vittoria a Sanremo di “Chi non lavora non fa l’amore”. Non purtroppo nella miglior vena di Vitali, quella delle storie ambientate nella prima metà del secolo scorso. Anche se ci si rallegra alla strampalata storia della zia Antonia, quella che mangiava mentine a ritmi da intossicazione (ed i profumi e gli odori saranno un elemento fondamentale della storia). Ricoverata nella casa di cura diretta da Suor Speranza, inscena uno sciopero della fame perché la sua banca, il Credito Orobico, non le aveva inviato il solito estratto conto mensile. Nessuno riesce a farla parlare, né il nipote Ernesto, che da sempre l’accudisce, rinunciando ad una sua vita privata, né il dottore Aloisio Fastelli, quello che cura i malati della casa di riposo. In tutto questo si inserisce l’altro nipote, Antonio, che mai si era interessato della zia, preferendo una vita apparentemente senza pensieri, insieme alla moglie Augusta descritta come “una trentacinquenne ossigenata e vogliosa, nonché figlia di salumiere”. infatti, intuendo che la zia si avvicina alla fine naturale, tenta un ravvicinamento, in parte “nascosto”, ma che viene ben presto rivelato dal suo odore. Da molto tempo, per curarsi i suoi mali, usa dosi massicce di aglio, tanto da spanderne l’acuto odore intorno a sé, come ben sappiamo noi che abbiamo spesso visitato la Cina con i suoi mangiatori di aglio. Solo dopo che entra in scena anche il prevosto, tramite una serie di finti raggiri, si riesce a far breccia nelle difese di zia Antonia. E benché il direttore della banca sia restio a confidare i segreti di zia Antonia a sconosciuti, per favorire l’uscita dallo sciopero della fame che rischia di portare alla tomba anzitempo la vecchia signora, confida il conto al dottor Fastelli. La sorpresa è che il conto riporta la non banale cifra di 58 milioni di lire. Qui le cose ovviamente hanno un’accelerazione istantanea. I due nipoti sembrano scendere all’arma bianca per risolvere il mistero, ma zia Antonia pensa bene di dipartirsi dal mondo terreno senza aver risolto il mistero. Il nipote Antonio, avido e sobillato dall’Augusta, vuole la sua parte, ma un secondo controllo in banca rileva che sul conto ci sono soltanto 580 mila lire. Un errore di due zeri. Possibile, con le antiquate procedure bancarie allora vigenti. I due fratelli non faranno più la pace, ed Ernesto, liquiderà tutte le sue attività e se ne andrà altrove. Manca però l’ultimo colpo di scena, che Vitali lascia in mano al dottor Fastelli ed al direttore della Banca. Questi, trasferito in altra sede per fine mandato, rivela al dottore che non c’è mai stato errore nei conti della Banca. E che tra i due estratti, il cointestatario del conto della zia, ha prelevato una somma di 57 milioni e 420 mila lire, facendo scendere il conto dai 58 milioni del primo estratto alle 580 mila lire del secondo. Una bella beffa finale che mette in castigo gli avidi e i prepotenti. Insomma, alla fine Vitali, narrandoci le vicende di questa piccola umanità, che per la sua minuta essenza sembra una che noi si conosca da sempre, fa anche una piccola lezione di morale. Però è tutto in tono minore, tutto un po’ già scritto e scontato. Anche se non ci si aspettava una pronta intelligenza da parte del cointestatario del conto. Quindi, al solito, ben scritto, molto scorrevole, con qualche momento delle sue scritture migliori (la gelosia di Augusta, la severa compostezza di suor Speranza, l’aglio di Antonio, la gentilezza del dottore), ma alla fine con una resa inferiore alle solite. Speriamo si torni alle storie dei postali e dei podestà, che meglio riuscivano in intreccio ed ironia nelle altre storie di Vitali.
Andrea Vitali “Regalo di nozze” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 03/07/2014– I: 23/12/20145 – T: 24/12/2014] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 151; anno 2012]
Ed appena finito un Vitali, eccone un altro che si affaccia alla lettura. Purtroppo anche questo del periodo degli anni del boom economico italiano, cosa che, pur rimanendo la scrittura scorrevole e di piacevole lettura, fa del romanzo un’opera che, a me, è piaciuto meno. Forse anche perché carica di qualche cosa d’altro, di qualche idea di rimandi (letterari o meno) che rendono più farraginoso lo svolgersi delle altrove fluenti pagine, pur sempre racchiuse nella loro stringata brevità. Ecco, quell’accenno finale, extra libris, a Telemaco, Penelope ed i Proci, quasi che il “regalo di nozze” del titolo servisse ad esorcizzare le paure di Assunta-Penelope per salvare la vita del figlio Ercole-Telemaco. Tutto ruota intorno ad una 600 bianca, simbolo iconico degli anni del boom. Una 600 che Ercole, ora che sta per sposarsi, rivede casualmente per le strade di Bellano, e che, madeleine proustiana improvvisata, gli fa fare un salto di venti anni all’indietro. Quando erano vivi sia papà Amedeo che zio Pinuccio. Molto, quasi tutto, ruota intorno proprio allo zio, che all’epoca della 600 era un “gagà”, come si diceva all’ora. Ora penseremmo a lui come uno sciupa-femmine, o altri gentili sinonimi per un ragazzo che voleva godersi la vita, e spassarsela con tutte le donne che gli giravano intorno. Un ragazzo dalla parlata svelta e dal fisico atletico ed accattivante. Dopo che Vitali ci introduce un po’ nel mondo della famiglia Correnti com’era all’epoca (Ercole bambino, la madre Assunta gioviale, lo zio Pinuccio rubacuori ed il papà Amedeo, quarantenne giovane di bottega notarile), ci addentriamo nel ricordo principe di quei giorni, quello che è rimasto ad Ercole per tutti questi anni. La gita al mare. Amedeo aveva comperato da pochi mesi la FIAT nuova, ma non che ci si girasse tanto (in fondo Bellano non è tanto grande, e si gira a piedi). Ma Ercole non ha mai visto il mare, ed inopinatamente zio Pinuccio propone proprio una gita, che, scavalcando il passo della Futa, vada verso i lidi liguri. Nel racconto e nel ricordo di Ercole si snodano quindi le strade verso Milano, poi la salita, il fermarsi per mangiare la teglia di parmigiana innaffiata dal vino rosso. E quando comincio ad intravedere il mare di lontano, Ercole, ubriacato da un po’ di vino e da molte curve, si sente male, vomita, ed allora si torna verso casa. Ma se all’andata guidava Pinuccio, al ritorno guida Amedeo, che non è abituato, che si stressa ad ogni cambio marcia, ma che, alla fine, riporta tutti a casa sani e salvi. Questa però è solo la punta dell’iceberg del romanzo di Vitali, quella che serve a dimostrare come dietro una cosa ce ne possano essere tante altre e di diversa natura (un po’ come ne “Il senso della fine” di Barnes). Il giorno dopo, appena arrivato dal notaio, Amedeo ha un infarto e muore. Assunta, per sbarcare il lunario, decide di accettare di prendere il posto del marito, e da allora farà la giovane di bottega per il notaio. Anche Pino decide di mettere la testa a posto, e dopo poco chiede la mano di Angelica, che sposa, una ragazza del posto, dopo tutte le cavalline che lo zio aveva corso. Il secondo colpo verrà dalla gita di nozze, per la quale Pinuccio ed Angelica chiedono in prestito la 600 di Amedeo, che Assunta (pensando sia macchina sfortunata) decide di regalargli. E macchina sfortunata è, che, da poco partiti, abbagliati dai fari di un camion, vanno dritti in una curva e finiscono, annegati, nel lago. Per questo, ora che sta per sposarsi, per esorcizzare le morti legate alla 600, come regalo di nozze, Assunta darà al figlio un modellino di 600. Questo sembra rasserenare gli animi, ed induce il giovane a rivedere tutte le foto della giovinezza. Qui ci si imbatte nell’ultimo mistero. Una foto di un bimbo con madre inviata dall’Olanda a dieci anni dalla morte di Pino ed Angelica. Sarà Assunta che scoprirà l’ultimo velo. Pino aveva preso all’amo una bella olandesina in vacanza sul lago, che si era innamorata persa di lui, che lo voleva sposare portandoselo in Olanda. Proprio per sfuggire a quello che riteneva un accalappiamento, Pinuccio propone ed organizza la gita al mare. Doveva vedersi con la bella e partire con lei. Invece parte con la 600 per tutta quella gita che rimase epica nella mente di Ercole, e che ora, svelati i retroscena, assume tutti altri colori. Qui termina, un po’ con dolenza, il romanzo, che appunto rivela come Vitali, ogni tanto, abbia voglia di puntare alto. Ma, seppur la storia scorre, la tensione non tiene. E soprattutto manca tutta quella dose di ironia, che altrove sorregge ed irrobustisce le sue storie. Non mi è dispiaciuto, ma vorrei tornare a leggere del Vitali più allegro, più sciolto, forse anche più ironico (seppur sempre nella correttezza dei suoi assunti). Aspettiamo pazienti.
Alain de Botton “Come Proust può cambiarvi la vita” Guanda euro 10
[A: 01/07/2014– I: 21/02/2015 – T: 24/02/2015] - &&&& e ½ 
[tit. or.: How Proust Can Change Your Life; ling. or.: inglese; pagine: 194; anno 1997]
Magistrale. Ed anche se non è un romanzo non posso che tenerlo qui, tra i romanzi ed in compagnia con l’altro libro dello svizzero di scrittura inglese. Perché pur non essendo un romanzo si parla di romanzi e di scrittori, o meglio (per la maggior parte) di un romanzo e di uno scrittore. Inizio quindi con una domanda, sottesa al testo di de Botton, ma mai esplicitata: “Chi ha letto Alla ricerca del tempo perduto?” o meglio “Chi ha letto almeno uno dei sette volumi del lavoro di Proust?”. Io, confesso, pur ritenendomi un degno lettore, non ho letto il librone, ne ho solo letto il primo libro trasformato in un egregio fumetto intitolato “All'ombra delle giovani fanciulle in fiore” disegnato da Stèphane Heuet ed uscito in Italia per le edizioni “Il Grifo”. Fatta questa digressione torniamo a questo libro, che oltre a svolgere il dettato del testo, è comunque un grande atto d’amore verso l’autore francese. Amore nel senso che, per chi come me l’ha solo incrociato in tutti questi anni, ne rivela aspetti, modi e tanto altro che non mi aspettavo. Intanto la famiglia, che noi si è sempre pensato solo alla madre, oppressiva ma molto amata. C’è anche un padre, grande medico della fine dell’Ottocento, che scrisse ottimi trattati per l’Igiene e per l’Esercizio fisico. E c’è un fratello minore, chirurgo specializzato in interventi di prostata (tanto che si parlava all’epoca di “proustectomie”), dotato di una salute di ferro, e che, alla morte di Marcel, curerà l’uscita dei volumi della Recherche non ancora pubblicati. E poi c’è Marcel! Che esce fuori da queste pagine come un essere discretamente strambo. Malato o ipocondriaco? Sicuramente omosessuale, ma senza morbosità. Letterato, pignolo, amicone, gaudente (ma con particolarità tutte personali). Lettore attento di tutto (anche di giornali). Per fare esempi di queste sue “stranezze” diciamo che amava ricevere gente, ma odiava farlo in casa sua, per cui invitava tutti al Ritz, dove offriva cene e chiacchierate. Legge un fatto di cronaca di 10 righe, e scrive su questo un “racconto” di pagine e pagine, per dimostrare come interpretare l’uccisione della madre da parte di un soggetto disturbato, tirando in ballo modelli classici greci e molto altro. Benché cagionevole, lo portavano (e si divertiva) ai balli (tant’è che proprio alla fine di uno di questi, tornando sotto la pioggia, si prende la polmonite che lo porterà alla tomba). Una sera si trova a teatro con Joyce, e l’unico scambio che hanno i due è “Hai letto il mio libro (Ulysse dice Joyce, Swann dice Proust)” ed entrambi rispondono “No” e si salutano. Ma questa non è una biografia per quadri, non è un pastiche che usa personaggi storici per farne ironia, o rifarne il verso. È realmente un atto d’amore e di conoscenza, che impiega questi, ed altre modalità proustiane, per dare “consigli di vita”. Che, a leggere bene la vita e l’opera di Marcel, molto possiamo trarne per riflettere sulla nostra vita e sui nostri comportamenti. Tra i tanti possibili spunti (che comunque lascio a voi lettori, ingiungendovi di leggere assolutamente questo libro), ne commento due che mi sembrano emergere con forza dalle mille proposte di de Botton. La prima riguarda l’atteggiamento verso la vita. La seconda l’atteggiamento verso i libri e gli scrittori. Un suo giovane amico si lamentava della miseria della propria vita, e, per tirarsi su, andava al Louvre a vedere i maestosi palazzi del Veronese o le scene principesche di Van Dyck. A lui Proust suggerisce allora di fare due passi in più nel museo ed andare a vedere le scene di vita quotidiana di Chardin. Avrebbe così apprezzato il pane sulla tavola, ed altre quotidianerie ben dipinte. Non è vedendo belle cose, ci dice Proust, che apprezziamo la vita (anche se possono aiutare), ma vedendole con occhi nostri. Come non è che andando a vedere i luoghi proustiani che ci sentiamo più vicini a lui. Ma sempre imparando a vedere. La Recherche non ci serve come “mappa” per seguire i luoghi e i personaggi che rappresenta, ma per capire, leggendone, come guardare le cose che ci stanno intorno, le cose che viviamo. Non è che, poiché Proust non ha mai descritto una pompa di benzina, che non ne possiamo apprezzare le linee e le forme che si stagliano nella campagna provenzale. Il secondo elemento, che a me poi tocca da vicino, è il libro. Il libro invece deve essere letto, ma non deve divenire un feticcio. Ed il suo autore non è “intoccabile”. Può saper molto, ma non tutto. Il libro serve da spunto, per partire da lì per superarlo. Un inciso, prima di finire. A partire dalla Recherche sono stati scritti molti libri con le ricette dei cibi descritti. Potremmo fare cene con “La cucina ritrovata” (così come ho fatto in gioventù con Maigret e Nero Wolfe), ma la sua “madeleine” non sarà mai la nostra, come il “mio” cioccolato sarà sempre e solo mio. Alain de Botton è maestro nel condurci per mano, attraverso scritti e vicissitudini di Proust, per farci appunto concludere arrivando a capire come Proust affrontava la vita. E, non per affrontarla come Proust, ma per affrontarla avendo appreso la lezione di Proust. Insomma, un pastiche ben scritto, con molti spunti di pensiero e qualche ironia che non guasta (e tanta, tanta conoscenza che fa piacere condividere).
“Ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera è solo uno strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso.” (30)
“Potrebbe essere un motto proustiano: Non andate troppo in fretta, … [così] che il mondo diventi più interessante nel raccontarlo.” (52)
“C’è qualcosa la cui capacità di esasperarci non sarà mai uguagliata da nessun essere umano: ed è un pianoforte [e chi vi si esercita].” (67)
“Certe piccole bugie servono solo a confermare il nostro affetto nei confronti di qualcuno che forse ne avrebbe dubitato.” (127)
“L’amore? Lo faccio spesso, ma non ne parlo mai.” (170)
“Per rendere omaggio a Proust dobbiamo cominciare a guardare il nostro mondo attraverso i suoi occhi, e non guardare il suo mondo attraverso i nostri occhi.” (193)
Finisce anche questo mese di maggio, di solito dedicato ai buoni proponimenti. Speriamo che sia e che continui. Anche se quest’anno le letture vanno a rilento, forse se ne acquista in migliore qualità, anche se mi aspettano valanghe di classici polizieschi con Agatha e Georges. Per ora si continua la programmazione dei prossimi quattro mesi.

domenica 24 maggio 2015

L’estate che uccisi … due donne - 24 maggio 2015

Chiedendo scusa a Luana di aver “saccheggiato” il suo titolo, mi riferisco alle due prove “gialle” poco esaltanti (sia perché non mi sono piaciute sia perché partono di poliziesco e finiscono altrove) di Alice Sebold e di Margaret Doody. Ma questa settimana dedicata alla scrittura femminile si apre invece con l’ottimo libro di Luana Vergari e si chiude con l’interessante riscoperta di Barbara Comyns. Comunque, cominciate leggendo Luana.
Luana Vergari “L’estate che uccisi mio nonno” NPE euro 9,90
[A: 27/10/2014– I: 28/10/2014 – T: 29/10/2014] - &&&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2014]
Sono veramente contento di avere l’occasione di tramare di nuovo e compiutamente un libro della mia amichetta Luana. Dopo le degne prove di sceneggiature a fumetti (su cui torneremo) ecco che Luana si cimenta anche con la scrittura a tutto tondo, regalandoci un libro da leggere tutto d’un fiato. Perché veloce, perché moderatamente corto, perché ti tiene un po’ con il fiato sospeso. E non perché (come c’è scritto in copertina) sia un thriller, anzi un anti-thriller. Ma perché siamo sempre lì, in apnea a seguire le vicende del bimbo protagonista. Uno con la solita sfrenata fantasia latente o presente in molti personaggi della scrittrice. Una fantasia che si addormentava per non affrontare il presente (in “Ely è là”). Una fantasia che rende attuabili cose che altrimenti vedremmo soltanto nei videogiochi (e più non dico, ma questo ragazzino quant’è vicino ai “mostri” di “Caro Babbo Natale…”?). Luana Vergari, in un incontro pubblico organizzato nella simpatica libreria romana Giufà di San Lorenzo, sosteneva che questi 51 capitoli potevano essere letti indipendentemente, a caso, ognuno auto-contenuto. A valle di una lettura ordinata, convengo con lei. E mi domando anche se quest’ordine abbia un senso. O se, come in un poema di Queneau, si possa far volare le pagine, e poi riunirle. Uno degli elementi belli e forti del libro è anche questo, che, anche se letti in ordine diverso, la storia comunque viene fuori. Una storia che poggia su due elementi trainanti: la storia reale (quella che viviamo come “vita”, con il succedersi degli eventi, e con la loro concatenazione logica), e la storia soggettiva del protagonista. Che prescinde dal tempo. Luana riesce a farci cogliere questo elemento (forse frutto della sua lunga e profonda esperienza proprio con i bambini), questa mancanza di temporalità nelle vicende soggettive, questa logica interna che è del bambino e che non si riesce (spesso) a comunicare. Questo è il secondo elemento forte del libro, questa capacità di restituirci il mondo dell’infanzia, così com’è, soggettivamente incongruo, ma internamente assolutamente congruente. Come spesso in Luana, è la storia di un trauma, ancora più doloroso che i bambini sono meno corrazzati e quindi ricorrono alla fantasia per non essere schiacciati dagli eventi. Il nostro protagonista, oppresso da una madre tiranna e piena di regole, ma ancor più destabilizzato da un padre compiacente (che minando le regole familiari, le rende folli agli occhi del bimbo), è immerso in quel limbo fantastico che un po’ tutti ci coglieva tra l’asilo e le elementari. E poiché il mondo avanza (parliamo di televisione? parliamo di video-giochi? sappiamo tutti cosa ne sta venendo fuori…), i bambini si trovano sempre più ad immedesimarsi in una realtà più rassicurante di quella che si vive. Il nostro, quindi, si identifica in un super-eroe dotato di super-poteri, con una super-pistola con la quale terrorizza e sconfigge i cattivi. Il nonno ha la cattiva idea di regalargli un treno di legno (cosa da lui odiata), ed il bimbo spara alla foto del nonno con la super-pistola. Il nonno ha la seconda cattiva idea: muore. Il bambino associa la morte del nonno alla super-pistola, ma, come tutti i bambini, non associa la morte del nonno alla “morte”. Un bimbo ancora non razionalizza tutto ciò. La famiglia, allora, si precipita in macchina verso la Sicilia per il funerale. E durante la strada sono assaliti e rapiti da due “sbandati” che vogliono un riscatto. Mentre i genitori vengono legati, e la madre anche imbavagliata, dato che è veramente una scassapalle, il bimbo simpatizza con i due meschinelli. Non solo, ma scambia la sua pistola con quella di Vik, perché così questi diventerà più forte (è sempre una super-pistola, no?). Peccato che quella di Vik sia “vera”, peccato che con questa il bambino spari e ferisca la madre. Un po’ se ne dispiace, anche se ritiene quasi che “se lo sia meritato”. I rapinatori fuggono, la madre si ricovera in ospedale e guarisce, il padre ed il ragazzo vanno al funerale del nonno, e da quel momento il bimbo viene anche seguito da uno psicologo. Certo che il trauma è stato forte, e lui si è rifugiato nel suo mondo per superarlo. Dando poi voce, come confessa all’inizio, a quello che gli si accumula per la testa. Ora non è importante come sia morto il nonno, chi ha sparato alla madre, e tutti gli altri traumi che si vedono in controluce nel libro. Quello che importa, e che Luana ci riporta mirabilmente, è quanto passa nella testa di questa persona (che un bambino È una persona, piccola ma intera). Si accatastano così sensazioni, idee, momenti di vita. Il tutto condito dalle capacità verbali ed affabulatorie della scrittrice. Indimenticabili la storia della “gatta al largo”, la teoria dei colori, gli “orari fusi”, lo stare silenzioso. Luana riesce a rappresentarci con questi fogli di vita vissuta (così ribattezzerei i capitoli) proprio la vita di questo bambino, così come lui la sta vivendo. Ringrazio quindi la mia amica scrittrice per lo sforzo che ha fatto al fine di rendere fruibili le sue pagine (e so che non è stato facile), all’idea che ci instilla dei molti linguaggi presenti in ognuno di noi. Vuoi perché legati alle età della vita, vuoi perché legati all’andare pel mondo, così che ci si agglutinano dentro tante parole, tante idee, ognuna con il suo preciso spazio. Una bella lettura, che mi ha fatto tante anabole al cuore ed al cervello (non è un errore di stampa, è un piccolo dono di un immaginifico T9 che faccio alla mia amica Luana).
Alice Sebold “Amabili resti” E/O euro 11
[A: 04/01/2014– I: 31/10/2014 – T: 03/11/2014] - && e ½ 
[tit. or.: The Lovely Bones; ling. or.: inglese; pagine: 345; anno 2002]
Ecco un altro di quei libri di cui uno sente tanto parlare e non sa se comprare o meno, se leggere o meno. Rimasto a lungo nell’indecisione, sotto la spinta libropatica che ormai avete imparato a conoscere, mi sono deciso ad intraprenderne l’ardua lettura. Ardua non in quanto difficile, ma in quanto mi aspettavo qualcosa di leggermente più “realistico”. Soprattutto dopo quell’attacco in prima persona in cui la narrante confessa di essere una ragazza di quattordici anni, stuprata ed uccisa. Quest’artificio si può accettare, visto che così Suzie, la protagonista, può descriverci gli avvenimenti e commentarli, agendo come “deus ex-cathedra” della storia (non machina giacché non riesce praticamente mai ad intervenire, e tuttavia descrive e bene quello che accade ed i sentimenti degli attori sulla scena). Quello che mi è andato meno a genio è quel sottofinale un po’ fantasy, quasi ad imitare il film “Ghost”, quello con Demi Moore, per intenderci. Tralasciando questa parte, ed anche il finale vero e proprio, dove vediamo i protagonisti (a parte la morta) cresciuti ed il cattivo… beh quella del cattivo non ve la dico. Comunque, tralasciando le ultime 40 pagine, veniamo al libro in sé, alla parte “sana” del racconto. Sicuramente, c’è tutto un grido di dolore contro le ragazze stuprate in giro per tutta l’America, dove credo sia un fenomeno con una ricorrenza ed una risonanza maggiore che da noi (ovviamente, con questo non dico che non ci sia anche in Italia; tuttavia un conto è lo stupro, che penso sia purtroppo presente costantemente, un conto è l’omicidio che ritengo meno frequente nel nostro vecchio e bistrattato mondo). Contro l’assassino, contro la polizia che spesso è incapace di trovare prove e portare a compimento indagini (ed il libro è più realistico di molte fiction tv, a volte troppo consolatorie, dove i colpevoli sono sempre puniti). Vediamo i modi con cui George circuisce ed uccide la piccola Suzie, il modo con cui prende in giro vicini di casa e poliziotti. Poi la stessa Suzie ci porta negli omicidi precedenti dello psicopatico, ci fa vedere come solo suo padre Jack pensa a lui come colpevole. Ci porta accanto alla sorella Lindsey che trova possibili prove, ma anche ci fa vedere come George riesca a scappare perché… Questo tormentone, poi, ci seguirà per tutto il romanzone. Insieme alla storia della famiglia di Suzie, e di alcuni personaggi che le sono vicini e che vengono coinvolti dal dolore della morte e dalla incapacità, per molto tempo, di elaborare il lutto. Abbiamo la madre, che era compressa nel ruolo di portare avanti una famiglia senza molto aiuto da parte di Jack, che prima cerca di rifiutare la morte, poi di esorcizzarla (magari con una scopata selvaggia nei momenti meno opportuni), poi, quando non può fare a meno di costatarla, decide di fuggire. Lascia la famiglia e la Pennsylvania, e si rifugia in California, fino a che … C’è Jack, il gran lavoratore, tutto preso dall’amore verso il figlio maschio, ma che rimane attonito alla morte di Suzie, non ne esce fuori, abbandona (almeno di testa) la moglie ed il resto, aggrappandosi a piccoli episodi e riti quotidiani, ma che rimane (per me) una figura di poca simpatia. C’è il fratellino Buck, troppo piccolo per capire a pieno la morte di Suzie (all’inizio ha quattro anni), poi cresce coccolato dal padre, con l’idea dell’esistenza di questa strana sorella mai realmente conosciuta, ma anche con la mancanza della madre che, rabbiosamente, rivedrà solo dieci anni dopo. Inciso: alla fine il romanzo copre un po’ più di dieci di storia, dalla morte di Suzie allo scioglimento del suo Cielo (checché voglia dire quello che ho scritto). C’è la sorella Lindsay, quella più brava, più intelligente, più colpita dalla morte (che da entità a sé, diventa “Lindsay, la sorella di…”). Quella che trova le prove della colpevolezza di George, quella che si innamora di Samuel, un compagno di classe, con il quale, dopo la laurea, decide di sposarsi ed andare a vivere in una casa fortuitamente scovata nei boschi, e di proprietà del padre di Ruth. C’è Ruth, appunto, quella dark, quella strana, quella sfiorata dall’anima di Suzie quando questa muore, che dedicherà la sua vita di poetessa alternativa alla commemorazione di Suzie ed alla ricerca di tutte le altre ragazze morte, per ricordarle nei suoi diari. Coinvolgendo, non spesso ma nei momenti significativi, l’indiano Ray, quello innamorato di Suzie, quello, solo, che riuscì a darle un bacio vero prima della morte della nostra eroina. Speravo che Ray e Ruth si mettessero insieme, ma non era destino, anche se… Insomma, tutta la parte non “poliziesca”, è dedicata agli sforzi di Suzie di far accettare la propria morte ai propri cari. E tutto il libro è quasi un inno alla elaborazione del lutto, ed alla maniera, quindi, di uscirne in modo positivo. L’utilizzo di metodi fantastici, tuttavia, mi ha fatto apprezzare meno questo sforzo. Rimane tutto avvolto in un po’ di favolistico, che mi è poco congeniale, poco fruibile in questo nostro mondo concreto. Dove, purtroppo, tanti lutti avremo da elaborare, fortunatamente non così “funesti” come questo. Peccato!
Margaret Doody “Aristotele nel regno di Alessandro” Sellerio euro 16 (in realtà, scontato a 13,60 euro)
[A: 02/12/2013– I: 13/12/2014 – T: 17/11/2014] - & e ½
[tit. or.: A cloudy day in Babylon; ling. or.: inglese; pagine: 574; anno 2013
Per quanto mi siano piaciuti i primi scritti della canadese Doody sulle attività di detective del buon Aristotele, con l’andare dei romanzi gli scritti si sono appesantiti e le trame con tinte di giallo si sono alleggerite. Nei primi, la Doody riusciva con agilità a mescolare la sua profonda conoscenza del filosofo, con casi giudiziari che mettevano in risalto un elemento della complessa visione del mondo di Aristotele. Ci furono l’etica, la giustizia ed altri elementi significativi. Ma subdolamente, il personaggio del narratore, Stefanos di Atene, veniva quasi a scalzare il nostro, almeno per gran parte della scena. Fino a diventare quasi lui il centro dei libri. Cosa che si fa assolutamente avanti in questo che, forse, potrebbe essere l’ultimo libro della serie. Per una serie di motivi: non ha avuto un grande riscontro internazionale, è molto (forse troppo) lungo, non è ben riuscito nell’amalgama degli ingredienti, ci porta a vivere gli ultimi giorni di Alessandro ipotizzando fantasiose attività criminali, ma che, in ogni caso, portano, alla morte del Grande (ma in italiano siamo abituati anche a chiamarlo Magno) ed alla conseguente caduta in disgrazia di Aristotele presso gli Ateniesi. Un piccolo inciso collegato a quest’ultimo avvenimento, ed al solito non gradito intervento sul titolo. In inglese, un giorno di nebbia a Babilonia si riferisce, secondo le effemeridi babilonesi, all’11 giugno del 323 a.C. proprio al giorno nuvoloso in cui morì Alessandro. Rititolarlo “Aristotele nel regno di Alessandro” fa perdere questo significato, introducendo il nome del filosofo come elemento per comperare il libro, ed aggiungendo il luogo degli avvenimenti diminuisce tutta la preparazione che la scrittrice fa per nasconderci e poi svelarci la missione segreta di Aristotele, che, per l’appunto, troviamo dopo la metà del libro prima ad Ecbàtana e poi a Babilonia. Questo perché tutto il libro si fonda proprio sugli ultimi mesi (o l’ultimo anno) della vita di Alessandro, dal suo ritorno dopo la campagna indiana sino alla morte. Per non farci mancare quel minimo di trama cui ci aveva abituato negli altri libri, c’è una piccola storia di ruberie ed inganni che coinvolge l’infido tesoriere Arpalo, il generale Cratero (genero di Antipatro) ed altri personaggi minori. Motivo per cui Stefanos va ufficialmente presso la corte di Alessandro al fine di risolvere il tutto, essendo lungo la via spettatore ed artefice di altre uccisioni di minor conto. Questa sotto trama è però poco sviluppata, e ad un certo punto data per risolta senza un vero perché. Dato che il motivo reale del viaggio di Stefanos è accompagnare Cassandro, figlio di Antipatro, proprio presso Alessandro. Qui si colloca il fulcro della vicenda con i suoi molteplici intrecci (che tuttavia la scrittrice o dà per noti o non ne svela le connessioni). Il primo punto di incontro, appunto Ecbàtana (oggi Hamadan in Iran), vede il ritorno di Alessandro dall’India, i tributi a lui portati, lo scontro con il giovane Cassandro sul non arrivo del padre, la soluzione del mistero di Cratero e la sua partenza con diecimila reduci verso la patria macedone, per culminare con la morte di Efestione. Questi era l’amico del cuore di Alessandro, e muore, pare, per febbri tifoidee aggravate da assunzioni di alcool. Alessandro ne è sconvolto e non si riprenderà più. Vengono allora descritti gli otto mesi che seguono, il ritorno a Babilonia (ora Al-Hillah in Iraq), gli intrighi di corte, cui vegliano sornionamente i due generali del Re, Tolomeo e Perdicca, le manovre di Roxane che aspetta un figlio da Alessandro, nonché altri avvenimenti di minor rilievo (ma che servono ad incasinare i fili della storia). C’è un capitolo sullo zoroastrismo (tanto per non farci mancare nulla), uno sui maghi caldei (comprensivi di divinazione ed osservazioni astronomiche), nonché una piccola storiella amorosa del povero Stefanos con la bella Shiran (d’altra parte è quasi un anno che è partito da casa). Anche qui, tutto culmina con la morte di Alessandro (anch’essa storicamente avvolta nel mistero, febbri, indigestione, disperazione, veleno), e con l’inizio della lotta alla successione. Che non ci sarà esplicita, dato che ognuno avrà un pezzo dell’Impero, ma porterà a lunghi anni di turbolenza. Quello che sottolineiamo è la concessione dell’Egitto a Tolomeo, l’unico che manterrà saldo il lascito, facendo nascere da lì la dinastia Tolomea (e fondando la città di Tolemaide, per chi non lo sapesse). La morte del Grande, comunque, scioglie tutti i legami ed i nostri tornano ognuno ai propri paesi. Come in un giallo (ma ripeto, giallo non è tanto che ne colloco la trama tra i libri d’autrice moderna), nel finale Stefanos e Aristotele tentano di riannodare i fili dispersi, senza riuscirvi molto. A noi rimane il filo che segue l’autrice. Prima di tutto con quella bella figura di sessantenne che è il filosofo, ma che non possiamo convenire con la Doody sulla possibilità che si allontani un anno da Atene, si travesta, e poi sia lui che, in qualche modo, “avvelena il proprio figlio”. Ricordiamo infatti che Alessandro lo ebbe come Maestro. E da Maestro, il filosofo si accorge che ormai per il Re non c’è più redenzione, riscatto o altro. Meglio morire, anche lui a 33 anni, e lasciare il ricordo imperituro delle sue imprese immortali. Tutto mi ha lasciato dubbioso: un finto giallo, una ricostruzione da un lato filologica (con dovizia di testi citati e letti, anche se la citazione a pagina 577 è indicata con un capitolo sbagliato), ma con una resa decisamente in tono minore. Per questo pochi punti a favore, solo qualcosa in più del nulla, per avermi spinto a riprendere in mano testi e ricerche e ricostruire, per mio conto, il filo di quelle vicende. Un capitolo che credo ormai chiuso, quello di Aristotele, e difficilmente riapribile.
“Le persone che non traggono piacere dalla loro vita difficilmente apprezzano quella altrui.” (132)
Barbara Comyns “I miei anni a rincorrere il vento” BUR euro 10
[A: 04/01/2014– I: 05/02/2015 – T: 09/02/2015] - &&&& 
[tit. or.: Our Spoons Come From Woolworths; ling. or.: inglese; pagine: 231; anno 1950]
Poiché il libro mi è piaciuto, e ringrazio le mie libropeute di “Curarsi con i libri” che ne consigliano la lettura a chi non sa come affrontare (e vincere) la maternità, comincio con l’unico punto dolente: il titolo. Certo, l’originale è poco comprensibile se non si sa chi è Woolworths (la grande catena di magazzini a basso prezzo, nata in America, ma dagli anni Venti insediatasi anche in Inghilterra) e non si conosce Rachel Ferguson che, negli anni ’30 scrisse un romanzo intitolato “Le sorelle Bronte vanno da Woolworths”. Insomma, il magazzino è sinonimo di povertà (tipo i nostri UPIM degli anni Sessanta), e comprare lì i cucchiaini è indice di scarsissima agiatezza. Infatti tutto il libro, oltre che sulla maternità, è incentrato sulla povertà e sulla ricerca di una propria strada da parte di Sophia, alter-ego della scrittrice. Anche  perché, seppur nel solito travisato modo della scrittura, parte della giovinezza di Barbara si ritrova nella storia di Sophia. Quella che dopo poche righe ci fa tornare ai venti anni dell’io narrante, ed all’inizio della sua storia di vita e d’amore. L’incontro in treno con il fascinoso pittore Charles. L’amore a prima vista. La convivenza, poi la decisione, contro ogni regola ed ogni suggerimento, di sposarsi. Sophia fa mille lavori per potare a casa qualche penny, Charles è un artista. Ha genitori separati, con una madre presupponente che non fa altro che intervenire nella loro vita solo per sapere se il padre dà loro soldi (così da poterne chiedere lei). Ed un padre che più assente di così non si può. Sophia e Charles sono dei veri bohèmien degli Anni Trenta, senza soldi appunto, e lei che gira con una salamandra in tasca. Sophia ci racconta la ricerca quotidiana di qualcosa da mangiare, di lavoretti, di prestiti, di banchi dei pegni. E poi della maternità, che Charles rifiuta. Che Charles è un artista, e si preoccupa solo se non ha i soldi per le sigarette. Bellissime sono le pagine del parto in ospedale di Sophia (capitoli 10 e 11). Si continua a leggere e ad incazzarsi per la remissività di Sophia, per l’inconsistenza di Charles, per l’arroganza della madre. E mentre il bambino cresce, Sophia rimane incinta per una seconda volta e nasce una piccola e delicata bambina. Charles fa sempre più lo stronzo, rifiutando lavori poco rappresentativi ma remunerativi. E la coppia cade sempre più in povertà. Ma è solo Sophia che ne patisce. Siamo nella discesa agli inferi, ed infatti Sophia capendo che sta precipitando, cerca di staccarsi dall’artista maledetto, ma la sua estrema povertà e mancanza di aiuti, la conduce ad un momento di totale indigenza, tanto che la bambina muore. Da qui, anche se già si notava che Sophia andava maturando pagina dopo pagina, lei prende coscienza. Lascia l’ignobile, tramite degli amici trova posto fuori Londra come governante. Ci si trasferisce con il figlio, dopo un lungo periodo di riabilitazione mentale. E lì finalmente trova una sua dimensione. Sa cucinare, sa mandare avanti la casa. Non è più la scapestrata della giovinezza, quella che senza soldi si metteva sulla scia del gruppo di letterati alla Virginia Woolf. Certo la seconda parte è meno disperata, ma rende conto appunto della maturazione pur con la costanza di rimanere se stessa. Finalmente divorzia da Charles. Naturalmente continua a far crescere il figlio tanto amato, di cui sembra una sorella maggiore (l’ha avuto sulla soglia dei venti anni). È ben voluta in quella casa. Ed alla fine trova anche un altro artista che con sensibilità e caparbietà si conquista passo dopo passo un posto nel suo cuore. Poi in quella del figlio. Il libro si chiude con questo messaggio di speranza e fiducia nelle possibilità di uscire dalla crisi se cerchiamo in noi stessi i motivi della crisi stessa e le risorse  per superarla. Questa fa Sophia, e noi con lei ad aiutarla ad uscire da UPIM per entrare alla RINASCENTE. Come si diceva, poi, è anche una specie di semi-autobiografia, che anche Barbara si sposa giovane con un artista scapestrato, e vive i primi anni della sua ventina alla ricerca di conciliare il pranzo con la cena. Anche lei farà due figli, che però non moriranno. Ed anche lei troverà il modo di sganciarsi dall’ambiente malsano. Poi il suo percorso sarà diverso, che incontrerà un nuovo amore, che  la farà uscire per sempre da questa povertà. Peccato che il suo nuovo uomo sia un amico di Kim Philby, e per allontanarsi dall’Inghilterra in un momento di pericoloso spionaggio, accetta di vivere nella casa spagnola della spia russa. E Barbara vivrà per 16 anni vicino a Barcellona poi in Andalusia, ritornando a Londra solo dopo più di venti anni, a metà degli anni Settanta. Ma torniamo e finiamo con il libro, con le lacrime di dolore per Sophia, con la speranza di un mondo diverso per chi lotta con tutta sé stessa. E se ne conoscono esempi. Un altro buon libro!
“Quando ci arrivai era molto meglio di come me l’ero aspettata. Di solito è così con le cose che temiamo: solo le cose che desideriamo vanno completamente storte.” (180)
Visto che siamo nel centenario dell’entrata in guerra un saluto ai fanti ed al Piave, ma anche auguri a chi, certo un po’ meno, oggi compie gli anni. In questa fine maggio forse un po’ più fredda di quanto ci si aspetta, intanto si prosegue alla programmazione dei prossimi viaggi. Ci aspetta l’America...

domenica 17 maggio 2015

Italiani in giro - 17 maggio 2015

Intorno al mondo o intorno a se stessi? E quanto l’uno e l’altro sono intercambiabili? Oggi abbiamo un quartetto eterogeneo, ma con una resa superiore alla media (a parte, e mi dispiace, il me assai caro Baricco). Un libro antico di Piero Chiara piaciuto più di quanto mi aspettassi. La sorpresa di Diego Marani che invito caldamente a leggere. Una buona resa di Paolo Di Paolo, dopo un suo libro  che non mi è piaciuto. Ed un Baricco interessante, ma da cui mi aspettavo di più (in attesa di capire se voglio poi leggere il suo ultimo parto).
Piero Chiara “Vedrò Singapore?” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 20/05/2014– I: 04/11/2014 – T: 06/11/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 198; anno 1981]
Mai facile il mio rapporto con lo scrittore Piero Chiara. Certo per problemi di mie “follie giovanili” e non certo imputabili all'autore. Ero, infatti, ancora sotto le ali genitoriali e mi capitò tra le mani, pescato nella già enorme libreria familiare, un libro del nostro (“Il piatto piange”). Iniziato a leggere, portato avanti con sentimenti alterni, per problemi a me tuttora ignoti, purtroppo, mancante di un certo numero di pagine del finale (se non ricordo male erano le ultime 28 pagine). Direte voi: e allora? Niente, cestinai il libro e decisi (incolpevole l’autore) che non era un autore che avrei letto o riletto spesso. Misteri della gioventù. Ora, sotto la sempre solerte spinta libropatica, tiro fuori questo veloce scritto. L’ultimo pubblicato in vita, anche se tra i primi ad essere concepito, e poi pensato, corretto e rivisto per anni e anni. Leggendone, e ricordando quella prima lettura, vedo facilmente una delle radici da cui è venuto fuori quell'Andrea Vitali che di tanti libri ha riempito i miei scaffali. Con tutti gli ovvi distinguo del caso, ma è lì, nella piccola provincia italiana che nascono momenti di letteratura (e non arrischio di certo giudizi se sia alta, bassa o così così) di sicura presa verso un lettore che non sia distratto. Certo, questo libro di Chiara è più filologico e biografico dei veloci appunti del medico di Bellano. E Chiara, inoltre, ha di certo un umorismo più datato e se vogliamo meno scoppiettante. Pur tuttavia, è lo scrittore luinese che traccia la strada. Quella della descrizione minuta dei caratteri, quella dei caratteri che riempiono i giorni e le notti dei più sperduti punti italici, quella dell’ironia sulla sovraesposizione che nel fascismo facevano di sé personaggi tronfi e forti solo del loro grado e non della loro esistenza. Libro in gran parte biografico, ripercorre l’anno 1932 quando il giovane Piero, dopo mille lavori saltuari, arriva 118° su 119 posti per la carica di scrivano di atti giudiziari. Essendo quindi uno degli ultimi, dopo un periodo avventizio a Pontebba, per decreto del commissario Mordace, si ritrova spedito nella sperduta località di Aidussina, ora in Slovenia. Qui il ventenne avventizio s’immerge, e ci fa vivere a pieno, la vita sperduta di una cittadina quasi sospesa in un limbo fuori dal mondo. La pensione dove trova alloggio, con i suoi pubblici funzionari che lì si ritrovano a cena. Il bar – trattoria dove si gioca a biliardo, ed a carte. E l’ufficio, con il pretore Merdicchione e il cancelliere Semitocolo. Da un lato conosciamo i bei tipi della pensione e del bar, ognuno con una storia alle spalle, ognuno con piccole o grandi cose da nascondere. O da raccontare, dopo un bel bicchiere di vino. Ci sono anche due ragazze in ufficio. C’è anche l’ufficio del catasto, che, essendo eredità dell’Impero Asburgico, è un catasto tavolare, cui solo il geometra Zciuka sa maneggiare. Piccole storielle passano, il nostro cerca di entrare nelle grazie delle due ragazze con poco successo. Entrerà invece nel giro del pretore che, per passare le giornate, organizza un tavolo di poker in ufficio. Il tutto precipita quando il solito Mordace chiede al pretore di cambiare quel nome poco onorevole. Al rifiuto di questi, il fascistone comincia una subdola caccia che porterà a scoprire il pokerino pomeridiano, la poco chiara carriera del pretore, nonché qualche elemento oscuro anche del geometra. Immediato sarà il trasferimento di Chiara dalla Slovenia a Cividale nel Friuli. Dove si ripeterà molto, anche se con cambiamenti significativi. Piero inizia una duratura relazione con un’insegnante di un vicino paese che lo viene a trovare (e mi scuso l’eufemismo) tutti i sabati in ufficio. Ma il giovane è preso dalla bella cassiera Brunilde detta Ilde, che però sembra inarrivabile. Sarà sempre Mordace a sconvolgere i piani del nostro, irrompendo in ufficio nel corso di un convegno amoroso. Per non essere cacciato, Piero si finge disturbato, viene mandato in ospedale dove conosce un maresciallo con cui simpatizza, ma che gli rivela una notizia “bomba”: Ilde ha chiesto il libretto da “prostituta”, per fuggire da Cividale. Bella la ricostruzione storica delle case di chiuse e delle donne avviate al meretricio. Piero segue a Trieste la bella Ilde, cercando di convincerla al matrimonio, che lei, realisticamente, rifiuta. E sarà nel casino dove lei esercita che avverrà l’ultimo fattaccio. Si presenta despota ed insolente il solito Mordace. Il giovane sbrocca, e gli da un calcio nelle parti basse. Viene anche arrestato, e per sfuggire ad una probabile condanna, accetterà l’aiuto di un amico triestino per imbarcarsi come scrivano su di una nave che dirige la propria rotta verso Oriente. Riuscirà il nostro a vedere Singapore? Non è importante e non ve lo dico. Seppur con un po’ di lentezza, è invece importante la concatenazione di eventi che si susseguono lungo tutto il libro. E la presenza e la descrizione di tutti questi personaggi che in un solo anno il nostro incontra nella pur bella provincia italiana. Alla fine, mi ha rimandato alla memoria quel garbato libro in francese letto non molto tempo fa (“Le front russe”), soprattutto per quelle atmosfere ministeriali delle preture di provincia, con pretori ed altri pubblici ufficiali alla ricerca di un’auto affermazione del proprio altrimenti inutile ruolo. Insomma, ho recuperato una bella scrittura, anche se in un libro “normale” di lettura e di gradimento.
“Un uomo può vivere più vite. Io ne ho vissute molte, buone e meno buone. Ora ne vivo una nuova che sarà forse l’ultima, perché ho cinquantotto anni.” (67)
“Non è il primo amore che conta, ma l’ultimo, quello che accompagna l’uomo alla morte, che lo aiuta a morire.” (75)
“Alla luce di una lampada da tavolo, leggeva. Cosa mai poteva interessarlo alle soglie della morte? Leggeva, imparava ancora, a novantanni.” (165)
Diego Marani “Nuova grammatica finlandese” Bompiani s.p. (regalo di compleanno di Sara e Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 17/11/2014 – T: 19/11/2014] - &&&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 205; anno 2000]
Non credo ci sia bisogno di alcuna cartomanzia per immaginare che questo è un libro da collocare alla grande nel prontuario dedicato alle crisi d’identità. Ma di questo se ne parlerà più avanti, che intanto questa trama è un ringraziamento alla mia amica Cecilia, che non so se e come c’entri con Marani, ma che a più ripresa è entrata nei miei pensieri, in quanto una buona parte del romanzo ha sullo sfondo il “Kalevala”. E come non ricordarne e sottolinearne l’edizione da lei e da Roberto Arduini curata nel 2007? Inoltre, come dice il titolo (e poi vi torneremo sopra), è anche un inno d’amore verso una lingua poco conosciuta, forse tra le meno diffuse al mondo: il finlandese (pare sia parlata da 6 milioni di persone in tutto, collocandosi intorno al 120 posto delle lingue parlate, tant'è che l’italiano si colloca al 20°). Una lingua che posso dire conosco veramente poco, che mi ricordo solo (da alcune reminiscenze linguistiche) essere di un ceppo detto “uralo-altaico”, che comprende lingue di una difficoltà enorme di comprensione e scritture (tipo estone e ungherese). Che tuttavia, stimolato da Marani, ho cominciato a leggerne in rete, dove ho scoperto una cosa mostruosa: è una lingua che ha quindici casi diversi, dal tranquillo nominativo all'inquietante abessivo (e poi ci stupiamo che in Europa i finlandesi siano quelli che maggiormente sanno parlare in latino!), che ha quattro forme dell’infinito, ed anche un caso chiamato “plusquamperfetto negativo”: una bomba linguistica! Finisco soltanto con la lingua dandovi un altro messaggio preoccupato: è una lingua agglutinante! E siccome sarete curiosi alla fine ve lo spigo. Ma torniamo a Marani ed a questo libro con alti e bassi, con momenti forse poco chiari, che vengono lasciati nell'ombra usando lo schema del passato: l’azione (anche se ce n’è poca) si svolge alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi qualcosa può essere lasciato al mistero del passato. La storia, in realtà, è di una semplicità disarmante. Un medico finlandese, fuggito in Germania dopo l’uccisione del padre per motivi politici, in servizio presso una nave tedesca, trova una persona in coma nelle banchine del porto di Trieste. Un marinaio, con una divisa con su scritto un nome (Sampo Karjalainen) ed un fazzoletto con le iniziali SK. Uscito dal coma Sampo scopre di aver perso la cognizione della parola. Il medico, trovando lontano da casa un lembo della sua patria perduta, comincia a curarlo ed a insegnargli nuovamente la lingua materna. Quando finalmente sta meglio, il dottore lo rispedisce ad Helsinki, in un ospedale dove dovrebbe trovarsi uno psicologo logopedista. Che invece è scomparso (forse morto in guerra), e dove Sampo trova un’infermiera, Ilma, che lo aiuta e lo presenta ad un pastore luterano, padre Koskela. Andiamo così avanti, nel buio della memoria di Sampo che ogni giorno studia con il prete, che riempie i suoi quaderni di scritte e di grammatiche, che gira per la città in preda alla guerra ed alla tenaglia tra Germania e Russia (in fondo San Pietroburgo è proprio lì a due passi). Le parole del pastore, e le piccole agnizioni di Sampo ad ogni nuova parola che entra nel suo vocabolario, ci fanno da culla nel capire la genesi di una lingua, ed il suo radicarsi in una regione altra dalle sue origini (come detto sopra, la radice è addirittura mongola). Ma il pastore fa anche altro: usa il grande poema epico finlandese, il Kalevala, per istruire Sampo, ma anche per addentrarsi nella spiegazione dell’anima di questa nazione. Qui, ovviamente, tornano i ringraziamenti di cui all'inizio, per averne capito un po’ di più. Sampo si rende a poco a poco più indipendente, e con piacere lo seguiamo per l’Esplanadi della capitale, andando verso il porto e la chiesa ortodossa in punta (era l’estate del 2012, ma è come se ci camminassi ieri pomeriggio). Purtroppo il pastore, preso da furori strani, decide che deve tornare sul fronte a combattere, come i suoi eroi dell’epopea, abbandonando il povero Sampo. Ilma proverà a rompere la corazza sperando che forse l’amore possa far breccia (e belle son quelle pagine sull'albero dei ricordi). Ma Sampo è troppo chiuso nella ricerca della propria identità. Che questa lingua fa breccia nel cervello, ma non arriva al cuore. Che cerca di capire origini e possibili legami, ma siamo in tempi di guerra e tutto è instabile. Sampo, pur sapendo che dovrebbe e potrebbe dire una parola ad Ilma, rimane muto e solingo. A bere la Koskenkorva (una vodka finlandese allungata con acqua e zucchero), a pensare al pastore ed al Kalevala. Finché, sul porto di Helsinki, vede sfilare una nave da guerra appena rimessa a nuovo dai cantieri navali: il Sampo Karjalainen. E capisce che quella divisa, quelle iniziali sono un’identità illusoria, sono della nave e lui chissà chi sarà. Decide allora di partire anche lui per il fronte, dove morirà per una patria che non saprà mai se sia o meno la sua. Noi invece lo sappiamo, che il buon dottore, in base a tutta una serie di informazioni che gli arriveranno con ritardo, ricostruirà la vera storia del personaggio, come nasce, come va in coma, e tutto il resto. Storia che v’invito a scoprire leggendone e non aspettando che io ve ne narri. A me rimane, con tutti gli alti (tanti) e bassi (pochi) di cui sopra, una storia sulla ricerca di sé, sul limite che ci si può porre in questa ricerca. Vivendo in una terra ostile, o comunque con una lingua madre diversa, come fa il nostro Marani da anni (da sempre quasi) espatriato a Bruxelles. Dove, guarda caso, si occupa di multilinguismo. Bravo, ed auguri per i suoi lavori, mentre io mi rimetto alla ricerca di un suo libro che vorrei prima o poi trovare (“Come ho imparato le lingue”).
“È più facile nascere che morire. Forse per la morbosa curiosità che ogni uomo ha, anche nel dolore, di vedere come va a finire.” (42)
“Le forme di una lingua si ripercuotono inevitabilmente su chi la parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le abitudini, il cibo.” (59)
“L’abessivo è la declinazione delle cose che mancano: “toivotta”, senza speranza! È bellissimo … perché in generale sono più le cose che ci mancano di quelle che abbiamo.” (90)
“Passiamo la vita sfiorando i nostri simili senza mai veramente conoscerli.” (152)
“Ancora una volta, il mio nome era tutto quello che avevo.” (174)

Ed ecco, come promesso, la genesi della forma agglutinante che ci permette di capire il significato della parola “kirjassanikin”:
kirja: il libro
kirjani: il mio libro
kirjassa: nel libro
kirjassani: nel mio libro
kirjassanikin: anche nel mio libro
Da paura!
Alessandro Baricco “Smith & Wesson” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 01/11/2014 – I: 08/12/2014 – T: 10/12/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 108; anno 2014]
Non potevo mancare di comprare e leggere (abbastanza) in fretta un nuovo Baricco. Che nonostante tutte le critiche che gli fa la gente a me risulta (generalmente) leggibile e (discretamente) foriero di idee da riflettere. Ovviamente, il libro l’ho comperato a scatola chiusa, e l’ho aperto solo in Vietnam (l’avevo portato in quanto non occupa molto spazio così da non appesantire il viaggio). La prima sorpresa mi ha leggermente frenato la lettura. È un testo teatrale, e non ero preparato alla lettura. Ma poi, si è eraclitamente andati avanti, e seppur non raggiunge vette stratosferiche, ci porta buoni elementi della lettura ultima degli scritti di Baricco. Dove appunto ci sono elementi che si intrecciano, giochi verbali, disvelamenti ed agnizioni, e, qua e là, qualche battuta che fa riflettere. In questo intreccio di voci, ci sono tre personaggi che occupano la scena per dare il senso a quello che Baricco scrive. I due maschi sono “i comici”, quelli che portano riso e situazioni estreme. La ragazza, Rachel, è la speranza, l’iniziativa, la voglia di fare, e l’impossibilità di realizzare. Per i due comici, Baricco si avvale di alcune trovate un po’ terra terra, che forse neanche a me venivano in mente così piatte. I due si chiamano Smith & Wesson, ovviamente per riecheggiare la fabbrica di armi fondata nel 1852 da Horace Smith e Daniel Wesson. Ma per soprammercato, i due hanno per nomi di battesimo Tom & Jerry (per riecheggiare la rivalità dei due cartoon Tom Cat e Jerry Mouse), ed in effetti faranno finta di bisticciare per tutta la pièce, fatto salva fare la pace (o quasi) nel finale, ed andare in giro per il Messico come baracchini da circo, insieme a due muli (che si chiamano Isotta e Fraschini…). L’azione (o i dialoghi) si svolgono nel 1902, ai piedi delle cascate del Niagara. Dove Smith si è inventato meteorologo e raccoglie su un taccuino i dati sul tempo in base ai ricordi della gente ipotizzando di poter prevedere le condizioni meteorologiche future dalle statistiche che via via annota. Wesson invece è un pescatore, nel senso che pesca i corpi di chi si suicida gettandosi nelle cascate. Dopo averci dato il tempo di entrare in sintonia con i due, Baricco introduce Rachel una giovanissima giornalista che sogna di diventare famosa e di poter scrivere un articolo sensazionale tutto suo. Ed ipotizza un “trastolo” con i due: Smith, di capace inventiva, deve immaginare una botte con la quale lei può lanciarsi dalle cascate, ed essere recuperata da Wesson prima di essere distrutta dalla furia delle onde. Qui l’idea di fondo, ripresa e sottolineata dalla frase che riporto. Avere un’idea, non arrendersi, cercare di portarla avanti. Ci sono tutte le premesse perché ciò riesca e bene. Peccato che Smith & Wesson non facciano i conti con un problema che ha Rachel, quello dei luoghi chiusi. Ed ecco qui lo scontro: per poter seguire i propri sogni bisogna fare qualcosa che vada al di là di un qualche nostro limite. E solo superando quel limite ci sarà la nostra “felicità”, qualunque significato si voglia dare alla parola. La nostra scommessa è capire se Rachel vincerà se stessa o se saranno le sue paure a vincerla. Ed è questa anche la scommessa che ci propone Baricco. Dando la sua soluzione, con un intervento “saggio” della signora Higgins, personaggio introdotto al solo scopo di poter dare una morale alla storia, senza metterla in bocca ai tre di sopra. Tuttavia, il tentativo non riesce così bene come fu per Novecento, rimangono zone poco sviluppate, rimangono tentativi di ironia che non vanno a fondo. Insomma, è sempre uno scritto di Baricco, che quindi si può leggere in una moltitudine di modi diversi, ci si può girare intorno, e, come detto sopra, si troverà sempre una frase, un momento di riflessione. Solo nel complesso l’ho trovato inferiore alle sue ultime uscite ed alle mie attese. Credo che, da quando ha rischiato di diventare un personaggio troppo pubblico, anche alcuni suoi ruscelli di pensiero si vadano essiccando. comunque è sempre Baricco, e comunque continuerò a leggere i suoi scritti (credo).
“Sono qui perché … non desidero rinunciare ai miei sogni. Son qui perché se mi arrendo questa volta mi arrenderò tutta la vita.” (37)
Paolo Di Paolo “Raccontami la notte in cui sono nato” Feltrinelli euro 7 (in realtà, scontato a 5,25 euro)
[A: 17/07/2014– I: 14/12/2014 – T: 16/12/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 2008]
Un libro che stava da anni in uno dei tanti elenchi di libri che avrei dovuto, prima o poi, acquistare. E non ricordandomi dove ne avevo letto o visto, l’avevo classificato come “Altri Suggerimenti”. Altri da che? Poi se ne trova una ristampa super-economica, ed eccoci qui a leggere un altro libro di Paolo (o di Di Paolo o, ancora più ridondante, di Paolo Di Paolo). Dopo aver amato “Dove eravate tutti” e non aver gradito “Mandami tanta vita”, questo, mi riconcilia con lo scrittore di storie, e con le idee alla base del testo. Il racconto lungo, in sé, è difficilmente narrabile, tutto fatto di sensazioni e di agnizioni. Possiamo narrarne il contorno, e qualche elemento di meta-testo che viene dalla partecipata post-fazione dell’autore a questa riedizione del suo primo romanzo. C’è l’idea, che all'autore viene leggendo la folle proposta di un giovane australiano che su eBay mette all'asta per seimila dollari la propria vita. C’è il nome del protagonista, che l’autore chiama Lucien come il protagonista di “Illusioni perdute” di Balzac. C’è un ricordo finale su Julian Green, su cui, appunto, tornerò alla fine. Intanto, c’è Lucien, ventiquattro anni, gravitante in una Roma senz'anima, una cerchia di amici ed un lavoro che non lo soddisfano, una serie di sogni per il futuro che non sa inseguire o raggiungere, ritenendosi stretto nella vita che gli si sta cucendo addosso. Alla ricerca di un libro per bambini illustrato da Richard Scarry, incontra Filippo, studente fuori sede a Padova, fumettista senza grandi prospettive e senza tanti soldi. Nasce qui la proposta folle di scambiarsi le proprie vite. Anzi, di introdurre a poco a poco Filippo nella propria, per poi sparire ed inseguire i propri sogni, libero da quelli che sente legacci inestricabili. Tutto il resto, in soggettiva su Lucien, è un seguire il modo con cui Filippo si introduce nella sua vita e il modo in cui Lucien non si libera di sé stesso. Filippo racconta come si va impadronendo dei luoghi di Lucien. E Lucien, da lontano, si accorge di non avere dato il prezzo a troppe cose. A certe mattine di domenica o a quella precisa neve arrivata all'improvviso. A quella storia d'amore, che poteva essere e non è stata, a quella particolare rinuncia. Filippo entra con i suoi piedi di piombo e quasi “sbattendoci su”, nella vita di Lucien, nella sua famiglia, col loro salotto, la loro cucina, le loro abitudini. Nella sua camera, con il suo letto e con i suoi libri. Ed entra in sintonia anche gli amici, Teresa, Manolo, Rossella, Mary. Nel filo del tempo, Filippo e Lucien, comunque, continuano a scambiarsi idee e sensazioni. E Lucien lo verrà a sapere da Filippo che Teresa si è innamorata di un pasticcere portoghese, che Manolo ha avuto una mezza storia con Rossella e che a Mary piace raccontare storie. Il punto difficile, cartina di tornasole delle reciproche sensazioni, sarà poi il rapporto con la Signorina F., di cui Lucien era blandamente innamorato, senza riuscire a comunicarlo, e che invece inizierà una storia seria con Filippo, dato che avranno un bambino. Qui, il cerchio di Lucien si chiude (anche se nel frattempo lo seguiamo nel suo girovagare, e nelle belle immagini che mi riporta dal suo passaggio a New York), che la maternità della Signorina F. lo porta a ripensare a quella donna che lo ha messo in viaggio nel mondo, una mattina di giugno ed alla quale non ha mai chiesto come fosse la notte in cui è nato (rendendo un dovuto omaggio al bel capitolo del bel libro “Una madre lo sa” di Concita de Gregorio). E leggendo quest’ultimo capitolo, poco mi leva dalla testa che in realtà sia il primo pezzo del racconto che l’autore abbia scritto, costruendo “a ritroso” il resto del libro. Che si legge bene, con una freschezza di parole e di immagini. E come pochi altri, appunto, mi rimane nelle sensazioni e non negli accadimenti, ed è una cosa non usuale. Ritorno infine all'ultima punto citato all'inizio, quel ringraziamento a posteriori a Julien Green, che scrisse (e Di Paolo confessa di averlo letto solo dopo) “Se io fossi te”, una specie di grande calderone in cui questo libro poteva starci. Come poteva starci, e qui son io che do un suggerimento all'autore, quel recente libro di Lorenzo Licalzi di cui ho parlato non molto tempo fa “Un lungo fortissimo abbraccio”, dove anche lì si cerca di riportare su carta le sensazioni che si possono provare sia essendo un altro, sia le sensazioni che gli altri provano verso un te che sei te ma sei diverso. Buona lettura (tanto è breve).
“Allora capivo che la memoria non si condivide, ricordiamo storie uguali ma in modo diverso, perdiamo ciò che altri conservano: anche di noi.” (45)
“Ecco come le cose cambiano, come cambiano le persone … i cambiamenti sono tutto: tu vivi perché cambi.” (60)
Credo sia un buon invito alla lettura. Intanto io, messi in ordine i carteggi peruviani, mi accingo alla programmazione di un nuovo viaggio, dove si torna, e dopo tanti anni, nelle terre nord americane. Sono molto incuriosito da cosa si andrà a trovare.

domenica 10 maggio 2015

Buone letture (o quasi) - 10 maggio 2015

Una settimana di autori di lingua inglese, con tre libri che si elevano sopra la media, a cominciare dall’ottimo, e per me inaspettato, Peter Cameron. Per continuare poi con il solito ottimo standard che ci assicurano John Fante e Graham Greene. La fine è in calando, laddove ho già spesso detto che Saul Bellow lo leggo per onor di firma, ma continua a non piacermi.
Peter Cameron “Quella sera dorata” Adelphi euro 11
[A: 05/05/2014– I: 08/09/2014 – T: 10/09/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: The City of Your Final Destination; ling. or.: inglese; pagine: 318; anno 2002]
Non so perché avevo sempre preso sottogamba questo autore, non riuscendo a convincermi a leggerne (forse respinto da quel secondo titolo pubblicato “Paura della matematica”, che mi sembra ancora oggi di difficile approccio per uno che, come me, i numeri li adora). Spinto dalle recensioni dei libri curativi, ho al fine preso in mano questo primo libro dell’autore americano e devo dire che mi ha preso molto, tanto da non riuscire quasi a staccarmene ogni volta che lo prendevo in mano. In questo, per una rara volta, concordo con la quarta di copertina e con i giudizi colà espressi da Giuseppe Montesano. Un libro di dialoghi, anche se ci si muove tra il Kansas, l’Uruguay e New York, che qualche bravo sceneggiatore potrebbe anche ridurre in una pièce teatrale. Con cinque personaggi che si muovono lungo la trama, ed un sesto che non c’è ma che aleggia. Il sesto, Jules, è l’autore di un solo libro e di cui il profugo iraniano Omar, ora dottorando in Kansas, vorrebbe scrivere la biografia per poter restare nel mondo universitario. Omar ha una relazione conflittuale con Deirdre, ricercatrice volitiva, di quelle che conoscono sempre la soluzione, mentre il povero Omar non sa fare quasi nulla, è impacciato e maldestro. Ma la sua richiesta ai parenti di Jules per l’autorizzazione alla biografia viene respinta. Omar decide allora di recarsi in Uruguay, dove questi vivono, per far loro cambiare idea. Ed in una sperduta comunità, di difficile raggiungimento, trova questo piccolo mondo che si incarta nella vita, imbozzolandosi in momenti di ripicche e rancori reciproci. C’è la moglie di Jules, Caroline, pittrice che non sa più dipingere e che per questo fa solo copie di quadri famosi. C’è l’amante di Jules, Arden, che vive la sua piccola vita con la figlia dello scrittore. C’è il fratello di Jules, Adam, gay con amante thailandese che sembra essere un po’ lo stanco burattinaio delle vicende. Omar, con la sua inadeguatezza, arriva a scombussolare la vita a tutti quanti. Sono pagine e pagine di dialoghi tra Omar e Arden, tra Omar e Adam, tra Caroline ed il mondo. La bellezza dei dialoghi è il modo con cui l’autore riesce, pagina dopo pagina, a farci comparire anche la figura di Jules. Di cui all’inizio sappiamo solo che si è ucciso. Poi ne scopriamo la vita, con la lunga fuga dalla Germania nazista dei genitori ebrei, il rifugio in Sudamerica, le case, la miniera, la gondola, il lago. Jules che si occupa di letteratura, che a Parigi si innamora di Margot, ma che a New York, Caroline, la sorella di Margot, glielo sottrae e se lo sposa. Il ritorno a Montevideo, l’università, l’incontro con Arden, il nuovo amore. E poi la vita laggiù, in cui tutti continuano ad essere insieme, nonostante non ci sia affetto tra di loro. Adam, con la sua aria da gay anziano sembra avere delle chiavi per aprire quelle porte chiuse. Ma è il quasi dramma di Omar che poi si pone al centro della vicenda. Punto da un’ape, ha uno shock anafilattico, entra in coma, Deirdre lo viene a salvare, ma a me continua ad irritare con quell’aria di “so tutto io”. Fortunatamente Omar guarisce, e si ricorda di aver baciato Arden prima dell’ape. Nel suo modo poco appariscente, Omar comincia a ragionare su se stesso, su cosa vuole veramente nella vita (ahi, quanti di noi se lo chiedono ancora). Nella parte finale, l’autore cerca di tirare delle somme un po’ velocemente, che altrimenti ne uscirebbe un libro di un numero doppio di pagine. Ed ognuno, come rammenta il titolo inglese, va verso la città della sua destinazione finale (e perché stravolgere il titolo con una seppur dotta citazione di Elisabeth Bishop?). L’amante di Adam si trasferisce a Montevideo, lasciando il nostro povero gay a trascinarsi inconcludentemente per gli ultimi anni della sua vita. Caroline riceve in eredità dalla sorella la casa di New York, dove si trasferisce e dove ricomincia a vivere. Deirdre va di università in università con le sue ricerche per poi finire quattro anni dopo anche lei a New York. Omar, lasciata l’antipatica, pensa di tornare dai genitori a Toronto. Però, in un assalto di follia che hanno solo le persone innamorate, decide di tornare in Uruguay, e confessare il suo amore ad Arden. Qui non vi svelo il finale ultimo, su come prosegue la vita di Omar e di Arden, che sono pagine che vanno lette. Anche perché l’autore ce le svela in controluce, così come in controluce si vede molta parte del libro. Le questioni ci sono, vengono poste, ma le soluzioni non sono quasi mai espresse direttamente. Confermo, un piccolo capolavoro dell’arte del dialogo. Di quelli che fanno tornare ad amare i romanzi, le storie ben congeniate, e la capacità di autori, come Cameron, di rendercele e di farcene partecipi. Invito quindi chi non lo avesse ancora fatto a leggerlo, per rinsaldare il nostro comune piacere alla letteratura.
“Sono abbastanza educato da sapere cosa non si deve dire, ma non abbastanza per riuscire a non dirlo.” (39)
“- Io ti amo, lo sai che ti amo. Anzi, ti dico queste cose proprio perché ti amo. – Non sembra amore, sembra rabbia. – Certo che sembra rabbia. È rabbia. Sono arrabbiata ma questo non esclude l’amore. Le due cose possono coesistere.” (54)
“Sai, spesso penso, spesso mi dico: devo cambiare vita radicalmente. Ora, ora, ora. Negli ultimi capitoli succedono spesso cose straordinarie, non è vero? Tu non pensi mai alla tua vita come ad un romanzo? Io sì.” (187)
“Amo i libri e basta, non ho la passione per l’insegnamento, non amo scrivere e non sono bravo.” (273)
John Fante “Aspetta primavera, Bandini” Einaudi euro 12,50
[A: 04/01/2014– I: 20/11/2014 – T: 22/11/2014] - &&&&  
[tit. or.: Wait until Spring, Bandini ; ling. or.: inglese; pagine: 238; anno 1932]
Non posso non cominciare una nuova trama dedicata John Fante senza prima rivolgere il solito ringraziamento a Luana, che me lo fece conoscere, mi spinse a leggerne ed a cui ripenso ogni volto ho un suo nuovo libro in mano. Questo è il primo libro pubblicato da Fante (anche se il secondo ad essere stato scritto), scritto sulla soglia dei suoi trent’anni, con tutta la rabbia che poteva avere questo figlio di immigrati verso un mondo in cui non aveva trovato ancora la sua strada. Nasce qui la saga degli immigrati di seconda generazione, quelli cioè nati in America, ma ancora immersi fino al collo nella cultura dei paesi di origine. Ed è anche l’inizio ufficiale della saga di Arturo Bandini, l’alter-ego di Fante del quale continuerà a scrivere in tutte le sue opere, e con tutte le sue problematiche. Prima fra tutte il rapporto con il padre, figura ingombrante e con la quale farà pace solo molti anni dopo. Ma c’è anche il rapporto amore-dispetto verso la madre e la sua accettazione cattolica della vita, il rifiuto della rivolta, la sottomissione. In sottordine, ma solo perché presenti, anche se poi si svilupperanno su due filoni diversi (uno in ascesa l’altro in discesa) il rapporto con le donne e quello con la religione. Qui c’è Arturo quattordicenne, che ad ogni malefatta (reale o ipotetica) corre a confessarsi per redimersi. E se anche rimarrà traccia del cattolicesimo, questa andrà scemando. E c’è Arturo che è innamorato di un’altra immigrata, Rosa, alla quale però non riesce a dichiarare il suo amore. Vedremo che poi, crescendo, altro atteggiamento riuscirà ad avere, ed il rapporto con l’altro sesso crescerà sempre più d’importanza. Comunque, qui comincia l’avventura della famiglia Bandini. Siamo nel freddo Colorado, nell’inverno del 1928. C’è il padre Svevo che vive con forte disagio la sua situazione di muratore sommerso dai debiti e costretto all'inattività a causa del rigido clima invernale. C’è la moglie Maria che sopporta pazientemente i tradimenti e le continue assenze da casa del marito, aggrappandosi tenacemente alla sua fede. Ed i tre figli: Arturo, August e Federico. Svevo si rifugia nell'alcol e nel gioco per dimenticare - anche solo per brevi istanti - la sua vita grama. Il padre è agli occhi del quattordicenne Arturo al tempo stesso una figura da ammirare - per il fatto che non si vuole rassegnare alla condizione di "povero immigrato italiano" - e da temere e odiare, perché fa soffrire la madre. Arturo trova anch'egli un modo per evadere dalla realtà casalinga nel suo amore (non corrisposto) per la compagna di classe Rosa e nella passione per il baseball. Il fulcro della storia si scatena quando Svevo, non trovando modo di sbarcare il lunario, si allontana da casa. E comincerà una storia di sesso e soldi con una vedova del luogo, tornando a casa solo per Natale, dove però i suoi regali vengono rifiutati da Arturo, memore della sofferenza della madre. Belle sono le descrizioni dei luoghi e delle persone. Soprattutto i primi, che riecheggiano quelli vissuti dalla famiglia Fante in prima persona, e che, agli occhi di Svevo ricordano le montagne dell’Abruzzo natio. La storia qui è narrata in terza persona, rispetto alla prima che userà altrove. Ma serve a Fante per poter saltare dalle soggettive di Svevo a quelle di Arturo. Che, nonostante le impennate della sua giovinezza, è anche lui un buono. E cercherà il modo (trovandolo) di riportare a casa il padre, prima che la madre prenda una china di malattia che non sarebbe recuperabile. E quel Bandini del titolo si attaglia e si riferisce ad entrambi. Sia il padre sia il figlio, infatti, attendono con speranza la primavera, uno per tornare a lavorare l'altro per tornare a giocare a baseball, entrambi per lasciarsi alle spalle le difficoltà del quotidiano. Certo, la storia lascia sempre, come in tutte quelle di Fante, un po’ di amaro in bocca per le cose non risolte, per le occasioni mancate (qui, per me, soprattutto, la mancata comprensione tra Arturo e Rosa). Ma è l’amaro di cui è poi fatta la vita. E Fante ne descrive un tratto di strada con la sua capacità ed il suo coinvolgimento, che, a libro chiuso, ci fa subito pensare di leggerne uno nuovo. Peccato che poi, li abbia letti quasi tutti.
Graham Greene “Il treno d’Istanbul” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,55 euro)
[A: 20/05/2014– I: 26/11/2014 – T: 28/11/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: Stamboul Train; ling. or.: inglese; pagine: 224; anno 1932]
Non è certo ora che scopriamo le capacità narrative di Graham Greene, anche in questa che è la sua seconda opera narrativa, vergata alla tenera età di 28 anni, con l’intento, come scriverà in una tarda prefazione, di scrivere un romanzo d’intrattenimento, magari per farne un plot da trasferire sullo schermo. In effetti, nel 1934 ne venne tratta una versione cinematografica, che non ebbe particolare fortuna.  Il pur giovane scrittore riesce a gestire con maestria l’intreccio tra i vari personaggi che sono a bordo del treno che fa il viaggio da Ostenda a Istanbul. Anche se sono in viaggio per scopi diversi, la vita di ciascuno dei personaggi centrali riesce a concatenarsi in un blocco fatale. Questi personaggi sono appunto Carleton Myatt, un commerciante ebreo in viaggio per affari che affronta l'antisemitismo di molti dei suoi compagni di viaggio mentre attraversa l’Europa prima della Seconda guerra mondiale, Coral Musker, una ballerina di fila, in viaggio alla ricerca di un nuovo lavoro, il dottor Richard Czinner, medico, insegnante, e leader socialista rivoluzionario, che sta tornando a Belgrado dopo anni di esilio, Mabel Warren, una giornalista, lesbica, che casualmente scorge Czinner e si mette a seguirlo per scriverne articoli, e Josef Grünlich, un ladro, in fuga da Vienna dopo un furto pasticciato finito in omicidio. L’uomo d’affari Myatt è astuto e pratico, anche poco incline alla generosità. Tuttavia offre il suo biglietto di prima classe alla ballerina di fila Coral Musker, ammalata. Coral si sente grata di queste attenzioni e inopinatamente si innamora di Myatt, passando con lui una notte d’amore nel suo scompartimento. Il dottor Czinner, come detto, vuole tornare di nuovo a Belgrado, solo per scoprire che la rivolta socialista di cui aveva avuto sentore ha già avuto luogo e non è riuscita. Decide di tornare comunque per essere processato e fare del processo un gesto politico. Nel frattempo, viene scoperto da Mabel Warren, che viaggia con la suo partner, Janet Pardoe. Per tornare a Belgrado, deve fingere di lasciare il treno a Vienna in modo da seminarla. Quando il treno arriva a Vienna, Warren, pur tenendo d'occhio Czinner, lascia il treno per fare una telefonata ed avvertire la redazione del giornale. E durante la telefonata la sua borsa viene rubata da Josef Grünlich, che ha appena ucciso un uomo durante una rapina fallita. Grünlich poi prontamente sale sul treno con i soldi di Mabel, che, incazzata, e preoccupata anche di perdere Pardoe, promette di ottenere la storia di Czinner con ogni mezzo. Anche se rimane appiedata e dovrà mendicare un aiuto da Myatt per cercare di risolvere la questione. Intanto, a Subotica, il treno viene fermato e Czinner viene arrestato. Con lui sono fermati anche Grünlich, per il possesso di un revolver, e Coral che si trova casualmente con Czinner al momento dell’arresto. Una corte marziale viene prontamente messa in piedi e Czinner fa un forte discorso politico, anche se non vi è alcun vero pubblico presente. Tra l’indifferenza dei giudici è rapidamente condannato a morte. I tre prigionieri sono tenuti in una sala d'attesa per la notte prima dell’esecuzione. Nel corso della notte capiscono che Myatt è tornato con una macchina per salvare Coral. Il furbo Grünlich sfonda la porta e cerca di far scappare tutti e tre, ma solo lui ci riesce. Czinner è ferito e Musker lo nasconde in un fienile, dove Czinner muore poco dopo. Quando arriva Mabel Warren per non perdere la sua storia, decide di prendere sotto la sua protezione Coral e di tornare a Vienna con lei. Ma a seguito di tutte le emozioni Coral, in macchina con Mabel ha un  attacco di cuore, e non sappiamo quale sarà il suo destino. L'Orient Express arriva finalmente a Istanbul, e Myatt, Pardoe e gli altri scendono. Myatt si rende conto che Janet, l’ex-amante di Mabel, è la nipote di Stein, un uomo d'affari suo rivale ma anche potenziale partner commerciale. La storia si conclude con Myatt che, dimenticando Coral, pensa di sposare Pardoe, che ha già dimenticato Mabel, blindando così il contratto con Stein. Ci sono anche altri cammei nel libro (il personaggio di uno scrittore, ed altri caratteristi minori). Tuttavia quel che rimane è il sapiente intreccio che riesce a gestire il giovane scrittore. Ma anche un generale senso di disagio, che, benché attribuito al clima europeo di quegli anni ed alla depressione economica inglese, in parte riflette anche la situazione finanziaria dell'autore al tempo della stesura del romanzo, che ancora non riusciva a vivere delle sue fatiche. Il tema di fondo del romanzo è comunque basato sulla fedeltà: il dovere verso gli altri rispetto al rispetto di sé. Greene si domanda se la fedeltà verso gli altri paga, incentrando i vari personaggi su possibili pieghe di questa fedeltà. E non è molto positivo in queste scelte. Chi rimane fedele (Czinner, Coral) muore, chi tradisce (Myatt, Janet) sembra uscirne vincente. Ma a che prezzo? Insomma, un libro d’intreccio, interessante anche se non sempre ed in tutto riuscito.
“Non si aveva mai niente per niente … non si poteva accettare in dono una pelliccia senza andare a letto con chi l’offriva.” (46)
“La copertina [del libro] era molto logora e sul risguardo figurava l’etichetta di un libro di Charing Cross Road [vedi il libro della Hanff, nota mia].” (58)
Saul Bellow “Il re della pioggia” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 8,08 euro)
[A: 07/03/2014– I: 17/02/2015 – T: 20/02/2015] - & e ½   
[tit. or.: Henderson, the Rain King; ling. or.: inglese; pagine: 329; anno 1959]
Gli avrei dato un solo libricino di gradimento, ma il Nobel del ’76 comunque sa scrivere, anche se questo libro non mi è piaciuto, ed allora mettiamoci anche quel mezzo punto in più. Tuttavia, dico e ribadisco che l’ho trovato un libro veramente dannoso. Dopo averlo (faticosamente) letto ho cercato in giro, tra scritti e rete, di capirne di più, di tirarne fuori lati positivi immaginari. Si dice sia una critica dell’uomo americano, del suo ottimismo, del suo credersi centro del mondo. Ora, può anche essere vero, e sicuramente se guardiamo il libro in prospettiva storica della data di scrittura, c’è sicuramente più di una punta di verità. Ma, e questo l’ho sempre detto e ribadito, un libro che è bello e ben scritto resiste, sempre e comunque, al passar del tempo. Se per esempio un oscuro libro di Winnifred Winston degli anni Trenta è ancora godibile oggi, vuol dire che affronta temi sempre attuali, e li affronta in modo da non essere intaccato dal tempo. Bellow, no. Lui è immerso nella fine degli anni Cinquanta, è immerso nelle paure e nelle fobie americane di quegli anni. E non ne esce. E non penso mi debba piacere solo perché, in ogni caso, una penna in mano la sa ben tenere. A parte il vezzo tutto italiano di mozzare i titoli, per cui sparisce il nome Henderson, e rimane il re della pioggia. Che se tu leggi un bel cognome anglo-sassone davanti ad un titolo così, o ti viene in mente l’autistico Dustin Hoffman oppure pensi che ci sia dell’intrigo lì sotto. Infatti di intrigo si tratta. Il nostro esimio scrittore prende un bell’esempio di maschio americano inutile e gli fa percorrere le oltre trecento pagine senza che un solo avvenimento di quelli che gli capitano scalfisca il muro di inutilità del suo essere, appunto, americano puro e duro. Ma mentre nelle parti in flashback, qualcosa si salva, qualcosa che ci illumina sulla sua storia (e poi ci si ritorna), quando poi si trasferisce in Africa e da inizio alle sue avventure con i selvaggi, beh lì veramente ci si perde e ci si addormenta. Passiamo quindi subito a questa parte, dove, per insipienza, ignoranza o altro, il nostro Eugene Henderson si inoltra nel cuore africano (quasi fosse un novello Livingstone), ed incontra due tribù con le quali fa scontrare il suo essere occidentale. La prima è pacifica, quasi in stato di inedia, che non piove e non c’è acqua. Henderson, facilone occidentale, pensa di liberarli da questa schiavitù, con il risultato che fa saltare in aria l’unica cisterna di acqua disponibile, per cui gli africani non potranno che continuare a morire. La seconda è invece bellicosa, ma descritta con gli occhi di un occidentale che non ha mai visto una tribù africana. Dedita al sesso ed alla morte, a giochi pericolosi ed a reincarnazioni fasulle. Intrisa di giochi di potere che fanno impallidire Amleto ed i suoi sodali. Direi che sembra tutto talmente falso che non si capisce se Bellow ci creda o sia ironico. Fatto sta il nostro Gene viene coinvolto in questa sarabanda, ha lunghi colloqui con l’unica persona che sa d’inglese (il re). Ma questi viene travolto dai giochi di cui sopra (e che tralascio per la loro inutile lungaggine). Il nostro americano “idiota” (nel senso dostoevskiano) dovrà decidere se lasciarsene anche lui coinvolgere, oppure (ma avrebbe dovuto farlo centinaia di pagine prima), tornare alla sua inutile civiltà ed inutile famiglia. Un’inutile storia che è invece quella a ritroso che più apprezziamo. Che Bellow ambienta nei posti a lui noti di città e province americane. Con gli Henderson che sono una stirpe di americani arricchiti, e dove lui, Gene, è l’ultimo rampollo di quella stirpe. Non ha bisogno di lavorare, che vive di rendita. Ma fa di tutto per rappresentare il peggio dell’americanismo. Si sposa senza amore, tradisce (sempre e comunque) le sue donne. Con la prima moglie fa tre (o forse quattro) figli, che non riesce ad allevare (e si meraviglia che uno dei suoi figli si voglia sposare con una immigrata, tanto è razzista dentro). Ha fatto la guerra in Italia, ma non ne ha capito né il senso né le conseguenze. Ha un lungo e tormentato rapporto (lungo per lui, tormentato per lei) con una donna che diventerà la sua seconda moglie. Decide di vivere nella sua casa di campagna allevando maiali. Decide di imparare a suonare il violino come faceva il padre. Si immerge in pensieri che ritiene alti mentre va dal dentista in metropolitana. Si infatua dei dottori missionari in Africa, per cui, quando ne ha la possibilità, molla tutto e attraversa l’Oceano. Per poi avere tutte le storie di cui sopra. Che si leggono come una rottura di cabasisi colossale, senza che ci sia di ritorno un briciolo di piacere, neanche intellettuale. Insomma, ho sempre supposto che i grandi scrittori americani, dopo un po’, mi avrebbero rotto. Ed è così, con Bellow, con Roth, e molti altri. Un caso? Un mio essere legato all’Europa e non capire l’America? Ai postumi (di una sbronza) l’ardua sentenza. Per ora continuerò a leggerne, ed a dire, con forza, che Saul Bellow non mi pace.
“Succede sempre così … combino sempre qualcosa che non va, rovino tutto.” (107)
“Tu non conosci il significato del vero amore, se credi che lo si possa scegliere deliberatamente. Si ama e basta.” (249)
Forse sarebbe stata più adatta alla giornata una puntata al femminile, tra gli auguri a tutte le mamme, e quelli, speciali e doppi, a Sara. Ma non c’erano libri che mi stimolavano. Abbiamo così ripiegato con gli anglofoni, anche perché, tra un mese, se ne potrebbero vedere meglio e da vicino. Per ora raccolgo un sasso e saluto tutti quelli che salutano