domenica 28 novembre 2021

Saggi e viaggi - 28 novembre 2021

Iniziamo questa ultima tornata che ci porta verso la fine di quest’anno con un bel gruppo di saggi. Tutti con un gradimento più che buono (tendente all’ottimo). Di cui immagino viaggi, anche se non espliciti. Viaggi nel tempo con Di Paolo, viaggi nel cinema con Peter Biskind, viaggi nel mondo del giallo italiano con Luca Crovi, ed infine viaggi reali, un po’ dovunque, con l’interessante libro di Paco Nadal. Sperando che si riprenda anche a viaggiare di persona.

Paolo Di Paolo “Svegliarsi negli anni Venti” Mondadori euro 18

[A: 01/02/2021 – I: 28/02/2021 – T: 02/03/2021] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 180; anno: 2020]

Seguo sempre con piacere la scrittura di Paolo Di Paolo, sia quando scrive romanzi sia quando scrive articoli sia, infine, come in questo caso, si cimenta più che in un saggio, in una serie di considerazioni a ruota libera. Precisate da due elementi, uno oggettivo, il sottotitolo “Il cambiamento, i sogni e le paure da un secolo all’altro”. Ed uno soggettivo, riferito al fatto di avere una copia firmata con il suo commento di pugno “Anni inaspettati?”.

Ovvio anche che il modo in cui l’autore cerca di rispondere alla domanda di cui sopra, mi affascina, perché usa, in un suo modo personale, i libri ed i personaggi che attraverso i libri cercano risposte a domande epocali. Cosa sai? Che cosa desideri? Ti fa paura il futuro?

Sono i personaggi che ci guidano dal passato al presente. Come il protagonista di “Sabato” di Ian McEwan, che dalla sua casa londinese ci porta al momento attuale, alla pandemia che tutti stiamo vivendo e soffrendo. Proseguendo nel collasso della civiltà di “La simmetria dei desideri”, dove con Eshkol Nevo ci domandiamo quanto stiamo imparando da questo momento storico. Incontriamo Michel Houellebecq che, nella sua negatività, dubita che potremmo risollevarci. Ma per fortuna c’è anche l’innocente esuberanza della signora Dalloway che sembra portarcene fuori.

La differenza, grande, tra questi cento anni, segnati ora dal Covid allora dalla Spagnola, è che, allora, si usciva anche dalla Guerra, un elemento che porta un segno indelebile in chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Anche se, appunto, il concetto di “Anni Venti” porta con sé, indubbiamente, allora come ora, un vento di cambiamento. Come sottolineava Hemingway, le decadi finiscono ogni dieci anni, mentre le epoche possono finire in ogni momento.

Si potrebbe continuare a lungo, seguendo Di Paolo citazione dopo citazione. Invece dovremmo fare un salto, porre noi stessi al centro del discorso, mettendoci in discussione. Perché qualcosa sta cambiando e non possiamo assumerne i cambiamenti goccia a goccia, come il veleno di Mitridate. Perché, ed io concordo, siamo noi, individualmente e collettivamente, che lavoriamo a questo cambiamento, con le nostre scelte, personali e pubbliche.

Allora usiamo un po’ di Di Paolo per dare un segno. Ad un certo punto, intervistato da Luca Sofri, ci racconta della Rue Crémieux a Parigi, famosa per le sue casette dalle tenui tinte pastello. Lì si danno appuntamento i malati di Instagram per le foto più cliccabili del XXI secolo. Per lasciare un segno? Per adeguarsi ad una moda? Io le ho viste quelle case, ed a me basta portarle nel cuore. Sono forse meno “moderno”? Sto ancora dormendo insieme a mio padre fanciullo (lui era del ’24).

Per un’anti finale, poi, comincerei citando l’ultimo passaggio, preso da un libro che adoro, “Il senso di una fine” di Julian Barnes, dove Marshall, interrogato dal professore su come definirebbe il tempo di Enrico VIII, risponde “Un tempo inquieto”. Richiesto di approfondire, conclude con un definitivo: “Un tempo molto inquieto”. Una risposta che condivido.

Come condivido quel passaggio di un altro autore del mio cuore. In un racconto de “Le cosmicomiche”, Calvino ci mostra un uomo che scruta il buio con il suo telescopio. E vede, da una galassia distante milioni di anni luce una gigantesca scritta: “TI HO VISTO”. Rifletteteci. O andate a rileggere Calvino.

Un solo inciso di passaggio, a pagina 151 si cita il computer di Kubrick come AL 9000. Errore. Il computer si chiamava HAL, laddove l’autore giocava con le lettere sottraendone una al demone dei computer del tempo, la società IBM.

Con tutti i suoi alti e bassi, pur non svalicando oltre una più che dignitosa classifica, continuo a ritenere l’autore una presenza costante e utile, per analizzare il tempo presente. E per discutere di vita e letteratura. Paolo, continuerò a leggere i tuoi articoli sui giornali, che sono sempre interessanti. E spero anche i tuoi libri.

Per rispondere infine all’ultima domanda, io (e Alessandra) penso che abbiamo dato una vigorosa risposta.

“Il tassista scortese che mi lascia davanti alla fermata del métro Jussieu, un tè preso nel caffè della moschea…” (67) [grazie di avermi riportato a Parigi]

“I dominanti possono lamentarsi di un governo … ma un governo … non gli spacca la schiena.” (106) [ripreso da Èdouard Louis “Chi ha ucciso mio padre”]

“Cosa ti aspetti dai tuoi anni Venti?” [180]

Peter Biskind “A pranzo con Orson” Adelphi euro 13 (in realtà scontato a 10,15 euro; consigliato da Robinson)

[A: 04/03/2021 – I: 04/05/2021 – T: 07/05/2021] - &&& e ½

[tit. or.: My Lunches with Orson. Conversations between Henry Jaglom and Orson Welles; ling. or.: inglese; pagine: 340; anno 2013]

Ancora un consiglio di Robinson, questa volta in linea con i “buoni” suggerimenti. Infatti, non credo avrei pensato l’acquisto di un libro-saggio-conversazione con il grande personaggio (poi spiegherò meglio questa definizione). Invece ha meritato il suo posto. Compreso il ricordo obituario di Harry. E con una buona “annotazione” del curatore Peter Biskind, laddove si passano in rassegna una serie di personaggi spesso citati nel testo, e non sempre noti ai meno addetti ai lavori.

Pur con l’interesse di una buona scrittura, mi ha meno stuzzicato la postfazione di Tatti Sanguineti. Che certo spigola qua e là su alcuni aspetti del rapporto tra Orson e l’Italia, ma chissà perché non mi ha preso molto. Preferisco, lo dico con il rimpianto della scomparsa, le poche conversazioni, scambiate, a volta in pizzeria a volte su autobus notturni, con il mio scomparso cugino Paolo, il grande cinefilo.

Come quindi ben descrive il titolo, il testo del libro sono la riproposizione delle conversazioni avvenute a tavola dal 1983 al 1985 (fin quasi alla morte di Orson avvenuta il 10 ottobre 1985) tra appunto Orson Welles ed il suo amico, sceneggiatore e regista Harry Jaglom. Orson mangiava sempre lì, al suo tavolo al ristorante “Ma Maison”, situato a Melrose Avenue, Los Angeles. Era ad un tiro di schioppo dalla Walk of Fame hollywoodiana, e con una visuale verso il Griffith Park. Era famoso per l’ottima cucina e per il fatto che il numero di telefono del ristornate non era in nessun elenco, perché, come diceva il proprietario, "Se non hai il numero, non ti vogliamo".

Da queste conversazioni, Welles si staglia appunto come un grande personaggio. Si, era stato un grand regista, un grande attore, uno spirito visionario. Ma anche un conoscitore dei meccanismi interni del cinema, un affabulatore presente nei talk show, financo presente in diversi spot pubblicitari (spesso di vino). Anche se, più che conversazioni, sono in realtà dei monologhi dove Jaglom fa bene il suo ruolo di spalla, lasciando che Orson spazi su tutto ciò che lo interessa. Certo, progetti, concreti o strampalati, ma con al fondo sempre il suo più grande problema: la ricerca di fondi, di finanziamenti, ed il modo di ottenerli senza vincoli o censure.

Se si ama il cinema, è bello star lì a seguire le sparate di Welles, che tutto toccano. Il lato segreto di Katherine Hepburn (che diceva parolacce ed aveva una grossa propensione al sesso) alle invenzioni de “Il Padrino”, una storia di gangster che non sono mai esistiti (e Welles lo sa bene che andava a letto con le stesse stelline con cui si accompagnavano i gangster reali). La grande amicizia con Joseph Cotten (fin dai primi teatri degli anni ’30), alla sua ammirazione verso la signorilità di personaggi di destra con John Wayne, lui che sempre è stato un uomo liberale. La grande contraddizione di Welles appare quando una dirigente della catena HBO gli offre del lavoro, e lui comincia ad essere offensivo, e continua finché lei non se ne va.

Non rinuncia mai ad essere il sé stesso che vuole mostrare, sopra le righe nel parlare, nel giudicare, nel mangiare (alla fine arriverà a pesare 180 chili). Di certo, e quando recita meno sembra forse ammetterlo, comprende i suoi difetti. Ma non può fare a meno di avere quell’aria autodistruggente, quella dell’artista frustrato ed incompreso, che tanto aveva rappresentato nei suoi film, solo perché erano uno specchio della sua realtà interiore.

Basterebbe guardare con occhio distaccato “F per Falso”, il suo ultimo lavoro, per capire che, in fondo, quella è la vita: tutta una finzione. Vince, riesce a sopravvivere, chi finge meglio, chi, in fondo, crede alle proprie finzioni, e non se ne fa condizionare.

Ottima, infine, per i meno addetti, come dicevo sopra, la passerella finale, in cui il curatore Peter Biskind passa in rassegna attori, registi e produttori che hanno incrociato Orson nella vita, e che noi abbiamo incontrato sulla carta. Che magari tutti conoscono Samuel Goldwyn o Luis Mayer, ma sempre meno si faranno avanti ai nomi di Lena Horne o Greg Toland.

Un ultimo appunto: avrei messo in nota a pagina 53 che Zubin Metha non era indù come dice Welles, ma un indiano di religione parsi (quella di Zarathustra). In finale, di certo, una buona lettura.

“Non erano molto belle, le sue recensioni. Né brillanti, né spiritose, né originali. Erano solo intelligenti, normali, qualunque. Se vuoi essere un critico interessante, un po’ di mordente lo devi avere. Se sbagli pazienza, ma devi essere interessante.” (111)

“Se l’opera di uno scrittore mi rapisce, non voglio sapere niente di lui … mi rallegro di non sapere nulla di Shakespeare come uomo. Penso che le sue opere contengano già tutto.” (113)

“Brooke Shields è così stupida che l’hanno bocciata anche al pap test.” (144)

“[Harry Lime ne ‘Il terzo uomo’] In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazie, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.” (174)

“Per me i sessi sono sempre stati tre: uomini, donne e attori. Gli attori riuniscono le peggiori qualità degli altri due.” (219)

Luca Crovi “Storia del giallo italiano” Marsilio euro 19

[A: 14/02/2021 – I: 01/05/2021 – T: 28/07/2021] - &&&&     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 507; anno 2020]

Tutti sanno che sono un lettore onnivoro. Tutti sanno che una buona fetta (direi verso il 50%) delle mie letture è orientata al cosiddetto genere “giallo” (etichetta che forse faremo bene ad analizzare meglio). Non tutti sanno, ma si intuisce, che sono molto “drogato” del giallo italiano. Sia perché ritengo che talvolta fotografi la realtà meglio di tante prove romanzesche e cerebrali, sia perché sono curiosamente attratto dai meccanismi di svelamento dei misteri (che non sono solo appannaggio della letteratura italiana, ma che qui, in un ambiente che conosco a memoria, è possibile seguire ed apprezzare i modi espressivi degli autori).

Seguendo la bella scrittura di Crovi, mi sono nuovamente immerso in due tematiche che mi ronzano da sempre nella testa: la genesi del nome e la nascita del primo libro italiano del genere. In Italia, si sa, viene cristallizzato nel 1929 quando Mondadori inizia a pubblicare romanzi polizieschi tutti con la copertina gialla, che diviene così il simbolo del genere (il romanzo giallo). In Francia si usa invece il termine “polar”, contrazione dei termini poliziesco (“policier”) e nero (“noir”). Mentre in Germania si chiamano Krimi (contrazione di “Kriminalroman”). Solo nei paesi anglofoni abbiamo un proliferare di definizioni a partire dal cappello “Crime fiction”: detective fiction (con investigatore), cozy mistery (con tocchi umoristici), whodunit (il mistero a chiave), locked-room (i misteri della stanza chiusa), hardboiled (duro e americano), police procedural (dove c’è una squadra che indaga), forensic (dove l’eroe è un medico legale), legal thriller (legati agli avvocati), e via discorrendo.

Ma noi qui si parla di gialli. E di gialli italiani. Con la diatriba, irrisolvibile, se il capostipite sia Francesco Mastriani con “Il mio cadavere” del 1851 o Emilio De Marchi con “Il cappello del prete” del 1857. Quello che risolviamo, seguendo le belle pagine di Crovi, è sia la possibilità di progredire in linea temporale, sia in linea spaziale.

Per la seconda linea, con l’autore viaggiamo tra città come Milano, Napoli, Torino e territori come l’Emilia, la Toscana, la Sicilia. Cosa che ci dà modo di incontrare personaggi che hanno scaldato i miei occhi di lettore. Cito alla rinfusa: il commissario De Vincenzi, Duca Lamberti, Salvo Montalbano, Rocco Schiavone, l’Alligatore, Grazia Negro, Lolita Lobosco, Vanina Guarrasi, Alice Allevi, Imma Tataranni, l’avvocato Guerrieri, il brigadiere Sarti Antonio. Che rimandano subito ai loro e ad altri autori: De Angelis, Scerbanenco, Sciascia, Camilleri, Faletti, Lucarelli, Malvaldi, Carlotto, Macchiavelli, De Cataldo, Biondillo, Sclavi, Carrisi, Carofiglio, e tanti altri. E tante altre: Laura Grimaldi, Paola Barbato, Barbara Baraldi, Ilaria Tuti, Grazia Verasani, Marilù Oliva, Cristina Cassar Scalia, Gabriella Genisi, Alice Basso, Mariolina Venezia.

La bravura di Crovi sta anche in quella linea temporale, dove l’autore dimostra che la nostra scrittura non solo regge le più note scritture estere, ma nel tempo, si è innovata, ha recepito e poi anche creato nuove tendenze narrative. In questo, gli autori italiani sono riusciti a comprendere e ben descrivere i segnali di una società in cambiamento. Così come aveva intuito già Gramsci, in un suo scritto sul romanzo popolare e sul genere poliziesco uscito coevo ai Gialli Mondadori.

Non solo, ma rispetto a quei gialli anglosassoni spesso ambientati in ville isolate o luoghi sperduti, l’autore italiano si rivolge a località note, a città riconoscibili, ad avvenimenti che se non li leggessimo sul libro, potremmo leggerli sulla cronaca locale dei nostri quotidiani.

La sapienza enciclopedica di Crovi ci porta anche a gustare alcune chicche impagabili. Ad esempio, alle storie della Mano Nera, pubblicate poco dopo che nel 1909 a Palermo venne ucciso il famoso poliziotto Jo Petrosino. O i sei anni di pubblicazione de “Le avventure del poliziotto americano Ben Wilson”, scritte dall’italianissimo Ventura Almanzi, salgarianamente senza mai muoversi dal suo studio. Non ultimo, infine, il giallo dell’ultimo capitolo, che vi lascio leggere e scoprire da soli.

Certo, si tratta di un saggio, non è scorrevole come un romanzo, ma ha una sua organicità, e continuo a consigliarlo per chi voglia avere una panoramica sul genere, nonché alcune visioni di momenti di scrittura interessanti: le città, la nascita dei duri, la scrittura al femminile. Tanto per dire qualcosa e stimolarvi la curiosità.

Termino con una esortazione, che desumo dalle parole dell’autore, che riprendo dagli scritti descrittivi americani, e che faccio mia, per questa e per tutte le scritture “gialle”. Il lettore deve avere le stesse possibilità dell’investigatore (inteso come personaggio che sta al centro dei ragionamenti, sia esso poliziotto, detective, avvocato, o qualsiasi altra espressione) di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti. Sarà un gioco tra noi lettori e te scrittore, a chi sarà più abile, a chi arriverà prima alla soluzione. Trasformando così eventi potenzialmente tragici in momenti di vita comunque piacevoli da trascorrere.

Paco Nadal “Il viaggio perfetto” Newton Compton s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 14/07/2021 – I: 14/07/2021 – T: 30/07/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: El viaje perfecto: para ti y tus circunstancias; ling. or.: spagnolo; pagine: 399; anno 2018]

Senza nessuna ricorrenza, senza nessun vero perché, solo per il comune amore dei viaggi, ecco un super gradito regalo di Ale. Nella speranza che potesse fornire qualche spunto, anche in vista del prossimo settembre. Che qualcuno lo sa, altri lo sapranno, altri ancora l’avranno saputo.

Sono 330 idee ed io ne ho già visitate 97 …

Francisco Nadal Yuste detto Paco è un giornalista specializzato in viaggi. E di viaggi raccontano i suoi scritti: sul Cammino di Santiago, sulla sua Murcia natia, sui 365 luoghi della Spagna che non si può far a meno di vistare. Non sono aduso citare spunti su internet, ma per Paco spezzo una lancia, consigliandovi di visitare il suo blog https://elpais.com/agr/paco_nadal/a (in spagnolo, ma comprensibilissimo).

Cercando di creare una summa delle sue esperienze, in questo graditissimo libro ci propone tre motivi per intraprendere un viaggio. Per ognuno dei quali, è possibile trovare il viaggio che meglio si addice a quella esigenza. Per creare, appunto, “il viaggio perfetto”.

Ma quale sono le grandi categorie di viaggi e viaggiatori, secondo Nadal?

Ci sono le motivazioni legate alla propria vita in questo preciso momento, ed alle sue conseguenze: viaggiare con i bambini (se abbiamo messo su famiglia) o viaggiare da soli (sia indifferentemente con lo zaino, sia da donne che giustamente si avventurano da sole in giro per il mondo).

Ci sono i viaggi legati all’età: una data critica da superare (che siano i trenta o i quaranta), un pensionato che si voglia divertire o che voglia vedere il mondo.

Ci sono viaggi legati a passioni ed interessi personali: l’architettura coloniale, la natura o il suo opposto (la città), le culture indigene o l’archeologia, i treni o le profondità marine o le grandi camminate.

Ci sono posti da visitare per stare in solitudine o per bivaccare con gli amici. Ci sono viaggi per persone molto innamorate o per dimenticare una delusione amorosa.

Ci sono posti che è bello visitare da scapoli, magari anche per rimorchiare, ed altri che si consiglia frequentare durante la luna di miele.

Ci sono viaggi tematici, ad esempio alla ricerca dei luoghi dei romanzi, o alla ricerca del senso della vita.

C’è posto, chi lo cerca, per nascondersi in un’isola inaccessibile o per confondersi nella folla durante una crociera.

Non può mancare il tocco felino, sia alla ricerca della fauna, sia per chi crede che l’Africa sia piena di pericoli.

Tutto serve, anche se gli viene dedicato un solo capitoletto, per allentare lo stress quotidiano.

E poi ci sono i due must: i luoghi da vedere almeno una volta nella vita ed i viaggi per gente schifosamente ricca. Su quest’ultimo punto, fatto salvo che non mi interessa un viaggio nello spazio (da 250.000 dollari), opterei per il giro del mondo in un aereo privato, che costa solo la metà (ovviamente a testa), dura 24 giorni e comprende anche escursioni a numero chiuso: un catamarano alla Hawaii, un safari fotografico per gli oranghi del Borneo, nonché un giro in elicottero sull’Everest!

Ma sono i luoghi da vedere una volta nella vita che segno nel mio carnet. Ho visto Ushuaia, Tamanrasset ed i territori Canadesi. Dovrò aggiungere ai miei futuri viaggi: l’isola di Pasqua, il Tibet. Tahiti, Samarcanda, la Nuova Guinea e le isole Svalbard. C’è qualcuno che vuole venire?

Nadal è bravo a farci vedere (anche con discreto corredo fotografico) posti che solleticano la nostra voglia di viaggiare. Ogni capitoletto, ogni paragrafo, è pieno di spunti, di rimandi, ed anche di link per soddisfare i più disparati desideri. Per ora, con lui, continueremo a farlo dalla nostra stanza. Spero, per me, per voi, e per tutti, che si riesca a farlo presto, liberi e vaccinati.

Ultima trama del mese, quindi con riposi di allegati ed altro, ma solo con una bella frase presa dal libro di Roberto Alajmo “1982 Memorie di un giovane vecchio”. Dove appunto, parlando di quell’anno mirabile, pone la seguente domanda a tutti noi: "Poi come è andata a finire? Dipende. Per me, per l’Italia o per l’umanità nel suo complesso?".

Io ben ricordo quell’anno di svolta, ed ora soprattutto, che di svolte ce n’è a iosa. Per l’intanto ci si impegna a finire tuti i possibili traslochi, tutti i trasferimenti di materiali ed altro. Sperando (sapendo) che il prossimo anno ci segnerà tutti. Per questo non smetto di abbracciarvi.

domenica 21 novembre 2021

Svedesi, al fine - 21 novembre 2021

Con queste trame esaurisco la lettura iniziata tre anni or sono di proposte di letteratura scandinava. Terminando con quattro autori di scrittura svedese e di livello più che buono. Con due “inversioni” territoriali, laddove Niemi abita e narra di un territorio lappone in Svezia e Westö parla di un’enclave linguistica svedese in Finlandia. Ma sono tutti da leggere, il mondo rock di Niemi, la saga familiar-musicale di Tunström, la Cambogia di Fröberg Idling e gli svedesi di Finlandia di Westö. Un buon finale.

Mikael Niemi “Musica rock da Vittula” Corriere della Sera Boreali 21 euro 8,90

[A: 01/11/2018 – I: 21/02/2021 – T: 23/02/2021] - &&& 

[tit. or.: Popoulärmusik från Vittula; ling. or.: svedese; pagine: 292; anno 2000]

Un interessante seppur datato libro dalla duplice valenza: un’interessante prova dell’autore ed una immersione in una regione del mondo in genere poco noto e molto bistrattata. Che noi, attenti ed onnivori lettori, già conosciamo in parte per le saghe sami scritte dal francese Olivier Truc.

La ragione infatti è un territorio, ora legislativamente svedese, incuneato tra Svezia e Finlandia, con sia una popolazione stanziale, insediata intorno alla città di Pajala (luogo natio di Niemi), sia una popolazione nomade di prevalente origine lappone. Ma mentre dei sami già qualcosa sappiamo, i residenti sono meno presenti in letteratura, anche perché localmente c’è più che altro una tradizione orale.

In questa tradizione orale, Niemi, dopo alcune prove poetiche, venti anni fa esce con questo romanzo di formazione di giovani locali, utilizzando anche le tecniche proprie dell’oralità: un fluire del narrato, a volte infarcito da iperboli improbabili quanto, soggettivamente, sentite dal narratore. Ad esempio, quando si immagina bambino in un incredibile ed increduta fuga tra treni e aerei per raggiungere la mitica e lontana Cina. Una fantasia che di sicuro Matti, l’alter ego di Mikael, compirà nella vita (come ci illustra il prologo narrato durante una escursione montana nepalese, nel complesso dell’Annapurna, percorrendo quello che viene considerato il più altro valico montano al mondo: il Thorung La a 5416 m, laddove io ho fatto invece in Ladakh il più alto valico motorizzabile a “solo” 5359 m, cioè 57 di meno), per poi tornare, con la testa prima che con il corpo, nella terra delle renne.

E con la testa, Matti ci racconta della sua infanzia e adolescenza, con i suoi miti, i personaggi violenti, gli amici, le prime ragazze, e soprattutto quello che sarà per lui e per pochi altra una chiave d’uscita: la musica.

Siamo negli anni Sessanta (d’altro canto Mikael è del 1959), e seguiamo Matti in età prescolare dedito alle fantasie boschive di tutti i ragazzi, ed all’incontro, che segnerà gran parte della su vita, con il silenzioso Niila. I due giocano e si immergono in quel paesaggio pieno solo “di zanzare, di imprecazioni in finlandese e di comunisti”. Perché molti rimasero in zona, dopo la lunga e forzosa permanenza sotto la Russia, e vedendo, da lontano e dal freddo, la luminosa, proprio perché lontana, stella di Stalin.

I nostri due eroi avranno uno shock culturale con l’inizio della scuola, dove, loro abituato al dialetto locale, vengono costretti ad immergersi nello svedese standard, e nei libri di testo che venivano dal sud, dalla Scania, pieni di flora e fauna che lì al Nord mai era stata osservata.

Sarà l’arrivo fortuito di un disco dalla vicina Inghilterra che salverà loro la vita. Un disco dei Beatles, con il suo rock ingenuo e potente. Ed ecco che Matti si mette in testa di suonare, inventandosi fantasiose chitarre. Ben presto seguito da Niila, che si dedica, con poco successo alla chitarra ritmica. La svolta nella band verrà prima con l’arrivo di Holgeri, il virtuoso della chitarra solista, e poi con Erkki, improvvisato batterista arruolato perché regge bene l’alcool. I quattro, tra rumori impossibili, mancanza di accordo nell’attacco dei pezzi, ma una voglia sfrenata di suonare quel fracasso di “popoulärmusik” riusciranno, bene o male, a non farsi travolgere completamente dal mondo locale.

Un mondo fatto di fanatici “laestadiani” (una branca luterana fondata dal pastore Lars Levi Laestadius, morto proprio a Pajala) molto toccati dai problemi della grazia e del peccato, in cui i nostri si barcamenano tra le prime esperienze con l’altro sesso, matrimoni (e conseguenti risse) pantagruelici, financo Campionati di Sbronza. Un mondo dove, di sicuro, il nostro Matti uscirà, non sappiamo se vincente, ma di sicuro cosciente.

Quindi, un altro libro di formazione, da collocare tra Salinger e Cameron, ben tradotto da Katia De Marco che si è di sicuro trovata a barcamenarsi in una lingua che non era solo svedese. Non sempre riuscito al meglio, ma io ne ritengo il posto, laddove si parla di culture poco note, e di posti che ho visto, o quasi visto, o che vedrò (ci rivedremo a Rovaniemi?).

La stranezza dei luoghi impone di finire ricordando che la zona, il Tornedalen, non solo ha una sua propria lingua, riconosciuta tra le lingue svedesi di minoranza, ma fu teatro, verso la prima metà del 1700, di un esperimento scientifico. Laddove una missione multinazionale, guidata dal francese Maupertius e comprendente lo svedese Celsius (noto forse per altro) si recò colà, per misurare la lunghezza di più di 100 km di un meridiano terrestre, e dimostrando l’esattezza della teoria di Newton sull’appiattimento dei poli.

“Con il passare degli anni mio nonno diventava sempre più solitario … ma fermare il tempo non poteva e alla fine si avvicinò il giorno … in cui avrebbe compiuto settant’anni.” (259) [un pupo]

Göran Tunström “L’oratorio di Natale” Corriere della Sera Boreali 34 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 31/05/2021 – T: 02/06/2021] - &&& e ½ 

[tit. or.: Juloratoriet; ling. or.: svedese; pagine: 362; anno 1983]

Sono passati venti anni dalla morte di Göran Tunström e quasi quaranta dalla scrittura di questo romanzo dall’immutato titolo “L’oratorio di Natale”. Che finalmente Iperborea e l’ottimo Ferrari (nella traduzione e nella postfazione) lasciano il titolo originale. Anche perché è giustamente collegato al filo rosso della narrazione, quella cantata che Johann Sebastian Bach compose intorno al 1734. Göran è stato uno scrittore non tanto prolifico, la cui opera (secondo i critici visto che io ho letto solo questo libro) è molto vicina al proprio vissuto.

Siccome non è mio costume entrare (troppo) nel contesto, rilevo solo che lo scrittore ha sempre vissuto in un ambiente molto letterario (il padre gli leggeva Thomas Mann di piccolo), ha innalzato la sua contea natia a eponimo delle sue vicende (si tratta di Sunne nel Värmland), anche perché aveva come vicina di casa Selma Lagerlöf. Verso la fine degli anni ’50 vive per qualche tempo sull’isola di Idra in Grecia dove diviene amico e sodale di Leonard Cohen. Infine, a metà degli anni ’60, sposa Lena Birgitta Cronqvist, artista e pittrice, una delle più alte figure svedesi dell’espressionismo. Inciso: c’è un cammeo in un personaggio minore che si chiama Birgitta e che dipinge. Un caso?

Libri, dipinti, musica, che convergono nella sua opera (infatti, comincia con lo scrivere poesie), per poi diventare un motivo di fondo, ed irrompere con questo romanzo sia sulla scena svedese (negli anni ’80) sia in quella internazionale (negli anni ’90, quando ne fu tratto un film diretto da Kjell-Åke Andersson).

Non è un caso che abbia scritto di musica, di poesia, di espressionismo. Questo romanzo è un bel concentrato di tutto ciò, cristallizzato appunto a quel titolo – filo rosso che irrompe già nelle prime pagine, quando incontriamo il musicista Victor che vuole dirigerlo nella chiesa principale di Sunne, e che ci segue dal flashback narrativo, che ci riporta agli anni ’30, a Solveig (che scopriremo essere la nonna di Victor), alla sua forza di volontà che spinge la comunità di Sunne a studiare per dieci anni l’oratorio. Senza che si riesca a farlo, che Solveig pochi giorni prima della prima muore cadendo dalla biciletta. E l’oratorio non si canterà.

Il libro, in fondo, è una grande saga familiare, che attraversa tre generazioni dei Nordensson: Aron, Sidner e Victor. Saltando l’introduzione, vediamo la morte di Solveig, e seguiamo gli anni della disperazione di Aron. Lui e i suoi due figli, Sidner ed Eva-Liisa, lasciano i campi, si trasferiscono a Sunne, dove Aron trova lavoro presso un Hotel. Diventa il dispensatore di liquori in quanto astemio, ci sono vicende collaterali poco significative (anche se attinenti), ma il fatto è che Aron non riesce ad elaborare il lutto per Solveig, la vede in ogni dove. Casualmente, diventa amico di penna di una donna non a caso all’altro capo del mondo: Tessa Schneiderman della Nuova Zelanda. Tessa si innamora di Aron mentre Aron pensa che Tessa e Solveig siano la stessa persona. Parte senza pensarci verso la Nuova Zelanda, ma sulla nave ha la rivelazione che Solveig è veramente morta. Allora, si toglie la vita saltando in mare.

Intanto, in Sunne, Sidner cresce. Ha un grande amico di nome Splendid (che da grande sposerà la sorella), si intrattiene spesso (nella vita e nei sogni) con la vicina di casa Selma Lagerlöf. Ha poi una notte d’amore con una donna più grande di lui di nome Fanny. E da quella notte nasce un bimbo, il futuro Victor. Ma Fanny, pur amando Sidner, per una serie di motivi che leggerete, lo tiene a distanza. Tanto che Sidner esce fuori di testa, e per non impazzire comincia a tenere un diario che farà leggere a Victor da grande, per farlo entrare nei “misteri” della famiglia. Un libro dal bellissimo titolo “Sulle carezze”.

Ma Sidner impazzisce, viene ricoverato a lungo in ospedale psichiatrico, per poi uscirne e decidere di andare anche lui in Nuova Zelanda, alla ricerca di Tessa. Che alla fine (dopo peripezie ed altro che vi lascio leggere), la trova, salva anche lei dalla follia, e (sembra) riusciranno a costruire una vita insieme.

Intanto vediamo crescere Victor sotto le gonne di Fanny e lontano da Sidner. In un momento letterario molto omerico. Con Victor nei panni di Telemaco e Fanny in quelle di Penelope. Quando Sidner-Ulisse torna (seppur per poco), Telemaco riesce a staccarsi da Fanny, riesce a cercare il suo ruolo nella vita. Che sarà un ritorno alle origini, un ritorno alla musica.

Così che finalmente potrà chiudere il cerchio, eseguendo l’Oratorio di Natale come voleva nonna Solveig cinquanta anni prima.

Questo “romanzo popolare” alla fine è pieno di citazioni altre. Ad esempio, è diviso in sei parti (se escludiamo le carezze di Sidner), così come in sei parti è composto l’oratorio di Bach (e magari un musicista più aduso di me, potrebbe fare un parallelo tra le cantate delle parti e lo scritto). Ma poi ci sono citazioni di Dante nella prima parte (l’inizio della Commedia), citazione di Petrarca nel mezzo (quando si cerca pace lontano dai trambusti cittadini), e Omero in finale durante le attese di Telemaco. Se poi volessimo cercarne altre, come dimenticare il sorriso di Eva-Liisa che sbuca tra la siepe come il gatto del Cheshire dall’Alice di Lewis Carroll.

Insomma, c’è tanto nel libro. Ma soprattutto c’è la ricerca di uscire dal dolore. Come si potrà fare? E si potrà fare, soprattutto? Göran sembra dirci che solo capendo quali siano i nostri più profondi interessi, solo abbandonando l’inutile, è possibile non tanto superare il dolore, ma conviverci. Non si dimentica, non è possibile. Ma tutto, anche il dolore, anche la morte, è dentro il nostro io. Solo nel suo sfruttamento globale potremmo essere.

Non mi ha stravolto, in fondo, anche forse per essere a volte troppo cerebrale, un po’ costruito. Ma l’ho gradevolmente letto.

Una sola domanda finale: perché a pagina 248 si dice che il 1° luglio del 1939 era domenica, quando invece è facile risalire al fatto che sia stato un sabato? Mistero!

“Volevi sapere com’è scrivere un libro. È faticoso, ecco com’è! È come costringersi ad attraversare un deserto: vaste distese senza una sola goccia d’acqua, senza un albero sotto cui riposare. Poi però arrivi a un’oasi: lì la parola fluisce … e la penna vola sulla carta.” (228)

“Una parte dell’amore consiste nella sincerità. Se vivessimo insieme come potremmo raccontarci tutto?” (243)

Peter Fröberg Idling “Il sorriso di Pol Pot” Corriere della Sera Boreali 28 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 30/06/2021 – T: 02/07/2021] - &&& + 

[tit. or.: Pol Pots leende; ling. or.: svedese; pagine: 286; anno 2006]

In effetti, sono abbastanza perplesso sulla collocazione di questo libro. Che non è un saggio, ma non è neanche un romanzo. Gli inglesi lo etichettano come “literary non fiction” (che si potrebbe tradurre come “saggistica letteraria”). Dato che contiene tutta una serie di considerazioni, descrizioni e rimandi da saggio sulla Cambogia (e su molto altro, poi vediamo). Ma contiene anche passaggi letterari, incursioni in possibili scenari, ricordi personali. Insomma, è un po’ un crogiolo di diverse forme e stili. Che tuttavia alla fine risulta interessante, ben scritto, decisamente documentato, e pervaso da un sincero amore verso la Cambogia.

Una nazione che, personalmente, ho visitato già quattro volte, anche se per la maggior parte transitando solo per il bellissimo sito di Angkor Wat. Solo l’ultima visita, quattro anni fa, mi ha portato anche nella capitale e nell’isola di Koh Rong di fronte a Sihanoukville. Con dei ricordi bellissimi, sia dei bei posti, sia dei siti che cita anche l’autore. Non entro qui nel merito della discussione, se ne parlerà più avanti, ma ho dei carissimi amici a Siem Reap che spero di andare a ritrovare, prima o poi.

Tutto comincia, nelle parole di Peter (mi consento di chiamarlo per nome che il cognome è assai complicato), nell’agosto del 1978. Quattro osservatori dell’Associazione di Amicizia Svezia-Kampuchea compiono un viaggio in Cambogia per sostenere la rivoluzione iniziata da un personaggio poco noto all’epoca (e solo tristemente famoso poi): Pol Pot. Misterioso anche nel nome, che il vero nome è Saloth Sậr, e questo mascheramento pare venga dall’abbreviazione del francese “Politique Potential”, che Saloth a lungo visse in Francia, entrando in quel tempo in contatto con il comunismo e con Sartre. Gli svedesi alla fine scriveranno un libro, produrranno un film, ma da nessuna testimonianza viene alla ribalta quali siano, realmente, le condizioni di vita della gente sotto il regime instaurato dai khmer rossi.

Peter cerca di comprendere la genesi e la realizzazione di tale inganno attraverso una ricostruzione che si svolge su tanti piani: ovviamente la descrizione di cosa fecero gli svedesi allora, e di quali siano ora, trenta anni dopo, le loro sensazioni; ma anche un ripercorrere la vita di Pol Pot, di ricostruire la storia della Cambogia dal dopoguerra in poi, non mancando, ovvio, accenni e rimandi al contemporaneo sviluppo della storia in Europa ed in Svezia.

Peter sembra quasi uno scrittore di un giallo: crea ad arte misteri sulla delegazione svedese, sui suoi componenti, sul marito cambogiano di una di loro, semina indizi a sorpresa, intervista tutto l’intervistabile. Che ad esempio, il capo delegazione, Jan Myrdal, si rifiuta di riceverlo. Ma si reca anche in Cambogia, ci vive a lungo, ne impara la lingua per comunicare meglio e senza intermediari. Ripercorre le tappe della delegazione, incontra le persone che loro incontrarono, e che sono ancora in vita.

Giustamente, dal mio punto di vista, non risparmia critiche a nessuno. Si scaglia contro i feroci bombardamenti americani in Indocina, ed ai loro meschini tentativi di destabilizzare l’area, stigmatizza il vanitoso ed egocentrico principe Sihanouk, traccia un breve schizzo del crudele dittatore Lon Nol (quello di cui Kissinger disse che l’unica cosa che sapeva di lui è che fosse un palindromo), punta anche il dito al periodo di invasione vietnamita, che non può giustificare o salvare. Ed ovviamente, sempre al centro, ma mai personaggio centrale, lo sfuggente Pol Pot, con quell’unico sorriso che gli viene dalle poco foto rimaste, inflessibile nel portare avanti una politica totalmente corretta dal punto di vista teorica, totalmente sbagliata e fallimentare nella sua realizzazione pratica.

Il risultato, senza che io abbia voglia di entrare nei meandri della storia, e spingendovi a leggerne, se non conoscete quel periodo, è un’opera policroma, che ci rappresenta uno spaccato forte degli anni ’75-’80. Non risponde alla domanda iniziale se la delegazione non ha voluto vedere o se Pol Pot è stato abile, come lo sono spesso i dittatori (leggi Ceausescu, ad esempio) nel mascherare la realtà. È un inganno frequente, senza vinti né vincitori, ma che ci consegna un’unica direttiva fondamentale: ribellarsi, sempre e comunque, a qualsiasi dittatura.

Neanche io entrerò in questa diatriba, se non per la parte appena detta anti-dittatoriale. E nell’invito a visitare, ora, appena possibile, quei luoghi. Penso che chi li ha visti con me sia d’accordo.

Kjell Westö “Miraggio 1938” Corriere della Sera Boreali 26 euro 9,90 (in realtà scontato a 8,90 euro)

[A: 31/12/2018 – I: 10/07/2021 – T: 13/07/2021] - &&& e ½   

[tit. or.: Hägring 38; ling. or.: svedese; pagine: 331; anno 2013]

E con questo siamo alla fine. Ultima lettura del ciclo di letterature scandinave, ultima ma di certo in forte risalita rispetto ad alcune uscite oserei dire puramente dignitose. Intanto, il primo elemento che fa colpo è l’identità sociale dello scrittore. Perché Westö è finlandese, ma di origini svedesi. Forse non a molti è nota la storica vicissitudine della Scandinavia, che per secoli è stata divisa in modi diversi tra loro e diversi dall’attuale. Fatto sta che ora, nel nostro presente storico, dobbiamo rilevare che, all’interno della Finlandia c’è una nutrita comunità di origini svedesi, che tuttora parla svedese. Tant’è che Westö in svedese scrive.

Il romanzo, il miraggio che lo pervade, è l’illusione che nel 1938 tutto possa ancora essere fatto, tutto possa svolgersi in modo normale, nella vita “normale” di una comunità minoritaria all’interno di una nazione ancora non completamente solida. Certo, noi poco si sa delle vicende storiche finlandesi, ma questo è un libro che, parlando di fatti minuti, ci invoglia a studiare la grande Storia. Dove verremmo a sapere che la Finlandia diventa indipendente solo nel 1917, a seguito della Rivoluzione Russa, che fino ad allora era una parte della Russia zarista. Subito dopo, nasce una feroce guerra civile tra i Rossi, che volevano una socialdemocrazia filosovietica, ed i Bianchi che, temendo la fine dell’indipendenza, avevano un atteggiamento filotedesco. Vincono i Bianchi, ma la sconfitta della Germania fa sì che debbano cambiare bandiera rivolgendosi ai vincitori della Guerra. Ma le ferite di quella guerra civile, a lungo durano nel tessuto sociale. Anche perché, appunto, una forte minoranza di lingua svedese (pari a circa il 10% della popolazione del tempo) rimane ingabbiata nel territorio alieno.

Questo è il quadro sociale in cui si svolge la narrazione. Dove Westö usa un fuori testo per esemplificarlo. Nel 1940 si sarebbero dovute svolgere le Olimpiadi ad Helsinki (poi cancellate per la guerra). Nel ’38 si cominciava a fare le selezioni, ed in una gara per i cento metri, vediamo (in foto) la netta vittoria del finnico-svedese Abraham Tokazier, che però, nel reperto di gara viene classificato quarto. Perché Abraham è anche ebreo, e la presenza di giudici tedeschi fa sì che i finlandesi snaturano la gara. Solo nel 2013 verrà ripristinata la verità. Ma l’episodio serve a Westö per immergerci nel clima lacerante di quegli anni.

La vicenda, poi, ha due protagonisti, voci narranti alternate. L'avvocato Claes Thune e la sua segretaria Matilda Wiik. Thune, in profonda crisi personale, lasciato dalla moglie Gabi di cui è ancora innamorato, trascorre un po’ apaticamente la propria vita. Ha solo momenti di socializzazione incontrando i suoi vecchi amici il primo mercoledì di ogni mese. Gli amici in realtà sono lì per bere (e molto) ma anche per discutere i problemi sociali che stanno vivendo. E come i momenti politici si fanno acuti, anche gli amici si schiarano su orientamenti diversi: il medico Arelius, amante del potere, e l'imprenditore opportunista Grönroos, si orientano verso l'estrema destra. Mentre Thune e lo psichiatra Lindemark, ora fidanzato con Gabi, sono l’anima liberal del gruppo. In mezzo, variante incontrollata, l’attore ebreo Joachim Jary, zio del velocista di cui all’inizio.

Gli amici erano scampati alla guerra civile. Ora sono ricchi borghesi, medici, avvocati, in poche parole benestanti, e sebbene divisi dalla politica, sembrano aver dimenticato le cicatrici della guerra. Finché si inserisce nel quadro Matilda la segretaria di Thune, efficiente, assidua, ma con qualche punto oscuro alle spalle. Punto che viene allo scoperto quando lei casualmente senta i sei amici parlare, e riconosce la voce di uno di loro, come il suo tormentatore (e forse anche di più) durante la guerra. Si innesta così, sul filone sociale, anche una punta di noir, sebbene a noi attenti lettori sia ben chiaro chi sia il “Capitano”.

L’interesse del racconto, tuttavia, è proprio nell’analisi del mutare delle relazioni tra le persone quando il contorno in cui fino ad allora si muovevano viene a mutare. Una descrizione valida ovunque nel tempo. Anche qui ed ora.

Quindi, leggiamolo questo libro, con un occhio al passato ed un orecchio al presente.

“Intuiva di non essere né focoso né resistente. La sua unica possibilità di far colpo sulle donne era riposta nell’intelletto e nel fatto di saper ascoltare.” (84)

Terza trama di novembre, dove non avendo libri che portano direttamente la felicità, vi dovrete accontentare della felicità che portano i miei ricordi citanti.

Come dicevo il mese scorso, anni fa abbiamo cominciato un viaggio facendo il primo passo. Ora di passi ne abbiamo fatti tanti, e molti tratti sono stati difficili. Ed altri lo saranno in futuro. Amici ci lasciano, ed amici vengono, e ritornano. Tutti accomunati dai miei abbracci.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di novembre

Siamo a novembre, ci si attendeva pioggia e freddo, ed invece siamo ancora qui a cogliere i prodotti dell’orto. Godendo del nostro buen retiro ciminese. Così che si può riflettere sulle letture di tredici anni fa, un anno molto intenso. Dico solo che è cominciato con la morte di mio padre, un lutto che non è stato facile assorbire.

Allora, eccoci a ripassare i suggerimenti che mi ha lasciato l’ultimo trimestre di quell’anno.

Il primo che incontro è Sandro Veronesi che, in un corto del Corriere della sera, “Il ventre della macchina” mi ammoniva sui rischi di essere “troppo” buono: “perché ora so di essere un uomo buono e l’uomo buono, ho scoperto, non paga i propri conti con la moneta della fedeltà”.

A fine ottobre, poi, affrontai una lunga lettura di un autrice che mi ha dato sempre buone sensazioni, la giapponese Banana Yoshimoto.  Nel primo libro, “Il coperchio del mare”, da un lato mi forniva un suggerimento ecologico: “se non siamo in grado di conservare le cose belle del nostro paese, come facciamo a percepire la continuità?”. Dall’altro, invece, al solito, mi faceva riflettere su delle cose la cui verità avrei ritrovato da lì a qualche anno. Il primo sui sogni, che non debbono mai lasciarci: “quando si insegue un sogno tutto sembra bello e carico di energia, proprio come quando si è innamorati”. Il secondo sul rispetto verso gli altri, tutti gli altri: “le persone non vogliono soffrire né tantomeno vivere nel terrore, desiderano solo essere felici. Siamo tutti fatti così, per cui se ti rendi conto che un tuo comportamento potrebbe ferire qualcuno devi modificarlo”. Il terzo è un ammonimento che, ora, posso dire è vero fino in fondo: “le cose avvengono proprio nel momento in cui stai per convincerti che non ci sia più niente da fare”. L’ultimo ve lo lascio così, per riflettere anche voi: “a volte il semplice fatto di stare con una persona ti aiuta a crescere”.

Il secondo libro, ottenuto da un gradito regalo, si intitola “Chie-chan e io”. È veramente un breve compendio di due fatti, a volte in conflitto, ma presenti nelle nostre esistenze. L’amore, ovviamente. Ma anche la morte come lascito, e come un qualcosa che dovremmo affrontare, non dico con gioia, che non ci si potrà mai riuscire, ma con il massimo della serenità. Ecco cosa diceva sul rapporto tra due persone, anche sul momento in cui nasce un rapporto: “nei momenti più impensati si trovano le risposte più impensate”; “le era estranea l’abitudine di parlare con disinvoltura a persone che non conosceva”; “certe cose si percepiscono anche senza parlare”; “si può aiutare qualcuno nelle cose quotidiane, si può pregare, si può vigilare. Ma non si può cambiare il corso della sua vita. In verità, non si può fare niente neanche con la propria”; “il silenzio a volte ci svela qualcosa che esiste fra due persone”. E se qualcuno ci lascia, pensiamo che “anche nei giorni in cui arriva una cattiva notizia può accadere qualcosa di buono”. Oppure pensiamo con dolcezza all’incontro “avevo paura di aver bisogno di qualcuno al punto di non poter vivere se quella persona fosse venuta a mancare”. Banana mi pungolava anche sulla mia scarsa (al tempo) voglia di crescere: “decidere è una cosa che fanno gli adulti … e per questo non volevo mai prendere nessuna decisione”.

Finendo poi con un’esortazione che ora grido ad alta voce: “Guarda che se starai a lungo con me ti divertirai!”.

Ad inizio novembre, passai a trame più leggere. Come uno strano giallo del compianto Gianni Mura. Ambientato durante un tour de France, dal ricorrente titolo “Giallo su giallo”. Ma a me ricordava la mia giovinezza parigina: “ci ho dormito un mese a Tours, una mansarda al quarto piano senza ascensore … Ho lavato i piatti … sono entrato vestito in una fontana … mi avevano detto che il miglior francese si parla in Touraine e mi ero iscritto ad un corso estivo… a quei tempi scrivevo cazzate per dimostrare la padronanza della lingua … ‘un tour autour des tours des Tours’, cui rispondeva inquietante il professor Certin ‘Constant ta tante t’attend dans ta tente’".

Un altro libro di una leggerezza inquietante fu “Amore, bugie & calcetto” dell’a me sempre poco noto Fabio Bonifacci. Anche qui si parlava di sport (e amore), ma io mi ritrovavo nella figura di Piero che “come i grandi filosofi e i matti, pensava meglio camminando”.

Una diversa lettura che comunque consiglio, che l’autore raramente mi ha deluso, è “Una visita guidata” di Alan Bennett. Che parlando d’altro mi ha dato la chiave di tutte queste mie citazioni: “a volte, leggendo … ci imbattiamo in un pensiero o in un sentimento che abbiamo provato anche noi: però non ne avevamo mai parlato con nessuno, credendo che si trattasse di un fatto personale. Poi lo troviamo lì nero su bianco, ed è come se l’autore ci avesse teso la mano”.

La fine di novembre consegnò alle mie carte tre autori ed i loro pensieri sulla (mia) vita. C’era Corrado Augias che in “Quel treno da Vienna” diceva due cose: “perché ti penti così spesso di ciò che fai?” e “non sono… in grado di mettere a frutto i miei difetti, e le mie virtù … mi servono soltanto per continuare a vivere”.

Poi c’era Luciano De Crescenzo che in un racconto sul Corriere, “Monnezza e libertà”, suggeriva in dialetto: “guaglio’, colle femmene ce vole ‘o tiempo”. E c’era il medico Andrea Vitali in uno dei tanti libri della saga di Bellano, “La figlia del podestà”, suggellava così l’esistenza: “è l’amore che fa la differenza”,

Ad inizio dicembre, passai del tempo con autori italiani poco letti, che pensano e mi rimandano pensieri sulle storie, come la mia amica Rosa, e sulla vita.

Iniziando da “Il circo capovolto” di Milena Magnani: “quando si ascolta una favola, non ci si deve chiedere mai se la vicenda di cui si parla è vera o falsa. Una favola, l’unica cosa che chiede, è di poter rimanere nel cuore di chi ascolta” e proseguendo con “Il resto di niente” di Enzo Striano: “Quando una persona non ha scopo per vivere, spegne lentamente la fiamma dell’animo”.

Mentre quel Natale, laddove stavo preparando un viaggio per non ricordo dove, passai ad una serie di autori arabi e turchi. Per i primi estrapolai una frase di Sélim Nassib da “L’amante palestinese”: “ciò che hai dentro è più forte di te … È ora che tu decida cosa vuoi fare della tua vita”. E due da “La prova del miele” di Salwa Al-Neimi: “le risposte, come le storie, arrivano da sole, con i loro tempi” e “lo scandalo sta nel fare qualcosa o nel rendere pubblico ciò che si fa?”.

Passando ai turchi, seppur con difficoltà, lessi un libro di Orhan Pamuk, “Il mio nome è rosso”, ma vi trovai due frasi d’amore: “se dentro di te, inciso sul cuore, vive il volto della persona amata, il mondo è ancora la tua casa” e “l’amore è la capacità di rendere visibile l’invisibile”.

Quindi terminai l’anno con “La bastarda di Istanbul” di Elif Shafak che sconsolatamente mi fece arrivare al Capodanno: “la stragrande maggioranza delle persone non pensa e quelli che pensano non diventeranno mai la stragrande maggioranza (dal Manifesto Nichilista di Asya Kazanci)”.

Io, lo so, non diventerò mai la stragrande maggioranza, per cui continuo a pensare, e a scrivere.

domenica 14 novembre 2021

Grandi investigatori - prima - 14 novembre 2021

Una collana che poteva salire di tono, se avesse puntato non solo a presentare investigatori di buon livello, ma se fosse riuscita a contornarli con una paginetta critica sulla genesi dell’investigatore. Così anche gli intramontabili Camilleri e Agatha Christie sono in sordina, avvicinati da una decente ma non eccelsa prova di Antonio Manzini, e da una illeggibile storia di Alicia Giménez-Bartlett. Fortuna che il grande Simenon non ci delude mai.

Andrea Camilleri “Doppia indagine” Repubblica “I Grandi Investigatori” 1 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 25/04/2021 – I: 16/05/2021 – T: 16/05/2021] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 44; anno: 2014]

Iniziamo con questo volumetto una nuova serie di racconti che Repubblica usa per spingere all’acquisto dei numeri festivi e prefestivi del giornale. Dopo aver spinto, alla fine dello scorso anno, prima ad una “Italia in Giallo”, poi, avvicinandosi la fine dell’anno, ad un “Natale in Giallo”, inframmezzata da una serie dedicata alla poesia, ecco che ritornano ai “gialli” proponendo una sedicina di volumi dedicati ai “Grandi Investigatori”. Evitando di entrare nello specifico del marketing, che tanto non caveremo un ragno dal buco, vorrei, prima di addentrarci nel testo, dedicare un pensiero al titolo della serie.

Perché parliamo di sedici volumetti, dove, ed è ovvio, ci sono Miss Marple, Hercule Poirot, il commissario Maigret, Sherlock Holmes, e tanti italiani (Montalbano e Ricciardi in primis). E poi Petra, Wallander e Pepe Carvalho. Ma, tanto per dirne una, e Nero Wolfe? Chissà se un giorno riuscirò a tirar fuori qualcosa da quelli che io ritengo “Grandi Investigatori”.

Venendo allo scritto, viene da un volume edito da Sellerio nel 2014 (“Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano”), dove le otto storie che vi sono presentate spaziano appunto sulle prime indagini di Salvo (ed il curatore di questa collana avrebbe fatto bene a dirlo). Tanto che, se mettiamo insieme qualche indizio, possiamo farle risalire (come svolgimento) intorno agli anni ’80. Anche perché, laddove si parla di soldi, si parla di lire e non di euro.

Anche i personaggi di contorno sono più “acerbi”: Catarella quasi non compare, Fazio non si manifesta con i suoi pizzini, e Augello è ancora lo sciupafemmine della gioventù. Anche Livia, che fugacemente appare, non ha carattere né nerbo.

La doppia indagine del titolo è poi solo di “facciata”, che in effetti sono due indagini. Una per la scomparsa della signora Guarraci, benestante e danarosa, con marito che ha come unica occupazione quella di perdere soldi al tavolo da gioco. L’altra arriva da una sparatoria cui sono coinvolti, per fortuna senza conseguenze letali, Salvo e Mimì.

La prima indagine aspettiamo solo che si concluda, che, date le premesse, non può che risolversi in una morte anzitempo della signora, di modo che il marito possa prendere i soldi e continuare a perderli al gioco. Seguiamo e cerchiamo di capire i come ed i perché. Cosa che la veloce e capace scrittura di Camilleri ci fa seguire senza troppi danni celebrali. Arriverà al suo sbocco naturale, noi capiremmo come sono andati i fatti, ma la brevità del testo non ci permette grandi pensate. Tanto vale seguire l’autore nelle sue descrizioni, sempre piacevoli.

La seconda indagine, che forse proprio indagine non è, dopo che le famiglie mafiose della zona si sono premurate di far saper a Salvo la loro estraneità ai fatti, si risolve in una dotta citazione di Camilleri verso il suo grande corregionale ed amico Sciascia. Che Livia convince Salvo a leggere un romanzo di Sciascia del ’66 (“A ciascuno il suo”) e ripercorrendo la storia del farmacista Manno e del dottor Roscio, il nostro capisce la trama ed il sottotesto della sparatoria. Se conoscete Sciascia, l’avrete capito anche voi. Se non avete letto il libro penso che vi manchi qualcosa. Che è stata per me una delle letture illuminanti della mia giovinezza.

Quindi, per concludere, non si può certo dire che Camilleri ci deluda troppo. Il racconto è ben congeniato, e scorre facilmente (per di più letto nell’attesa del prima e del dopo della prima dose vaccinale anti-Covid). Rimangono i dubbi che espressi alla lettura del volume completo di queste storie (nell’agosto del 2016) e le perplessità sul resto della collana (ma questo lo vedremo e ne riparleremo più avanti).

Un piccolo addendo, in queste note alla collana, verrà dedicato ai “Grandi Investigatori” di cui si parla. Qui narriamo di Salvo Montalbano che, dal corpo degli scritti di Camilleri, risulta essere nato a Catania il 6 settembre 1950. Dopo la laurea in Giurisprudenza, entra in polizia, prima come vicecommissario a Mascalippa, provincia di Enna, poi a Vigata. Dove si stabilisce in una villa al mare in località Marinella, dove vive solo, accudito dalla fida Adelina Cirrinciò, e visitato, saltuariamente da Livia Burlando, sua fidanzata storica, che vive a Boccadasse, un quartiere di Genova. Se non mangia le leccornie di Adelina, va abitualmente prima al ristorante “San Calogero”, e quando questo chiude, da “Enzo a Mare”. Ma per i mangiari di Montalbano, rimando allo scritto “La caponatina di Adelina”. Per completare il quadro, citiamo soltanto i suoi collaboratori: il vice Domenico “Mimì” Augello, un tempo sciupafemmine, poi sposato con Beba e con figlio cui dà il nome Salvo, l’ispettore Giuseppe Fazio, mago degli indizi che scrive su pizzini che Salvo non sopporto, e l’agente Agatino Catarella, macchietta degli scritti, ma insuperabile nell’uso della tecnologia.

Agatha Christie “Morte per annegamento” Repubblica “I Grandi Investigatori” 2 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 25/04/2021 – I: 19/05/2021 – T: 19/05/2021] &&

[titolo: Death by Drowning; lingua: inglese; pagine: 44; anno: 1931]

Il primo commento di questo secondo scritto è la scarsa referenzialità dei testi. Viene solo detto che il racconto proviene dalla raccolta “Miss Marple e i tredici problemi”. Non viene citato né il titolo del racconto originale (sopra riportato da me), né il titolo della raccolta (che si chiama solo “The Thirteen Problems” senza l’indicazione di “Miss Marple”), né, infine, l’anno di scrittura, che, da mie ricerche, risulta essere il 1931. Tutto ciò denota una mancanza di “serietà” che a me dispiace.

La raccolta l’avevo letta e commentata nel giugno del 2015, rilevandone la poca incisività. Non solo, ma è uno dei racconti in cui Miss Marple praticamente non compare, cosa assai straniante in una collana dedicata ai “Grandi”. Se uno, per caso, non sapesse niente di lei, rimarrebbe assai colpito di un racconto “sfasato”. Infatti, la vecchia signora è presente all’inizio ed alla fine, ma le quaranta pagine centrali parlano d’altro e di altri. Come quasi sempre nella raccolta da cui proviene, l’io narrante è l’ex commissario capo di Scotland Yard, sir Henry Clithering, grande amico ed estimatore di Miss Marple.

Ovvio che, dato il titolo, ci sia una persona morta. In questo caso, si chiama Rose, è una ragazza non sposata, ma rimasta incinta di un architetto di passaggio nella cittadina. Rose muore nel fiume, annegata. Ma è una morte accidentale, un suicidio, o un omicidio? La nostra eroina è convinta di sapere chi sia il colpevole, lo scrive su di un pizzino che consegna a sir Henry. Da lì in poi, seguiremo quindi l’ex poliziotto, che, insieme ai poliziotti locali, indaga sull’accaduto.

Ma chi può aver voluto la morte di Rose? Intanto, dati i segni sul corpo, è acclarato che non sia una morte accidentale. Allora, potrebbe essere stato Stanford, che, dopo averla messa incinta, spaventato dai possibili ricatti di Rose, decide di metterla fuori combattimento in modo definitivo. Oppure potrebbe essere stato Joe, che da sempre è innamorato di Rose, che le avrebbe probabilmente perdonato tutto, ma di fronte all’ostinazione della ragazza, perde la testa commettendo un gesto irreparabile. Un altro candidato come colpevole è la vedova Bertlett, presso cui vive Joe, che la aiuta in casa, mentre lei si mantiene facendo il bucato per le signore del villaggio. La vedova è da sempre contraria a Rose, considerandola una farfallona, e contemporaneamente, da sempre (o almeno dalla vedovanza in poi) presa da Joe (in fondo, è una vedova poco più che quarantenne, e di certo piacente). Infine, il quarto possibile indiziato è il padre di Rose, nel caso non fosse riuscito a sopportare di avere una figlia disonorata (ed anche un po’ troppo farfallona).

Dopo aver interrogato tutti i papabili colpevoli, senza ricavarne un ragno dal buco, sir Henry riceve la testimonianza del piccolo Jimmy, che gli fornisce il quadro risolutivo. Jimmy aveva visto qualcuno nel bosco, il signor Sandford, circa dieci minuti prima del fatto. Poi riferisce di aver notato Joe Ellis che camminava lungo il sentiero adagio e fischiettava. Lo aveva riconosciuto proprio per la canzone che fischiettava! Joe Ellis andava verso il villaggio. Al ragazzo pareva, inoltre che ci fossero due uomini con una carriola sul sentiero del ponte. Quando sir Henry riferisce il tutto a Miss Marple, lei lo fa riflette, il caso viene risolto, ed il nome del colpevole era quello sul pizzino iniziale.

Un racconto esile, meno debole di quelli della raccolta, ma di certo, personalmente, non il più esemplificativo della carriera di Miss Marple.

Veniamo ora all’addendo sul personaggio. Agatha Christie per la descrizione di miss Marple si basò sulla fisionomia di una sua zia, e prese il cognome della “vecchia signora” da una cittadina inglese nei pressi di Stockport. La nostra eroina è appassionata di birdwatching, le piace lavorare a maglia e curare il giardino. Inoltre, è abile nel cucinare dolci, che mangia insieme alle amiche, prendendo il tè. Vive nel piccolo villaggio di St. Mary Mead, spesso teatro dei casi che risolve, ma maggiormente modello di comunità dove tutto è presente, così che la nostra signora, basandosi sulla sua comunità, prende spunto per risolvere brillantemente le trame poliziesche. Come dice lei stessa, il suo passatempo è lo studio della “Natura Umana”, in questo abbastanza simile al quasi contemporaneo commissario Maigret. Il suo nome, quasi mai usato, è Jane. Nelle prime apparizioni è bisbetica e poco socievole, poi il suo carattere si ammorbidisce. È sempre indicata come “vecchia signora”, tanto che le sue storie dovrebbe compiersi in un arco che va dai suoi sessanta ai circa settantacinque anni. Non si è mai sposata, ma ha un nipote scrittore, Raymond West, che compare in alcuni scritti, e che le passerà un vitalizio quando Miss Marple diventa troppo anziana per fare attività lucrative.

Antonio Manzini “L’eremita” Repubblica “I Grandi Investigatori” 3 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/05/2021 – I: 23/05/2021 – T: 23/05/2021] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 46; anno: 2015]

Terza uscita dei supplementi di Repubblica che servono per incrementare le vendite in edicola. Questa volta il “grande investigatore” è Rocco Schiavone (per sempre legato all’immagine televisiva di Marco Giallini) uscito dalla penna di Antonio Manzini. Sulla figura di Rocco torno alla fine. Intanto veniamo al testo. Che era già uscito nel 2017 nella raccolta “Un anno in giallo”, e poi riproposto l’anno seguente ne “L’anello mancante”. Come dire, le strategie di marketing non finiscono mai di stupire.

Come ho detto in entrambe le occasioni, un giallo di buona fattura, dove Rocco si dibatte tra febbre e ipocondria. Ma già nella raccolta del 2018 dovevo rilevare che il racconto aveva un suo senso soprattutto nella catena di Sant’Antonio che era l’idea forte della raccolta: un racconto al mese, con un aggancio tra l’uno e l’altro. Questo era l’ultimo, cioè dicembre, e, per chiudere il cerchio con gennaio dedicato a Camilleri, il buon patologo Fumagalli, al nostro Rocco influenzato e convalescente, regala due storie di Montalbano.

La storia in sé è abbastanza lineare, laddove muore un eremita, che si scopre essere stato un prete, scomunicato “latae sententiae” per aver violato il segreto confessionale, come prescrive il Libro VI del “Codice di Diritto Canonico”. Una volta interpretata la sentenza apostolica, il resto è un ruscelletto che va da solo a valle, coinvolgendo (banalmente) il soggetto colpito dalla violazione dell’eremita. Fortunatamente, ma ciò non ci può meravigliare, il racconto finisce con un’ulteriore prova, seppur laterale, dell’umanità di Rocco.

Alla fine, tuttavia, anche questo racconto nulla aggiunge alle storie di Rocco meglio espresse nei romanzi lunghi. Né aumenta o diminuisce il mio senso di gratitudine verso Manzini per aver pensato e scritto la serie di romanzi con protagonista il vicequestore.

Come orami usuale in questi brevi racconti, diamo il solito spazio ai “Grandi Investigatori”. Anche se non paragonerei Rocco Schiavone ai “figli” di Agatha Christie. Dal corpo delle opere di Manzini deduciamo che Rocco è nato a Roma, nel rione Trastevere, il 7 marzo 1966, da una famiglia di operai. Rimasto presto orfano, si accompagna con i suoi amici trasteverini, che sono però molto sul limitar del crimine, pur non essendo dei “cattivi”. Rocco però studia, si laurea in giurisprudenza ed entra in polizia. A 35 anni (quindi nel 2001) si sposa con Marina, che rimarrà sempre il suo grande ed unico amore. Anche quando viene uccisa il 7 luglio del 2007. In contrasto con le gerarchie per una serie di motivi che potete leggere, viene punito per le sue intemperanze e trasferito alla Squadra Mobile di Aosta. Non si adatterà mai alla montagna ed alla neve, continuando ad indossare la sua divisa romana: Loden e Clarks. Fuma Camel e qualche canna. Ha stilato una lista di "rotture di coglioni", dove al decimo livello ci sono i nuovi casi da risolvere. Rocco Schiavone è un uomo burbero, alquanto maleducato e violento, collerico, scontroso, sarcastico nel senso più romanesco, cinico con tutto e con chiunque e infedele con le numerose amanti che si ritrova ad avere ad Aosta. Rimanendo tuttavia sempre fedele alla morta Marina. Questo è in fondo anche un limite, che Marina, pur dicendo a parole che Rocco deve volare via, in realtà non ne stacca mai l’ala materna.

Sotto quest'apparenza che sembra respingente, Rocco, in fondo, nasconde un lato gentile (a modo suo), bonaccione e saggio, soprattutto con Gabriele (il suo giovane vicino di casa, il quale vede in Rocco una sorta di figura paterna). Ma anche con molti personaggi laterali delle sue storie. Che se non hanno colpe gravi, o palesi, vengono “graziate” dal suo buon cuore. Vedi ad esempio proprio la fine di questo racconto.

Georges Simenon “La testimonianza del chierichetto” Repubblica “I Grandi Investigatori” 4 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 01/05/2021 – I: 30/05/2021 – T: 30/05/2021] - &&&& -

[tit. or.: Le témoignage de l'enfant de choeur; ling. or.: francese; pagine: 46; anno 1946]

Qui, per ora, è l’unico punto in cui rivolgo un sentito ringraziamento a questa collana di Repubblica, sino ad ora poca riuscita. Non solo perché è un bel racconto di Maigret, ma soprattutto perché è un racconto di Maigret, un genere che ancora non ho praticato molto. Vi ricordo infatti, che ho tramato l’intero corpus di romanzi del nostro commissario (75 volumi) ma nulla dei racconti (che in realtà sono solo 28).

Possiamo quindi non dico colmare ma iniziare a riempire questo buco, con questo racconto, breve, e, secondo la critica, uno dei meglio riusciti. Il testo, tra l’altro, viene scritto a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson nel Québec (Canada), uno dei primi scritti dall’inizio dell’esilio nordamericano. Poiché, comunque, di questo periodo, se n’è parlato a lungo, veniamo invece al testo.

Al solito modo di Simenon di scrivere, completare, utilizzare, riporre, e riprendere, l’ossatura del racconto è riportata in alcune carte del 1940 con l’intestazione “La bicicletta del chierichetto”. Testo poi rimaneggiato, e al fine pubblicato in quella versione “non maigrettiana”, in una raccolta del 1963, con il titolo questa volta “La mattina dei tre funerali”.

È al solito un racconto che poi ripercorre alcune linee fondamentali dell’autore. Che anche Simenon è stato chierichetto, e tale “mestiere” viene fatto fare anche a Maigret in gioventù. Inoltre, come riportato nei romanzi, c’è un breve periodo in cui viene allontanato da Parigi, per motivi vari. E qui, abbiamo appunto una storia non parigina. Dovrebbe essere Luçon, dove Maigret passò un anno. Ma la descrizione dei luoghi si attaglia ad una città molto simenoniana e poco maigrettiana: Liegi. Infatti, se consideriamo i nomi delle strade e le descrizioni, possiamo ricostruire che, nel quartiere della giovinezza di Simenon c’è una "place du Congrès", una "rue Sainte Catherine", e la cappella de ”l’hôpital de Bavière” (dove Simenon serviva messa), nonché un ponte sul fiume, anche se il fiume è la Mosa.

In questa città di Liegi-Luçon, Maigret svolge un’inchiesta abbastanza particolare. Perché, dopo un capitolo introduttivo in cui prende tanta pioggia, il resto dell’inchiesta Maigret la conduce dal letto. Dove pensa, e ricostruisce la trama e gli avvenimenti. Anche seguendo il filo dei suoi pensieri, delle sue reminiscenze di chierichetto. Avvicinandosi al modo di pensare di Justin. Che sostiene di aver visto un cadavere in mezzo alla strada, mentre andava a servire nella cappella dell’ospedale. E di aver visto l’assassino fuggire. La polizia non lo prende sul serio, mentre Maigret gli crede, sentendo anche una nota stonata da qualche parte. Nota che si ripercuote quando parla con l’acido giudice davanti alla cui porta si sarebbe dovuto svolgere il brutto fatto.

Dal letto, accudito dalla signora Maigret che gli misura la febbre, gli fa bere tisane, e gli promette, dopo la guarigione, un crème caramel, il commissario ripercorre i fatti, capisce dove il giudice ha taciuto per omissione, e dove, di conseguenza, anche Justin, il chierichetto, non ha detto tutta la verità. Forse allettato dalla promessa di una bicicletta (promessa che ricollega appunto questo racconto a quello sopra menzionato, senza Maigret).

Risalta quindi tutta l’umanità del personaggio, tanto che, convincendo Justin a dire “tutta” la verità (confessione che porterà alla completa risoluzione del caso), è lui che regala la biciletta che Justin avrebbe in quel modo perduto. Abbiamo qui quello che rivelammo nell’analisi dei romanzi: Maigret che pensa sé stesso come un “aggiustatore di destini”, piuttosto che un commissario dedito a reprimere il crimine.

Credo che dovrò intraprendere, prima o poi, anche la lettura dei racconti di Maigret. Finendo qui, che la descrizione del “personaggio” Maigret ha già preso troppe pagine delle mie trame.

Alicia Giménez-Bartlett “Un vero e proprio viaggio” Repubblica “I Grandi investigatori” 5 s.p. (omaggio di Repubblica)

[A: 07/05/2021 – I: 01/06/2021 – T: 01/06/2021] - &

[tit. or.: Un auténtico viaje; ling. or.: spagnolo; pagine: 46; anno 2017]

Eccoci al quinto volume degli omaggi investigativi di Repubblica (sui quali poi si farà una pensata che mi sembra siano complicatamente gestiti dall’editore).

Anche qui abbiamo una piccola “riedizione”, visto che il raccontino venne pubblicato nel 2017 all’interno della raccolta “Viaggiare in giallo”, regalo compleannico di quattro anni fa, gradito e ben commentato fin d’allora. Era una antologia di diversi autori italiani, con l’unico intarsio della nostra “amica” spagnola Alicia. Tutti, come vuole il titolo, sul tema del viaggio, o qualcosa di analogo. Alla fine, trovai il testo con Petra, il meno viaggiante degli altri, ma forse il più giallo. Che di un mistero ed un’indagine si parla.

Il viaggio è solo un su e giù tra Barcellona e Girona, un po’ meno di 100 chilometri. Da fare in pullman, o, meglio, come gradisce Fermín, in auto con sosta culinaria “on the road”.

Riprendo quanto ne sintetizzai allora: “Una studentessa torna a casa da Barcellona a Girona, e lì trova nella valigia un cadavere. Alicia è al solito più incisiva degli altri sul versante giallo (questione di passati libri memorabilmente scritti), anche se, da qualche inchiesta in qua, si fa prevedibile. Dalla terza pagina immagino che il padre della ragazza, non so per quale ragione, abbia le mani in pasta. Interrogatori, pedinamenti di un immigrato dell’est misteriosamente scomparso, cocaina che compare. Insomma, tutti gli ingredienti di un giallo. Che però non ha la forza né delle soste in trattoria che il grande Garzon impone alla riluttante Petra, né delle descrizioni dell’evolversi della famiglia allargata di Petra. Anzi, questa, al solito, mi risulta di più divertente approccio. Andante”.

Riprendendo le descrizioni dei personaggi assurti, secondo Repubblica, alla fama di Grandi Investigatori, eccoci a parlare un po’ del personaggio ossimorico, nel nome e nel carattere. Un personaggio duro ed al contempo sensibile, Petra Delicado. Appunto dura come una pietra e delicata verso alcuni altri (non tutti e non sempre). Alicia ce la descrive complessa già nella vita privata. Sposa in giovane età l’avvocato Hugo, serio e pedante. Poi, dopo il divorzio, sposa il giovane e immaturo Pepe. Al terzo tentativo, sembra più centrata, convolando con l’architetto Marcos Artigas. Il bello è che anche lui è plurisposato. In più ha anche quattro figli: Federico (16 anni), Theo e Hugo (gemelli, 12 anni) sono i figli della prima moglie: Marina, di otto anni, della seconda.

Sebbene come tutti gli Investigatori di rango sembra sempre fissa ad un’età intorno ai quaranta, in realtà contando le ammissioni personali tra laurea, gli anni con Hugo, le inchieste con Garzon, ora, nell’ultimo romanzo, dovrebbe essere sui cinquantadue anni. Comunque, ben portati.

Dal punto di vista del carattere, possiamo affermare che Petra sia una femminista scontrosa, progressista e decisionista. Tanto che ritengo sia stata ben rappresentata dalla serie televisiva italiana, dove aveva il volto e l’atteggiamento di una molto concentrata Paola Cortellesi.

Infine, da interviste varie concesse dall’autrice, e dalla lettura di tutta la sua opera, da un lato constatiamo che Petra si occupa sempre di casi che ruotano intorno all’amore ed al sesso. Dall’altro, il personaggio si ispira ad un ispettore capo del Corpo di Polizia Nazionale di Barcellona di nome Margarita García.

Per finire, ribadisco ancora una volta il poco coinvolgimento che hanno i racconti, specialmente gialli, rispetto a romanzi, che consentono un maggior respiro ed un maggior ventaglio di possibilità espressive. 

“Nessun viaggio è un vero viaggio se non ci si ferma per mangiare.” (44)

Seconda trama di novembre, ed ancora un allegato dedicato ai viaggi.

Mentre chiudo questa trama, giunge notizia della morte di un altro scrittore ben presente nei miei scaffali. Ci lascia, ad 88 anni e 49 libri, Wilbur Smith. Un addio alle grandi avventure!

Allora, affiora una sua frase contenuta nel suo “Monsone”: “Ogni viaggio comincia con il primo passo.”

Noi si spera di farne ancora alcuni, per vedere, viaggiare, spostarsi, anche solo da Prati a Montesacro. Scusate il velo di tristezza, ma c’è anche la pioggia, che io non amo. Fortuna che ci siete sempre voi, che non posso non abbracciare.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2021

Forse sarà un chiodo fisso, ma anche questo mese…

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CURARE LA VOGLIA DI VIAGGIARE

Salvate il pianeta, e il portafogli, viaggiando seduti sulla vostra poltrona.

Amitav Ghosh                       “Il palazzo degli specchi”

Ernest Hemingway                 “Per chi suona la campana”

Ryszard Kapuscinski               “Ebano”

Yasunari Kawabata                “Il paese delle nevi”

D. H. Lawrence                     “Canguro”

Marco Polo                           “Il Milione”

Jean Rhys                            “Buongiorno, mezzanotte”

Robert Schneider                   “Le voci dal mondo”

Tiziano Terzani                      “Un indovino mi disse”

Paul Theroux                        “Mosquito Coast”

Bugiardino

Premetto che ritengo sbagliato l’approccio, che è giusto leggere di viaggi, non per rimanere in poltrona, ma per programmare la prossima partenza. Delle dieci proposte, ne ho tramate 4, anche se il grande fotografo ha avuto poco più che una menzione. Mentre avrebbero bisogno di essere ben letti sia il libro di Schneider che quello di Ghosh. Eviterei invece il giapponese Kawabata, che non mi ha per nulla coinvolto. Degli altri, ho letto, nello scorso secolo, Hemingway (tornando poi già due volte a Ronda, e ve ne parlerò se vorrete) e Terzani (su cui non mi dilungo, che andrebbe tutto letto e riletto). Nonché, seppur con fatica e poca voglia, le pagine di Marco Polo. Mi mancano invece sia l’Australia di Lawrence che il libro di Theroux. Jean Rhys è nelle mie corde e se ne leggerà, prima o poi.

Ryszard Kapuscinski “Ebano” Feltrinelli euro 7,50

[tramato il 17 settembre 2007]

Africa, africa, africa. Non sbavata, non osannata, ma sempre presente, con molto, molto su come ci si arriva al presente attuale. Bellissime le pagine sul Ruanda.

Tre citazioni

“per la maggior parte delle persone che vi abitano il mondo finisce sulla soglia di casa” 

“il nostro mondo … non è che un pianeta di migliaia di province che non si incontrano mai”

“l’acqua è tutto. Il deserto ti insegna una verità: esiste qualcosa che si può desiderare più di una donna: l’acqua”.

Robert Schneider “Le voci del mondo” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)

[tramato il 29 giugno 2014]

Flavio Cuniberto fa una bella e condivisibile post-fazione a questo ormai ventennale libro, e probabilmente anche una buona traduzione (mi fido, che non so il tedesco). Non so se però sia colpa sua o dei soliti, malefici pensatori di marketing librario, quel titolo che, al solito, travisa un po’ il senso originale. Sebbene sia un libro pieno di voci (e ci torneremo), quella parentela con il sonno a ben altro si ispira. Penso (nella mia ignoranza germanofona) ai versi di uno dei capitoli finali (“Vieni, morte, sorella del sonno”) che credo “Tod” sia maschile e quindi ha senso tradurre con “sorella” il “Bruder(à fratello)” originale.

Perché, alla fine, con ironia, con tristezza, con rimpianto, è la morte che pervade tutto il libro. Non sempre angosciosa, in alcuni casi liberatoria. Pur tuttavia, ricostruendo le vicende che si svolgono nella cittadina austriaca di Eschberg, lo scrittore Schneider fa una specie di resoconto dei lutti e delle morti. Cominciando dalla fine, dall’ultimo incendio che devasta e finalmente distrugge senza speranza la cittadina ed il suo ultimo abitante.

Un Adler, che, come sanno i montanari, in quelle sperdute lande, nell’altro versante delle Alpi, ci si mescolava molto, ed in Eschberg, in pratica, c’erano due famiglie: gli Adler e i Lamparter. Schneider segue le vicende del paesino, dalla nascita alla morte di un genio irrivelato, Johannes Elias Adler. Questa è la parte di tristezza che alla fine non può non lasciarci il libro: Elias era un genio della musica e dei suoni. Per una sua capacità sapeva imitarne di ogni specie. Aveva un orecchio globale (un “terzo orecchio” come diceva il jazzista Berendt), e riproponeva i suoni come erano. Con la voce, imitando tutti gli abitanti del villaggio, ma anche gli animali. Con ultrasuoni, con cui (forse) parlava agli animali stessi. Con l’organo, attraverso la cui musica (quando riuscì a suonarlo) costruiva cattedrali di luci e silenzi, degni e superiori a tutti i maestri (passati, presenti e futuri). Ma come dice l’autore, nessun buon samaritano passò mai di là, e Johannes non fu mai preso e fatto sbocciare.

Qualcuno si ricorda delle sue costruzioni armoniose, ma quel che ci rimane è una lapide sulla tomba, con i suoi 22 anni di vita. E con i tormenti che l’hanno costellata. Nascita laboriosa, poi comprensione dei suoni, cambiamento degli occhi dal verde al giallo, ostracismo del paese. Ma capacità, appunto, di sentire tutto. Strano rapporto, fin dal battesimo, con il cugino Peter.

Il loro intreccio pervade tutto il romanzo. Elias viene ostracizzato per gli strani poteri che ha (occhi, suoni, empatia che non riscuote simpatia, voce strana per un bambino). E solo Peter, sebbene da lontano, gli fa compagnia. Elias a cinque anni, sentendo il battito di un cuore nascente, si innamora perdutamente di Elsabeth. E cercherà per tutta la vita di conquistarla, di dichiararle il suo amore. Ma i montanari son di poche parole, e la musica non riesce a far breccia nei cuori. Peter invece ama quasi omosessualmente (ma solo nella sua fantasia) il cugino. E soprattutto, ha un senso di odio per il paese, per il padre che gli spezza il braccio. Tanto che sarà lui a dar origine al Primo Incendio del paese.

Dove Elias salverà la piccola Elsabeth. Dove il padre di Elias ucciderà l’innocente carbonaio (ma solo Elias lo vedrà e non lo perdonerà mai). Dove Elias, ancora, sa che è colpa di Peter, ma non lo tradirà. Come in un racconto di campagna, descrivendo la vita austera dei monti, ed ogni tanto perdendosi (con molta felicità di noi lettori) in qualche rigagnolo laterale, la storia va avanti.

Elias per caso diventa organista. Elias si accompagna ad Elsabeth. Elias continua a suonare senza che i rozzi paesani capiscano. Peter lo coinvolge in suoi strani giochi tra l’erotico e l’ironico. Crescono, invecchiano. Elias a 20 anni ne dimostra 40. Ma ha un suo momento di gloria suonando l’organo nella città principale. Questo non gli darà la serenità. Anzi, capirà fino in fondo l’inutilità della sua vita. Avrà una lotta tremenda tra il sé e la religione. Perderà completamente il lume della ragione, ipotizzando che l’amore totale deve essere sempre presente, giorno e notte. E deciderà di andare verso sorella morte uccidendosi attraverso la tortura del non dormire.

La vita andrà avanti, Peter diventerà più buono. Elsabeth si sposerà ed avrà tanti figli. Ma non è questo il nucleo della storia. Schneider ci vuole portare verso la comprensione che ci sono (ci possono essere) migliaia di geni che vivono ovunque. Milioni di cose e di persone che meriterebbero attenzione. Ma nulla è bello, nulla è importante, se non lo si svela, se non se ne toglie il manto oscuro, e lo si condivide, tutti. Questo a me rimane, più che la musica ed altro. La necessità, la voglia, il bisogno di aver un rapporto con l’altro. Solo così anche il nostro piccolo apporto alla vita di tutti avrà un senso.

“È meglio conoscere la verità che nutrirsi di illusioni!” (114)

“Quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto solo perché non fu loro concessa una vita più serena, un più giusto equilibrio di pena e felicità.” (167)

Yasunari Kawabata “Il paese delle nevi” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)

[tramato il 04 ottobre 2015]

Continuo a leggere qualche autore “non occidentale”, che bisogna sempre avere più frecce ai propri archi. Tuttavia, a parte Banana, continuo a non entrare nella mentalità della scrittura giapponese. Faticai e lasciai più volte Osamu Dazai. Lessi e trovai palloso Yukio Mishima (e ne scrissi male). Ora provo anche Kawabata. Ed il risultato è sempre lo stesso.

Forse con qualcosa in più, è vero, che Yasunari ha una sua bellezza di scrittura formale, che prende nelle descrizioni, nell’ambientazione, nello scorrere della storia. Ma tutto il resto mi rimane freddo, come questo paese innevato, sperduto nel Nord del Giappone, dove si svolge questa labile storia. E mi domando se non ci sia anche qualche elemento derivante dalla traduzione, che inopinatamente l’editore confessa aver preso dalla traduzione inglese. Mentre più tardi, nei Meridiani Mondadori, il traduttore della Yoshimoto ne fa una nuova traduzione dall’originale, che forse potrebbe essere migliore. E che sicuramente avrebbe evitato quella catastrofica nota in cui ci spiega come un personaggio avrebbe voluto fare l’infermiera o l’assistente ai nidi infantili, in quanto viene utilizzato il termine inglese equivalente “nurse”. Chissà il termine originale qual era.

Come nella migliore tradizione della scrittura giapponese, il racconto è fatto di pochi elementi, e di molte sensazioni (paesaggi e stati d’animo, in primo luogo). Il nucleo centrale è la passione (amore?) tra un signore di Tokyo ed una geisha di provincia, che si dipana nella cittadina termale di Yuzawa (sebbene il nome non compaia nel testo, ma viene desunto dalle descrizioni).  Le sorgenti di Yuzawa sono frequentate da uomini che viaggiano soli ed hanno bisogno di relax.

Le geishe di Yuzawa non hanno l’esperienza e la preparazione di quelle di Kyoto o di Tokyo, sono un gradino al di sotto, al limite tra lo status di geisha e quello meno onorevole di donne a pagamento. È quindi scontato che il legame fra il ricco cittadino, esperto di balletti occidentali (su carta, non avendone mai visto uno) e la geisha Komako sia destinato al fallimento.

Il tentativo di Kawabata è proprio la contrapposizione tra Shimamura, attratto dall’occidente, e la concezione tradizionale di bellezza, che incarna Komako. Sul treno che lo riporta a Yuzawa, al nuovo appuntamento con Komako, il nostro amante è anche attirato da una ragazza che si occupa di un malato, Yoko. Poco succede, in fondo. Komako suona, Shimamura ascolta e pensa. Alla fine, ci sarà una catastrofe, forse morirà Yoko. Di sicuro, Shimamura non tornerà più nel paese delle nevi.

Anche nella scrittura si nota la nipponicità della confezione. Kawabata scrive il primo nucleo del romanzo come un breve racconto nel 1935. Per poi ampliarlo, integrarlo, e riscriverlo come se fosse nuovo, per farlo uscire come testo unico solo dodici anni più tardi. Questo per limare ogni frase, ogni parola, ogni descrizione. Per arrivare a dare quello che lo scrittore aveva in mente di rappresentare: uno scontro, lieve eppur profondo, tra due concezioni del mondo, tra una visione modernista ed una tradizionale. Non ci scordiamo poi che in questi 12 anni, poi, il Giappone stesso muta profondamente la sua pelle, attraversando la pesante sconfitta della guerra, e tutti i cambiamenti conseguenti. I sostenitori di questo tipo di scrittura accusano chi non capisce la via giapponese alla lentezza di non saper entrare in questo mondo, e di far meglio a leggere romanzi alla Dan Brown. Io ritengo che ci sia un giusto mezzo tra l’azione e la stasi.

Torno, ad esempio, a molti scritti di Banana Yoshimoto, dove c’è poca azione, ma molte sensazioni passano tra lo scritto ed il lettore. Qui, mi trovo in difficoltà. Ne leggo, seguo i pochi avvenimenti. Ma non riesco ad entrare nel mondo di Kawabata. Ne capisco forse un po’ con la testa, ma il cuore e lo stomaco rimangono distanti. E se non vogliamo tornare a Banana, anche “Il fucile da caccia” di Yasushi Inoue, pur nella sua lievità, mi comunicò molto di più.

“Fu colpito quando seppe che aveva annotato accuratamente tutti i romanzi e i racconti letti dall’età di quindici o sedici anni. … - Annotate anche le vostre critiche? – Non sarei mai capace di fare una cosa del genere. Semplicemente prendo nota dell’autore e dei personaggi e dei loro rapporti. … - Ma a che serve? – Proprio a niente.” (40)

Amitav Ghosh “Il palazzo degli specchi” Beat euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)

[tramato il 09 settembre 2018]

[tit. or.: The Glass Palace; ling. or.: inglese; pagine: 631; anno 2000]

Torno sempre con piacere ai libri di Ghosh, sia perché indiano di Calcutta (o di Kolkata) sia perché sono sempre dei grandi affreschi. Sociali, politici, storici, personali. Tanto che aspetto con piacere che tra qualche tempo mi verrà in mano l’ultimo libro della trilogia della Ibis (di cui qui non parlerò). Intanto mi sono goduto questo libro, con un’odissea indo-birmano che si stende per circa 110 anni. L’esimio libro di cure librarie lo consiglia come uno dei migliori libri per combattere la voglia di girovagare. Sarà. A me invece ha dato voglia di tornare in Birmania, dove forse manco da troppi anni.

Ghosh, in questa grande saga, mette molto (anche) di personale, trasponendo fatti della propria storia familiare, ma la bellezza del libro è che se ne prescinde tantissimo. Si viene presi dalla grande avventura che si svolge laggiù, ai margini dell’Oceano Indiano. E da tutti i suoi personaggi. Con la capacità, lieve ma di assoluta precisione, dell’autore di mescolare un po’ di elementi correttamente storici con le vicende personali e private dei suoi personaggi. Con i quali gioca abilmente, facendocene seguire lunghi tratti come se fossero i soli perni della vicenda. Quando poi i perni sono tanti, e quello che Ghosh ci vuole comunicare è anche la vita ed i sentimenti di tutti i popoli che si affacciano in quell’angolo di mondo.

Infatti, cominciamo a seguire Rajkumar, che dovrebbe nascere in India intorno al 1875, che vede morire tutta la sua famiglia in una epidemia, che tenta di diventare mozzo, per poi arenarsi a Mandalay. In un anno cruciale, il 1885, quando le forze inglesi decidono che hanno bisogno dei proventi delle piantagioni di tek, e per questo invadano e sbaragliano il timido regno di re Thibaw. Nella cui corte, a far da governante alle principesse reali, c’è anche la giovane Dolly, orfana indiana. I due, al colmo dei loro dieci anni di età, si guardano negli occhi, mentre l’entourage reale lascia il “Palazzo degli Specchi”, la residenza birmana del re (ricordo la città, e l’Irawaddy, il Gange dei birmani, ed altro ancora, ma non è di questo che si parla).

Poi seguiamo la crescita di Rajkumar, la sua abilità nel commercio, dietro le direttive e i consigli di un meticcio, Saya John. Seguiamo la vita in esilio a Ratnagiri, poco sotto Goa (quindi dalla parte opposte dell’India rispetto alla Birmania), del re, di Dolly, e del console indiano in rappresentanza della corona inglese. Nonché di sua moglie Uma Day, dell’amicizia di Uma con Dolly. Dell’arrivo, ormai quasi trentenne, di Rajkumar, delle dichiarazioni d’amore, della fuga di lui con Dolly, della crescita della coscienza della situazione locale di Uma, della morte del marito.

Poi arrivano i figli di Raj e Dolly, Neel, ed il giovane Dinu, gli altri giovani, come i gemelli Arjun e Marjun. C’è il ritorno dall’America di Matthews il figlio di Saya John, il suo matrimonio con la bella Elisabeth, la nascita di Neel, di Allison. Il lavoro intrecciato tra Raj e Matthews, gli amori e i dolori. Dinu con la poliomielite, da cui guarisce, anche se rimane claudicante.

Tutto intrecciato con la storia della dominazione inglese, della crescita di una coscienza sociale, l’emigrazione di Uma in America, dove prende coscienza piena della situazione e dove diventa un’attivista, prima “guerreggiante”, poi, al ritorno in India, conquistata dalla non violenza di Gandhi. Ci sono matrimoni, ci sono rotture, ci sono riconciliazioni. Raj tenta di riprendere il vigore dei tempi andati durante la Seconda Guerra mondiale, anche se ormai si avvia alla settantina.

 L’accidentale morte di Neel, il dolore insostenibile di Marjun, la vita militare di Arjun, la breve storia d’amore di Dinu e Allison. Tanti piccoli elementi che costruiscono un grande puzzle. Che non si parla solo del privato. Si parla della presa di coscienza degli indiani, della lotta con gli inglesi, della rottura interna durante la guerra dei soldati indiani che disertano per andare dai giapponesi a combattere gli inglesi ed accorgersi di essere caduti dalla padella nella brace. Si parla della Birmania, della sua indipendenza, di come abbia vissuto un grande periodo di pace, poi sconvolto dal golpe dei militari.

L’intreccio pubblico-privato è potente e ben gestito. Anche se, per forza di cose, gli ultimi anni scorrono velocemente. Che la saga finisce nel 1996, quando Amitav decide di cominciare a scrivere la sua storia. Finisce con piccoli tocchi di pennello, così come era cominciata con grandi colpi di cannone. Delicata la figura di Dinu, che decide di occuparsi per sempre di fotografia. Coinvolgente la figura di Bela, anche nel poco spazio dedicatole. Ammirevole il ritirarsi in un convento buddista di Dolly quando vede finiti i suoi spazi pubblici. C’è tanto sali e scendi delle fortune di tutti, anche se poi la fine ci lascia amaro in bocca. Pochi i personaggi che hanno uno svolgimento allegro delle loro vite.

Ghosh ci vuole far intendere non tanto questo dolore privato, quanto il fatto che questi dolori riflettono i dolori pubblici della vita nello scacchiere indo-birmano. Un libro complesso, in fine, che non ci farà dire come vedendo Tara, che domani è un altro giorno. Ma che ci dà la speranza che qualcuno riprenda le fila di Uma, di Dinu, di Bela, per arrivare ad una vera pace delle proprie sensazioni. E della vita di ognuno. Che si ritorni presto in Myanmar, ce n’è bisogno.

“È così che succede con la politica, se ti lasci coinvolgere, cancella dalla tua vita tutto il resto.” (264)

“Negli ultimi anni avevo cominciato a occuparmi di molte cose che prima erano appannaggio di mamma o di papà… [ora non ci sono più, ma] quando mi sveglio la mattina … continuano a venirmi in mente … devo dire questo alla mamma. … Ma non è esattamente una pena o in dolore … ma ti manca il respiro e sembra di soffocare.” (383)

Conclusioni

Finivo il mese scorso lamentando l’assenza di Terzani tra i libri viaggianti, cosa che invece qui si rimedia. Ma per viaggiare ci sono tanti e tanti libri, che forse, prima o poi, ne potrei fare una bella sinossi completa. Una lista che potrebbe partire da “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini per l’Afghanistan ed arrivare a “La casa della fame” di Dambudzo Marechera per lo Zimbabwe.

Sarà opera di altri scritti, spero.