domenica 29 luglio 2012

Donne isolane (o quasi) - 29 luglio 2012


Una bella infornata di scrittura femminile, molto isolana anche se non isolata. La sarda Agus e la pacatezza dei suoi rapporti isolani. La sicula Torregrossa che passa dalle minne dell’esordio alla manna (si proprio lei, quella del frassino). In mezzo Chiara Gamberale, con il suo libro d’esordio, che non conoscevo e che avrei voluto leggere al tempo dell’uscita. Ma quando c’è tempo e modo di rimediare va sempre bene.
Milena Agus “Sottosopra” Nottetempo s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 14/02/2012 – I: 15/02/2012 – T: 16/02/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno: 2012]
Solare. Milena Agus mi piace perché la trovo solare, allegra, sempre pronta (come uno dei suoi personaggi) a vedere il lato buono delle cose. Certo, ce ne sono anche di brutte, cattive, dolorose. Ed il libro ne è pieno. Ma mi rimanda in ogni caso più voglia di vivere che desiderio di morire. L’autrice un po’ ironizza su quel titolo (forse già ben sfruttato), ma qui assume tutte le valenze del caso. Anzi della casa. Perché c’è un sotto della casa dove vivono Anna con la figlia Natascia. Ed un sopra della casa, dove vive Mr. Johnson, un violinista americano che rinunciò alla carriera perché non aveva interesse ai soldi ma alla musica. Alienandosi Mrs. Johnson, che in realtà è sarda (ed è per questo che vivono a Cagliari) e si chiama di cognome Ugru. In mezzo c’è lei, la narratrice, il Pasticcio, come la definisce un personaggio, perché non riesce a fare mai quasi nulla di buono, facendo regolarmente cadere la bustina del tè nell’acqua con tutta la carta. E c’è Anna appunto, solare e ben disposta, che da sotto si prende cura del sopra rimasto solo, che Mr. Johnson non è capace di nulla, perché ha la testa altrove. E tra loro, vicini ai settanta anni, nasce un amore ritroso ma pieno di ripagamenti. Anche qui, con la Agus che rovescia, sottosopra, il detto che il primo amore non si scorda mai, ribadendo che meglio è l’ultimo, che porti per sempre con te. C’è Natascia gelosa del suo fidanzato, e che desidera una vita normale, non con quella madre che ogni volta parte per imprese disperate, innamorandosi a destra e sinistra, e rimanendo sempre scottata. C’è, ad un certo punto, Johnson junior, tranquillo e pacato professore gay, con figlio di provetta (Giovannino) ed amore palestinese (Omar). Belle sono le pagine con Alice che va in spiaggia con il bimbo, che alla fine risulta il più maturo di tutti, quello che ha sempre una parola pacata, che a scuola soggioga tutti con mitezza e ragionamenti (beh, altro sottosopra, i bambini più saggi degli anziani). E ad un certo punto c’è anche il ritorno di Mrs. Johnson, che scombina il nascente amore tra Anna e il violinista, ma che è l’unica a non essere sottosopra, l’unica che aspira a sentimenti e situazioni normali. Che proprio per questo, forse, potrebbe essere l’unica che non raggiunge i suoi scopi. Anche se si ricordano gli incontri con Alice, che parteggia per Anna, ma che non sa trattenersi dall’avere un rapporto umano con tutti. Alice che scopriamo essere anche quella che porta il maggior carico di cose brutte e cattive, come si diceva all’inizio. Un padre che prende una sbandata per una giovane, e non riuscendolo a gestire non trova di meglio che impiccarsi ed una madre che di conseguenza perde il filo logico dei pensieri. Ci sarebbe da diventar tristi, se questi sentimenti rimanessero sopra, invece vanno sotto. Ed esce, a poco a poco, il vero alter-ego dell’autrice. Mr. Johnson appunto, che è svagato, vegetariano, incapace di cucinare e di mettersi a posto casa e armadi. Ma che affronta la vita con il disarmante sorriso di chi ha una cosa dentro di sé (la musica, appunto) e su quella punta tutto. Consolazione e voglia di essere. E non importa se suoni sulle navi da crociera o faccia un concerto jazz a Parigi, lui è sempre contento. Così come sarà contento (anche se costretto) della scelta che dovrà fare: Mrs. Johnson o Anna? Questo non ve lo dico, anzi vi dico, andatelo a leggere. Che alla fine, pur se poteva essere più concludente, la sua inconcludenza sottosopra rallegra e riscalda. E fa quasi venire voglia di fare un salto a Cagliari, magari fuori stagione.
“Il sesso senza amore non esiste. Basta che uno dei due sia innamorato e già l’amore esiste.” (132)
“Un po’ di realtà e un po’ di invenzione. Del resto, non è questa la vita?” (134)
“Mia moglie … ha amato un violinista, mentre io ero uno che suonava il violino.” (140)
“L’età migliore per innamorarsi è proprio la vecchiaia … perché non avranno il tempo di stufarsi l’uno dell’altro. Finiranno loro, prima [dell’amore].” (160)
Milena Agus “Ali di babbo” BEAT euro 7,50 (in realtà, scontato 6,37 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 18/02/2012 – T: 19/02/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 118; anno: 2008]
Ed anche in questa sua prova precedente (temporalmente), tra l’altro foriera di premi, la nostra amica cagliaritana mi mette in una bella considerazione di spirito. Non è un romanzo travolgente, non è che succedano tante cose. Ma ci sono personaggi sinceri e robusti, che dallo scritto ci vengono incontro come cari amici. E rimangono lì a narrare le proprie storie. Come la ragazza, quattordicenne, io narrante delle vicende della propria famiglia, allargata ad amici e vicini. E il nonno. E madame. Questi, per me, i tre poli della vicenda. Che è si tutta percorsa da questo sentimento dell’abbandono paterno. Ma è un sentimento latente. Doloroso, ma latente. Il babbo che prima dell’inizio scompare, lui che non ha fatto altro che giocare con tutto, anche con la vita. E quando i debiti superano di molto i crediti, scompare. Muore? Si suicida? Che importa. Quello che resta nella protagonista è un po’ il senso dell’abbandono. E un po’ quello della protezione. E allora rivolge la sua attenzione a madame, la straniera (non in quanto non sia sarda, ma perché un giorno se ne andrà in Francia), che ha messo su un albergo in un punto magico, che soprattutto non vuole vendere ai lottizzatori cattivi. E che vive continuamente delle travagliate vicende d’amore. Come molti, si innamora sempre delle persone sbagliate, riversandoci tutto l’affetto che ha. E prendendo sonori schiaffoni finali. Ma anche lei ha questo fondo di ottimismo, per cui si rialza da ogni caduta e tira avanti, fino alla prossima. E c’è il nonno, nume tutelare della terra, di cui madame si potrebbe innamorare, se non fosse troppa la differenza di età. Che riprende tutti con i suoi consigli (e rimbrotti). Che ha sempre slanci umanitari (ed è lui l’anima dei non venditori, di quelli che, benché non abbiano nulla, si oppongono a chi vuole usare la loro terra solo per miserrime speculazioni). Slanci che nel pericolo porteranno a fargli salvare la famiglia e madame, ma non sé stesso. E dal pericolo, dal dramma, si sa, se ne può uscire frastornati. O con nuove speranze. Milena non ci sorprende che ovviamente sceglie la seconda via. Con il buon dottore, fino ad allora nel’ombra, che assurge a polo buono della vicenda. Per la mamma della protagonista, che finalmente riceve cure adeguate. E per madame, che, pur spaventata, trova finalmente un amore positivo. Ed spaventata non dall’amore, ma dalla possibilità che finisca. Ahi Milena, quante volte, quante persone hanno negato a sé momenti di felicità per questi cupi presagi. Non noi, che dopo anni ed anni, capiamo di volere quello che c’è fin che c’è. Poi il romanzo finisce, con quella sensazione che non sia un romanzo, ma un breve spezzone della vita di qualche persona che, durante la lettura, ci è diventata cara. Come molti dei personaggi della Agus. E che ci immaginiamo seguire dopo l’ultima riga, in altre storie, in altri momenti, in altre scorribande nel sole di Sardegna, correndo tra le rocce, verso un bellissimo mare. Ha ovviamente alti e bassi, momenti a volte lenti. Ma letto nella calma leccese mi ha dato un gusto in più di assaporare colori e sapori del Sud. E di cullarmi al sogno delle sue infinite magie.
“Domande così sceme fanno sparire tutta la magia. E senza la magia la vita è soltanto un grande spavento.” (21)
“Signore, tienimi quaggiù finché tu ritieni che serva a qualcosa” (41)
“Con quel ragazzo non poteva continuare, perché per lui un albero era soltanto un albero, mentre io stavo sempre lì a pensare a tutte le parole che si dovevano usare per dargli un senso.” (53)
“[Lui] le legge tutte le notti ad alta voce il capitolo di un romanzo e questo a lei piace tantissimo.” (57)
“Giovanni, con tutte le donne che ha avuto, ha deciso che sposerà proprio madame. Non se lo sa spiegare, è un mistero la ragione per cui qualcuno ci prende il cuore e a questo qualcuno ci affezioniamo, ci leghiamo.” (106)
“Essere felici non è facile … Dice che l’unico modo perché questa sua felicità non finisca è finire prima della felicità.” (114)
“Giovanni ha viaggiato in tutto il mondo, Cina, Giappone, Terra del Fuoco, Galapagos, Filippine, Islanda, Tibet, Siberia, Mongolia, Perù, Bolivia, ed altri posti ancora.” (114)
Chiara Gamberale “Una vita sottile” Marsilio euro 7 (in realtà, scontato 4,55 euro con Feltrinelli +)
[A: 19/01/2012 – I: 28/05/2012 – T: 30/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 136; anno: 1999]
Difficile parlare male di questo libro, ma anche difficile parlarne bene. Cioè, alla fine, mi è difficile parlarne tout court. Un libro dove angoscia e piacere vanno stretti abbracciati. Ma che sono contento di aver letto. E consiglio di leggerlo, potrà piacere o meno, non credo lasci indifferenti. Con l’unico consiglio: leggete prima il libro, poi l’introduzione. Sarà la mia mania, ma alle cose mi piace arrivarci da solo, e poi confrontarmi. Cosa che succede poco se si legge il libro in ordine. Un libro, giovane, acerbo, il primo scritto dell’allora poco più che ventenne Chiara. Che non racconta una storia compiuta, dall’a alla zeta, ma sfrutta un’interessante tecnica narrativa ad episodio. L’autrice – soggetto racconta e si racconta, attraverso piccoli bozzetti. Andando su e giù, nel mio immaginario, tra i quindici ed i venti anni. E parlando delle sue cose intorno. Gli amici, la scuola, il cane, i genitori. Tassello dopo tassello si costruisce la sua storia. E la storia della sua malattia. Che ad un certo punto, baratro e crivello, comincia ad avere problemi con il cibo. Cadendo in uno dei gorghi più spaventosi della gioventù. Un’anoressia feroce e tenace. Qui passiamo dai piaceri alle angosce. Una malattia che spaventa, che non si sa come prendere, che non si capisce da dove nasce (oltre che dalla propria testa, ma è forse troppo semplice). Se ne può uscire, se ne deve uscire. Con le proprie gambe, che solo maturando dentro di sé l’uscita si troveranno le forze per. E cercando, ovunque, aiuti. Anche se non è semplice, che quando si chiede aiuto, si è già verso una strada, non dico di guarigione, ma quanto meno di affrontamento della malattia. Come mi dicono i miei amici psicologi, quando si parlava dei mali della nostra adolescenza. Che più che anoressia, erano depressione. Quella che non ti uccide, ma ti isola, che ti fa vedere tutto difficile, molto ostile. E che quando la riconosci, sei sulla strada di affrontarla. Come farà Chiara con l’anoressia. Ma quanta fatica e quanta strada per riconoscerla. Quanto è difficile essere perfetti, e mantenere la propria perfettibilità. E riconoscere di poter sbagliare è anch’esso un passo verso l’uscita. La capacità di andare su e giù per tempi e spazi dello scritto dell’autrice, ci consente di afferrare pezzi di verità sin dall’inizio. Ci consente di farci un’idea del dopo anche durante. Che bellezza in una scrittura ventenne (ricordo sempre quell’inizio di Paul Nizan e del suo “Aden, Arabia”, dove chiede, più o meno, di non dirgli che i vent’anni sono l’età più bella della vita). Ed io empatizzo subito con Chiara, quando confessa nelle prime pagine il gusto di aver fallito una prova (un esame, o qualcosa del genere). Capire di poter sbagliare, e sopravvivere all’errore è uno dei passi più belli e difficili verso la consapevolezza (stavo per dire la maturità, ma non credo che esista un tempo della vita con questo nome). Poi riparte la sua cavalcata. Ed io mi appassiono alle sue amiche, Cinzia, Fabiana, Loredana, gli amici e gli amori, Pablo, Emiliano, il cane Jonathan e le passeggiate con gli altri canari, il padre (con quel ritratto folgorante, e quell’immagine di chi non butta fazzoletti di carta, impagabile), Vera. Insomma, tutto quello che la stessa Chiara definisce il suo piccolo Teatro dell’Assurdo. Che invece, proprio in quanto assurdo, è il teatro della vita quotidiana. Unica difficoltà, quei piccoli pezzi in corsivo, infondo ai capitoli, come a fare da contraltare alla sua scrittura per bocca dei suoi personaggi. Non so, ma mi sono rimasti ostici. Mi è dispiaciuto, a posteriori, averlo letto solo ora, ma dell’autrice ho imparato a voler bene al suo modo di scrivere con un po’ di lentezza. Il solito diesel…
“Non tutti amano leggere e inoltre non sempre ciò che a noi è gradito lo è anche agli altri.” (45)
“Mi piace … perché … nei pochi casi in cui non ha risposte, si pone però le domande giuste … crede nel Bene, nello sbagliare la strada per trovare quella giusta, nel dare sempre del proprio meglio anche a chi non se lo merita.” (53)
“Era quel non senso il senso del mio viaggio.” (69)
“Guarda che tu piaci malgrado, non per il tuo cervello, mi disse una persona e io ci sto ancora pensando.” (70)
“È bello poter chiamare una persona per nome!” (73)
“Mi piace stare con … perché davanti a un quadro rimane zitto.” (97)
Giuseppina Torregrossa “Manna e miele, ferro e fuoco” Mondadori euro 10
[A: 30/05/2012 – I: 30/05/2012 – T: 01/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 382; anno: 2011]
Un libro cotto e mangiato. Nella pausa di pranzo del mio nuovo intenso lavoro verso Porta Furba, decido di vedere com’è lo spazio Feltrinelli Appio, che non avevo ancora visitato.  Due fermate di metro, e, prima di entrare, mi ritrovo una dimensione diversa. Certo non ricordo tutto ma il caseggiato alto, con i mattoni a vista da cui sbuco è proprio quello della mia infanzia. Mi ricordo solo il balconcino da cui, sui sei - sette anni mi affaccio a vedere il mondo. Con l’infanzia in testa, entro in questo ennesimo spazio libreria, al solito accogliente. Mi aggiro un po’, e vedo l’economica del secondo libro della ginecologa siculo-romana (dove sempre al fondo ritroviamo il suo tema principe, il rapporto tra genitori e figli). Preso. E tra una metro e l’altra, tra Porta Furba e Cipro, andando e riandando, in due giorni è divorato. Un libro che mi è piaciuto nella prima parte, ma che poi è un po’ scivolato sui calcagni, come un corridore che dopo uno scatto iniziale non riesca a mantenere il passo, e rallenti molto. La storia è un bell’affresco della Sicilia di metà Ottocento, con qualche punta sociale, con qualche spunto garibaldino e borbonico. Ma soprattutto (e nella prima parte esce fuori bene) la storia della famiglia Gelardi, divisa tra la raccolta della manna, guidata dal padre, e quella del miele, guidata dalla madre. Intanto, per chi fosse a corte di nozioni arboricole, prima che bibliche, la manna è un essudato dolcissimo che cola da incisioni fatte alle piante di frassino. Molto nota nell’antichità (e molto nutriente, come ci insegna la Bibbia), ora la sua produzione è molto ristretta (un paio di coltivazioni sulle Madonie), dato che ha preso piede la fruizione del mannitolo di sintesi (quasi equivalente e più economico, ed usato in farmacologia). Del miele non dico nulla, solo che ne vado pazzo. La famiglia Gelardi viene allietata dalla nascita della bimba Romilda, che ha la capacità di farsi capire dalle api. Prima di lei, tre maschi che però non riescono a prendere le redini della famiglia. Vuoi perché un po’ gay (Nino), vuoi perché troppo irrequieto (Tano), vuoi perché un po’ malaticcio (Mario). Sarà lei Romilda, dopo un lungo percorso esteriore ed interiore, a ritornare al mestiere avito, di apicoltrice (e questo e facile) e di mannalora (intraducibile termine, il cui equivalente italiano sarebbe “frassinicoltore” ma è orrendo). Lungo percorso che si intreccia con quello del barone Francesco di Ventimiglia, rampollo ed erede della suddetta famiglia, che però non si rifà al toponimo ligure, ma alla famiglia siculo-normanna la cui nobiltà affonda le radici nel Trecento, e che ad un certo punto aveva il dominio su buona parte dell’isola (soprattutto nell’entroterra delle Madonie) con uno sbocco al mare verso Cefalù. Qui la storia si fa “inventata”, ma con bell’ingegno. Che don Francesco, in realtà, sarebbe un popolano, adottato in gioventù dal barone senza prole. Che ben presto fa suo il comandamento del padre (“Cumannari è mejo ca’ fottiri”) e pensa al suo feudo, senza lasciarsi lusingare dalle femmine, ma anche dalle altre sirene (borboniche o garibaldine che siano). Solo più che cinquantina, incontra la dodicenne Romilda, e decide di impalmarla. Romilda è lusingata dal baronato, ma non si trova, costretta tra mura, lei abituata all’aria aperta. Darà una discendenza ai Ventimiglia per non far morire il nome. Ma appena sarà possibile, e cioè alla morte di Don Francesco, lascia i figli gemelli dodicenni e ritorna nel suo paesino delle Madonie, per fare quanto dissi sopra. Certo la storia è piena di tanti altri piccoli risvolti, che lascio al buon lettore. E di piccoli elementi campestri che mi sono piaciuti (nonostante la mia scarsa affinità con le piante). Ed altro che meno mi ha convinto. Pur tuttavia, ritengo che un libro che ti tiene incollato alla pagina (ovvio nei momenti che si può) ha un che di buono che, nonostante tutto, vada tenuto presente e coltivato.
“Spesso i figli smentiscono le affermazioni dei genitori, tradiscono le loro aspettative, deludono le loro speranze, e si rivelano per quello che sono: persone normali come tutte le altre.” (74)
“Era fatta così …  più amava e più trattava male.” (158)
“Le inquietudini sono dentro di noi, e sono le circostanze a dare loro corpo.” (238)
“Spesso i figli sono il più grande mistero nella vita dei genitori.” (354)
Siamo alla fine di luglio, con un caldo che non da tregua, e che mi toglie tutte le forze. Gli amici già partono (almeno i più fortunati) e chi non parte studia. O studia essendo partito o studia di partire. Insomma sono stanco e vado presto a dormire, avendo una settimana di consegne e pensamenti.

domenica 22 luglio 2012

Ultimi classici - 22 luglio 2012


Ultima tornata di lettura della Biblioteca del Novecento della mamma. Due italiani e due sudamericani. Di peso, ma non di gusto (almeno mio). Soprattutto deluso da Gadda da cui mi aspettavo di più. Non mi aspettavo tanto dalla Morante, e tanto è stato. Speravo che Soriano mi facesse sorridere, ma non è stato. Rimane Gabo, sperando che la malattia di cui sui giornali non ci porti via le sue favole colorate.
Osvaldo Soriano “Triste, solitario y final” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 11/02/2012 – T: 13/02/2012]
[titolo: Triste, solitario y final; lingua: spagnolo; pagine: 189; anno: 1974]
Ricorrendo il trentennale della prima lettura del libro dell’argentino Soriano, ho voluto rileggerlo per vedere cosa cambiava, che nuove e diverse impressioni mi lasciava. Anche perché ne avevo una traccia labile nella memoria. Qualcosa di interessante, ma poi i ricordi finivano. Basiamoci allora su questa lettura. E devo dire che gli anni sono passati per tutti. Il testo è datato, la scrittura l’ho trovata stanca e poco coinvolgente. Una sarabanda nel mito americano, con l’idea di metterlo in crisi, di minarlo. Forse era così, ma ora non mi coinvolge affatto. La storia prende l’avvio con uno stanco Stan Laurel, che ormai vecchio e solo (essendo nel frattempo morto il suo sodale Oliver Hardy) si rivolge ad un detective per sapere come mai nessuno lo vuole più nei film. Ovviamente il detective è Philip Marlowe, di cui gustiamo il tratteggio che ne fa Soriano, saltabeccando tra i libri di Chandler. Già qui poteva esserci dell’interesse, dell’ironia. Ma lasciamo ben presto Stanlio, e ritroviamo Marlowe quindici anni dopo, che visitando la tomba del mingherlino, si imbatte in un giornalista argentino, tal Osvaldo Soriano, venuto in America per scrivere una storia sui due comici. Philip e Osvaldo si industriano per trovare notizie, e si imbattono nel mondo della celluloide americana. Si scontrano con una banda di gaglioffi capitanata da John Wayne. Hanno una brutta storia cercando di risolvere un problema di adulterio. Si intrufolano nella cerimonia degli Oscar, dove rapiscono Charlie Chaplin. Dove Soriano bacia una stralunata Jane Fonda. Dove si susseguono sparatorie ed inseguimenti. E bevute. E tristi serate giocando a scacchi e consolandosi con il gatto di Marlowe. Ma tutto senza un vero perché. Sembra una brutta copia di un hard boiled americano, dove incontriamo tanti personaggi noti. Dove Soriano l’autore prende in giro (o cerca di farlo) sia i tic dello star system americano, sia la mania argentina di guardare al Nord America come fonte di soluzione di tutti i problemi. Ma se vediamo le date, ci accorgiamo che da poco c’è stato il golpe in Cile. Ed in poco tempo, anche l’Argentina sarà travagliata da colpi di stato militari ed altre nefandezze (basta rileggersi qualche pagina delle Irregolari di Carlotto per ricordarsene). Tanto che Soriano stesso sarà costretto a fuggire e riparare per almeno quindici anni in Europa. Tornato, finalmente vede premiati i suoi sforzi di scrittore. Premi, riconoscimenti. Magistrali scritti di calcio, la sua grande passione. Per poi morire a soli 54 anni di cancro ai polmoni. Certo, questo scritto triste e solitario è anch’esso un paradigma di Soriano, della sua visione del mondo (e del suo amore per i gatti). Ma non ha più la freschezza di trent’anni fa. Ne esce una storia stanca, piena di allusioni (e forse illusioni), che si legge e si apprezza legata imprescindibilmente con la vita di Soriano stesso. Non è un caso che vi si ponga dentro la storia. Ed in una parte di azione in prima persona, mentre il libro veniva scritto nei sei mesi di mobbing che il suo giornale gli imponeva. Gli veniva pagato lo stipendio, ma non veniva pubblicata una riga dei suoi articoli in quanto era considerato troppo di sinistra. Leggendo il romanzo in controluce con Soriano stesso e le sue illusioni, se ne rivalutano aspetti e risvolti. Capacità stilistiche di parodiare gli americani. Tristezza per essere lasciato lì, solitario anche lui. E senza una spalla su cui innescare le sarabande comiche di Stanlio e Ollio. E quindi, pur con tutta la benevolenza di testa che gli tributo, mi lascia un po’ deluso. Mi consola solo aver scoperto che nel mondo spagnolo la coppia comica era chiamata “El Gordo y el Flaco”. Muy hermoso!
Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 15/04/2012 – T: 19/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 256; anno: 1957]
E continuiamo a parlar male dei “capolavori” della letteratura. Dire che questo pur bello e sofferto libro non mi è piaciuto è usare perifrasi per mitigare la verità. L’ho trovato non brutto, ma illeggibile e inconcludente. Uno sfoggio di cultura, intellettuale, che gira tanto nel cervello senza neanche aver la forza di arrivare alle orecchie. Conclamato epitome del romanzo giallo, da leggere per le sue invenzioni letterarie e linguistiche, nonché per un’ironia sottile e palese critica del ventennio, mi ha lasciato freddo e deluso. Dicevo illeggibile (e vedetene poi l’esempio che riporto, scelto aprendo una pagina a caso), e mentre lo leggevo mi torna in mente l’attuale illeggibilità di Camilleri. Anche lì, piene sono le pagine di parole astruse, ma hanno un loro andare, e si sciolgono nel cervello, facendoci solleticare ricordi e riaffiorare sensazioni. E certo l’uso del “romanesco” aiuta a far sprofondare il libro nei meandri della sguaiatezza di una lingua incolta, di poco nobilitata dal Belli o dal Trilussa, ma che allungandosi fuori del sonetto, lascia soltanto una scia di inascoltabile durezza. Che viepiù risalta sulla pagina, che forse ad ascoltarla, anche se (e lo dico da romano) non mi piace, ha comunque un suono. Purtroppo non un segno. Secondo poi, se si voleva un giallo metafisico, che fa vedere ed in maniera forte insensatezza e solitudine della vita, consiglio di dedicare tempo e spazio a Dürrenmatt. Ma si dice, devi andare dentro la psicologia dell’autore, alla sua visione del mondo. E poiché per Gadda il mondo è un guazzabuglio senza senso, così ne risultano i suoi scritti. Tuttavia, se ne scrivo della mia visione, io terrei conto anche della direzione della comunicazione tra me ed il lettore. Gadda no. Se ne frega, se tu lo leggi o meno. Scrive per se, per le sue frasi tornite, e per il suo trancio di vita che va a rappresentare. Perché è uno stralcio, una storia che si svolge in pochi giorni, ma che (e qui non sto svelando misteri) non si chiude. Seguiamo il protagonista, il colto commissario Ciccio Ingravallo che sa di parole e di filosofia, da bravo molisano sceso a Roma (mi sembra quasi un Di Pietro!), colpito dalla barbara morte della conoscente Liliana. E ne seguiamo le indagini, sue e dei suoi accoliti poliziotti e carabinieri. Si fanno belle foto della vita romana del ’27, tra via Merulana e Piazza Vittorio, tra le Frattocchie e Marino, tra il rione Monti e Santo Stefano del Cacco. Vediamo i signori, il questore, il maresciallo, le puttane, le ricamatrici, il mariolo, il fratellino furbo, la Tina, l’Ines e la Zamira. Ne seguiamo le gesta per poco. Le adombriamo, le inquadriamo. Così come seguiamo il cavaliere impoverito, la coppia sussiegosa della scala B, quella dei ministeriali, non quella “ricca” della scala A, dov’era la signora Balducci, e la contessa. Entriamo per un po’ a compatire il bisogno di prole della morta, il cercar caldo altrove del marito, il signor curato ed i suoi testamenti olografi, Iginio che forse ha fatto il furto, le liti di Camilla e della cugina, e via narrando, quasi a raccontar brani di mini-racconti, quasi a fermarsi “ad ogni stormir di fronde”, per seguire un’idea, un gesto, per capirlo e riportarlo sulla carta. Il buon Ciccio ha verso la fine, direttamente o indirettamente, tutti gli elementi del quadro. E ci si aspetta che ne tiri una conclusione, che annodi dei fili. Invece Gadda lascia tutto così, slabbrato e decostruito. Forse io lettore ho capito, ma lui, lo scrittore non se ne interessa. Che anche trovare un colpevole, o descrivere una storia compiuta sarebbe dare un senso ad un mondo che non ne ha. E tutto ciò mi ha fatto, pagina dopo pagina, montare una rabbia verso di lui, verso la sua scrittura, verso tutta questa montagna che non riesce a partorire neanche un topolino. L’ho finito di corsa, sperando fino all’ultima pagina di trovare quel piccolo lume che avrebbe riscattato la fatica di averlo seguito fin lì. Niente. Assolutamente niente. Completamente, definitivamente niente. Da chiudere e riporre molto nascosto nella libreria, sperando che nessuno lo trovi, ed abbia quindi una piccola idea di leggerlo. Per favore, non fatelo.
“Pareva che la contessa si ricusasse alla diligenza e alla pertinacia dell’inchiesta, non volendo far fatica a riflettere: tutta trepida, tutta rorida di speranze in ritardo, nel sogno e nel carisma delle ahimè rasentate ma non patite sevizzie. Una policromatica sventatezza vaporava dai suoi foulards color lillà, dal suo baffo bleu, dal chimono tutto gorgheggiato di uccellini (non erano petali, erano strani volatili, tra gli uccelli e le farfalle), dai capelli giallastri con tendenza a un Tiziano scarruffato, dal nastro viola che li raccoglieva quasi in un cespo di gloria: sopra i vagotonici abbandoni dell’epigastro e del volto vizzo, e i sospiri della scampata ahimè brutalizzazione ma non rubalizio degli ori.” (27) [riporto integralmente, ed è una delle parti in italiano, pur con quelle scivolate sulla vagotonia e le ruberie; se uscite indenni da queste righe, potete passare al romanzo; ricordo solo che queste dieci righe servivano solo a spiegare che alla domanda del commissario la contessa non rispose]
Elsa Morante “La storia” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 07/05/2012 – T: 29/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 603; anno: 1974]
Un libro denso, complicato (tanto che sembra semplice, e questo è uno dei pregi della scrittura della Morante). E pervaso, alla fine, di un assoluto pessimismo. I piccoli della terra saranno sempre schiacciati: dai grandi, dai furbi, dai cattivi, ma soprattutto dalla Storia, quella con la S maiuscola. Nelle seicento pagine del libro seguiamo la storia di 6 anni della vita di Ida Ramundo, maestra calabrese trasferitasi a Roma negli anni ’30. La capacità della Morante è quella di introdurre personaggi, seguirli, farne digressioni, poi ritornare nel corso principale delle cose. Poi gli stessi magari li ritroveremo più in là, in altre occasioni e vicende. Ma avendoli ben dipinti, non abbiamo problemi a riconoscerli, ed a non perderci nella folla delle cose che riempiono la vita di Ida e dei suoi figli. Seguiamo così le vicende giovanili di Ida, la sua nascita da un’ebrea veneta, il matrimonio con il marito, il trasferimento a Roma, la nascita del figlio Nino, la giovinezza di Nino negli anni rombanti del fascismo. E poi la morte del marito, il vivere sola con quel figlio che cresce nel quartiere di San Lorenzo (ripercorrendo un po’ le strade della sua giovinezza romana), la paura della solitudine, lo stupro subito da un soldato tedesco di passaggio (che morirà in Africa poche pagine dopo), la nascita di Useppe. E poi la vita, scandita anno per anno da bollettini di aggiornamento degli avvenimenti della Storia, che servono da controcanto a quelli della storia che stiamo seguendo. E quindi la partenza di Ninuzzo per il fronte interno, il bombardamento alleato di San Lorenzo, con la morte del cane Blitz, la distruzione della casa di Ida, il suo rifugiarsi in quel di Pietralata (allora quasi campagna). E passa l’8 settembre, facciamo la conoscenza dell’anarchico Carlo-Davide, il ritorno di Nino passato con i partigiani. Tutti i personaggi del casone di Pietralata (con la bella figura di Eppetondo, come Useppe chiama il vecchio Giuseppe secondo, e la dura descrizione della sua morte per mano dei fascisti), i va e vieni di Nino, le paure di Ida di essere riconosciuta come ebrea. Ma non lo sarà, e riuscirà a tornare verso la città, finendo in quel di Testaccio (vero enclave della giovinezza morantiana). Finisce la guerra, Nino dopo un po’ d’animo ribelle, si dedica a traffici ai margini della legalità, insieme al suo nuovo cane Bella. Cane che, quando Nino muore in un incidente d’auto, diventa il nume tutelare di Useppe e di Ida. Ritroviamo Davide, che scopre le droghe e si sucida lentamente (così come avrebbe voluto fare Elsa, senza riuscirci). Troviamo le passeggiate romane di Useppe e Bella, fino a che Useppe non viene colpito dal “grande male”, ed anche lui muore, con Ida che impazzirà dal dolore e Bella che dovrà essere abbattuta perché non avrebbe più lasciato il piccolino. Insomma, muoiono tutti! Ma seppur nella prima parte, nei primi quattro anni di guerra, la descrizione e la parola si fanno forti e coinvolgenti, tutte le ultime duecento pagine sono faticose. Piene di proclami (velati o meno) contro il potere e le sue degenerazioni. Molto anarchiche così come lo era Elsa (tra l’altro zia della Laura cinematografica). Si fa soprattutto fatica a seguire lo sproloquio di cinquanta pagine che accompagna gli ultimi gesti di Davide. Certo, bell’esercizio di stile, ma dal contenuto veramente ingarbugliato. Di certo, in ogni caso, preferisco la sua scrittura a quella di suo marito Moravia (di cui ho già parlato, e discretamente male). Sarà lunga e lenta (tanto che ho faticato quasi tutto il mese di maggio per arrivare alla fine), ma non ti abbandona, anche nei momenti più involuti. Ma alla fine tutto questo pessimismo un po’ mi disturba, ed il giudizio mio personale e finale volge più verso il basso. Sarà la vita, ma ogni tanto un sorriso, ci vuole, no?
“Era nata … sotto il segno del Capricorno, che inclina all’industria, alle arti e alla profezia, ma anche, in certi casi, alla follia e alla stoltezza.” (25)
Gabriel Garcia Marquez “La mala ora” Mondadori euro 9 (in realtà gratis con Feltrinelli +)
[A: 18/03/2012 – I: 01/07/2012 – T: 04/07/2012]
[tit. or.: La mala hora; ling. or.: spagnolo; pagine: 177; anno 1962]
Continuo a leggere del grande Gabo, l’unico sudamericano di cui assorbo le parole e le storie senza esserne a volte respinto. Ci sono dei libri di Jorge Amado che adoro ed altri che non riesco a leggere. Così come di Vargas Llosa. Ho sempre avuto difficoltà con Manuel Scorza o Paolo Coelho. Nessuna, ovvio, con gli argentini, che in fondo non sono sudamericani (e qui si potrebbe aprire una discussione infinita). Ma Garcia Marquez no. Alcuni mi piacciono di più altri meno (com’è naturale, ed ultimamente batto molto su questo tasto), ma nessuno mi respinge. Tutti mi avvolgono nelle loro storie intrecciate, quasi brandelli trasposti di un’infinita autobiografia (la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla, come ha detto in un suo libro). Il romanzo in sé tuttavia non ha una sua struttura definita e compiuta. Sono circa tre settimane della vita di una cittadina colombiana, scandite dal vecchio prete, da San Francesco del 4 ottobre a Sant’Ilarione del 21 (e qui si nota l’unico elemento datato del libro, che nel ’69 Ilarione di Gaza è stato posto tra i santi pseudo-storici). Cittadina eponima che viene scossa dall’affissione, sulle porte di alcune case, di fogli diffamatori (pasquinate le chiama Gabo). Non sono importanti di per sé, tant’è che, pur motore della vicenda, non verrà risolto il mistero dell’autore (o degli autori) delle pasquinate. Quello che interessa l’autore è da un lato affrescare una situazione, un momento di vita, dall’altro utilizzare la pasquinata come elemento destabilizzante. Perché di pagina in pagina tratteggia vari personaggi, quasi a farli assurgere a simboli (per poi collegarli, e riprenderli in o prenderli da altri scritti come ci illustra la bella introduzione di Angelo Morino). Il padre che in gioventù diceva messa a Macondo. L’anziana vedova che si ritrova sola in una casa che già conoscevamo dai funerali della Mamà Grande. Il barbiere sovversivo. Il dentista che toglie un dente all’alcalde senza anestesia. E poi l’alcalde che attraversa tutto il romanzo con la sua prosopopea da signorotto locale, grassatore, sfruttatore, dittatore. Sempre con il fucile in mano e sempre dalla parte del più forte. Ed il giudice che da un anno non mette piede in tribunale preferendo stare con la sua amante negra ed incinta. La bella Trinidad insidiata dallo zio. La sfuggente Maya. L’onesto contabile Caramichael, che proprio per la sua onestà finirà in prigione. Il focoso Pepe involontariamente artefice dei fuochi finali. E tanti altri, piccoli o grandi attori di questo palcoscenico che si chiama vita. Perché poi è questa che esce fuori da queste pagine ancora pre-cento anni. Siamo nel lato realista, anche se non sfugge qualche irrisolta irrealtà. Donne innamorate che prima non lo erano e poi sono invecchiate di venti anni. Bambini che ritroviamo la pagina dopo adolescenti. Tutto un mescolarsi, ma poco importane. Non è questo che dobbiamo seguire. Dobbiamo seguire Gabo che cerca di dare messaggi sociali, sul degrado dei costumi sud-americani (non quelli morali, ma quelli legali). È ancora arrabbiato (così come in quel primo bellissimo “Racconto di un naufrago”). Ha ancora speranza. Poi la speranza realistica svanirà, per dar corpo a momenti altri di libertà. Bellissimi ed ineguagliabili (ricorderò sempre l’estate del ’70, verso fine luglio, quando nel pomeriggio inizia a leggere di Macondo, e non mi staccai più fino alla colazione del giorno dopo). Ho già detto che, nonostante non pienamente riuscito, mi è piaciuto? Si? Beh, lo ridico e vi saluto, volando nella mente tra il caldo equatoriale e l’umido di questa Roma estiva ed asfissiante.
“Il caldo è una questione mentale … Tutto consiste nel non farci caso.” (103)
Uno dei miei affezionati tramati mi chiede aiuto per libri mirati: libri da pensare, libri da coltivare, libri per la sera e libri per la notte. Io che leggo sempre e ovunque ho difficoltà a separarne generi, oltre la discriminante di fondo: libri da leggere – libri da non leggere. Comunque anche qui, come sugli scrittori argentini, si aprano le porte ai contributi.

domenica 15 luglio 2012

SpensierataMente - 15 luglio 2012


Fa troppo caldo per pensare, ed allora come dice il mio amico architetto, qualche libro non dico da ombrellone, ma senza meno per staccare e godersi qualche (più o meno) bella avventura. Sempre gradevole trasferirsi in Egitto al seguito di Amelia Peabody e delle mediorientali avventure. Abbastanza rilassante tornare nella Bologna del Trecento con Mondino de’ Liuzzi. Immancabili poi le avventure scaturite dalla penna di Cussler e dei suoi sodali, qui rappresentati dalla serie del capitan Cabrillo e dal filone parallelo degli archivi del NUMA, seguendo le storie di Kurt Austin.
Elizabeth Peters “Il caso del sarcofago scomparso” TEA euro 9 (in realtà, scontato 7,30 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 23/02/2012 – T: 13/03/2012]
[titolo: The Mummy Case; lingua: inglese; pagine: 339; anno: 1985]
Siamo così al terzo volume della serie dedicata all’egittologa Amelia Peabody. L’autrice, che con il suo vero nome di Barbara Mertz è realmente un’egittologa laureatasi a Chicago, negli anni settanta inizia a scrivere questa saga, che unisce un senso del mistero blandamente alla Miss Marple, con una forte connotazione archeologica. È stato questo lato, a me che son cari deserti ed egizie località, che mi indusse alla lettura, oltre ad un piccolo errore grafologico. Avevo per anni, e con diletto, seguito le avventure gialle di un sacerdote del 1300 inglese, Fratello Cadfael scritto dall’ottima Ellis Peters. Ovvia quindi la confusione iniziale. Dopo un po’ di mugugno, tuttavia, anche se le storie non sono “super-avvincenti”, me ne sono affezionati. All’aria scanzonata della buona Amelia, al rapporto appassionato che ha con il marito, l’egittologo Emerson (sposato nel primo libro), all’amore, pur se contenuto, con il figlio Walter jr. soprannominato Ramses (per la somiglianza con il grande faraone) e nato nel secondo libro. In questo terzo è la prima volta che tutti e tre si recano in Egitto, e si apprezza presto il carattere antagonista del piccolo Ramses, genietto e molto attento alle parole, che però riesce a raggirare per fare quello che vuole. Ora, secondo la cronologia, Amelia è sulla quarantina e Ramses dovrebbe avere nove anni. Dato che gli scavi venivano sospesi durante l’estate egiziana (e ti credo), l’azione si svolge generalmente a cavallo d’anno. Qui siamo nel periodo 1894-1895. È ancora un periodo oscuro per gli archeologici. Ancora lontano Carter e Tutankhamon. Ma pieno di avventurieri l’Egitto. Gente che trafuga reperti depauperando un territorio che ben altro meritava. Emerson cerca di ottenere il diritto di scavo di siti piramidali, ma viene estromesso dai corrotti francesi. Si trova così con moglie e figlio a scavare in siti marginali. Facciamo però la conoscenza di un’altra fetta egizia importante. La cultura copta. Ed anche di altri masnadieri che si aggiravano nel mondo del XIX secolo, i missionari di sette astruse, come in questo caso la non altrimenti nota “Figli di Gerusalemme”. Abbiamo però l’agio di seguire Amelia aggirarsi per Khan el Khalili, e scendere in centro attraverso l’affollatissima Muskli, una strada che ricordo come una delle più difficili da percorrere, tanto è piena di gente e bancarelle. E si imbatte in misteri. Un manoscritto copto che scompare. Un sarcofago che appare e poi si nasconde. La morte di un mercante. Ed altre avventure che vanno di pari passo con alcune scoperte archeologiche e con la difficile convivenza tra mussulmani, copti e missionari. La nostra autrice ha così agio di mandare ottimi strali all’indirizzo sia dei predoni locali che spogliano le tombe per rivendere i reperti a collezionisti senza scrupoli. Sia anche agli archeologici d’accatto che “non saprebbero riconoscere una piramide neanche se si presentasse da sola”. Tra una fuga nel deserto, un perdersi nella Piramide per essere salvati dal figlio, ed altre avventure, Amelia ed il marito riescono a risolvere il caso, che anzi si rivela un po’ più complicato dell’iniziale scomparsa del sarcofago di cui sopra. Per inciso bella l’idea di un sarcofago che si nasconde (o è nascosto) tra altri sarcofaghi. Rilassante lettura per riprendere a macinare altro e più impegnativo, fa sempre piacere per il suo lato sempre esatto nel trattare le materie archeologiche. Tra un po’ si affronterà anche il quarto volume.
Alfredo Colitto “Il libro dell’angelo” Piemme euro 11
[A: 23/02/2012 – I: 23/03/2012 – T: 28/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 307; anno: 2011]
Un onesto prodotto di uno scrittore, di cui ho già parlato, che, se nel giallo moderno trova un po’ dei limiti, dà il meglio di sé in questi thriller storici. Perché con questo siamo al terzo romanzo che vede al centro Mondino de’ Liuzzi. Ambientato nel 1313 in Italia, in genere a Bologna, dove il Mondino storico visse ed operò in qualità di medico, scrivendo come dissi un’opera fondamentale per la storia della medicina. In questo nuovo episodio, il centro della storia si sposta da Bologna a Venezia, dove Mondino si reca su richiesta della sua amica araba Adia. Forse un po’ stanco del lato “medico”, Colitto accentua molto il lato avventuroso, riuscendo comunque ad imbastire una trama dignitosa. Sul lato medico, Mondino ci riserva solo un decotto di corteccia di salice per combattere la malaria (palliativo del chinino non molto diffuso) ed una sutura con ago e filo, che allora si cauterizzavano e basta le ferite, sperando di evitare la cancrena. Ritroviamo inoltre, insieme a Mondino, gli elementi di base degli altri due romanzi: Adia, appunto, mussulmana convertita in odore di stregoneria, in quanto donna, intelligente, e dedita alla medicina, e Gerardo, il templare in minore. La capacità di Colitto è di imbastire un romanzo senza perdere di vista cosa è successo prima, e soprattutto, rispettando il contesto storico in cui si muove. C’è la sola licenza della descrizione del Palazzo Ducale di Venezia, che è di mezzo secolo più tardo, ma l’autore confessa di averlo fatto di proposito. Bravo Alfredo. Insomma, da un lato continuano le vicende dei templari, che siamo al tempo della persecuzione di Filippo il Bello e di Clemente V. Gerardo deve quindi portare in salvo il buon Pietro, templare che custodisce un segreto (che non vi dico) e che deve rifugiarsi in Portogallo sotto la protezione di re Dionigi. Ed è inseguito dai cattivi scherani francesi. Mondino invece, proprio alla vigilia delle nozze con la bella Mina De’ Gandoni, viene chiamato da Adia per salvare l’ebreo Eleazar, ingiustamente accusato di aver ucciso tre bambini. E Mondino si precipita a Venezia, dove si scontra con il potere cittadino, e si trova invischiato anche nelle lotte tra il Consiglio dei Dieci e la corte del Doge. Anche perché Eleazar custodisce il segreto di un libro sacro agli Ebrei, una tavola su cui, si dice, siano riportate le parole che un angelo ha dettato a Noè. Tra negromanti, assalti di sgherri, prigioni, fustigazioni, lebbra, e attacchi di malaria della bella Adia, si dipana la matassa, anche se si complica dato che Gerardo e Pietro, per sfuggire ai francesi, fuggono da Bologna proprio a Venezia. Dove tutti i destini dei nostri amici si scontrano con i cattivi. La capacità di Colitto è anche di rappresentare il potere veneziano non in bianco e nero, ma con molte tonalità di grigio, come tutti i poteri è corretto siano dipinti. Ma tra bagni non voluti nei canali, mangiate di anguille in saor, scioglimento di rebus cabalistici, nonché il precipitoso arrivo anche di Mina a Venezia, che sente il suo Mondino in pericolo (doppio: della vita ma anche della bellezza di Adia), la storia si dipana, si imbroglia e poi riceve un dispiegamento finale, in un certo senso comunque convincente. Anche se le nozze finali di Mondino lasciano un dubbio: sono il punto finale o apriranno le porte ad altri episodi? Intanto ci siamo goduti una decente ambientazione storica, con alcuni tocchi pittorici di calli e campielli, di gondole e vetrerie di Murano, di passeggiate per la Riva degli Schiavoni e di visite alle belle chiese di Venezia, che lasciano in ogni caso un senso di piacere, per chi, come me, ama e da sempre questa città (anche se non potrei viverci, troppo umido!).
“La verità, quando tra due persone c’è un amore profondo, è una forza, non un pericolo.” (306)
Clive Cussler & Jack du Brul “Skeleton Coast” TEA euro 8,90 (in realtà, scontato a 6,23 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 24/05/2012 – T: 28/05/2012]
[titolo: Skeleton Coast; lingua: inglese; pagine: 478; anno: 2006]
Nuovo, anche se non ultimo, episodio del filone numero 3 degli scritti cussleriani. Quello che ormai viene identificato come “Oregon files (OF)”. Sicuramente non all’altezza delle avventure di Dirk, ma tutto sommato migliore delle ultime prove dedicate al capitano Juan Cabrillo. Intanto, pur ricalcando l’impianto usuale degli OF, dove c’è sempre all’inizio un’operazione del capitano protetta e/o finanziata dalla CIA, questa non rimane isolata (nelle precedenti prove serviva solo ad introdurre il manipolo dei mercenari dell’Oregon), ma si inserisce nel contesto narrativo, diventando una ruota del meccanismo generale. Inoltre, riprendendo uno stile delle avventure di Dirk, si premette un prologo, ambientato nel passato, che diventa anch’esso uno degli elementi della narrazione globale. E poi ci sono altri due elementi che me lo hanno fatto gustare: l’aiuto che i protagonisti dei “NUMA files” (quelli scritti con Kemprecos) danno ad un certo punto ai nostri ed il mantenimento del titolo. Non era facile rendere in italiano il toponimo della lunga costiera namibiana piena di navi affondate (e noi si è ben vista!) perché intitolarlo “Costa degli Scheletri” avrebbe associato immagini diverse. Quindi lasciamo l’indicazione geografica corretta. Come corretta è l’indicazione della corrente marina costiera del Banguela, di 8° più fredda delle acque circostanti, per cui la zona è pervasa da nebbie per quasi tutto l’anno (così che molte navi non vedono la costa e si arenano lungo i 400 km di costa). Forse l’unico dato un po’ spurio (dal punto di vista geografica) è la facilità con cui passano dal Congo a Cabinda (discretamente vicini, essendo la città petrolifera nella costa nord dell’Angola) giù fino a Swakopmund (al centro della costa namibiana) e su fino a Nouakchott, il porto mauritano che sta di molto più a nord. Licenze poetiche (ah ah). E certo il fatto di aver visitato quasi tutti questi posti mi ha reso la lettura più partecipata. Mi è sembrato di tornare tra le sabbie desertiche pre-saharaiane al Nord e nel deserto rosso namibiano a sud. Pur tuttavia, è ora di lasciare digressioni geografiche, per entrare nel vivo della storia. Che non può che ruotare, come uno dei poli della vicenda, sui diamanti. Siamo nella loro terra, e ben si è visto come vengono protette le miniere. Ma la vicenda antica, parte da un furto di diamanti perpetrato da turpi trafficanti a danno degli herero, popolo para-boscimeni del deserto del Kalhari. La vicenda attuale ci porta invece un nuovo personaggio, la simpatica Sloane, che cerca di recuperare quei diamanti. Ed in parallelo, gli avventurieri di Cabrillo che barattano armi con diamanti, ma solo per cercare di scovare qualche improvvido ribelle – tiranno. Mentre Sloane si aggira alla ricerca della nave, si avventura in acque perigliose, da dove Cabrillo & C. la salvano. Ma le acque sono pericolose solo perché nascondono un segreto. Il tentativo di un guerrigliero ambientalista (una toccatina un po’ forte, invero, anche se a volte…) che sfruttando i suoi soldi e le sue scoperte, tenta di creare un uragano molto pericoloso, con un epicentro stretto e soprattutto cercando di convogliarlo sopra dei pozzi di petrolio, dove, accordandosi con i mercenari di cui sopra, sparge il petrolio in mare, creando un disastro paragonabile a quello della Valdez in Alaska. E per vendetta, rapisce il suo ex-socio che invece era rimasto tra gli industriali (semi-)buoni a cercare di arginare guasti ambientali. Cabrillo si incarica allora di liberare il rapito. E si imbatte in un altro prigioniero, una specie di Mandela dello Zimbabwe. Per farla breve, si accorda con il buono, usa i suoi guerriglieri per riprendersi i pozzi petroliferi, assale la nave del cattivo, blocca la tempesta. Tanto per non farci mancare nulla, mi sa che comincia ad avere del tenero verso la rossa Sloane. Il divertente miscuglio cussleriano, visto che non ci sono tempi per risolvere tutto, come ho detto all’inizio, coinvolge i cugini della NUMA, che, nel mentre lui risolve i problemi del mondo, cercano e trovano la famosa nave ottocentesca con il suo carico di mistero e diamanti. Insomma, un bel guazzabuglione, pieno di soluzioni scientifico – avveniristiche (merito di Jack) con qualche tocco ambientalista buono (del resto Clive lo è abbastanza). 500 pagine di relax meritati, infine.
Clive Cussler & Paul Kemprecos “La stirpe di Salomone” TEA euro 8,90
[A: 27/11/2010 – I: 10/06/2012 – T: 16/06/2012]
[titolo: The Navigator; lingua: inglese; pagine: 475; anno: 2007]
Con questo libro torniamo alla struttura classica delle avventure con il marchio Cussler. Siamo nel lato “NUMA”, quello doc che ci ha insegnato a voler bene a quest’americano ormai ottantenne ma con sempre tanta voglia di raccontare. Si riprendono anche i temi classici della struttura dei romanzi targati NUMA. Inizio nel lontano passato con qualche mistero che viene sepolto nelle macerie dei tempi. E svolgimento nel presente con i cattivi che cercano di usare – sfruttare – trarre vantaggio dalla conoscenza di quegli avvenimenti passati. Ed i buoni che cercano di impedirlo. Questa volta la variante è costituita da un passaggio intermedio tra passato e presente. Che il mistero dell’inizio è condiviso, almeno pare, da qualcuno agli inizi dell’Ottocento. E quel qualcuno è niente meno che il presidente Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti, ma anche politico attento, utilizzatore di crittografie strane (e documentate) nonché altri corollari che non vi svelo. Il mistero poi è una delle tante leggende (intesa in senso non spregiativo) dell’andar per mare degli antichi. In particolare, qui si ribadisce l’abilità navigatoria dei fenici, ipotizzando che avessero già inventato la bussola, che avessero scoperto l’esistenza dell’America, e della presenza colà di miniere d’oro. Tanto da farvi ambientare proprio sulle coste americane l’esistenza delle miniere d’oro del re Salomone. Dal punto di vista storico, un piccolo pot-pourri di leggende tra fenici, re Salomone, regina di Saba, annessi e connessi (miscuglio che mi fa sempre ricordare quella bellissima e toccante chiesetta di rito etiope posta accanto alla grande chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme). I cattivi sono rappresentati dagli eredi bastardi del re, una stirpe stabilitasi prima a Cipro, poi in Spagna, cui l’ultimo epigono, patito di tenzoni cavalleresche alla re Artù, ha il poco felice nome, per me, di Baltazar. Che Baltazar è il genio buono che suggerisce le storie alla mia amica Rosa, e non sarà mai il cattivo che cerca di fare sacrifici umani a Baal (scordavo, questa è un’altra delle leggende che il marchio Cussler inzeppa nella storia, mescolandovi anche i dieci comandamenti scritti però prima di quelli di Mosè). Cattivi che hanno la lunga mano esecutiva di tal Adriano, gigante cattivo e malsano. Dalla parte dei buoni, oltre al protagonista Kurt Austin (ricordo che siamo nella parte NUMA files delle storie, quindi qui Dirk è già salito di grado ed è il capo della NUMA, ed il braccio operativo è ormai di Kurt, con il fido Joe, nonché la coppia di biologi marini dei signori Trout), una bella operatrice delle ricerche di beni perduti dell’Unesco, che ha il premonitore nome di Carina. È lei che da origine alla sequenza di avvenimenti moderni, scoprendo tracce di una statua fenicia con tanto di bussola (il navigatore del titolo inglese) nel museo di Bagdad, dopo la riconquista americana dei siti. Tra un’agnizione e l’altra, complice uno scrittore un po’ cussleriano che sta da anni alla ricerca della tomba della regina di Saba, e la scoperta di codici crittografati di pugno jeffersioniano all’interno di un libro di ricette sui carciofi (!!), seguiamo la scoperta di un secondo navigatore nella costa americana, dei tentativi maldestri di Adriano di rubarla, degli scontri tra le truppe di Baltazar e la NUMA, e tra Baltazar stesso e Kurt. Il tutto condito da un po’ di sesso tra Kurt e Carina (molto pudico, stile primo Cussler). Ovvio che i buoni vinceranno ed i cattivi pagheranno il fio dei loro misfatti. Non vi dirò come. Ma mi lamenterò della fretta con cui Clive & Paul si velocizzano nel finale. Ci mettiamo 400 pagine per arrivare al plot generale, e scoprire tutti i possibili risvolti. Poi, in meno di 100 pagine tutto si risolve, tutto si svela. Molto in fretta, quasi (e cercherò di documentarmi) che si avesse voglia di finire per problemi di consegna degli scritti (quanto, ahi qual sospetto, non ci fossero dei tagli dall’editor italiano). Fatto sta che la fine arriva senza aver tempo di gustarla. Detto questo e detto appunto che l’impianto è più sul versante Dirk Pitt, ma senza il buon Dirk, e, con tutto l’affetto per Kurt, non è la stessa cosa, il giudizio finale è un po’ sotto la normale media degli scritti d’avventura. Vedremo in seguito come si evolvono le varie saghe.
PS -  un appunto sulla traduzione: come si fa a scrivere “il comandante … chiamato Alfred Dawe”; quello è il suo nome, in italiano si usa chiamato quando si utilizza un soprannome; e credo che l’originale porti qualcosa tipo “named”, cioè di nome…
Siamo già a metà di un luglio caldo e lavoroso, e confesso che ora ben capisco i miei affaticati amici che in questi mesi perdono il filo di quasi tutto obnubilati di caldo e lavoro. Anzi, li ammiro e spero che questa mia prova da fine del mondo serva a farmi rinsavire un po’. Aspettando qualche brezza…

domenica 8 luglio 2012

Ricordi e anteprime - 08 luglio 2012

Quattro libri italiani di tre autori per due tematiche, di molto estive: i ricordi e le anteprime. Ricordi che il caldo, lo staccar verso lidi quieti (almeno soggettivamente) favoriscono l’onda dei pensieri che tornano. Come in Abate e la sua Calabria. Come in Pascale e le sue donne. Come io che ripenso al fatto che ieri era un lontanissimo anniversario della mia partenza per le armi (noi del 7° 77). Anteprime di quello che potrebbe essere un racconto, un futuro, un momento che per ora anticipiamo nella testa. Come nei romanzi collegati di Baricco. Come nelle idee che mi hanno suscitato.
Carmine Abate “La festa del ritorno” Mondadori euro 9
[A: 17/05/2011 – I: 11/04/2012 – T: 12/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 161; anno: 2004]
Mi fa sempre piacere ritornare a qualche scritto di questo scrittore calabrese. Soprattutto per quel suo essere calabrese di minoranza, cioè, come si dice, arbëreshe. Vale a dire appartenente a quella minoranza linguistica italo-albanese arroccata, per l’appunto, intorno a Piana degli Albanesi. Anche se Carmine è di Carfizzi. Ma sempre scrive di questa piccola enclave, e dei suoi problemi. Di minoranza. Di emigrazione. Di rapporti in fin dei conti, proprio per quel loro essere, come direbbe Enzo Bianchi, stranieri alle genti. Forse non è il suo miglior romanzo, che per me rimane “Tra due mari”, ma è piacevole da leggere, e nella sua scorrevolezza, in ogni caso, qualche zeppa di memoria la pone. E non è poco. Seppur la storia, come in pratica tutte le sue, è storia di crescita, di presa di coscienza, qui si gioca molto, in un sottofondo pieno di rumore, anche sul tema dell’emigrazione. Perché la Calabria è terra dura, già per gli italiani. Di più per questo piccolo popolo che a mala pena parla l’italiano. E dove c’è emigrazione, il momento più bello, più festoso, che può segnare nel profondo, è quello del ritorno. E su questo ritornello, Abate costruisce la storia parallela di Tullio e di suo figlio Marco. La vediamo con gli occhi del bimbo che seguiamo dagli otto ai dodici anni. Ma il racconto di Marco è intercalato dai racconti del padre Tullio e delle sue storie da emigrato in Francia. Ricostruiamo così, a ritroso, la vicenda a tutto tondo, di Tullio che cerca fortuna in Francia, dove trova il grande amore, la bella Morena, da cui ha la figlia Elisa. Ma poi Morena muore, e Tullio torna a casa per affidare la piccola alla nonna. E trova conforto con Francesca, con cui prova a mettere su un focolare. Ci riuscirà per qualche anno, ma alla nascita di Marco, i soldi non bastano e lui torna in Francia, dove vive 10 mesi l’anno, per poi tornare per il Natale in famiglia. E sono questi Natali che Marco aspetta con ansia. Prima con l’ansia incosciente del bimbetto, che aspetta il padre per i giocattoli nuovi. Poi con la febbre del bimbo che cresce, che sente la mancanza quotidiana della figura paterna. Che quando torna si va per boschi, si caccia, si gioca con la cagna Spertina (bel nome di setter). Perché intanto Marco cresce, va anche a scuola, ma non capisce perché si parla italiano. Fortuna lo aiuta la sorellastra grande. Quella che studia a Cosenza, quella che comincia ad avere amorazzi, e poi storie serie. Marco entra ed esce anche da queste storie, sempre con il fare da piccolo decenne, che vede ma non comprende tutto. Certo vede che Elisa si potrebbe cacciare nei guai. Certo vede di ammalarsi ed aspettare il ritorno salvifico del padre che questa volta non c’è. Si arriva quasi non dico al dramma, ma al momento che molti si interrogano. Elisa, dopo molte sbandate, sembra riprendere strade aduse. Marco rischia di esserne travolto, ma ne esce bene. E tra il prologo e l’epilogo assistiamo alla grande festa di Natale, con le fascine accese a scaldare il bambinello nella culla. Con la prima birra di Marco. E con il grande colloquio, quello che saltabeccando tra i capitoli, ci regala il rapporto tra padre e figlio. Non vi narro i perché ed i come. Leggeteli che sono di sana lettura. Vi rimando le sensazioni. Quella della festa del titolo, che Carmine uomo e non più scrittore organizza anche lui ogni anno a Carfizzi, che anche lui emigrò (in Germania e non in Francia) ed anche lui vive lontano, insegnando tedesco in Trentino. E quella del rapporto tra padre e figlio, narrato senza smancerie, ma tratteggiando, con tutta l’umanità possibile, due diversi caratteri. Che tuttavia, e qui sta il bello che mi commuove, parlano. Ahi quant'è bello pensare che ci siano, ci possono essere momenti di scambio. Ognuno, ed è ovvio, con la propria natura. Che non sarà mai uno scambio paritario tra due generazioni diverse. Ma come togliere colore alla bellezza di queste piccole confidenze! Ripeto, al solito chiudendo, non certo un grande libro, ma senza dubbio una nuova ed onesta lettura di uno scrittore italiano. Ringraziando anche per quelle frasi in arbëreshe, che non si capiscono, ma tratteggiano l’esistenza di tanti mondi a noi vicini e di cui, a volte, neanche ci accorgiamo.
“Volevo vivere in Francia per sempre. Mi piaceva la Francia. … Mi piaceva soprattutto Parigi.” (63)
Antonio Pascale “La manutenzione degli affetti” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 16/04/2012 – T: 20/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 179; anno: 2003-2006]
Questa è la seconda edizione del primo libro di racconti di Antonio Pascale, che avevo ben apprezzato in quel romanzo-autoreferente sulla città distratta. Seconda edizione che include tre racconti in più rispetto alla prima. Premesso che la forma racconto mi tiene sempre sulle spine, qui Pascale (soprattutto attraverso le tre aggiunte) utilizza una forma di racconto-rimando dove, a volte, i personaggi di un racconto si ripresentano in un altro, magari (o forse di proposito) accendendo dei lumi su alcuni passaggi del precedente. Un’operazione che mi rimanda un duplice sentimento. Da un lato, mi fa piacere ritrovare protagonisti di una storia, dove ogni volta, quando lascio un testo, dispiace che scompaiono dalla carta (anche se rimangono nella mente). Tuttavia, dall’altro dispiace (o limita il piacere) perché nuove parole tolgono il velo d’ombra ad alcuni comportamenti. Certo li spiegano dal punto di vista dell’autore, che a volte non è l’ottica che avevo io nel leggerli. Come ad esempio il testo di base, dolente monologo di Alessandro che non capisce il comportamento di Rosaria, ma che continua nella sua ottica di vita, si riflette nel primo dei nuovi, che invece vede la stessa storia dall’ottica di Rosaria. Con quel titolo “Stai serena”, che al solo sentirlo mi vengono i pruriti di nervosismo. Rosaria che poi ritroviamo nell’ultimo, con un passaggio che getta ancora nuove luci sugli altri due. Il tutto a ricomporre un mosaico, nella testa di Pascale, quasi che si arrivasse alla scrittura di un romanzo, composto da varie sfaccettature. Peccato. Che ogni racconto, in sé (almeno questi tre appena citati) ha una sua dignità e si fa leggere e ti fa partecipe. Ma se li riunisci come facce della stessa storia, ne perde (per me) di consistenza. Non m’interessava sapere perché Rosaria aveva malessere, ma mi intrigava vederla fare un percorso e poi tornare da Alessandro. E quando Rosaria si avvia per altre esperienze, è utile seguirla per se, non perché sappiamo del marito e dei figli. È un percorso difficile di ricerca di se stessa. Ricerca che alla fine trova, con tutti i dolori che si possono immaginare, quando, comunque, bisogna fare delle scelte. E queste scelte non lasceranno indenni nessuno. Né Rosaria, né la sua famiglia, né il comprensivo (ma fino ad un certo punto) amante. Ed infine, sapere se Rosaria si metterà o meno a dipingere, è un elemento che non aggiunge nulla né a queste due storie, né alla terza cui fa capolino. Analogamente, per la storia del ragazzo che, colpito dall’irreversibile crisi dei genitori, non trova di meglio che affliggere il suo corpo ed ingrassare. Ma se nel testo base, questo ha una sua logica, nel converso di altri accenni, la dolenza viene spiegata, ma proprio per questo mitigata. Farà pace il ciccione con il padre che tanto l’ha fatto soffrire? Altro rimane nella forma-racconto originale, ed ha un suo perché. Sia laddove non mi è piaciuto (vedi “Bei giorni domani” o “Mi vidi di schiena”) sia dove mi ha fatto partecipe nell’infinita tristezza di quel percorso da impiegato di una Pubblica Amministrazione, percorso in certi versi simile al mio personale (pur se privato) e di tante persone da me conosciute nel corso della vita lavorativa (“Spettabile Ministero”). Rimangono poi delle immagini impagabili, come quel tornare sul quadro di Schiele che ognuno dei due protagonisti vive alla sua maniera, ma che comunque può far da tramite ad un rapporto. Insomma, una raccolta altalenante, che tuttavia ribadisce alcuni punti fermi di Pascale, che apprezzo e sottolineo: la capacità di scrivere, e di farsi leggere in maniera scorrevole e partecipata, e l’impegno, sociale direi, che si evince da alcune frasi dell’ultimo racconto (e che ritrovo in maniera trasversale nella recensione fatta da Baricco al libro proprio di Pascale con Rastello “Democrazia: cosa può fare uno scrittore?”).
“Quando ero giovane ho letto ‘Avere o essere?’, una di quelle stupidaggini che si fanno solo da giovani.” (7)
“Sapere come funziona un oggetto significa non chiedersi perché farlo funzionare.” (41)
“Sto sempre a pensare alla mia vita, e facendo un bilancio serio devo dire che non ho mai saputo rispondere la cosa giusta al momento giusto. Mai, nemmeno una volta. Le cose buone mi venivano fuori dopo, magari quando stavo a casa, e così la mia vita è un accumulo di risposte esatte date al momento sbagliato.” (76)
“Quando ci innamoriamo chiediamo al nostro amato di portarci indietro nel tempo, per farci riprovare i momenti in cui siamo stati felici da bambini.” (147)
 “Siamo il paese che preferisce il bello al vero.” (165)
Alessandro Baricco “Mr. Gwyn” Feltrinelli euro 14
[A: 14/04/2012 – I: 20/04/2012 – T: 21/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 158; anno: 2012]
Saranno certe mie passioni perverse, ma trovo sempre gradevole leggere scritti di autori torinesi, a partire da Pavese per finire con il nostro sagace autore di una certa idea del mondo (citazione trasversale delle recensioni settimanali che Baricco fa su Repubblica, che leggo e conservo, magari un giorno deciderò anche di sfidarlo a singolar tenzone, ohè ohè corbezzoli [secondo inciso, questa è un’altra citazione, e vediamo chi la trova]). Chiuse tutte le parentesi, torniamo al nostro, ed al suo modo di scrivere, nei saggi, nei racconti, nei romanzi. Sempre fedele ad un suo cliché, quasi un marchio di fabbrica, che ce lo fa immediatamente riconoscere. Quell’ammiccare fuori dalle righe, quel leggero anticipare (ma non tanto per non rovinare sorprese) quanto potrà accadere più in là. O quanto si dirà della famosa battaglia tra Atene e Sparta. O quanto NON si dirà della stessa. Nei libri, inoltre, c’è questa voluta trasposizione, per cui si viaggia sempre su terre altre. Qui siamo in quel di Londra, ed il nostro principale (ma non unico) protagonista è tale Jasper Gwyn, facile ma non immediata trasposizione dello stesso Baricco, cui l’autore gratifica di pulsioni a lui proprie. Jasper era accordatore di musica (citazione degli inizi baricchiani sulle Vacche di Hegel e la musica di Mozart?), poi scrittore di successo, anche se un po’ scontroso e distante (idem), che decide di smettere di scrivere per una serie di lodevoli motivi, soprattutto legati a quell’ambiente della letteratura che, ovunque, sembra permeato di tromboni e grancasse, piuttosto che violini e flauti. Sembra appunto che lo stesso Baricco ci dica: non riesco a trovare stimoli sufficienti per scrivere ancora. Ma Jasper si accorge che la scrittura ben presto gli manca. Allora, per non venire meno ai suoi propositi, Baricco decide di trovare altri modi per manifestarsi. Evitato, ma non completamente, il trasversale (invece di scrivere e pubblicare libri a proprio nome poteva utilizzare uno pseudonimo: troppo facile!), Baricco trova una bellissima metafora. Lo scrittore come copista della realtà. Quindi copiatore di corpi. E si inventa il mestiere di eseguire ritratti delle persone con la scrittura. Non banali descrizioni (occhi 2 grigio-verdi, capelli pochi ma resistenti, e via ritraendo), ma trasposizioni della persona in parole, micro - racconti che riescano a riportare l’altro su carta come reduce da un viaggio lontano. In questo, viene osteggiato dal suo agente letterario (che poi capirà) ed aiutato dalla grassa Rebecca, che rimarrà affascinata dal loft di Marylebone e dalle sue atmosfere, dalla non-musica dell’amico David, dalle lampadine che durano qualcosa intorno a trenta giorni poi si spengono. Insomma dal mondo magico che Jasper costruisce intorno ai suoi ritratti. Tuttavia, ed è ovvio, questo idillio si scontra poi con la realtà, ci saranno castelli che verranno (dovranno essere) distrutti. La vita reale entrerà a sconvolgere ancora le carte di Jasper. E con il solito tocco da maestro della penna, l’ultima parte del libro Baricco capovolge l’ottica. Non è più lo scrittore insoddisfatto, ma diventa la grassa Rebecca, che accettando la sua persona (vai Baricco, che ce la puoi fare ad accettarti), trasforma e migliora la sua vita, andando però nell’ultima parte anche sulle tracce dello scomparso Jasper. Non ci interessa (né vi dico se lo farà) sapere se Jasper verrà trovato; ci piace il percorso di Rebecca, gli indizi che trova, quasi in una trama thriller che ribalta l’odio del torinese per questa forma di narrativa, e la ricostruzione del pensiero fondante del non-scrittore. Anzi, di ‘Jasper Gwyn, copista’. Alla fine un libro di un buon divertimento intellettuale, utilizzato per far riflettere sulla scrittura e sulla sua espressione. E non è poco, far riflettere. Si può convenire o meno con Baricco, amare o no il suo modo di presentare le cose, ma trova sempre la maniera di provocare in modo positivo. Accettiamo la provocazione, e chiediamoci per che cosa valga la pena scrivere…
“- Lei non è vecchia. Lei è morta. … - Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.” (56)
“Ed era tornato alla sua scrivania, a leggere una biografia di Magellano.” [nota mia: citazione di Baricco alla sua recensione del libro su Magellano di Stefan Zweig] (139)
“Diceva che tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha mai scritto e che invece cerchiamo negli scaffali della nostra mente.” (155)
Alessandro Baricco “Tre volte all’alba” Feltrinelli s.p. (regalo di A)
[A: 08/04/2012 – I: 25/04/2012 – T: 26/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 94; anno: 2012]
Potrebbe essere letto ‘autonomamente’, ma, come spiega l’autore, ha in realtà un forte legame con il precedente, che cercheremo di descrivere più avanti. Intanto, la scrittura di Baricco mi rimane sempre piacevole, anche (ma forse non è un caso) quando come in questo romanzo, cambia registro e cerca di “camuffare” il suo stile con uno stile altro. Ci sono tre pezzi di vita, tre racconti, ognuno potendo stare in piedi da solo, ma significativamente collegati. Alla fine, possiamo ricostruire UNA storia: Malcom è un venditore oberato di debiti nei confronti di uno strozzino, e, per liberarsene, non trova meglio che ucciderlo. La polizia mette sulle sue tracce una donna poliziotto che riesce a trattenerlo fino a farlo arrestare. Dopo una condanna, con molte attenuanti, l’uomo finisce a fare il portiere di notte, in un albergo dove salva una ragazza dalle mire di un giovanotto sconsiderato e manesco, che, infatti, lo riempie di botte. La donna poliziotto la ritroviamo anche lei dopo anni, in una sua fine di carriera, empaticamente portata a salvare un ragazzino che ha subito un forte trauma, aiutata da un certo Jonathan, il suo amore che tuttavia non riesce mai a “vivere”. Forse sarà la volta buona. Queste tre storie si svolgono sempre all’alba, e sempre con un perno in alberghi, anzi nella hall degli alberghi. E nello specifico, apprezziamo i due caratteri principali. Malcom, che per liberarsi del giogo, commette un atto non corretto, ma ne paga le conseguenze, viene lasciato da moglie e figlio, e tuttavia trova una sua pace, un suo modo di affrontare la vita per quello che è. Dorothy sembra sempre sul punto di cambiare qualcosa della sua vita, non riuscendo mai ad andare a fondo. Come non riesce ad andare a fondo nel suo rapporto con il mite Jonathan. Ma l’incontro con Malcom deve aver fatto scattare qualche meccanismo, che negli anni la matura dentro. Portandola a ribellarsi alla tristezza che avvolgerebbe il ragazzo travolto dalla tragedia familiare. E con lui riesce a tornare da Jonathan, per un’alba che, come le altre, sarà unica,  prima e ultima. Con questo gioco simmetrico dove i due protagonisti del primo spezzone congiunto, sono i “virtuosi” dei due pezzi seguenti. Manca la sinfonia finale, ma quella, baricchianamente, la dobbiamo costruire nelle nostre teste. Già questo farebbe un bel libricino degno di essere letto. Il collegamento con Gwyn lo carica di valenze ulteriori. Che nell’altro libro (sopra recensito) quando Rebecca è alla ricerca dello scomparso Gwyn, un suo amico lettore gli indica un possibile riscontro tra la scrittura di Gwyn ed un libro di un ignoto indiano morto a 92 anni, autore di un unico libro pubblicato postumo, dal titolo “Tre volte all’alba”. Questo è il libro che abbiamo in mano, e come dice Rebecca all’orologiaio di Camden Town (vero Diana?), dentro c’è un ritratto di Jasper Gwyn. Non in termini fisici, ma trasposto nella descrizione della hall del primo albergo che incontriamo. Gwyn sostiene, infatti, che noi siamo pagine di libri, eventualmente non scritti. Ma leggendo dell’albergo ci immaginiamo Gwyn, e la sua identità nel mondo. Il lasciar tracce che solo i destinatari delle stesse sanno e vedono. Con quel rimando finale, dove Jonathan scrive 12 volte il nome di Dorothy su di una barca che costruisce, senza dire dove al proprietario, così che il nome dell’amata veleggerà per i mari. Allo stesso modo, il ritratto di Gwyn andrà di lettore in lettore. È un po’ quello che provo con le frasi che ogni tanto tiro fuori dai libri (e che vi riporto). Sono brani che nella lettura hanno fatto risuonare delle campane. Magari altre rispetto alle intenzioni. Magari riferite al mio vissuto, che di certo l’autore non sa. Lui le ha solo scritte. Ma ora sono mie.
“Ho capito che non si cambia veramente mai, non c’è modo di cambiare, … non è per cambiare che si ricomincia da capo. E per che cosa, allora? … Per cambiare tavolo. … Cambiare le carte è impossibile, non resta che cambiare tavolo di gioco.” (28)
“Non è neanche detto che se ami davvero qualcuno, ma tanto, la cosa migliore che puoi fare sia viverci insieme.” (87)
Come avrà capito l’attento mio lettore, gioco era anche l’inizio con quel conto alla rovescia, per dare il via a questa estate atipica, senza grandi viaggi, con tanto lavoro, un po’ di mare (molto piacevole, invero). E tante scusa ai miei amici per la mia mancanza di organizzazione. Si riesce poco a vedersi, si riesce poco a fare. Vedremo se c’è altro da inventare. Per ora e ancora

domenica 1 luglio 2012

Un’estate … - 01 luglio 2012

… per ora al caldo. Sotto un sole, forte e giallo. Come forti e gialli sono i libri di cui parliamo oggi. Almeno nelle loro intenzioni che non sempre rispecchiano i sentimenti di chi li legge, cioè in particolare i miei. Perché stiamo trattando i massimi esponenti del settore. O almeno quelli che lo sono ritenuti. La Cornwell, con la sua pluriennale saga sull’anatomo-patologa italo-americana Kay Scarpetta. Il maestro dello spionaggio, e spia lui stesso, John le Carrè. Il grande esperto di avvenimenti complessi (e l’unico che ci ha già lasciato) Michael Crichton. La baronessa del giallo P.D. James. La quale forse, è l’unica che ci da un prodotto estivamente godibile. Gli altri mi sono piaciuti da poco a nulla.
Patricia Cornwell “Il fattore Scarpetta” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato 11,05 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 31/03/2012 – T: 04/04/2012]
[titolo: The Scarpetta Factor; lingua: inglese; pagine: 416; anno: 2008]
Siamo tornati molto ma molto in basso! Nelle ultime prove, sembrava che fosse tornata un po’ di verve alla nostra beneamata scrittrice. Così che anche i suoi personaggi e le storie (con una ventina di titoli alle spalle) della famosa anatomo–patologa Kay Scarpetta avevano ripreso quota. Si tornava a parlare di procedure di analisi, di elementi di indagine, ed altre amenità che ci hanno fatto voler bene a questi libri seriali. Ma ora ci dev’essere stato un intoppo. Che so, qualche scadenza da rispettare, qualche migliaia di righe da scrivere anche senza ispirazione. Ed allora che fa la nostra Patricia? Si concentra da un lato sui rapporti interpersonali tra i suoi personaggi storici: Kay ed il marito Benton; Lucy e la sua fiamma Jaime; e poi Benton vs. Marino, e Kay vs. Lucy. Dall’altra non trova di meglio che tirar fuori dal cilindro l’unico nemico storico rimasto ai nostri eroi. Quel famoso Jean-Baptise Chardonne che alcuni libri fa inopinatamente fugge dal braccio della morte di un carcere e fa perdere le sue tracce. Il tutto condito da un mistero piccolo piccolo: la morte di una giovane ragazza e la scomparsa di una donna analista finanziaria di un grande patrimonio. L’unico elemento “patologo” è la discussione tra il procuratore Jaime che mostra un video con la ragazza viva e le convinzioni di Kay, che attraverso l’autopsia aveva collocato la morte 24 ore prima del video. E poi basta. Solo gran parlare, sviscerare i vecchi misteri. Perché Benton scomparve per 6 anni? E quali sono i rapporti tra Benton e l’FBI? Perché una sessantenne maniaca dice di essere la zia di un attore? E perché il detto attore frequenta ospedali e camere mortuarie? Chi invia pacchi-bomba a Kay? Che c’entra una giornalista televisiva in rovina alla ricerca di uno scoop che non riesce a trovare? Come mai l’analista finanziaria scomparsa a fatto perdere milioni di dollari a Lucy? E perché Lucy non l’ha detto a Jaime? E via cianciando del passato, per pagine e pagine. Lanciando solo qualche messaggio che le nuove tecnologie avanzano. Così si da spazio a Lucy, la nostra espertissima, che parla di reti neurali, BlackBerry con GPS, ed altre amenità tecnologiche. Dando anche spazio a Benton e all’FBI di fare lunghe riunioni sui “profiler”, professione avanzante nel panorama del crimine statunitense. Con qualche chicca laterale (viene citata la figura di Benton come ispiratrice di un profiler del libro “Il silenzio degli innocenti” come se il libro fosse cronaca e non fantasia). Ma noi seguiamo pagina dopo pagina, sperando che ci sia qualche cosa da scoprire, qualche risvolto strano, un disvelamento. Arrivando poi alle ultime 10 pagine, dove dovrebbe esserci la catarsi, lo scioglimento dei nodi, lo svelarsi dei (non tanti) misteri. Ebbene come se la cava la nostra Patricia? In poche righe, liquida il colpevole, gli fa fare questo e quello, mette tutte le caselline al posto giusto. Ma senza due righe di partecipazione. Senza elementi di coinvolgimento. In altri momenti ed altri libri, avrebbe tirato (e con piacere) per almeno cinquanta pagine. Facendo partecipare un po’ tutti, e dando a Kay poi il ruolo di narratore degli esatti svolgimenti di morti ed altre nefandezze. Invece, niente. Ci sono morti che si intuiscono, ma non vengono spiegate. Personaggi che dovrebbero avere un ruolo, ma vengono ignorati. Insomma, un modo scialbo e piatto di chiudere una vicenda già di per sé poco esaltante. Torniamo sempre alla domanda che ci facemmo qualche libro fa (e che ogni tanto torna anche per altri autori, anche per il nostro altrettanto benamato Camilleri). Se non c’è ispirazione, se non c’è motivazione, perché scrivere? Per rispettare contratti? Ma i lettori? Non si sentono, come me, presi un po’ in giro? Comunque, nell’ottimismo che mi contraddistingue, spero che vengano presto altre e migliori prove.
“- Ho fatto un sacco di cose a cui non posso rimediare…. – Non si può cambiare il passato… Non possiamo tornare indietro, possiamo solo assumerci la responsabilità dei pasticci che abbiamo combinato, chiedere scusa e cercare di andare avanti.” (326)
John le Carré “La spia che venne dal freddo” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 09/04/2012 – T: 10/04/2012]
[titolo: The spy who came in from the cold; lingua: inglese; pagine: 237; anno: 1963]
Dopo anni (forse decenni) di resistenza, finalmente mi decido a leggere qualcosa di David John Moore Cornwell. Mi ero sempre bloccato per un senso di repulsione (parola forse un po’ forte) che mi ispiravano le storie di spie ed affini. Certo, vi domanderete come mai un appassionato di intrecci, di gialli ed altro, abbia questa sensazione di non vicinanza. Ma la risposta, in un certo senso, è banale. Un giallo, prendiamo a caso un libro di Maigret, è ben più di un intreccio. È una piccola lampada accesa sul passaggio di qualche persona in questa che chiamiamo vita. Una sensazione che le storie di spie non mi hanno mai dato. E continuano a non darmi anche dopo questa, che, per altro, è una degna lettura ed un libro meritevole di essere letto. Si sentono i sessanta anni trascorsi, ma più per le atmosfere generali che per la scrittura (come invece succede ad altri libri coevi e tardi). Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia. Lì eravamo a pochi momenti dalla nascita del Muro di Berlino. Or son passati più di venti anni dalla sua caduta e tutto il panorama mondiale è mutato. Ma John le Carré ha avuto il merito di fare una fotografia talmente efficace del mondo della guerra fredda, che il suo libro diventa quasi un libro di storia più che un libro di finzione. Ed i suoi personaggi assurgono paradossalmente un ruolo eponimo, diventano dei simboli di posizioni e ragionamenti. Comunque, vincendo la resistenza di cui sopra, mi sono immerso nelle atmosfere brumose dell’ex - Germania Est. Rivivendo quasi in sogno momenti passati tra Lipsia e la Polonia or son quasi quaranta anni. La vicenda è lineare nella sua complessità, e magistralmente orchestrata dall’autore. Si è nel tempo delle grandi reti spionistiche, dell’Intelligence di Bondiana memoria. E dei tentativi di creare reti di informatori nel cuore degli apparati “nemici”. Prendiamo conoscenza quindi di Leamas, e della sua sconfitta quando l’intera rete che ha messo su a Berlino Est viene debellata e (quasi) tutti gli esponenti uccisi. Per colpa (o merito) del controspionaggio tedesco guidato dal truce Mundt e dal suo accolito Fiedler. Tornato in patria, Leamas viene convinto dal suo capo ad organizzare una complicata trama per far fuori Mundt. Comincia così una finta deriva dell’ex-spia. Che si finge sbandato, ubriacone, deluso, tanto per farsi abbordare dalle spie dell’Est. Cosa che ben presto avviene, e tra un’ammissione ed una fuga, il nostro si ritrova ben presto di nuovo a Berlino, ma dall’altra parte del muro. Intanto il suo capo ha messo in piedi il resto degli intrecci per far cadere i tedescacci nel trappolone. Che riesce talmente bene da porre l’un contro l’altro armati Mundt e Fiedler. In un lungo momento di svelamenti e riconoscimenti, si arriva alla catarsi finale. Chi era la spia che faceva il doppio gioco? Era Mundt realmente come sostiene Fiedler o era una trappola per far cadere lo stesso Mundt cui Fiedler casca in pieno? Non vi svelerò il finale, benché sia ormai arci-noto. Né vi dirò della storia d’amore di Leamas con la bella Liz, quella che rimane nella testa per chi, non avendo letto il libro, si ricorda però del bel film con Richard Burton e Claire Bloom (ma perché nel film, Liz viene rinominata Nancy?). La parte meno sostenibile del libro risiede in tutta una serie di affermazioni e sparate sulle spie, sulle motivazioni, e su altri ragionamenti similari, molto, troppo legati allo spirito del tempo. Per questo, benché piacevolmente letto, il mio rimane un giudizio mediano sulla bellezza e consistenza del libro stesso. Una trama esemplare sorretta da una scrittura decente, che sottolinea la quotidianità di certi comportamenti spionistici (per fare da contraltare alle rutilanti missioni alla Bond), ma che non mi invoglia particolarmente a leggere altro del nostro. Come un buon bicchiere di gin olandese, molto profumato, ma alla fine ne basta un bicchiere. E non ci si torna su.
Michael Crichton “La grande rapina al treno” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 26/04/2012 – T: 28/04/2012]
[titolo: The Great Train Robbery; lingua: inglese; pagine: 288; anno: 1975]
C’è stato un periodo delle mie letture che ero affascinato di Michel Crichton. Trovavo affascinante quel suo modo di entrare ed uscire dalla trama per raccontare contorni, motivi, spiegare, informare. Erano i tempi di “Andromeda”, di “Congo” e di “Jurassic Park”. Nonché di quei racconti che poi furono alla base di una delle più belle serie televisive (“In caso di necessità” che fece nascere i telefilm di “E.R.”). Poi è calato nella scrittura, si è dato ad esternazioni improbabili, e l’ho messo da parte. Infine 4 anni fa, a soli 66 anni muore. Ora riprendo in mano uno dei suoi primi libri, che all’epoca avevo saltato. E lo ritrovo come l’avevo lasciato. Solo che gli anni sono passati, e quella scrittura che 40 anni fa era interessante e innovativa, si è fatta sterile. Non che questa grande rapina non sia ben fatta e ben resa. Ma quegli intarsi che mi piacevano tanto, ora sembrano frutto di uno sfoggio di erudizione, di un tentativo di dire: ‘guardate che per capire quello che vi sto narrando di una storia che si svolge nel 1855, dovete sapere fatti e circostanze di vita, e dato che non le sapete, ve le illustro io”. Ecco, or mi sovviene, è quest’aria da sapientone che mi da fastidio. Perché la miglior sapienza è quella che esce fuori dalle righe del testo senza averne l’aria. Quella che dice e descrive e coinvolge e porta a vivere il tempo della scrittura come fosse sempre coevo del tempo della lettura. Peccato, tuttavia. Che la storia, in realtà merita. È la narrazione, oltremodo fedele, di una grande rapina al treno, dove sparisce l’oro destinato alle paghe dei soldati inglesi che combattevano in Crimea. Una storia che seguiamo passo dopo passo. Seguendo le orme dell’artefice, Edward Pierce. Dall’idea alle modalità di attuazione. Ai modi per trovare la possibilità di aprire la cassaforte che viaggiava sul treno, procurandosi le chiavi d’apertura. Al modo di salire sul treno. Al modo di fuggire dal treno. Al modo di sostituire l’oro con qualcosa dal peso equivalente per non far scoprire subito il furto. E poi, velocemente, alla ricerca dei colpevoli da parte della appena nata Scotland Yard. All’arresto. Ed al processo, sulla base del quale, poi, si ricostruisce tutto il pregresso. Non vi narro solo la fine, che non è inventata da Crichton, ma, come tutta la storia, è ben documentata. E devo dire anche decentemente narrata. Ora, ci sono due commenti da fare al testo. Le parti narrate sono in puro stile Crichton, cioè con la sua capacità di farti entrare immediatamente in sintonia con la persona che seguiamo al momento. Quella capacità che poi ben sfruttò in ER, dove in effetti (a parte i personaggi di lunga durata) anche i comprimari, in poche battute, erano ben delineati (parlo ovviamente del tempo di Clooney e della Margulies). E sono piacevoli. L’altra parte è l’utilizzare questa rapina come un simbolo. Un simbolo del mondo che cambia, dell’apice e dell’inizio del tramonto dell’epoca vittoriana, dove se ne narrano fasti e nefasti, per spiegare azioni e situazioni. Le turbe di poveri che vivono con meno di una sterlina settimana, i ladri, le prostitute, ma anche l’inizio dell’industrializzazione, il lavoro minorile, l’emarginazione femminile, la tracotanza aristocratica, tra lotte di cani contro topi, e partecipazione a proibiti incontri di boxe. Ma soprattutto rapina simbolica in quanto non attuata da poveri ladri e truffatori, ma organizzata da una persona che ha tutta l’aria di essere se non agiata almeno di una tranquilla classe media. Ed è appunto questo che preme sottolineare a Crichton: alla metà dell’Ottocento, si comincia a percepire che i malviventi non sono lombrosianamente tarati, ma nascono in ogni dove e per tante necessità. Questo passaggio non fu compreso, e l’Inghilterra andò avanti sulla sua strada, e da nazione faro e guida del mondo, cominciò ad imboccare la strada della normalità. Ma non la comprese, e alla fine ne fu spiazzata, lì quando crollò, pezzo dopo pezzo, tutto l’Impero Britannico. Ma stiamo andando molto fuori. Tornando a Crichton, se avesse insistito di più sulla storia, senza dovercene troppo spiegare i contorni (bastava molto meno), avrebbe potuto rendere la rapina, pur se simbolica, una specie di “Ocean Eleven” dell’Ottocento. Peccato.
“In quei tempi la linea divisoria tra un’attrice e una prostituta era estremamente sottile. E gli attori erano, a motivo della loro professione, dei nomadi vaganti che avevano in genere rapporti con i criminali o appartenevano direttamente alla malavita.” (91)
P.D. James “La stanza dei delitti” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 01/05/2012 – T: 06/05/2012]
[titolo: The Murder Room; lingua: inglese; pagine: 477; anno: 2003]
Al solito di Phyllis Dorothy James, Baronessa James di Holland Park, decana delle lettere inglesi, è un libro ben scritto, articolato, anche se forse un po’ lunghetto. Ma, al solito, gradevole, con una trama a vari livelli (e questo la porta ad allungare il numero di pagine) che vengono tutti svolti e portati ad un loro punto finale. Non una fine, che stiamo pur sempre parlando di uno dei 14 libri dedicati dall’autrice all’ispettore Adam Dalglish. Ispettore atipico, sempre empatico con i personaggi coinvolti nella vicenda, forse a causa del suo essere, prima che Ispettore, poeta. Non di successo mondiale, ma comunque poeta. E l’attuale Lady James ne narra le storie, seguendone vita pubblica e privata, da ben cinquanta anni. Che il primo romanzo fu un best seller a sorpresa nel lontano 1962 (“Copritele il volto” questo il titolo). Firmato P.D. per mascherare il fatto di essere una scrittrice, in un mondo che solo Agatha Christie riuscì a scardinare (ed a cui P.D. dedica un piccolo omaggio trasversale, chiamando Ackroyd uno dei personaggi minori del libro). E ben ha fatto poi a non inflazionarlo, facendo uscire appunto solo 14 romanzi in 50 anni. Qui siamo al 12°, e, benché curiosi delle vicende umane pregresse di Dalglish, la baronessa delle lettere (così nominata a settanta anni dalla Regina Elisabetta) porta avanti la sua trama che possiamo leggere senza essere presi dall’angoscia seriale di non conoscere tutto del nostro poeta-poliziotto (a proposito, forse il cinese Qiu Xialong ne ha tratto ispirazione?). Lasciata ben presto sullo sfondo la vicenda privata, laddove il buon Adam si innamora della bella Emma (con una vicenda trasversale, una di quelle che allunga le pagine, ma di cui non vi dirò la conclusione, rimandandola ad eventuali nuove avventure), ci si concentra sul problema delle morti. Che ruotano intorno ad uno strano museo dedicato al periodo tra le due guerre, con una bella stanza dedicata ai grandi delitti e processi coevi. Son tre fratelli i gestori. Ma il più giovane, rampante psichiatra, vuole chiuderlo. Fatto sta che muore bruciato nella sua Jaguar nel garage del museo (così come uno dei morti della stanza dei delitti). E nella stessa stanza viene rinvenuto il cadavere di una giovane donna, entro un baule, anche lui reduce da turpi storie degli Anni Trenta. Intorno a queste morti, ruotano i due fratelli superstiti (ognuno con qualche luce e molte ombre, soprattutto la sorella), la contabile tuttofare del Museo (protetta non si sa per quale oscura ragione dalla suddetta sorella), il curatore della mostra (che sappiamo sta morendo di cancro), la calligrafa del Museo (forse una volta spia dei Servizi Segreti), la custode donna delle pulizie ed il suo aiutante gay. Dall’altro lato c’è la squadra di Dalglish, con Kate, la simpatica agente, ombra gentile dell’Ispettore, che ricorda in controluce il rapporto tra l’Ispettore Lynley e la sua aiutante Barbara della serie scritta da Elizabeth George. Con Piers che sta per lasciare la squadra e l’anglo-indiano Benton Smith che ci sta per entrare. Con mano felice, P.D. tratteggia i vari personaggi, ce li fa apprezzare mentre girano, indagano e a volte scappano per le strade di una Londra senza tempo. Spende pagine distensive per ripercorrere storie, risalire e poi scendere nel corso del tempo. Facendoci sentire l’urgenza di trovare una soluzione al mistero, che l’ambiente dei delitti è altolocato, quindi si deve risolvere in fretta. E la difficile soluzione interferisce con la vita privata di Dalglish cui si accennava sopra. La soluzione, seppur scontata, è ben costruita. E, con buona pace dei pennivendoli moderni, non lascia adito ad ombre alcune. Tutto si spiega e si incastra. Forse non al  meglio, ma risulta un libro di buona fattura e gradevole lettura. Ed ogni tanto ci vuole.
“Non si era mai chiesta se le piacesse … le persone erano utili o inutili, gradevoli come compagnia oppure scocciatori da evitare. (51)
“Si ritrovò a tirare mentalmente le somme della propria esistenza e a riflettere, con meraviglia e distacco, sul fatto che cinquantacinque anni, che a lui erano sembrati così memorabili, avessero potuto lasciargli un’eredità tanto magra … un pensionamento anticipato in seguito alla diagnosi di un tumore maligno che inaspettatamente, e in modo sconcertante, era stato curato con successo.” (72)
“Quando ami qualcuno, desideri in modo struggente capire e andare incontro a ogni sua necessità, ma non puoi, vero? Nessuno può. Possiamo dare soltanto quello che l’altra persona è disposta a prendere.” (230)
Ed essendo la prima trama del mese diamo allora uno sguardo riassuntivo alle letture di aprile. Dove a parte il sempre interessante padre Bianchi, ed una stuzzicante prova di Barricco, stiamo nel limbo totale, con alcune prove a me dispiaciute come Bulgakov di cui ho parlato, la Cornwell di cui parlo qui e Gadda di cui parlerò.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Patricia Cornwell
Il fattore Scarpetta
Mondadori
13
1
2
Dacia Maraini
Menzogna felice
Repubblica Amore
3,90
2
3
Michail A. Bulgakov
Il Maestro e Margherita
Repubblica Novecento
4,90
1
4
Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli
Malastagione
Mondadori
10
3
5
John le Carré
La spia che venne dal freddo
Repubblica Giallo
5,90
3
6
Enzo Bianchi
Per un’etica condivisa
Einaudi
10
4
7
Carmine Abate
La festa del ritorno
Mondadori
9
3
8
Sandrone Dazieri
Il Karma del Gorilla
Mondadori
9
3
9
Tahar Ben Jelloun
Incontro crudele
Repubblica Amore
3,90
2
10
Jaime Mendoza
En las tierras de Potosì
Puerta del Sol
2
2
11
Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Repubblica Novecento
4,90
1
12
Antonio Pascale
La manutenzione degli affetti
Einaudi
10
3
13
Alessandro Baricco
Mr. Gwyn
Feltrinelli
14
4
14
William Faulkner
L'urlo e il furore
Repubblica Novecento
4,90
2
15
Alessandro Baricco
Tre volte all’alba
Feltrinelli
s.p.
3
16
Michael Crichton
La grande rapina al treno
Repubblica Giallo
5,90
3
17
Giancarlo De Cataldo & Mimmo Rafele
La forma della paura
Repubblica – Noir
6,90
2
18
Valerio Varesi
Il fiume delle nebbie
Sperling & Kupfer
9,50
2

Ripenso al freddo che avevo un anno fa esatto, aggirandomi sui 4000 metri del Tolar Argentino, e mi viene ancora più caldo, in questo caldo luglio romano appena iniziato. Si dovrebbe vivere solo di notte, ma forse non si può. Come si dovrebbe vivere nei parchi (ai ben informati, consiglio Villa Mercede), mangiando frutta e verdura, e bevendo molta acqua (birra non, che poi si suda di più). Vediamo di cominciare bene questo mese e questo semestre.
Un bacio
Giovanni