domenica 25 dicembre 2016

Natale in giallo - 25 dicembre 2016

Ma non nel senso delle a me veramente ostiche compilation letterario-noir che puntualmente ogni anno cerca di propinarci Sellerio (che salto da quando Elvira guidava con mano ferma!). alcune puntate dei serial gialli che seguo da anni. Un nuovo episodio delle ossa di Temperance Brennan, un episodio di Thomas Pitt e ben due di William Monk. C’è n’è per passare qualche ora sotto l’albero, a leggere (e magari sul lettore mettere uno dei primi LP dei Grateful Dead).
Kathy Reichs “Le ossa non mentono” BUR euro 15 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 13/07/2015– I: 20/05/2016 – T: 25/05/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: Bones Never Lie; ling. or.: inglese; pagine: 380; anno 2014]
Dopo quasi due anni di lontananza, eccoci di nuovo a Temperance Brennan ed alla sua serie di ossa (e nel frattempo si è visto anche qualche puntata del serial che ne è stato tratto, e non è male). Un po’ di anni fa, la vena di Kathy sembrava stesse esaurendosi, e le storie si arrotolavano intorno a sé stesse, quasi servissero solo ad autoperpetuarsi. Ora, pur non avendo gli scatti delle prime uscite, si ha quasi la sensazione che si voglia uscire dalle secche. Con fatica, e qualche strascico ancora. Ad esempio, e questo è uno dei punti negativi del romanzo, volendo di nuovo tirare fuori una sequenza da episodi passati e risolti forse solo in parte. Ma se le sequenze hanno senso nella parte “vita personale” della serie, nella parte “risolvi i misteri” si rischia di cadere un po’ nel déjà vu (o nello scopiazzo). Tanto che questo diciassettesimo romanzo si ricollega ad alcuni episodi del settimo, “Morte di lunedì”, ed alle avventure culminate con la scomparsa della famigerata Anique Pomerleau. L’inizio sembra portare ad altro, tanto che troviamo Tempe alle prese con degli omicidi che non trovano spiegazione. Nel 2007, venne trovata morta Nellie Grower, una ragazzina di 12 anni che scompare mentre tornava a casa da scuola in bici, nel Vermont. L’assassino non sembrò aver lasciato nessuna traccia né sul corpo della giovane, né nell’area circostante al ritrovamento del cadavere. La vittima era stata rinvenuta in una cava di granito vestita e pettinata ordinatamente, come se fosse in posa. L’ispettore del caso fu Umparo Rodas. Dopo anni di ricerche senza nessun risultato, decise di immettere il modus operandi dell’omicidio e altri dettagli in un database dell’FBI chiamato VICAP. Sorpresa: trovò una corrispondenza con un altro caso irrisolto avvenuto a Charlotte, il paese in cui lavora la dottoressa Brennan. Lizzie Nance, 11 anni, scompare nel 2009 e il suo corpo venne trovato in una riserva naturale, anch’esso in posa. Ma la cosa più sconvolgente fu che alcuni campioni di DNA, ritrovati sul corpo di Nellie Grower nel 2007, analizzate con moderne tecnologie, hanno rivelato l’identità del presunto serial killer di adolescenti: Anique Pomerleau. Questo nome riporta nella vita di Brennan anche il fantasma del canadese Andrew Ryan, suo ex che da lei si è allontanato negli ultimi episodi. Già … Ryan. La polizia del distretto di Charlotte-Maklenburg e i federali americani, vorrebbero che Ryan collaborasse alle indagini. Lui che era stato a pochissimo dalla cattura della Pomerleau e che conosceva a memoria tutti gli aspetti delle passate indagini svolte in Canada. Tempe è “costretta”, quindi, ad andarlo a cercare addirittura in Costa Rica, dove il nostro si è sepolto dopo la morte della figlia per overdose, in un isolamento da eremita. Dovrà ritrovarlo e riportarlo alla vecchia vita e dovrà anche fare in fretta, prima che la Pomerleau uccida di nuovo. Si costituisce così una strana task force dedicata alle indagini: Temperance Brennan, Umparo Rodas (il detective incaricato del caso Nellie Grower), Honor Barrow, Beau Tinker (agente dell’SBI – State Bureau of Investigation) ed Erskine Slidell (detective della omicidi del North Carolina) dovranno dare una risposta. Facendo in fretta visto che un’altra ragazza è stata rapita: Michelle “Shelly” Leal. Sarà solo quando finalmente Tempre riuscirà a coinvolgere Ryan, che l’antropologa forense inizierà un cammino lungo e pericoloso a caccia di una terribile e feroce criminale. Il ritorno di Ryan permetterà infatti alle indagini di scorrere più veloci e di aggiungere altri tasselli di assoluta importanza. Ed a scoprire che la Pomerleau … (lasciamolo ai lettori). Per arrivare ad un finale con ben due colpi di scena che ci fanno aspettare con ansia il 18° volume. La Reichs è sempre attenta al contorno, ai personaggi cosiddetti minori. Sicuramente i poliziotti di contorno. Ma in questo episodio vediamo soprattutto che riceve aiuti inaspettati dalla madre, esperta hacker benché ormai minata da un male incurabile. Con un riferimento incrociato alla serie televisiva cui accennavo sopra. Come spesso accade poi nei suoi libri, essendo Kathy un’antropologa forense essa stessa, siamo sempre confortati da nuovi dettagli e scoperte. Così in questo volume impariamo anche cosa sia la amelogenina ed il suo ruolo nello sviluppo dentario (capitolo 14); come viene prodotto lo sciroppo d’acero che tanto ha accompagnato ed accompagnerà le mie pantagrueliche mangiate di pancake in America (capitolo 21); come gli antichi conservavano i corpi nel miele (capitolo 22). Insomma, solita buona lettura e decisa risalita nello sviluppo degli intrecci e del lato “noir” delle storie. Speriamo continui così.
Anne Perry “Un mare senza sole” Mondadori euro 4,90
[A: 09/11/2014– I: 27/08/2016 – T: 30/08/2016] - &&& --
[tit. or.: A Sunless Sea; ling. or.: inglese; pagine: 312; anno 2012]
Nell’alternanza delle vicende descritte da Anne Perry questa volta torniamo al 1864 ed alle vicende dell’ispettore fluviale William Monk, di sua moglie Hester e del loro amico sir Olivier Rathbone. Leggo sempre con piacere gli scritti di questa scrittrice, ammirandone la volontà, anno dopo anno, libro dopo libro, di lasciarsi alle spalle un pesante passato, continuando a riempire i suoi scritti non solo di storie poliziesche, ma soprattutto di dilemmi. E di dilemmi giudiziari, avendo fatto tesoro dei suoi propri personali, come sa chi mi legge da tempo. Dilemmi che si trascinano in questo caso di libri in libro, collegandosi strettamente con la precedente storia di Monk. Quei “Dannati del Tamigi” che avevano visto la morte del perverso Bollinger e l’eredità pesante che questi lascia a sir Oliver. Una cassa di lastre fotografiche ritraenti persone influenti in atteggiamenti depravati. Uno dei due dilemmi che percorrono il romanzo è se sia lecito o meno utilizzare queste foto per indirizzare la giustizia su binari percorribili. L’altro, non direi dilemma, ma constatazione e instanziazione storica, è la presenza dell’oppio sul territorio inglese. Su chi lo introduce, su chi ne fa un lucroso affare. Sappiamo dai bellissimi libri di Amitav Gosh molto sulle guerre dell’oppio, che videro la liberalizzazione del commercio dopo che le armate inglese sconfiggono i cinesi che ne volevano limitare il commercio. Guerre terminate poco tempo prima (precisamente nel 1860 a Canton). Per dar modo a questi dilemmi di scatenarsi, la nostra scrittrice imbastisce una trama che prende le mosse dal ritrovamento di un cadavere di una donna, orrendamente mutilato, su un molo del Tamigi. Ovvio che ad occuparsi della morte sarà l’ispettore fluviale Monk. Che iniziando a scavare trova subito una dissonanza: la morta, di nome Zenia, era visitata periodicamente dal dottor Lambourn, sostenitore della regolamentazione dell’oppio per motivi medicali. Scopre anche subito dopo che il dottore, pochi mesi prima, sembra essersi suicidato, non resistendo alla distruzione politica del suo libro e delle sue ricerche sul cattivo uso dell’oppio. Trova molte porte chiuse Monk, tanto che comincia a chiedersi il perché di questi sbarramenti, molto politici, che trova nelle sue indagini. Insieme alla moglie hanno un’idea geniale: incolpare Dinah, la moglie del dottore, della morte di Zenia. Ed imbastire un processo che vede come avvocato difensore proprio sir Oliver. Abbiamo quindi di nuovo un saggio delle capacità descrittive dei processi dell’era vittoriana, un altro elemento di piacere nelle letture dei libri di Anne Perry. Schermaglie verbali si susseguono, mente Monk ed Hester continuano ad indagare. Scoprendo che forse le ricerche di Lambourn non erano poi così cattive. Scoprendo che dall’oppio fumato si sta passando all’oppio iniettato in vena. Scoprendo altri altarini che coinvolgono, almeno sembra, una lontana sorella del dottore, il suo debole marito ed il capo di questi, Bawtry, un politico in carriera molto fulminea. Ma c’è qualcuno che vuole chiudere in fretta il processo, e mettere tutto a tacere. Anche perché si avvicina il Natale. Qui sir Oliver si trova davanti al suo dilemma: se usa una delle foto, può costringere il giudice del processo a non ostacolare, come sta facendo, il dibattimento. Dall’altra abbiamo digressioni sull’uso dell’oppio. Nonché il ritrovamento, da parte di Hester, di un medico, ora schiavo della droga, che tuttavia cerca, nei momenti di lucidità, di aiutare i derelitti drogati. Che conosceva le ricerche di Lambourn, anzi era forse uno dei pochi ad averle lette ed a sostenere che fossero nel giusto. Tutti i nodi come ben ci aspettiamo, precipiteranno insieme nelle ultime sedute del processo. Si scopre che Zenia era la vera moglie di Lambourn, che non aveva divorziato ma che aveva allontanato la legittima consorte avviata anch’essa sulla china della droga. Si scopre che Dinah era quindi una sua amante more uxorio. Monk si riavvicina anche al suo vecchio capo nella polizia, il sovraintendente Runcorn. Insieme scoprono anche come possa essere stato ucciso Lambourn. In tribunale quindi convergono tutti: Dinah come imputata, il giudice, sir Oliver, Monk, Hester, il medico drogato, Bawtry, la sorella ed il cognato di Lambourn. Riuscirà sir Oliver ad avere un equo processo? Riuscirà ad indicare chi e come ha eseguito i due assassinii? Lascio a chi ne ha voglia di leggere il finale della storia nella piacevole scrittura di Anne Perry. Io rimango a guardare una bella foto dell’epoca vittoriana, una bella ricostruzione degli avvenimenti. Resto infine a pensare se sia giusto utilizzare mezzi ai limiti dell’onestà per ottenere giustizia. Io do la mai risposta. Voi, se volete, leggendone. Anne Perry la dà scrivendone.
“La cosa peggiore è ciò che uno ha nella testa. Perché da quello non si può scappare, mai.” (83)
Anne Perry “Gli inganni di Dorchester Terrace” Mondadori euro 4,90
[A: 03/04/2015– I: 19/09/2016 – T: 20/09/2016] - &&& --
[tit. or. Dorchester Terrace; ling. or.: inglese; pagine: 272; anno 2011]
Appena tornato dall’India, avevo bisogno di immergere la testa in qualche cosa di completamente altro. Sono quindi tornato subito alle storie dell’Ottocento di Anne Perry, passando questa volta dagli intrighi di Monk, che avevo terminato subito prima di partire per Leh, a quelli meno “dilemmatici” di Thomas Pitt e compagnia, che ho divorato mentre qui, in questa Roma calda e umida passo il primo fine settimana a “bassa quota”. In tutti i sensi. Ma qui si parla di libri, o no? E si parla della nostra scrittrice prolifica e, almeno in questa serie, più rilassante. Qui non deve fare i conti con il suo passato, con le vicende giudiziarie. Qui si parla di indagini, anche di intrighi se vogliamo, ma con un tono più “easy”. Intanto rimarchiamo che il titolo (inglese) torna all’originale designazione di un luogo, Dorchester Terrace per l’appunto, come nella quasi totalità delle avventure di Pitt. Impagabili i traduttori italiani nell’appiccicare la parola “inganni”, come se in una vicenda di spie non siano all’ordine del giorno. Ricordate intanto che la Regina Vittoria aveva detto a Pitt che non si sarebbe dimenticata di lui? Infatti ecco che, messo prima per tappare un buco come capo della Sicurezza Nazionale, ora ne diventa il motore primo a tutti gli effetti, con beneplacito reale. Il problema di Pitt è che lui viene dalla gavetta e si sente inadeguato nel mondo “dei pizzi e delle crinoline” che la sua carica gli impone di frequentare. Per fortuna che la zia Vespasia gli è comunque d’aiuto, anche se proprio da un’amica della zia ha il via una parte preponderante della vicenda. Serafina, ottuagenaria ed in via di demenza senile, è stata ai suoi bei tempi giovanili una pasionaria che nello splendore dei suoi trenta anni, intorno alla metà del secolo, aveva girato l’Europa in lungo ed in largo, cercando ovunque dove ci fosse luogo e possibilità di rivolta. In uno dei tanti momenti di lotta si incontra con Vespasia, diventano sodali, anche se poi Serafina rimane sul campo, mentre l’amica ritorna alla sua Inghilterra ed al suo mondo dorato. Scopriremo poi, tra le tante attività, che Serafina era stata amante di un irredentista croato, Lazar Dragovic, che qualcuno dell’entourage inglese aveva tradito e fatto mettere a morte dagli austriaci. Sarà stato il vecchio Lord Tregarron, a sua volta preso da una tresca con Serafina, o Evan Blantyre, ora ex-diplomatico, ma all’epoca giovane in carriera negli uffici di Vienna? Serafina sa, e sa che nella sua demenza qualcosa gli può sfuggire mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Anche qualcun altro sa, Evan o forse il giovane Lord Tregarron. E Serafina muore. Uccisa da una dose eccessiva di laudano. Tutti gli occhi (almeno quelli collegati a Pitt) si appuntano su Adriana Blantyre, che in realtà è la figlia di quel Dragovic tradito da qualche inglese. Adriana che aveva possibilità e movente. Ma anche Adriana muore, ed anche questo, Pitt lo scoprirà presto, non è un suicidio. Tutto questo intrigo, oltre che dalle paure di Serafina, è anche messo in moto dalla visita a Londra, del duca Alois d’Asburgo. Dove gli informatori di Pitt scoprono che qualcuno vuole attentare alla vita dell’ospite austriaco in territorio inglese. Ma Alois è solo uno studioso, come si diletta a mostrare, oppure qualcosa di più, magari un pezzo grosso della sicurezza austro-ungarica, come sospetta Pitt. Certo un tale attentato metterebbe in moto elementi che potrebbero, con venti anni d’anticipo, portare ad un conflitto mondiale. Tuttavia sappiamo che le cose sono collegate. Anche perché Pitt ha un piccolo aiuto, pur se titubante, dal cognato Jack, entrato nell’entourage di Lord Tregarron, e che fornisce, a volte senza rendersi conto, informazioni preziose a Pitt. Dopo pagine e pagine con le quali Anne Perry ci porta a spasso tra mondi dorati di corte da un lato e loschi intrecci dall’altro, la fine, come spesso purtroppo accade nei romanzi della nostra scrittrice, è affrettata e relegata in poche pagine (quattro questa volta). Pitt scopre tutti i meccanismi, scopre chi ha fatto cosa e perché (e come). Deve solo decidere se, visto che la giustizia ordinaria non potrà fare nulla, arrogarsi una scelta dura, ma necessaria per la sicurezza nazionale. Decidere anche se questo passo avrà la forza o meno di portarlo avanti per il resto della sua vita. Non vi dico quale passo sia, ma è ovvio che Pitt lavora per il bene e come tutti gli eroi di Anne Perry, decide per il meglio, anche se questo lo ferirà per sempre. Speriamo che l’aria cupa che si respira nella Sicurezza Nazionale non inquini le prossime avventure di Pitt e di sua moglie Charlotte. Che la lettura risulta sempre rilassante, come ho già espresso, e serve, a volte (o anche più di talvolta) qualche momento in cui si stacca la spina. 
“Tutti ci dimentichiamo [di qualcosa] … Forse i giovani un po’ meno, ma perché hanno meno da ricordare.” (33)
“Nessuno vince sempre, a meno che non abbia obiettivi troppo facili.” (149)
Anne Perry “Giustizia cieca” Mondadori euro 5,90
[A: 06/07/2015– I: 20/10/2016 – T: 27/10/2016] - &&& --
[tit. or.: Blind Justice; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 2013]
Non stupitevi della lunga lettura. In genere gli scritti di Anne Perry vengono letti molto più velocemente. Qui, nel framezzo, c’è stato un bellissimo week-end a Bilbao, a gustare l’aria spagnola, la cucina basca ed il museo Guggenheim. Detto questo, veniamo al libro, al suo testo ed al suo contesto. Che qui, più che altrove, la nostra scrittrice si avvicina al nocciolo duro dei suoi problemi, alla ricostruzione (qui mentale e fittizia) di quella parte oscura della sua giovinezza. Là dove ha dovuto, a forza, fare i conti con quella giustizia, che qui definisce cieca, ma che, a volte, ci vede benissimo (come la sfortuna, che ci vede benissimo e colpisce sempre forte e duro). Ricordo brevemente, per i più distratti, che Anne Perry, da adolescente, insieme alla sua amica Patricia, uccise la madre di quest’ultima in Nuova Zelanda. E qui affronta per pagine e pagine un tema scottante proprio sulla giustizia e sulla legge: è lecito ad un giudice offrire elementi di colpevolezza di un imputato se ne viene a conoscenza? Ed in che modo? Ma facciamo un passo indietro per capire meglio la storia. Del libro, ovvio, che la storia di Juliet Hulme poi diventata Anne Perry la potete vedere su Internet o sul primo film interpretato da Kate Winslet, “Creature del cielo”. Qui siamo nella serie dedicata a William Monk ed alle sue vicissitudini. Tuttavia non si narra di azioni della polizia fluviale, ma piuttosto dello scenario dei personaggi che compongono il mondo di Monk. In particolare, la moglie Hester e l’amico sir Oliver Rathbone. Tutto nasce da una piccola indagine privata svolta da Hester per capire come mai la famiglia di una sua amica si stia riducendo in rovina. Si scopre ben presto che il padre della sua amica, subornato da un sedicente predicatore, mister Taft, ha donato alla sua chiesa più di quanto in suo possesso, finendo in ristrettezze. Ma la chiesa di Taft è solo un paravento, manovrato da lui e dal suo accolito Drew, per raggranellare soldi a loro personale vantaggio. Viene così istituito un processo per truffa, dove viene chiamato a giudice sir Oliver, passato dal ruolo di brillante avvocato a quello, appunto, di giudice. Le prove sembrano palesi ed acclarate, la truffa pare non avere dubbi di sussistenza. Tuttavia la difesa, avvalendosi dell’abile benché mendace deposizione di Drew, sta ribaltando il processo. A questo punto si innesta tutta la problematica pregressa, legata a sir Oliver ed alle vicende che con lui hanno visto protagonisti la famiglia Monk. Il suocero di Rathbone aveva messo in piedi un’impresa di corruzione legata alla pedofilia, ricattando eminenti personaggi dopo averli ripresi in foto oscene. Il suocero era morto per questo (e rimando ai capitoli precedenti se ne volete la narrazione), lasciando come pesante eredità a Oliver le suddette foto. Tra le quali, il neo giudice, non avendole ancora distrutte, riconosce una in cui è presente proprio Drew. In maniera poco professionale, invero, Oliver la fa avere all’accusa che, utilizzandola, scredita Drew, capovolgendo il processo. Ma prima che finisca, Taft uccide moglie e figlie e si toglie la vita. Almeno così sembra, che noi abbiamo subito dei sospetti. Ma non è questo che interessa la nostra scrittrice. Bensì le conseguenze per Oliver, che, accusato dall’ex-moglie, viene imprigionato ed accusato di ostacolo alla giustizia. Seguiamo quindi tutta la fase processuale dove l’ex-avvocato e giudice sale sul banco degli imputati. Dove un amico del padre se ne assume la difficile difesa. Dove Monk cerca di trovare delle prove a vantaggio dell’amico. La questione quindi si incentra tutto sul quesito iniziale. Oliver, avendo le prove delle malefatte di Drew, come si doveva comportare? Se avesse presentato pubblicamente le stesse, si sarebbe dovuto dimettere dal processo, che sarebbe stato annullato, consentendo a Taft di allontanarsi prima che ne potesse essere istituito uno nuovo. Oliver, con la sua mossa, consente al processo di avviarsi alla sua giusta fine. Ma esce dai suoi poteri giurisdizionali. Inoltre viene accusato di istigazione al suicidio. Sarà Monk a trovare le prove che non fu suicidio, ma omicidio ben orchestrato, e che, quindi, qualche cattivo andrebbe (e sicuramente andrà) punito. Vi lascio scoprire meglio questa parte. Quello che ci interessa è la rilevanza che la soluzione del caso porta alle prime azioni di sir Oliver, che, benché non del tutto in linea con la legge, vanno punite deontologicamente e non penalmente. Questa ritengo la parte migliore del racconto, anche se molto legata alla legislazione anglo-sassone di cui conosco poco. Però i buoni, compreso il piccolo Scuff, fanno una bella figura, ed i cattivi, compresa l’ex-moglie di Oliver, non ne escono bene. Forse neanche Oliver ne esce al meglio, ma sicuramente potrà riprendere la via di una retta vita, avendo deciso cosa fare delle foto. Ed avendo al suo fianco un vero amico. Cosa che non è da poco. Vorremmo tutti averne, ed io, fortunatamente, qualcuno ne ho. Ma si sa, oltre che un valente tramatore, sono “un ragazzo fortunato”.
“All’amore servono fiducia ed equilibrio. … L’amore deve comprendere la pietà e la gratitudine per la gioia della vita.” (45)
“[Gli errori] di solito si pagano. Ma a volte no. A volte, per una specie di grazia, si viene perdonati anche senza merito. In quel caso bisogna fare ogni sforzo per meritarsela dopo, quella grazia, e non dimenticarsene mai.” (130)
“Il delitto è proprio questo, perdere il senso di quello che è giusto.” (150)
“Cercò di immaginarsi … [la sua compagna] remissiva. E non avrebbe funzionato. Gli sarebbero mancate le idee di lei, le sue risate, perfino le sue canzonature, insomma la percezione compiuta di avere accanto qualcuno, un’altra persona, vicina ma diversa. Senza, la solitudine sarebbe stata devastante.” (197)
Sperando che tutti possiate avere delle belle e serene feste, con qualche regalo (senza esagerare) magari inaspettato anche se sperato (come fortunatamente ho avuto io), voglio condividere il bel regalo che mi ha inviato Ennio (a sua volta preso in prestito da Donato, che bisogna sempre rispettare le paternità). A voi quindi l’anagramma “Regalo di Natale à Donate allegria”

domenica 18 dicembre 2016

Banana forever 18 dicembre 2016

Non nel senso della frutta, pur degna e sostenitrice dei nostri momenti di sconforto in molte parti del mondo carenti di potassio. No, qui siamo a celebrare la Banana giapponese, con un altro libro che mi ha emozionato moltissimo. E che distanzia alla grande le altre scrittrici di questa trama. Certo, la turco-tedesca Aykol continua a darmi soddisfazione. Meno invece la Winterson delle ciliegie. Rimanendo invece sospesi tra il più ed il meno con la scrittura della francese Sagan, che tuttavia va più sul negativo.
Esmahan Aykol “Tango a Istanbul” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 12,60 euro)
[A: 25/09/2014– I: 30/03/2016 – T: 01/04/2016] - &&&
[tit. or.: Tango Istanbul; ling. or.: tedesco; pagine: 297; anno 2012]
[tit. or.: İstanbul Tango; ling. or.: turco; pagine: 297; anno 2012]
Rimane sempre il mistero, non sciolto neanche da lunghe ricerche librarie, su quale sia la lingua in cui scrive Esmahan e da quale lingua sia tradotta in italiano. Le ultime prove, non definitive purtroppo, ci portano alla scrittura in turco, con versione in tedesco della stessa autrice (che come spero ricordiate è bilingue) e traduzione in italiano dal tedesco, come risulterebbe anche dalle precedenti uscite presso Sellerio. Detto ciò, ritorno dopo quattro anni alla lettura delle avventure stambuliote di Kati Hirschel, e continuo a collocarla tra le scritture di romanzo e non di genere. I media ed internet proseguono ad indicare Esmahan Aykol come autrice di “kriminalroman”, ma io insisto nel dire che qui di kriminal c’è poco o nulla. C’è molta Turchia, ci sono molte situazioni di immigrati in terra turca, ci sono anche, di contorno, una o forse due morti, ma queste, pur scatenanti le ricerche della nostra Kati, non entrano nel computo di misteri da risolvere. Certo, all’inizio non sono chiare, ma si chiariranno, e daranno vita ad un sotto finale con alcune (poche) spiegazioni. E di certo non è la loro soluzione che porta acqua al mulino del libro. Che, purtroppo, rispetto agli altri romanzi della nostra scrittrice, non è che abbia molta acqua. Forse ci si concentra troppo sulle paturnie comportamentali di Kati, dandole molto (troppo) spazio, senza riuscire a sviluppare in modo più coerente tutto il contorno. Ovvio che non dimentico, e rimango sempre favorevolmente colpito, dal tono scanzonato di Esmahan, della vita di Kati, proprietaria di una libreria specializzata in libri gialli e sita vicino alla Torre di Galata (ahi, quanti bei ricordi…), sfortunata partecipe ci molti idilli amorosi (nei precedenti romanzi) e qui in procinto di cadere nella rete del fascinoso Armin (ma rimane tutto sospeso, rimandandoci, spero, ad una nuova puntata), contornata dai suoi dipendenti: il gay Fofo, qui molto defilato, e la sempre impaurita Pelin, che qui invece dà il via alla vicenda (essendo amica della comatizzante Nil). Con la presenza, puntuale e precisa, dell’amica Lele, suo contraltare tutto turco (ritardataria, innamorata, giornalista e tecnologica). Si diceva di Nil, l’amica di Pelin, che cade inaspettatamente (giovane di una trentina d’anni) in coma. Kati, curiosa ed impertinente, si pone al centro della scena, prima accogliendo il fratello di Nil, poi assumendo l’incarico di capire motivi ed azioni che stanno portando Nil alla morte (e forse anche Karem, il suo ricco fidanzato). Qui si innestano, con un po’ difficoltà invero, la trama di tipo A, quella che ha portato al titolo, e che cerca di portarci fuoristrada. Perché Nil sta scrivendo un libro sulla fuga in Argentina di suo nonno, che lascia moglie e figli, per scappare addirittura con una “greca” (eresia per un turco…). Libro complesso che dovrebbe spaziare tra Smirne e Buenos Aires, tra balli tradizionali e tanghi bollenti (tanto che Nil si era anche iscritta ad un corso di Tango, vicino ad Istiklal Caddesi, e non dico altro, che chi conosce Istanbul sa già di che zona sto parlando). Nel libro si dovrebbe anche parlare della dittatura Argentina, facendo sottili paragoni con Erdogan e compagnia. Ma è tutto fumo negli occhi, perché noi ci concentriamo sul libro, pensando che qualcuno abbia cercato di uccidere Nil perché svelava segreti turco-argentini. Ma in questa piccola ricerca, Kati, con l’aiuto della colf di colore di Nil, scopre i veri segreti di Nil, filmati con diversi e pesanti ricatti a sfondo sessuale. Questo il secondo filone del racconto, dove la nostra scrittrice se la prende (a ragione) con i guasti della corrotta società turca (e come non fare subito paralleli con la nostra società di facile corruzione e di uscita difficile dal suo marasma). Ripeto però che tutto serve solo a dare uno spaccato della Turchia di oggi, del suo traffico, di Besiktas ed Uskudar, di Galata e Karakoy, del Pera Palace e di Piazza Taksim, dei giornalisti (quelli imprigionati da Erdogan) e delle piccole o grandi rivolte locali, del caffè, dei panini al formaggio. Portandoci per mano verso la conoscenza di un miele (il “miele matto” della Colchide, noto e ben descritto fin nell’Anabasi i Senofonte), che risorge dalle sue ceneri come miele tossico neozelandese, derivante dalle radici del “tutu”, una specie di rododendro locale. Ma non mi interessa questa strada, preferisco tornare all’altra, ed alla citazione, non casuale, di pagina 255 del nostro Roberto Saviano e della sua lotta per la libertà e contro le mafie. Per questo torno a collocare Aykol tra le scrittrici di buoni romanzi e non di genere, e spero di leggere ancora qualcosa di suoi, magari che si migliori un po’. Inciso finale: in casa di Nil c’è una installazione di Julian Opie, e chi sa di arte capisce che per quella casa devono passare di soldi, e molti. Io mi scuso della mia ignoranza, e sono dovuto andare a cercarne in rete; e devo dire che non mi dispiace.
“Gli elementi decorativi del tappeto erano esattamente ventidue. I numeri a cifra ripetuta non portano mai a niente di buono … I numeri primi [invece] sono fantastici, i migliori in assoluto.” (17) 
Jeanette Winterson “Il sesso delle ciliegie” Mondadori euro 9,50
[A: 19/10/2015– I: 21/08/2016 – T: 24/08/2016] - && e ½ 
[tit. or.: Sexing the Cherry; ling. or.: inglese; pagine: 189; anno 1989]
Devo dire che mi lascia alquanto perplesso l’idea delle “dottoresse dei libri” di inserire questo come libro fondamentale per chi ha venti anni. Ho letto altro di Jeanette Winterson, mi è discretamente piaciuto. Questo, lasciandomi anche abbastanza perplesso, non credo lo consiglierei a molti. E di certo non ha chi abbia venti anni, cui probabilmente suggerirei di dedicarsi ancora agli epigoni del giovane Holden. Forse il solo elemento che un ventenne potrebbe apprezzare è questo bandire il tempo. Non esiste passato o futuro, c’è forse un eterno presente, che è quello che viviamo. Che come un pendolo ci porta qua e là, riportandoci sempre, ed è questo il suggerimento che direi di cogliere, verso noi stessi. Per gustare il libro, quindi, bisogna mollare qualche freno, sganciarsi un po’ dalla pesantezza del nostro essere, e far viaggiare la fantasia. Il tentativo della scrittrice inglese tuttavia non mi ha convinto fino in fondo. Troppe e troppo intriganti le metafore, i salti, anche le capriole. Tutto sembra da un lato ribadire un vezzo che trovo deleterio negli scrittori moderni. Quanto sono bravo, vediamo se riesci a seguire i miei voli pindarici. Per questo, a volte, preferisco tornare ad un ruvido presente, magari chiazzato di giallo, come sanno bene i miei appassionati, seppur pochi, estimatori. Allora, veniamo quindi a noi, a queste ciliegie, che per la maggior parte del tempo ci fanno vivere la vicenda ai tempi di Cromwell. Dato poi che noi non siamo inglesi, un po’ di fatica abbiamo a seguirne le trame nascoste, che la storia inglese non è pane di tutti i giorni per me. Una vicenda quindi che si snoda, principalmente, poco dopo la metà del 1600, tra le vicende della rivolta di Cromwell appunto (circa 1658) e la grande peste di Londra (che fece 75.000 morti intorno al 1665). Almeno è così che l’autrice ci porta a leggere. Ed in quel tempo vediamo snodarsi la storia di Jordan e di sua madre. Una donna enorme, allevatrice di cani, che salva un bimbo dalle acque del Tamigi (tipo Mosè salvato dalle acque) e lo chiama Jordan (cioè Giordano). Vediamo Jordan crescere, vediamo la madre adottiva fare mille attività, raccontarci mille episodi, anche truculenti, del suo essere enorme. Vediamo infine Jordan trovare una propria strada, prima come aiuto del giardiniere del Re. Poi, il Re deposto, ed altre vicende inglesi che non vi sto a narrare, Jordan che parte su di una nave. Per tornare alla madre solo in morte di quest’ultima. Storia nella storia, c’è la vicenda della ballerina e delle sue sorelle. Che Jordan vede (o sogna) di una fantastica ballerina. La cercherà per tutto il mondo e per tutte le isole del mondo. Veniamo così a conoscere la storia fantastica delle dodici principesse. Che ogni notte fuggono dal loro letto per visitare una città sospesa in cielo. Che vengono scoperte e date in moglie a dodici fratelli. Vediamo anche come ognuna, a proprio modo, effettuerà una truculenta vendetta. Solo una però fugge prima del matrimonio, vola su di una fune e non farà più ritorno. Anche quando Jordan, innamorato, la cercherà ovunque. Facile la metafora di una fuga dai propri ruoli verso un’autentica libertà non solo di facciata. Poi nel finale, l’autrice ci spiazza ancora, portandoci ad una storia del presente (almeno del presente della scrittura). Dove ritroviamo, e senza troppa difficoltà riconosciamo, tutti i personaggi della storia. Qui il cerchio si chiude. Qui la storia, almeno per la scrittrice, dovrebbe avere un senso. Il passato è un presente traslato. Noi siamo qui ed ora, e le nostre vicende possono collocarsi ovunque nel tempo. Anche nel futuro delle dodici sorelle. Anche, e soprattutto, nel ruolo immaginario della ballerina. Dobbiamo seguire i nostri sogni, senza condizionamenti. Dobbiamo essere noi stessi, sia se siamo sognatori come Jordan. Sia se siamo enormi e sgraziati come la madre adottiva. Ci dice, infine, che è anche l’amore (ed ovvio che l’amore e l’immaginazione vanno sempre a braccetto) che ricongiunge luoghi e persone. L’amore opera miracoli. L’amore ed il viaggio. Come non essere d’accordo? Sembra quasi che si parli di me. Purtroppo, la scrittura non rende felice questo viaggio tra le pagine. Mi sono appassionato all’idea. Mi ha sconcertato e raffreddato la sua realizzazione. Allora, bando alla scrittura, e largo all’amore. Con tutto quello che ne consegue.
Françoise Sagan “Bonjour tristesse” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 09/02/2016– I: 16/09/2016 – T: 19/09/2016] - &&&--- 
[tit. or.: Bonjour tristesse; ling. or.: francese; pagine: 151; anno 1954]
Ero sempre stato tra l’incudine ed il martello verso la Sagan ed i suoi libri. Mi dicevo che valeva forse la pena leggerne, poi me ne allontanavo spinto dalle polemiche da lei suscitate in vita, e in cui non volevo, mentalmente, essere coinvolto. Spinto alfine dalla biblioterapia che ne consiglia la lettura a chi sia molto triste, ed acquistato in un periodo che, fortunatamente, triste non era, ne ho letto con una cura premonitiva, sgomberando la mente da preconcetti, evitando anche di leggere il bel commento che ne fa Valeria Parrella (una scrittrice che io amo). Il risultato è una buona lettura, un libro interessante, che, se poi lo inquadriamo nel periodo di scrittura e nel mondo in cui nasce, assume anche altri significati trasversali. Era la Francia del poco dopo guerra. Quella dei Sarte, dei Camus, dei bistrò con Boris Vian e Juliette Greco. Françoise è una diciannovenne sveglia, irrequieta, che con difficoltà (viene più volte rimandata) riesce a diplomarsi e ad entrare in università. E scrive di getto questo libro, che si presenta come contraltare di quel mondo. Che descrive una modalità inquieta sì, ma spensierata (forse anche troppo), dedita ai piaceri della vita, anche se non (almeno nell’apparenza) fatua. Di certo ingenua, anche se qualcuno direbbe volutamente. Come quando Françoise fa dire alla sua alter-ego Cécile: "Avevo spiegato a mio padre che volevo iscrivermi a Lettere, frequentare gente colta e diventare famosa e pedante”. La storia, narrata da Cécile in prima persona, e che ce ne presenta i turbamenti, i segni che la storia stessa le lascerà addosso, comincia con un inno a Paul Éluard, ed alla sua poesia, riproposta in esergo, che inizia con “Addio tristezza / Buongiorno tristezza”. E sarà questo buongiorno che diverrà il marchio di fabbrica di Françoise-Cécile. Che ci racconta la storia di questa estate trascorsa sulla Costa Azzurra. Con il gaudente padre Raymond, imperterrito donnaiolo, e la sua ultima amante, Elsa, di poco più grande di Cécile. Seppur sul filo della noia, anche se con qualche punto di batticuore, dovuta alla presenza di tal Cyril, ventenne studente di legge poco più grande di lei; Cecile non è innamorata di lui, lei è innamorata del contatto fisico e del piacere che ne ricava. I giorni trascorrano così, lenti e mondani. Il tutto si rompe con l’arrivo di una vecchia amica di famiglia, Anne. Aristocratica, raffinata, colta e sensibile. Che cerca di fare la vice-madre alla nostra giovane (la cui madre è morta da qualche anno). Ma che soprattutto (e bene risalta nella scrittura) fa fare delle figure barbine alla povera Elsa. Questa si brucia al sole, Anne si abbronza. Elsa si sbronza, Anne regge l’alcool e le situazioni difficili. Raymond, com’è ovvio, ben presto si sbarazza di Elsa, e propone addirittura ad Anne di sposarla. Ovvio che Cécile diventi super gelosa. Vedersi portare via il padre è già un trauma, e vederselo portare via da una donna che si ammira, non può che centuplicare il già latente complesso di Elettra (in psicoanalisi il complesso di Elettra è una sorta di analogo femminile del complesso di Edipo; secondo la definizione di Carl Gustav Jung tale complesso si definisce come il desiderio della bambina di possedere il padre e della competizione con la propria madre per il possesso del genitore). Cécile quindi mette in scena un teatrino micidiale. Convince Cyril a corteggiare Elsa pubblicamente, certa che il padre ne diventi geloso. Cosa che puntualmente accade, dove Raymond tenta un nuovo approccio con Elsa, e con Anne che li scopre, vedendo anche lei che l’uomo non cambierà mai. Delusa e disillusa, parte in macchina per Parigi, ed avrà (o si lascerà avere) un incidente mortale. Qui finalmente arriva la tristezza in fondo al cuore (e che con il grande Lucio ripetiamo “come la neve, non fa rumore”). Qui arrivano le domande di Cécile-Françoise se sia stata lei la causa del tutto, quasi a credersi Dio essa stessa, fattrice e disfattrice della vita di tutti. Poi la vita prosegue, come era prima di Anne, quasi che fosse un solo piccolo intoppo nel corso della vita stessa. E nel futuro, pur rimanendo la tristezza, se ne potrà parlare come una cara amica che ci è stata strappata. Come qualcuno ha notato, io non sono riuscito ad entrare in empatia con nessun personaggio, e la scrittura denota i nostri sessanta anni. Pur tuttavia è un libro importante, anche al di là di questo. Per quello che ha rappresentato, per le capacità della scrittrice, per il bando che ne fece il Vaticano (troppo licenzioso, ma se lo leggete vi domanderete a lungo il perché). Mi è quindi piaciuto a metà, forse solo per quella rabbia che ha dentro e che noi non si riesce a tirare fuori. O forse perché, incongruamente, dalla tristezza del poeta di Françoise è emerso il mio analogo poeta francese, quel Jacques Prévert di cui mi venivano in mente quelle righe meravigliose dei “Trois allumettes” (Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti gli occhi / L'ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi queste cose / Mentre ti stringo fra le braccia). Ma si sa che io sono un incorreggibile francofilo romantico.
“Avevamo … le risate e l’amore; li ritroveremo mai come erano in quell’estate, con quello splendore, con quella intensità?” (114)
Banana Yoshimoto “Moshi moshi” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 12/06/2015 – I: 20/09/2016 – T: 24/09/2016] - &&&& +   
[tit. or.: もしもし下北沢 Moshi Shimokitazawa; ling. or.: giapponese; pagine: 206; anno 2010]
Intanto, per chi (e sono pochi, ovvio) non conosce il giapponese, avverto che “moshi moshi” è il modo, in generale, con cui i giapponesi rispondono al telefono. Corrispondente, all’incirca, all’inglese “Hello”. Ed il titolo giapponese riporta infatti correttamente quel “Hello Shimokitazawa”, dove il secondo è il nome di un quartiere commerciale di Tokyo dove si trasferisce la protagonista. Senza questo preambolo, poco risalta della vicenda successiva, seppur intensa, triste, e scritta benissimo (oltre che tradotta magistralmente da Gala Maria Follaco). E si comprende l’accenno al telefono ad un certo punto delle vicissitudini oniriche della protagonista, la simpatica Yoshie. Anche se intriso in ogni riga di tristezza, è anche un libro che sulla tristezza costruisce una speranza, o una via di percorrenza che ci porta ad una speranza, che ci porta fuori da un tunnel. Seguiamo per le molte (per Banana) pagine la vicenda di Yoshie, che sta cercando di elaborare un terribile lutto: il padre si è (sembra si sia, non si capisce molto bene, ma è poco importante) suicidato insieme ad una sua amante. Doppio lutto: morte del padre tanto amato, musicista, session man, sempre allegro. Presenza di un’amante accanto a lui. Certo sapevano tutti che il padre non è un modello di virtù, ma era uno che tornava sempre a casa. Stava sempre molto in giro (anche chi è musicista è un viaggiatore, no?), ma tornava sempre dalla moglie (con cui si poteva parlare anche di sciocchezze) e dalla figlia. Per superare il trauma, Yoshie si trasferisce dalla sua casa di Meguro a un minuscolo e vecchio appartamento a Shimokitazawa, un quartiere di Tokyo famoso per le sue stradine chiuse al traffico, i ristoranti, i negozietti, nonché meta degli alternativi della capitale. Qui Yoshie spera, aiutata dall’atmosfera vivace, di superare il dolore e dare una nuova direzione alla sua vita. Soprattutto avendo iniziato a lavorare in un ristorante. Il rapporto con il cibo, oltre che la musica, è fondamentale per Yoshie, ma anche per Banana. Si parla di cibi giapponesi, di come cucinarli, di quale sia il momento migliore della giornata per gustarli. Un giorno, però, sua madre le si presenta a casa all’improvviso con una borsa Birkin di Hermès e qualche sacchetto. Yoshie non se la sente di mandarla via (anche se ne ha la tentazione), instaurando così un momento di vita a due che, alla fine, servirà ad entrambe per uscire. Anche la madre, poi, dopo momenti di sbandamento, si mette a lavoro in una situazione di ristorazione. E spesso madre e figlia, si ritrovano a parlare davanti ad una tavola imbandita. Se fatto con le persone giuste, è uno dei migliori momenti di condivisione che ci possano essere. Cibo è istinto, è immediatezza, lo si ama o lo si odia senza mediazioni. Così come si ama o si odia che ci sta vicino. Così Banana ci parla di pranzi, di cene, del tè delle cinque, ma anche della giornata lavorativa e dei clienti. Di quello che viene sempre lì e con il quale avrà una storia. Della signora che era la moglie di un diverso amante della donna che si è uccisa con il padre di Yoshie. Qualcuno parla di banalità del quotidiano. Io ci vedo i piccoli moti del cuore, le piccole cose giganti che ci impegnano la vita. Importante sarà per Yoshie riuscire a parlare anche con gli amici del padre, con i suoi compagni di musica. Uno in particolare, che con le sue parole di amicizia (e forse anche qualcosa di più) le farà fare gli ultimi passi. Ma non è importante seguire tutta la vicenda, come poco a me è importato seguire anche le storie sessuali di Yoshie (ognuno può fare l’amore con chi vuole e non ci si scandalizzi troppo). Quello che seguo (anche con dolore) è la forza di chi non si nasconde, di chi si mette in discussione, quando e soprattutto c’è da mettersi in discussione. Come in molti scritti di Banana tutto è delicato, accennato, sorvolato. Ma se si legge con cuore aperto e mente sgombra, molti sono gli stimoli che ci somministra ed i pensieri che ci suscita, le riflessioni su noi stessi, sul nostro modo di vivere. Tanto che le prime tre frasi che riporto mi hanno impegnato a lungo, anche perché lette appena tornato dal mistico viaggio ladako. Con tutti glia alti e bassi, con tutti i distinguo, credo che continuerò a leggere della simpatica giapponesina (anche se ormai anche lei cinquantenne).
“Adesso voglio fare cose senza senso.” (18)
“Non ci crederai, ma al mondo non sono poi molte le persone con cui si può parlare di sciocchezze.” (31)
“Per conoscersi ci vuole tempo, per capire se una persona ci piace o no ce ne vuole ancora di più.” (50)
“Nei rapporti tra uomini e donne l’intelligenza non c’entra.” (92)
“Era il momento di smettere di compatirmi … tutt’a un tratto è accaduto qualcosa che nessuno poteva prevedere, facendomi perdere il controllo, ma questo può sempre succedere.” (110)
Siamo anche questo mese alla terza trama, quindi un allegato sui libri che portano la felicità, che ovviamente non può che essere legato al Natale. Tuttavia, essendo troppo stringata la trama di Buzzati (una delle prime che ho buttato giù dieci anni fa), ed essendo Natale, vi do in regalo un suo breve racconto.
Per il resto si lavora, più o meno alacremente, alla definizione del prossimo viaggio, che, tra un mese e mezzo, dovrebbe (e lo sottolineo più volte) portarci di nuovo in Laos. Non manco però di augurare a tutti un Natale ricco di riposo e di belle presenze.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2016
Poiché siamo quasi a Natale, ecco che l’ottima Giulia ci propone alcune pillole di Natale, che dovrebbero servire da contraltare alla celebrata festa, qui intesa come uno dei possibili malanni di stagione.

MALANNI STAGIONALI (I)

NATALE D’AUTORE

Tanti i grandi scrittori che si sono confrontati con questo tema perché, come non si può evitare di festeggiare il Natale, non si può neanche evitare di scriverne.
Pasticche d’autore
Non ne potete più di buonismo, buoni sentimenti e allegria forzata? Siete esausti di storie tutte elfi, renne, slitte e Babbi Natale? Le feste vi hanno spossato e privato delle forze? Sedetevi comodi in poltrona e riacquistate energia e tono con “Il giorno più crudele”. È un antinfiammatorio arricchito di vitamina C, un blister composto da do-dici racconti dedicati al Natale da altrettanti mostri sacri della letteratura mondiale. Hans Christian Andersen, Anton Cechov, Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Nikolaj Gogol’, Mark Twain, Lev Tolstoj, Guy de Maupassant, Dylan Thomas, O. Henry, Carlo Collodi e Luigi Pirandello. Sono storie a sfondo morale, ovviamente, ma non moraleggianti per una lettura anticonvenzionale della più convenzionale delle feste, uno sguardo un po’ dark sulla festività tutta luci e jingle bells. Sono racconti di speranze perdute, tradimenti, tresche amorose, infanzie violate, disperazione, povertà, infelicità, crudeltà, fantasmi, streghe, diavoli, ladri, assassini... ma che ansia, starete pensando, ridatemi Santa Claus, Frosty, Rudy la renna e pure tutto il mio parentado! Non temete, c’è spazio anche per solidarietà, amore, coraggio e dignità, spesso conditi con umorismo (nero) e una sferzante dose di saggezza d’autore. La raccolta è cattiva quanto basta per concedersi un po’ di sana crudeltà, ma rigorosamente d'autore, in quello che spesso si rivela “Il giorno più crudele”.
Avvertenza: se la medicina fosse troppo amara, si consiglia di non assumerla a stomaco vuoto ma solo dopo aver affondato i denti in una soffice fetta di pandoro. Non commerciale, ovviamente, ma d’autore.
Tra le altre chicche-pasticche d’autore natalizie per autoimmunizzarsi alle feste o ammortizzarne i postumi, consiglio “Sogno di Natale e altri racconti” in cui Luigi Pirandello si muove tra spiritualità e senso del divino unendo nove racconti con il filo rosso, con tanto di fiocco, delle festività. Disincanto, ingenuità, slancio e cinismo, le sfumature emotive che colorano questa festa ci sono tutte, opportunamente filtrate dall'interpretazione multi sfaccettata di Pirandello.
Tenero e struggente è “Ricordo di Natale” di Truman Capo-te, incantevole storia d’amicizia tra un bambino e una signora che, soli al mondo, ogni Natale mettono in atto un personale rituale di cui è difficile non innamorarsi. Il ricordo cui allude il titolo è quello dell’ultimo Natale trascorso insieme. Una lettura terapeutica e analgesica, da non lasciar-si sfuggire.
Se vi sentite bisognosi di un’iniezione di spiritualità, immergetevi nel “Racconto di Natale” di Dino Buzzati, contenuto nella raccolta “La boutique del mistero”. In questo racconto fiabesco e surrealista, laico ma fortemente spirituale, l’autore si interroga sui significati più autentici della festività, ovvero l'amore divino e la condivisione contrapposti all’egoismo. È possibile prolungare la cura in compagnia di Buzzati leggendo gli scritti, i racconti e le fiabe natalizie raccolte ne “Il panettone non bastò”.
Giallo Natale
Se saltare i festeggiamenti natalizi è un delitto che non vi sentite di compiere, ma vi mettono i brividi e avete l’impressione che la follia delle feste potrebbe farvi commettere gesti insani, rimediate subito con un giallo Natale. Prescrivo l’assunzione di due classici una sorta di pandoro e panettone della letteratura di genere.
Nelle favole edificanti a Natale le famiglie si riunisco-no e mettono da parte ogni contrasto per festeggiare insieme. Nelle favole edificanti, però, perché questo non accade quasi mai nella vita e tantomeno in un libro firmato Agatha Christie. Ne “Il Natale di Poirot” la regina del giallo mette in scena una situazione che rischia di accadere spesso quando i membri di una famiglia si ritrovano sotto lo stesso tetto e ciascuno sembra fare di tutto per tirare fuori il peggio di sé. Nel romanzo una riunione familiare si trasforma in dramma quando il vecchio e tirannico capofamiglia vie-ne trovato assassinato il giorno della vigilia. Come nella migliore tradizione, i parenti hanno tutti un movente. Ma ci pensa Poirot, a cui nulla sfugge, che si tratti di indizi o di sfumature dell’animo umano: “C’è in loro molta ipocrisia, a Natale, onorevole ipocrisia, senza dubbio, ipocrisia pour le bon motif, ma sempre ipocrisia. E lo sforzo per essere buoni e amabili crea un malessere che può essere in definitiva pericoloso. Chiudete le valvole di sicurezza del vostro contegno e presto o tardi la caldaia scoppierà provocando un disastro”. Date retta al dottor Poirot.
Altro grande incubo delle festività natalizie sono i party, i brindisi aziendali, gli auguri in ufficio, i festeggiamenti tra amici e colleghi. C’è un piacevole antidoto an-che per questo, una delle più divertenti avventure dell’investigatore amante della buona cucina e delle orchi-dee: Nero Wolfe. “Natale di morte” di Rex Stout. Durante un Christmas party il padrone di casa viene avvelenato con un bicchiere di Pernod. II sospettato è, come da copione, il cameriere che, in osservanza alla tradizione natalizia, è travestito da Babbo Natale. Ma sarà davvero lui il colpevole? (Trovate altri rimedi di Agatha Christie e Rex Stout nella sezione Brividi di…).
Rimedio indolore per un Capodanno d'autore
Capodanno vi mette di malumore? Ne detestate il diverti-mento forzato? Siete allergici a cotillon, trenini, lustri-ni, botti e fuochi d’artificio? Vi mette l’ansia dover aspettare la mezzanotte ingozzandovi di zampone, cotechino e lenticchie c brindando con lo spumante mentre in TV tutti cantano immancabilmente YMCA dei Village People? In conclusione, se il 31 dicembre vorreste andare in letargo dalle quattro del pomeriggio fino alla mattina dopo, vi consiglio un rimedio per esorcizzare in modo diverso (e indolore) la mezzanotte.
Per un Capodanno d’autore, suggerisco “Le intermittenze della morte” di José Saramago. La surreale vicenda raccontata dallo scrittore premio Nobel prende il via proprio il 31 dicembre, quando la Morte decide di entrare in sciopero. Da quel momento nessuno muore più. Non ci sarebbe modo migliore per cominciare il nuovo anno senonché, dopo l’iniziale euforia, cominciano a verificarsi i primi problemi, anche di ordine pratico. Tutto il Sistema si regge sulla morte, ci dice Saramago, dimostrando come l’immortalità sia in fondo un ulteriore scherzo della vita. La Morte si vedrà costretta ad assumere le sembianze di una donna e riprendere servizio. Ma “umanizzarsi” vuol dire diventare fragili. Se pensate che questo libro sia il modo più deprimente per aspettare il nuovo anno e avete il dubbio che forse sarebbe meglio andare al veglione con i cotillon e il trenino piuttosto che sorbirvi questa veglia funebre, vi sbagliate. Ironico, assurdo e paradossale, il romanzo di Saramago è un originale inno alla vita che senza la morte sarebbe, purtroppo, priva di senso, una lucida e profonda riflessione sulla fragilità umana ma anche sulla forza che è in grado, se non di sconfiggere, quantomeno di piegare perfino la morte.

Commenti

Ovviamente ho letto Agatha Christie ed a lungo ne parlo più in basso. Ma lessi, in una delle prime trame, or son trascorsi dieci anni, il bel libro di racconti di Dino Buzzati. Come facevo allora, la mia trama era ridotta all’osso (tanto che qui raggiunge appena le tre righe). Allora, per rimediare, non parlerò di altro del libro, che dovrete leggere, ma vi faccio un piccolo regalo di Natale con un piccolo (tutto minuscolo questa volta) racconto, che io ed il buon Achille abbiamo trovato superlativo.
Dino Buzzati “Il panettone non bastò” Mondadori 8,40
[pubblicato il 24 dicembre 2006]
Una raccolta di scritti sul Natale. Non conosco molto Buzzati, ma qui (e altrove, lì dove è superfluo) sto imparando a capire la concisione di una parola, quando va dritta allo scopo. Mitico il Natale eritreo, abeti e deserti.
Agatha Christie “Il Natale di Poirot” Corriere della Sera 21 euro 6,90
[pubblicato il 14 febbraio 2016]
Se avete letto (o ricordate) quanto ho detto per “La domatrice”, qui non possiamo che ripeterci. È un periodo che Agatha scrive molto, e la forma “Orient-Express” ha ormai preso piede. Così che la ritroviamo, e con efficacia, anche qui. Qui la complicazione è dovuta alla difficoltà di spiegare le modalità della morte del personaggio centrale, di quel Simeon Lee, donnaiolo e miliardario, ex trafficanti di diamanti in Sudafrica, patriarca di una famiglia un po’ scombiccherata, e poi super ricco tornato in quel dell’Inghilterra. Ma la situazione inziale è di pura routine “agathesca”. Descrizione della famiglia Lee (oltre al patriarca insopportabile): i coniugi Alfred e Lydia, quelli che sono rimasti per proseguire la tradizione di famiglia; i coniugi George e Magdalena, lui deputato, lei “spendacciona”, fuori di casa, ma il vecchio li foraggia sempre; i coniugi David e Hilde, lui andato via di casa alla morte della madre, e fattosi una vita da pianista, lei molto empatica, ma non ha mai conosciuto il vecchio. Poi c’è Harry, la pecora nera, andato via di casa da giovane in seguito a qualche ruberia verso il padre, e mai tornato. E Jennifer, l’unica donna, fuggita con uno spagnolo e da poco morta, lasciando la ventenne Pilar unica nipote di famiglia. Sentendo che la fine si avvicina, Simeon convoca tutti per il Natale. E tutti arrivano, anche Pilar dalla Spagna, dopo un avventuroso viaggio attraversando le zone della guerra civile ancora alle ultime battute (siamo nel ’38). E dal Sudafrica arriva anche Stephen, figlio di Eb, vecchio amico e socio di Simeon ai tempi dei diamanti. La scrittrice spende una buona metà del libro per descrivere i caratteri dei presenti, incluso il losco maggiordomo Horbury. E la vigilia di Natale, quando sono tutti in casa, e tutti ad un tiro d’occhio o di voce dagli altri, con un gran fracasso ed un urlo belluino, muore il vecchio. Ovviamente la porta della stanza è chiusa dall’interno. Ovviamente, una volta aperta, tutte le finestre sono sbarrate, a parte un filo d’aria che viene dal balconcino, ma da dove non passerebbe neanche un gatto magro. Altrettanto ovviamente, Poirot è ospite del capo della polizia locale, e con lui si precipita sulla scena del delitto, dove il sovraintendente Sugden già coordina le indagini. Anche qui, Poirot tira fuori tutta la sua baldanza, sostenendo (come al solito per il suo modo di indagare) che parlando con gli ospiti della casa riuscirà ad arrivare alla verità. E all’artefice del delitto. Assistiamo così alle felici scaramucce verbali cui tanto ci ha abituato la nostra. Aumentate da un felice scambio di opinioni tra Poirot e Sugden, sui modi, sulle possibilità, sulla ricostruzione del delitto. Altro trucco della nostra signora del giallo, quello che all’inizio sembrava essere, viene a poco a poco smontato. Non l’alibi di Alfred e Harry, rimasti in salone a litigare sul tema del figliol prodigo. Né quello di Lydia, in sala grande e vista dal cameriere. Né infine quello di Horbury, che era al cinema. Resiste anche David, nella sala da ballo al pianoforte. Ma George finisce la telefonata 10 minuti prima dell’urlo. Magdalena mente dicendo che telefonava, invece era il marito al telefono. Pilar sosteneva di stare nella sua stanza da letto, ma da lì non si sarebbe sentito l’urlo. Hilda era nelle sue stanze, ma non sarebbe potuta arrivare per prima. Infine Stephen non è stato visto da nessuno. Inoltre spariscono i diamanti dalla cassaforte, così come Simeon avrebbe detto a Sugden, ultimo ad averlo visto in vita. Poi si scopre che Stephen è solo un amico del sudafricano, che in realtà è morto due anni prima. E la sua posizione si aggrava. E si scopre che Pilar in realtà è la sua amica Conchita, essendo Pilar morta in Spagna sotto le bombe. E perché Sugden ha i baffi finti? Pilar-Conchita dice di aver voluto visitare Simeon, ma che davanti alla porta c’era Hilda. Così si nasconde tra le statue, ma raccoglie un pezzo di plastica sul luogo del delitto. Viene però vista dal colpevole, che tenterà di ucciderla. Anche Magdalena non era dove doveva essere. Nel solito finale con tutti i presenti, Poirot spiega che il trambusto è stato provocato da una fune che, tirata dalla finestra socchiusa, ha fatto cadere i mobili. E l’urlo era provocato dallo scoppio guidato di un palloncino da fiera. Scoprendo così il vero colpevole nella persona di… Piccola suspense, che anche qui, nella trama che solca i binari collaudati, Agatha mette una piccola zeppa, sempre per rendere meno consueti i suoi finali. Ricorda, in minore, il famoso caso Akroyd. Tuttavia, pur nella ripetitività e nel solco di avventure similari, le sue storie hanno il fascino della complicazione degli elementi. Hanno la bellezza dello svelamento totale dei misteri. E fa piacere seguire, a distanza a volte di giorni, a volte di mesi, cosa faranno i protagonisti usciti indenni dalla vicenda. In questi primi romanzi c’è quasi sempre Poirot come abbiamo notato. Con una capacità di soluzione che ammiro. Pavento quando si tornerà a Miss Marple, che ancora non ho inquadrato bene. Vedremo.
“- Tesoro, quanta pazienza hai avuto in tutti questi anni. Sei stata così buona con me. – E sai perché? Perché ti amo!” (272)

Finalino


Spero che vi sia piaciuto l’omaggio, e spero che questo Natale sia di buon auspicio e di belle speranze, per tutti i miei amici cari, e per tutti quelli che mi leggono per passare qualche momento di tranquilla spensieratezza. Che le due entità hanno quasi tutti i punti in comune.

Inviti superflui - Dino Buzzati

Vorrei che tu venissi da me in una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati pas­sammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spianavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svo­lazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guar­dammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desi­deri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolce­mente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa men­tre fuori daranno tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passa­sti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, ne battesti mai alla porta del castello deserto, ne camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, ne ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'an­no prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgo­no spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, fa­vorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fug­genti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplice­mente per mano e andremo con passo leggero, dicendo co­se insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sini­stre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allo­ra noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le ani­me si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quin­di amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa par­lare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incan­tesimo delle città, né le speranze che scendono dal setten­trione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guar­dano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient'altro.
Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti per­ché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno sen­za capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere co­se che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta co­sì. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di no­vembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fanta­smi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietu­dini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passa­no sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musi­ca. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascor­rono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saranno costretti a guardarci, non per invidia e malani­mo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fer­marti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fanta­smi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Ne udresti quella specie di musica, ne capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di tè le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E inutile.
Forse tutte que­ste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e tro­veremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'e­state o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa di­sadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vici­na. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scric­chiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inu­tili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poe­sia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abba­stanza felici, con molta semplicità, uomo con donna sola­mente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Proba­bilmente non riesci più a ricordare il mio nome.
Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Ep­pure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

domenica 11 dicembre 2016

Meglio i nuovi - 11 dicembre 2016

Un’altra settimana dedicato ad un quartetto italiano, con tre autori “moderni” ed uno storico. Sebbene Flaiano mi piaccia in molte forme, non mi ha esaltato in questa, pur degna di essere letta e commentata. Meglio i nuovi allora: meglio Presta, anche quando non parla dai microfoni della radio, meglio Stassi con questa opera prima che forse andava segnalata meglio da Sellerio, meglio Culicchia, con questa rivisitazione della sua opera prima.
Fabio Stassi “Fumisteria” Sellerio euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 01/09/2015– I: 14/05/2016 – T: 18/05/2016] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 166; anno 2006]
Torno dopo quattro anni allo scrittore siculo-romano-viterbese, con piacere ed una punta di nervosismo. Non per lui ovviamente, ma per la nuova casa editrice cui si è affidato, anche se da me generalmente amata. Sellerio qui fa un’operazione “sporchetta” non citando (anche se può farlo perché Fabio ha rivisto la prima stesura) che il libro è del 2006, come indico sopra, e non del 2015, che è solo il copyright di Sellerio. In realtà, questa è la prima opera dello scrittore, con la quale, una decina di anni fa, ha pure vinto il Premio Vittorini opera prima. Ma tra i primi libri ed ora, Stassi è passato da Minimum Fax a Sellerio, e spesso, questi cambi portano a rinverdire qualche “verginità”. Tutto senza venir meno al rispetto ed al piacere di leggere dello scrittore, soprattutto a valle di quel monumentale libro che tengo sempre accanto al computer per ogni vario ed eventuale riferimento, “Curarsi con i libri”, di cui Fabio è il curatore italiano (dove ha saggiamente integrato citazioni e dolori con esempi provenienti dal panorama letterario italiano che le autrici non conoscono a fondo come noi). Detto inoltre, che, dopo il libro sugli scacchi e Capablanca, e quello sul calcio e la Coppa del Mondo, sto aspettando di capire se riuscirò a leggere il libro su Charlot, veniamo allora a questo esordio letterario di un autore allora già quarantenne. Un esordio che, come nell’appendice finale dedicata ad un intervento fatto dall’autore in occasione di una mostra su “Portella della Ginestra”, nasce dai racconti siciliani dei parenti, che, poco dopo i fatti narrati, emigrano al Nord, fermandosi nel Lazio. Come da lì riportato, tutto nasce da alcune riflessioni sui muli, su cosa rappresentino, sulle loro morti nel giorno della strage, per allargarsi poi ad una allegoria del potere e delle sue ramificazioni in quella Sicilia che era da non molto uscita, come tutta l’Italia, dalla guerra, ma che non si era (né si sarebbe) affrancata da servilismi e mafiosità. Spesso, inoltre, come documentato e variamente spiegato, in collusione aperta con chi detiene il potere, chiunque esso sia. Spiace solo a noi lettori e amanti delle lettere che l’attacco risuoni un po’ troppo “colombiano”. Nel senso che come nei migliori romanzi di Garcia Marquez, il libro comincia con una morte, e da quella si risale per ricostruire glia avvenimenti di cui si vuole narrare. Infatti, iniziamo subito con la morte, anzi l’assassinio di Rocco La Paglia, accoltellato nella piazza principale della fittizia cittadina sicula di Kalamet (ricalcata su tante simili addensate nella Piana degli Albanesi, dove viveva la comunità arbëreshë degli Stassi; per inciso, la stessa comunità, ma di origine calabrese, di Carmine Abate). Da questo fatto nascono alcuni racconti, che parlano di tutto e di contorni, cha alla fine servono a completare il quadro di cosa succede, di come e di perché. C’è la storia dell’avvocato Licata, legale dei latifondisti, misogino (e forse inconsapevolmente gay) che sposa in tarda età Ester, e che si lascia sfuggire un commento inopportuno su donne e fumo. C’è Rocco appunto, con la sua storia di comunista e sindacalista, colpito nel profondo dalla strage del bandito Giuliano, dalle collusioni con il potere, e da un bacio che quindici anni prima aveva scambiato con la bella Ester. Rocco che è un fumatore accanito. C’è lei, Ester, bella (e impossibile? ripercorrendo Gianna Nannini), colpita ventenne dal bacio di Rocco, da cui non si riprende mai, che aspetta il suo ritorno, ma Rocco sa che sono di classi diverse e rimarrà sempre nell’ombra, che sposa Licata con affetto ma senza amore, e che sviene vedendo il corpo di Rocco nella piazza. Ci sono i fantastici “tutori dell’ordine”, che, sviati ad arte da una lettera anonima, provvederanno ad incriminare Licata per delitto d’onore. C’è Donna Mariannina, domestica dell’avvocato, cameriera di Ester, sempre un po’ svagata, persa tra la cucina, il lavaggio e lo stiraggio, che si concede una sigaretta ogni tanto. C’è il contrabbandiere balbuziente, compagno di cella di Licata, che ci racconta gli avvenimenti al contorno (e non è un caso che viene esposto in corsivo), tra cui la possibile discesa nella paranoia dell’avvocato, ma che soprattutto ci parla della Sicilia, dei sindacalisti e di Portella. C’è infine Santo Cicala, l’amico fidato di Rocco, che alla fine ci svelerà (e lo farà ad Ester) tutti i retroscena, i come ed i perché. Ma questi non ve li dico. Non vi dico se Rocco era l’amante di Ester, se fu un delitto d’onore o un delitto di mafia, se… Val la pena di leggere queste poche pagine (che si riducono di molto se passiamo dal formato minimo di Sellerio ad una tiratura “normale”). Come nei primi libri, non mi dispiace lo stile di Stassi, il suo modo di porgere la storia, ed anche il fatto che non ci si dimentica mai degli umili e dei derelitti, di cui si costella il mondo intero. Non è completamente risolto in tutte le sue parti, ogni tanto riecheggia altro, ma lo considero una lettura affidabile. Finendo tuttavia con una piccola tiratina d’orecchi: a pagina 50 si parla di “ex potestà”, per indicare un funzionario fascista poi reintegrato dall’amnistia di Togliatti. Credo che il termine corretto sia invece “ex podestà”.
Marco Presta “Un calcio in bocca fa miracoli” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 27/07/2015 – I: 09/06/2016 – T: 15/06/2016] – &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 190; anno 2011]
Avevo da tempo adocchiato negli scaffali delle librerie qualche libro di Presta, e, memore della mia (sopita) passione del su “Ruggito del coniglio” condotto in coppia con l’ottimo Antonello Dose, mi ripromettevo prima o poi di aprirne delle pagine ad una tranquilla lettura. Ed eccoci allora affrontare questa strana storia, che mi ha attratto e respinto in ugual misura. Respinto perché non è che succeda poi tanto, siamo sempre nella testa del protagonista che attraversa uno squarcio di vita, e ad ogni piè sospinto, una frase, una situazione, sono spunti per narrare altro, per raccontare, per tornare indietro, ed anche per andare avanti. Si rimane sempre un po’ sorpresi da questo “vecchiaccio” di settantasei anni, che affronta questo suo momento di vita aggressivamente, ma inframmezzandolo con brani teneri e delicati. Bravo Presta! Anche perché sceglie come protagonista un vecchio scassacoglioni, uno di quei vecchietti che a leggerli ti fanno ridere, ma se ce l'hai come vicino di casa, l'unica cosa che desideri è lanciarlo giù per la tromba delle scale nella speranza che vada, finalmente, all'altro mondo. Il nostro “innominato” è pensionato, vive da solo, è separato dalla moglie, beh già mi sembrava di volergli bene. Poi è astioso, brontolone, misantropo, pieno di pulsioni, e di acciacchi. Mirabile la sua pisciata dal balcone! A fargli da contraltare c’è il suo storico amico Armando che ora, morta la moglie ed avvicinandosi al suo addio, decide di fare il cupido, di far mettere insieme due ragazzi che secondo lui sono fatti l’uno per l’altra. Riuscendo anche a coinvolgere il nostro. Nel mentre che i due cercano di far nascere la “felice” unione, Presta ci mostra come poi noi ci sia una grande differenza tra young e old. Il protagonista, infatti, ha un certo moto di interesse per la portinaia, vedova, ma che è interessata ed interessa ad un altro inquilino del palazzo. Ne nasce un triangolo simpatico e attempato (niente riferimenti a Renato Zero per favore), inframmezzando le voglie del nostro con le sue acide battute. Quelle appunto che fanno salire i punti del libro anche oltre le mie iniziali aspettative. Come quando la portinaia gli lascia il suo pappagallo da custodire dovendo andare in un viaggio di piacere con l’altro. E lui commenta: "Guardai la gabbietta con il pappagallino e trattenni la battuta per rispetto, ma avrei voluto farle notare che a me aveva dato l'uccello, al barista la passera." Nonostante sia asociale e cattivo, la bontà di Armando lo conquista, riuscendo a fargli fare cose che non pensa di fare. Cercare di rimettere insieme alcuni cocci della sua vita, non maltratta la figlia in crisi, anzi la ospita e le parla civilmente. Così come con civiltà riesce a rivolgersi alla ex moglie. Nel mezzo dei pugni e dei calci, in bocca e altrove, riesce a farci rivivere la storia d’amore di Armando e Francesca con una tenerezza malinconica. Così come, alla morte anche di Armando, continua la sua opera di “procacciatore di affetti”. Pieno di acciacchi che non vuole confessare, come il siparietto che riporto sotto verso i medici e gli anziani, alla fine si arrende al fatto che, nonostante tutto, è meno vecchio di quanto sostiene al mondo intero. Da anziano anche io (ma non così giurassico) mi ha fatto comunque nascere una piccola speranza. Che nel mondo ci possa essere la bontà di qualcuno, l’altruismo, forse il fatto che nei rapporti umani non tutto sia perduto, e che se si vuole le cose possono avviarsi ad essere aggiustate. Come ho detto, mi ha fatto ridere empaticamente lo sguardo del protagonista sulla sua salute: se non vado dal medico non può dirmi che sto male e quindi sto bene. Infine, mi piace quella sua cleptomania dedicata alle penne, che ho anche io. Non le rubo, ma le prendo in prestito in tutti gli alberghi che ho visitato in giro per il mondo. Insomma, mi aspettavo qualcosa di più forte, ma al solito, come per radio, Presta mi ha spiazzato, dandomi qualcosa di forte, ma anche di dolce. Che non è sempre alla stessa altezza ed intensità, ma che ho letto di gusto. Se ne riparlerà, Presta (ah, che battutaccia…).
“Mi è sempre mancato il coraggio di apparire ridicolo, la sola vera forma di coraggio.” (22)
“Conviene curarsi quando si sta bene, per rimanere in salute. A settantasei anni, si sta male per forza.” (120)
Giuseppe Culicchia “Tutti giù per terra Remixed” Mondadori euro 10
[A: 05/07/2016 – I: 01/09/2016 – T: 15/09/2016] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 139; anno 2014]
Non stupisca il lungo tempo occorso a leggere questo breve libretto. L’ho cominciato sull’aereo per il Ladakh, e poi abbandonato a lungo preso da tutte le cose che servivano al bellissimo viaggio (organizzazioni, mal di montagna, godersi panorami incantanti e mistiche atmosfere, e scusate se l’elenco potrebbe essere più lungo, ma qui si parla di libri. O no?). Poi l’ho anche finito e gustato. Sempre come spesso nei libri di Culicchia, di cui continua a piacermi la scrittura. Anche se questo è un libro particolare. Perché il primo libro che ha scritto nel 1994 è stato “Tutti giù per terra” (e ne ho parlato tramando il saggio sulla scrittura del nostro torinese). Qui fa un’operazione interessante. Passati venti anni, molte cose sono cambiate nella vita quotidiana. Ecco allora nasce l’idea di un remix. Come dice correttamente Wikipedia: “La caratteristica principale del remix è appropriarsi di materiale preesistente e modificarlo per creare qualcosa di nuovo”. Ecco quindi che Culicchia remixa il suo primo libro, introducendo elementi attuali (il cellulare o i social network, che non erano presenti allora), per vedere se il plot generale possa resistere all’usura del tempo. Credo che in opere maggiori il tempo non incida mai sulla struttura della storia. Difficile per me pensare ad un remix della Divina Commedia, anche se… Ma in opere molto legate alla quotidianità, se questa evolve, è bene, è utile, è interessante fare un lavoro “alla Culicchia”. Chi ha letto (o ricorda) il libro primigenio di Culicchia (quello non remixed, cioè) o che ha visto il film che ne ha tratto Ferrario nel ’97 con una stupenda interpretazione di Valerio Mastrandrea non ha bisogno che io ne riparli qui. Ma brevemente è utile, per gli altri, delineare la trama originaria: Walter è un ragazzo senza arte né parte, oppresso da un padre che lo spinge a cercare un posto fisso. Decide di occupare il tempo facendo il servizio civile. È difficile, non riesce a coltivare amicizie, ha difficoltà dei rapporti con le donne (non riesce ad avere un rapporto sessuale con Beatrice, e rimane un po’ sconvolto). Pur immerso nella Torino delle contraddizioni quotidiane, non si appassiona ai movimenti di protesta. L’unico suo chiodo fisso è scrivere. Dopo il servizio civile, trova posto come commesso in una libreria, dove mette in mostra il libro che contiene un suo racconto. E rimane folgorato da una signorina che entra nel negozio. Spostandosi venti anni in avanti, i tratti principali rimangono gli stessi. Ma si aggiornano i comportamenti. Il padre ora lo spinge a partecipare ai talent show, ed aspetta tutti i giorni una telefonata da Maria De Filippi. Si guardano video hard su Youporn, si socializza su Facebook, si sente la musica su YouTube. Ma in fondo Walter continua a rimanere solo. E continua a rifiutare l’omologazione. Non vuole partecipare ai social, non usa il cellulare. Memorabile la discussione-litigio con l’impiegata delle Poste che gli vuole vendere una SIM mentre lui vuole solo fare una raccomandata. Continua anche a non avere facilità nei rapporti. Né con Tamara, che lo sfrutta (tenta di sfruttarlo…) sessualmente, e con la quale non ha sintonia, né con Enza, che avrebbero anche qualcosa in comune, ma che pensa solo a farsi canne o altro. Cose che a Walter non vanno. Le vede ma non le fa. Sempre più tristi sono inoltre le rappresentazioni dei nomadi che Walter deve schedare, dove Culicchia ci rappresenta ora una realtà che è andata, giorno dopo giorno, anno dopo anno, diventando una cancrena inestirpabile. Ovviamente non troverà lavoro in una libreria, ma in un negozio di elettronica, magari in un Apple store (ci vuole sempre un po’ di pubblicità per sopravvivere). Anche qui verrà folgorato da una bellezza, e si dimenticherà finalmente di tutto. E si potrà liberare. Concludendo quel girotondo inconcludente iniziato nella prima pagina, dove tutto gira senza cambiare nulla. Alla fine, gira che ti gira, come nella canzoncina, siamo “tutti giù per terra”. Anch’io, ovvio. Ma io sono un ragazzo più ottimista di Culicchia. E da terra ci solleveremo ancora una volta per un nuovo girotondo. Fino a che, non accorgendoci più di cadere, non potremo risollevarci. Forse saremo passati ad altra vita. Per ora ci godiamo i sorrisi anche duri e cattivi di questo libro. Ci godiamo l’operazione di remixaggio che è stata per me divertente e riuscita. Ci godiamo il ricordo della lettura del libro, dei paesaggi indiani limpidi e puliti. Della sensazione di comunanza che nessuno, mai, cancellerà. Del libro stesso, fisicamente, che volò verso altri lidi, ma che sono sicuro rimarrà, in qualche modo, presente. Insomma, Culicchia aggiorna ed io non dimentico.
Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” BUR euro 10,50
[A: 01/10/2014 – I: 25/09/2016 – T: 01/10/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 1947]
Unico libro scritto dal mago della penna di Pescara, che preferiva (ed io con lui, di quello che ho letto) l’aforisma, la corta battuta, al massimo l’elzeviro. Come dimenticare la caustica brevità di “Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi.” (dal “Diario degli errori”) o di “La stupidità degli altri mi affascina ma preferisco la mia.” (dal “Frasario per passare inosservati in società”). O meglio ancora quando si nascondeva dietro un regista per stendere una sceneggiatura (come dimenticare la collaborazione con Fellini in “La dolce vita” o in “8 e ½”?). Ma qui siamo di fronte al suo unico romanzo e di questo vogliamo parlare. Romanzo strano, complesso nella genesi, fulminante nella riuscita. Dopo aver scritto brevi racconti sulla sua esperienza di guerra africana, viene stimolato dall’amico Leo Longanesi a raccordarli in una trama unica, ed a farne un libro. Con l’idea, visto che Flaiano era già discretamente noto per scritti su vati giornali e riviste, di usarlo per lanciare un premio letterario che nasce proprio all’uscita del libro. E che viene vinto proprio da Flaiano con questo libro pubblicato da … Longanesi. Torniamo allora al testo. Un libro sulla guerra, ed in particolare sulla guerra di conquista in Etiopia, quella del 1936, quella della fondazione dell’Impero, secondo Mussolini. Un libro però in cui non si parla direttamente della guerra (o se ne parla poco e di sfuggita). La guerra c’è, ci sono morti, odi, attacchi narrati, ed altro. Ma mai direttamente. Si vede più il quotidiano del protagonista, con tutte le sue avventure, con tutte le sue peregrinazioni mentali che lo postano spesso e volentieri fuori dal seminato. Mi ha ricordato talvolta il film di Scola “Il mondo nuovo” (che spero avrete visto, un film fondamentale per leggere la Storia dalla parte della storia). Pur partendo dalla propria esperienza etiopica, e dai brevi racconti che ne aveva già tratto, quando si avventura nel complesso del romanzo, il tutto viene avvolto da un’atmosfera surreale, da una concatenazione di eventi che rischia di travolgere il protagonista (e forse lo fa). Tutto comincia con un mal di denti che il nostro soldato, anzi tenente, vuole curare. Per questo chiede una mini-licenza per andare da un dentista normale e non dal cavadenti della compagnia. Durante il viaggio, rallentato da camion che saltano in aria ed altre vicissitudini simili dovute alla guerra in corso, decide di proseguire a piedi. In una valle, di una calma altrettanto surreale, incontra una donna bellissima con un turbante bianco in testa. Dato che, come diceva Villaggio in “Carlo Martello”, “più che l’onor poté il digiuno”, sappiamo come va a finire. Ma nella notte africana, riposando accanto alla bella, sente i rumori che tutti noi, passati per il continente nero, abbiamo imparato a sentire. Ha paura, spara, ed una pallottola vagante accidentalmente uccide la donna. Qui cominciano le “follie” del nostro. Seppellisce la donna, fugge, comincia a sentire male ad una mano, viene informato che le donne con turbante bianco sono bandite dai villaggi in quanto portatrici di lebbra, si convince che ha la lebbra lui stesso. Cerca di farsi curare da un medico senza scoprirsi, ha paura della reazione di questo, gli spara ma lo manca. Continua a fuggire raggiungendo Massaua, dove pensa di potersi imbarcare clandestinamente per l’Italia. Ma non ha i soldi, si lega ad un maggiore che si sta arricchendo con traffici illegali, lo deruba, e tenta di uccidere anche lui (togliendo i bulloni ad una ruota del camion). Il tenente continua ad accumulare paure: che si trovi il cadavere dell’africana, che il dottore ed il maggiore lo denuncino, che abbia seriamente la lebbra. Si rifugia allora nel bosco, presso il nero Johannes, che, dopo lunghi momenti di reciproca insofferenza (muta che nessuno parla la lingua dell’altro) arrivano ad una convivenza (quasi) pacifica. Tanto che Johannes lo cura, ed una volta guarito e stanco, il nostro eroe decide di tornare al comando per costituirsi. Ma dove scopre che nessuno lo ha denunciato, che la licenza non è scaduta, e che potrà tornare in Italia e riabbracciare la moglie. Sostenuto da lirismo surreale nella prima parte (stupenda la scena in cui il tenente mette una sigaretta in bocca ad un caimano), ad un certo punto Flaiano si rende conto che non può continuare ad accumulare storie su storie e deve avviarsi verso la fine. Scendendo dal surreale al reale si perde di slancio, di compattezza, e tutta la parte in cui l’antagonista non è più il tenente con sé stesso, ma si presenta nel nero Johannes, la trovo lenta e poco felice. Per questo non sono stato soddisfatto della lettura di pancia. Rimane quella di testa, rimane un libro che deve essere letto se si vuole entrare nei meandri di un’epoca che spesso viene poco seguita in libri e testi e romanzi ed altro. Ma un voto di testa a me non basta per arrivare ad una piena sufficienza. Mi dispiace per Flaiano, e tornerò a rileggere (e lo consiglio) solo l’appendice finale, quella “Aethiopia”, diario scritto durante la guerra dove vengono alla luce, direttamente, i pensieri e le sensazioni di un tenente a contatto con quello strano continente. Dove si capisce anche la nascita dell’antifascismo di Flaiano. Che qui saluto con un’altra sua frase “Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa” (da “La solitudine del satiro”).
“Sessanta [chilometri], insomma dodici ore di marcia di buon passo [cioè cinque chilometri all’ora, sotto il sole africano, mi sembra una buona prova… nota mia].” (229)
Essendo la seconda trama del mese non può mancare una cura, che gli strani voleri del caso ci portano verso un’elaborazione del lutto, guidati da un grande piccolo libro di Tabucchi.
Seppur con tutte le difficoltà del caso, pare che, mattoncino dopo mattoncino, un nuovo viaggio si vada delineando per il prossimo anno. Per ora ci si lavora, e si vedrà. Per ora ci si prepara ad affrontare il rush finale verso il Natale, salutandovi sempre con affetto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2016
Non me ne vogliate se, in questi giorni che si avvicinano ad una grande nascita, sia capitato un momento dedicato all’elaborazione del lutto. Ci vuole anche questo, per continuare a vivere e raccontare.

LUTTO, ELABORAZIONE DEL

Antonio Tabucchi “Requiem”
Andrea Bajani     “Mi riconosci”
Elaborare un lutto è un viaggio lungo, difficile, doloroso. “Requiem” può essere un compagno ideale, una lettura intrisa di nostalgia e di commozione. Tabucchi lo scrisse in portoghese. In quella lingua esiste una parola che altre lingue non hanno, e questa parola è “adeusinho”. Un diminutivo per la più difficile delle cerimonie: il momento di dire addio a qualcuno a cui si è voluto bene. Come se si potesse essere delicati anche nella separazione e addomesticare con un piccolo trucco verbale la tristezza. Questo libro di Tabucchi è un “adeusinho” a tante persone e a tante cose. Una specie di sogno, di visione o di allucinazione, nell’attesa di incontrare per le strade di Lisbona il fantasma di Pessoa. Si sale e si scende sudati da un taxi, ci si ferma davanti al Tago, si dorme in un albergo a ore. Per scoprire che tutto è sulla stessa linea del tempo, le persone e i segreti, i Padri Giovani, gli amici. Leggetelo in treno, come si conviene a un viaggio. Raccontare, e ascoltare in fondo, è uno dei pochi modi che gli uomini hanno inventato per procrastinare la morte.
A Tabucchi stesso, un anno dopo la sua scomparsa, è toccata la sorte più strana per uno scrittore, quella di essere trasformato in un personaggio. E il regalo-congedo che gli ha fatto un suo amico, un altro giovane scrittore, Andrea Bajani, scrivendo per lui un secondo requiem, elaborazione universale e tenerissima di un lutto che vale per ogni perdita e per ogni dolore. La storia è vera, ma come sempre la buona letteratura, non potendo ripetere la realtà, la inventa di nuovo, in altra forma, ne resuscita il sentimento, mette in relazione il tempo passato, sfida la casualità dei fatti che sono accaduti e cerca di recuperare un senso. E così un libro privato si trasforma, cambia natura e gli stessi protagonisti diventano degli archetipi: il giovane scrittore indossa i panni di tutti i giovani scrittori in cerca di un maestro, e il maestro incarna tutti i maestri e il loro sguardo di fronte all’alunno che si è riconosciuto come il più simile a sé stesso.
Perché è proprio il riconoscimento il grande tema del romanzo. Già dal titolo, tratto da un verso di Rilke contenuto nei Sonetti a Orfeo, che Tabucchi stesso spedì in un sms ad Andrea, dopo il loro primo incontro: “Mi riconosci, tu aria, piena ancora di luoghi un tempo miei?”. Nessuno dei due poteva sospettare la coerenza che quelle lettere digitate su un telefonino avrebbero assunto qualche anno dopo. Rilke aveva composto i sonetti a Orfeo per una ragazza giovanissima, una ballerina morta di leucemia. Il suo era un canto elegiaco che seguiva un lutto e il mito di Orfeo una metafora perfetta della poesia: lo sforzo estenuante di far tornare in vita ciò che si è perduto, di strappare al tempo un’effimera visione.
Così, quando tre o quattro anni dopo lo scrittore grande si ammala, il più giovane riprende l’aereo e al ricovero finale lo va a trovare, contro il suo volere. A Lisbona, questa volta. Per un’ultima galanteria, le ultime parole. E poi solo una cucina vuota, il dolore dei famigliari, le tazzine nel lavello, le sedie ripiegate contro il muro. Il loro è un dialogo tra un padre e un figlio elettivi di fronte allo sgomento della scrittura, della vecchiaia, della malattia, del silenzio definitivo e dell’orfanezza. Un fado struggente e malinconico, ma di consapevole e luminosa ricomposizione della mancanza. Una vicenda di porte chiuse al momento di cenare, di isolamenti e di case, di telefonate notturne, di sorprese e confessioni, di dispetti, ironie e anche bisticci. Un piccolo atlante del pianto pieno di luce e di pudore, coraggioso nel pendolare tra le impertinenze della morte e quelle della vita, tra un battesimo e un commiato.

Bugiardino

Sono da sempre un estimatore delle piccole elegie di Tabucchi, di cui ho letto moltissimo, e sono anche io tra i tanti che hanno dolorosamente registrato la sua dipartita. Non ho però letto il libro di Bajani, e dopo questa lettura “luttuosa”, penso che prima o poi dovrò farlo.
Antonio Tabucchi “Requiem – un’allucinazione” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 6,30 euro)
[trama pubblicata l’8 febbraio 2015]
La prima sorpresa che mi ha dato la lettura di questo libro di Tabucchi è quella che vedete nella prima pagina interna una volta aperto il libro. Perché questo racconto è scritto in portoghese, sua lingua di adozione, perché solo in questa lingua l’autore ritiene sia possibile dar vita e suono a quella sensazione di “saudade” che non sarebbe esprimibile in altri idiomi, quell’utilizzo del termine legato all’addio verso chi ci ha lasciato (adeusinho) che non è trasferibile dal portoghese in altre lingue. Tant’è che Tabucchi la traduzione in italiano ha voluto fosse fatta da altri, sempre per ribadire il concetto di inesprimibilità, e sottolineando quindi l’immancabile tradimento che una traduzione produce verso il testo. Quindi, seppur impoverito nel testo, ora ne seguiamo e ne leggiamo. Non per parlare di un romanzo (che spesso Tabucchi scrive ma non si riesce a catalogarne la scrittura), né tanto meno di un racconto lungo. In effetti, è un’allucinazione quella che cerca di descrivere. O meglio, una serie di sogni, di segni e di racconti, che fanno in modo e consentono all’autore di dire addio ad uno scrittore e ad un personaggio che tanta parte hanno avuto nella vita stessa di Tabucchi. Dopo aver contribuito alla riscoperta ed al rilancio in Italia di Ferdinando Pessoa, ora Tabucchi se ne deve staccare, deve proseguire la sua strada di letterato. Deve quindi rivolgere un Requiem a Pessoa, e lo fa in queste pagine, dove, mescolando sogno e realtà, parla di sé, ma anche di Pessoa. Parla con i personaggi di Pessoa, mischiati con amici e compagne della sua vita. Ma in definitiva è un libro intramabile, è talmente rarefatto negli accadimenti che narrarne vorrebbe quasi dire riproporlo per intero. Certo il personaggio che si muove per le pagine, e per Lisbona, fa alcune cose. Cerca un amico in un cimitero, sogna una donna, va in un Museo a vedere un quadro (con una descrizione che mi ricorda la mia ricerca della chiesa di Van Gogh al Museo d’Orsay), va in un bar (magari nella rua Garrett). I personaggi che si incontrano sono tanti e ognuno racconta qualcosa: essi riflettono insieme al protagonista sulla propria vita, su modi di pensare o costumi. Li si potrebbe definire suggestive figure di fantasia, divertenti. Al lettore piace guardarli e scoprirli nel corso della lettura come se fossero dei casi umani che stuzzicano la curiosità. Sono molto vari, ma hanno qualcosa in comune: sono romantici, quasi poetici. Persino la Vecchia Zingara, la Moglie del Guardiano del Faro o il Venditore di Storie hanno, pur nella loro semplicità, un fascino misterioso, forse dovuto alla profondità delle emozioni che trasmettono attraverso le loro parole. L'incontro fondamentale, quello al quale il narratore si prepara fin dal mattino, è l'ultimo della giornata, e ha come protagonista il grande poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935), o forse il suo fantasma. Dal quale alla fine riesce a staccarsi, lì sul molo della città, ed a tornare alla propria vita. O al proprio sogno. Infatti, tutto è avvolto da quella atmosfera onirica che speso compare negli scritti di Tabucchi (soprattutto nei primi). Ed in realtà appunto non è la trama, quella che risalta alla fine, ma la scrittura, le piccole microstorie che compaiono (e che certamente un amante e conoscitore di Pessoa saprebbe collocare meglio di me nell’universo mondo dello scrittore portoghese), la ricerca e la necessità di accomiatarsi da qualcosa che per lungo tempo è stata vicina all’autore, e che adesso ne diventa un fardello. Come detto, ci riesce, riuscendo anche a regalarmi un ultimo sussulto di felicità, con quelle note finali, dedicate a cosa si è mangiato durante tutto il sogno: la feijoada (minestra di fagioli), i papos de anjos (dolcetti di uova e mandorle), i piatti di pane come le migas e l’açorda, la fresca bevanda di frutta chiamata sumol, l’arroz de tamburi (il riso alla rana pescatrice), l’ensopado de borreguinho (stufato di interiora di agnello). Per poi finire con il menu futurista della Mariazinha: zuppa “Amor de Perdiçao” (zuppa di coriandolo e pollo dal titolo di un libro di Camilo Castelo Branco), insalata “Mendes Pinto” (con avocado, gamberi e soia, dal nome del grande navigatore portoghese), cernia “tragico-marittima” (come dall’omonima Historia di naufragi del Seicento), sogliola “intersezionista” (dal nome del movimento artistico creato da Pessoa nel 1914), anguille di Gafeira alla Delfino (luogo inventato dallo scrittore José Cardos Pires per il suo romanzo “O Delfim”) e baccalà allo “scherno e maldicenza” (così come venivano chiamate le liriche satiriche del Duecento portoghese). Con questa cena tutta intellettuale, Tabucchi lascia finalmente Pessoa perché “ero io ad aver bisogno di lei, però adesso vorrei smettere di avere bisogno”. Ecco una bella, agile, veloce lettura, intellettuale quanto basta, ma eponima della capacità e del bisogno di dire addio a qualcuno o a qualcosa. Un bisogno di adeusinho.
“Non era possibile che ora il quadro fosse diverso solo perché i miei occhi lo avrebbero visto in un altro modo?” (73)

Conclusioni


Mi trovo in totale comunione questa volta con il libro, con la patologia e con la cura. Abbiamo tutti, spesso, nella vita, un bisogno di “adeusinho”. Nella grande accezione che ce ne dà Tabucchi (e forse anche Bajani), certo non in quel comodo “arrivederci” della normale traduzione italiana del termine portoghese. A chi si sta allontanando, meglio questo piccolo addio. E quelle parole che dice Tabucchi quando finalmente riesce a “non aver bisogno” di Pessoa.