lunedì 25 aprile 2016

Italiani in minore - 25 aprile 2016

Quattro autori italiani, che potevano essere migliori di quanto mi hanno restituito. Mi aspettavo molto da Corrias che avevo sentito lodare, ma non mi ha convinto. Non conoscevo, e non mi ha entusiasmato, Bellandi (anche se mi fa piacere parlarne un 25 aprile di ricorrenze storiche). Aveva iniziato alla grande, ma poi è miseramente naufragato De Marchi. Rimane Nicola Lagioia a tirare su una quaterna complessivamente insufficiente. Un libro il suo pieno di stimoli, anche se non è catalogabile in nessuna categoria standard.
Cesare De Marchi “La vocazione” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 17/07/2014– I: 23/10/2015 – T: 28/10/2015] - & e ½      
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264; anno 2010]
Un libro che prometteva molto e che alla fine mi ha totalmente deluso, tanto che ero sul punto di obbedire a Pennac e lasciarlo andare per la sua strada, come io continuo ad andare per la mia. Ed è anche il primo libro consigliatomi da quella tutto sommato interessante ed in altre segnalazioni positive riviste ora assai scomparsa, “Satisfiction”. La trovai nel numero 9, per chi volesse dei reperti, a firma di Lorenzo Morandotti del Corriere della Sera. Perché tante citazioni? Perché se ne parlava entusiasticamente, un volo, forse onirico forse no, che percorre metaforicamente lo sconcerto di una certa sinistra di fronte al precipitare della realtà. Ecco, forse è talmente metaforico il romanzo, che io l’ho letto come se ne narra, seguendo le parole, e, ad un certo punto, mi sono perso. Ho trovato come se ci fossero due di libri, cuciti, tra la prima e la seconda parte, dalla figura tragica di Luigi. Ma tra il primo ed il secondo libro ho trovato un salto mortale all’ingiù, ed il romanzo, senza nessuna rete, si è fatto molto male. La prima parte, il primo romanzo, è reale, concreto e doloroso. A Luigi, appena diciottenne sull’orlo dell’esame di maturità, muore il padre. La madre, pochi mesi dopo, lo lascia per altri lidi, e lui si trova, intelligente, capace, innamorato della storia, a doversi trovare mezzi di sostentamento. Fa mille lavori, da posteggiatore abusivo a commesso in una fallimentare impresa libraria, sempre immerso con la testa nella sua vocazione. La storia, con alcuni misteri cui si accanisce e su cui ragiona. In particolare, spendendo buona parte del suo tempo presso le vicende di Attila e del suo incontro con il Papa Leone Magno. De Marchi ha una cultura letteraria e storica (ex-insegnante di liceo, poi scrittore, ora da anni trasferitosi in Germania, e cresciuto da germanista e traduttore) e nelle more, citando Gibbon ed altri, ci rende partecipi della perplessità di Luigi di fronte alla ritirata di Attila dopo l’incontro con la delegazione papale presso Mantova. Dopo alterne vicende, Luigi si stabilizza come cuoco di patatine in una friggitoria. Instaura un rapporto di amicizia con l’insegnante Giuseppe, con incontri settimanali, che da un alto approfondiscono i reciproci interessi storici e filosofici, dall’altro ci fanno partecipi della malattia degenerativa di Giuseppe (malattia di Charcot-Marie-Tooth, una Neuropatia motorio-sensitiva ereditaria meno fulminante della sclerosi multipla, ma con una progressiva degenerazione del tono muscolare). Sarà Giuseppe a spingere Luigi ad uscire dal guscio, a provare a volgere lo studio in saggio, deviandolo da Attila all’ultimo grande re di Svezia, Carlo XII, ed alla sua misteriosa morte durante l’assedio di quella che oggi sarebbe Oslo. Anche qui belle le pagine storiche, cui rimando gli interessati. Bello il rapporto con il nume tutelare Ruggiero Romano, grande e reale storico italiano. Che lo prende a ben volere, ma che lo lascia senza rete quando improvvisamente muore. L’altro filone, su cui questo si congiunge, è il rapporto con la ragazza-madre Antonella, cameriera nella friggitoria, e con il di lei figlio Giorgino. Luigi trova momenti di pace con lei, anche se sempre rabbiosi perché tolgono attimi allo studio. Ed Antonella, nonostante caparbietà e tenerezza, non riesce ad acquietare le angosce di Luigi. Fino a turbarlo profondamente prospettando una futura vita in comune. Queste tre convergenze, il progredire della malattia di Giuseppe (che lo porterà al suicidio), la fine dei sogni di scrittura e le richieste di Antonella, portano Luigi, con tutti i piedi, dentro ad una crisi e ad un collasso nervoso. Siamo solo a metà libro, ma da qui in poi diventa illeggibile. La discesa nell’alienazione mentale di Luigi non è seguibile. Lui pensa di rapire una bambina a Genova (e lui vive a Milano), ma lo pensa o lo ha letto sul giornale? Va a Genova a consegnarsi alla polizia, ma nessuna bambina è stata rapita. Chiede di essere ricoverato a Cogoleto (nel famoso ospedale psichiatrico di Pratozanino, di cui vi parlerò altrove). E per pagine e pagine si riguarda l’ombelico della sua malattia, parla e riparla con il dottore, e finalmente, intontito dagli psicofarmaci non riconosce più nessuno, neanche la forse amata Antonella. Che dire? Dal falso rapimento in poi tutto il libro mi si è trascinato via, senza emozioni e senza partecipazione. Mi aspettavo altro dopo la prima metà, dolorosa ma ben costruita. Mi aspettavo prese di posizione, anche cadute, ma qualcosa di tangibile con cui fare i conti. Invece c’è il salto: tutta sta andando male, ed allora saltiamo nel buio della pazzia, e così, senza più lottare, ci abbandoniamo all’inutilità della vita non vissuta. Mi piaceva, mi è piaciuta la prima parte. Non capisco, non entro in sintonia con la seconda. spero che voi attenti lettori e più di me capaci di guardare oltre, riusciate a spiegarmi le ragioni di tutto ciò. Io non l’ho capita. E mi ha sinceramente deluso. Metafore della vita? certo di tutto possiamo parlare, e tutto possiamo inventare. Crollo delle illusioni di una sinistra che aspettava altro? Non so, a me è sembrato un tentativo, anche da parte dell’autore di fuggire dalla realtà. Con la quale, a costi dolorosi, dobbiamo invece fare i conti. Rimboccandoci le maniche e non fuggendo. Che delusione!
“Diciassette anni di lavoro insensato e avvilente, e aveva lavorato solo per poter lavorare veramente e fare lo storico.” (140)
Pino Corrias “Dormiremo da vecchi” Chiarelettere euro 16,90 (in realtà, scontato a 8,45 euro)
[A: 01/10/2015– I: 01/11/2015 – T: 10/11/2015] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249; anno 2015]
Ecco un libro che non avrei comprato, che non mi è piaciuto tanto, ma che sono contento di aver letto. C’è di certo contraddizione in tutto ciò, ma è proprio della natura di questo libro essere contradittorio. L’ho quindi comprato perché mi è stato suggerito, in una delle tante conversazioni amicali, come libro che dovevo assolutamente leggere. Proprio per questo, invece di lasciarlo decantare, l’ho subito affrontato in questo novembre indiano. Mi è sembrato, infatti, un utile aggancio alla realtà che stavo lasciando per qualche settimana, ed a cui tornavo mentre affrontavo le lunghe notti dei treni indiani. Conoscevo solo di nome l’autore, giornalista e scrittore, natio di quella Savona che ogni tanto ritorna nella mia sfera affettiva (come patria di uno dei più grandi amici di mio padre e come punto di avvio della storia varazzesca di mia nonna). Di certo fluente (come dimostra anche questo libro), forse ne avrei apprezzato di più la lettura del suo precedente scritto, dedicato a quell’artista geniale che fu Alighiero Boetti. Qui tuttavia ci stiamo allontanando dal seminato, per cui torniamo invece al libro, dove il primo elemento di disturbo è stata per me la copertina. A molti piace la donna con gli occhi chiusi da una zip di Giuseppe Mastromatteo. A me ha dato solo angoscia, come di una persona cui non fosse concesso neanche di piangere. La storia in sé, poi, è tutta intrisa della “Roma da bere”, antagonista e posteriore alla “Milano da bere”, tanto che la si ribattezza Dolceroma. Un mondo di artisti, registi, cinematografari, amanti, tirapiedi, questuanti, agenti, tenutarie di terrazze vip, attrici in disarmo, gossippari al soldo dei potenti. Insomma, tutto quel mondo dell’apparire che ho visto (talvolta da lontano, talvolta da vicino) ma che non mi ha mai convinto nella sua inutile falsità (o falsa inutilità, vai a sapere). In questo mondo finto ma non inventato, si muove il motore primo della storia, Oscar Martello, un produttore che vive a Roma e che nel corso degli anni ha tessuto la sua tela di contatti e di favori e di azioni non certo esemplari per raggiungere il posto che occupa e vedere Roma dall’alto e affacciarsi sui tetti della Capitale. Lo vediamo sull’orlo di una crisi per aver inventato e prodotto un film inguardabile. E lo vediamo inventarsi un’improbabile trama per salvarlo (o salvare i suoi soldi). Fingere una fuga d’amore degli altri due personaggi cardine del libro: l’attrice e lo sceneggiatore. Lei, Jacaranda Rizzi (improbabile fin dal nome), angelo bello e dannato, occhi color miele, cuore ibernato e un bel po’ di vuoti da riempire, a cominciare da quello lasciatole da un segreto che la tormenta da tempo. Lui, Andrea Serrano, uno che campa scrivendo storie lacrime e sangue, come tocca alla maggior parte degli sceneggiatori di fiction televisive. E che ha un legame forte quanto inspiegabile con Martello. Il piano è perfetto e funziona pure, ma non tiene conto di quelle variabili che sono insite nell’essere umano, con la sua voglia di una vita vera, di amore e anche di vendetta. Martello vuol dare il circo neroniano al suo pubblico. Ma non siamo più nell’antica Roma, ed il piano perfetto diventa sottotraccia di filoni gialli, di misteri che si scioglieranno lungo tutto il percorso del libro. Filoni di mafia, di droga, di prostituzione di alto bordo. Tuttavia io non mi appassiono a nessun personaggio, e nessun personaggio si salva dal marasma finale. Non vi dico né come né perché, anche se questo non è un giallo, ma solo un romanzo su di una città che, purtroppo, esiste anche se a me non piace. Quella città che ora esce sui giornali come “mafia capitale”, quella che permette a Martello di convocare nel suo attico tutta la Dolceroma con il seguente biglietto “Ore 21 – Vi aspetto a casa – Aventino – Roma, RSVP”. Non si mette indirizzo, perché se sei della cerchia, sai dov’è di casa Oscar. Se non lo sei, non riceverai neanche l’invito. Un penultimo commento sull’uso improprio di un vocabolo inglese, come spesso accade in Italia. Quando una persona annuncia la propria omosessualità fa “coming out”, e non “outing”, come dice Corrias, che significa altro, anche se con finalità parallele. L’ultimo commento è una riflessione su alcune motivazioni del mio disagio finale e del non amore verso il romanzo. Che non amo la materia di cui tratta, e questo, sicuramente, influenza il giudizio. Tuttavia non amare il contesto, non significa denigrare il testo. Ho cercato, brevemente, di motivare il mio rifiuto del contesto. Ripeto allora, che il testo è scritto decisamente bene, anche se non è un testo cui farei ritorno per altre letture (che i miei pochi lettori sanno che i libri a me cari, ogni tanto sono ripercorsi da brevi letture, anche solo di frasi, per tenerne sempre un’eco vicina).
Nicola Lagioia “Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare sé stessi)” Minimum fax euro 8 (in realtà, scontato a 5,12 euro)
[A: 13/07/2015– I: 13/11/2015 – T: 16/11/2015] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 124; anno 2001]
Romanzo d’esordio di Nicola Lagioia, uno degli editor di punta della casa editrice minimum fax, a me molto cara, e recente vincitore del Premio Strega con il suo ultimo romanzo. Io confesso che questo l’ho comprato perché volevo leggere qualcosa di suo, e perché il titolo mi è sembrato troppo bello per non entrare a far parte della mia libreria. A proposito, ho scritto romanzo, ma in realtà cosa sono queste 124 pagine? Non certo un “romanzo”, certo una sequenza di parole che è stato piacevole leggere e cercare, come dice l’autore, di scardinare, decostruire, abbattere. Iniziando da quelle prime pagine dove l’io narrante cerca un’ispirazione, fittizia, partendo da un cocktail di parole ritagliate da una Garzantina e mescolate a casaccio. Un espediente come un altro. Simile a una sperimentazione cui è divertente prestare fede. Ovviamente come in ogni buon racconto sono presenti amore, amicizia e i loro epigoni. C’è l’amore, si chiama Giulia. Si allontana e ritorna, decisa a convivere col nostro non-protagonista, dopo cinque anni (o solo tre settimane?). Il viaggio per andare a prenderla in stazione si smonta in episodi vari ed eventuali. Ogni volta la mutazione di un elemento ne trasforma il corso ed anche l’epilogo, sdoganando Caso e Destino. C’è l’amicizia-antagonismo, impersonata dal mitico Tolstoj. Che non è più in Russia, l’ha abbandonata da tempo per sfuggire a una moglie insopportabile. Ora vive a Roma, sulla Nomentana. Ama la coca-cola, mangia gelato, gioca a scopa e si accontenta di una partita a dama, la sorella povera degli scacchi. Ha il suo bel carattere, il vecchio scrittore, e non abbandona l’idea di lavorare ad un romanzo spettacolare la cui trama, però, somiglia fin troppo al capolavoro di Joyce, l’Ulysses. È un po’ infastidito dalla mole della sua opera omnia sugli scaffali della Feltrinelli e sembra comunque una persona felice. E Lev fa il confidente del protagonista, tra caffè al bar e partite a dama. Mitico l’intervento di Lev e la risposta di Nicola: “Ci sono vari modi per terminare una partita a dama: 1) Vincere. 2) Perdere. 3) Rovesciare la scacchiera. 4) Eliminare sé stessi e l'avversario.” Sarà che Lagioia ha uno dei nomi di Tolstoj, ma a lungo si misura con lui, a parte il discorso di Giulia, per imbastire un duello senza possibilità di vittoria sulla scrittura. Altro punto fondamentale, il consiglio di leggere “Guerra e pace” lasciandolo macerare per giorni sul bagnasciuga della spiaggia, per poi leggerne solo le pagine che rimangono intonse dalla corruzione della salsedine. Lagioia inoltre continua a citare tutti i più “grandi” di tutte le epoche. Nomi altisonanti e pesantissimi costellano le righe scritte (sia direttamente che in modo velato): Deleuze, Guattari, Miller, Cage (qui mi sono fermato per ricordare il mitico seminario sulla musica elettronica cui partecipai con Laura e Vito!), Socrate, Bréton, Brecht, Galileo, Duchamp, Manzoni (Alessandro, anche se con i Baustelle non dimenticherei Piero), Stendhal, Sartre, Proust, Céline, Marinetti, Goncarov, Majakovskij, Musil e non solo. Come ad esempio Guy Debord, inarrivabile fondatore dell’Internazionale Situazionista. A conoscerli tutti si diventa vecchi (un po’ come me…). Forse la parte che meno mi riesce a far sorridere e compenetrare è quando si parte con droghe e simili. Burroughs l’ho letto (e forse lo rifarò) ma non mi è piaciuto. Preferisco rimanere con Nicola a cercare di defenestrare Nikolaevic. E mi riferisco al suo significato originale, quello relativo al 23 maggio 1618, quando l’aristocrazia boema gettò dalla finestra il governatore imperiale (ed altri lacchè) che si salvò solo perché cadde su un mucchio di … letame. Probabilmente è tempo che cerchi altro di Lagioia, per capire la sua evoluzione, per tornare a minimum fax, al suo passaggio a Einaudi, ed ai premi. Che stranamente il nostro autore ha scritto quattro libri. Questo, il primo, ha vinto il Premio Lo Straniero, il secondo “Occidente per principianti” ha vinto il premio Scanno, il terzo “Riportando tutto a casa” il premio Viareggio 2010, e l’ultimo, “La ferocia”, il premio Strega. Sono tanti i premi italici o io sono malizioso e non ve lo dico?
Riccardo Bellandi “Lo spettro greco” Youcanprint s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 01/01/2016– I: 01/01/2016 – T: 04/01/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286; anno 2015]
Si stava in una piacevole vacanza nel triangolo Udine – Aquileia – Gorizia, ed Ale è riuscita a trovare questo libro in una bellissima libreria proprio di Gorizia, specializzata nella storia locale. E questo è proprio un libro “ad hoc”, che ci porta nell’ultimo dopoguerra, in quel territorio che tante ebbe a patire proprio in quegli anni. È stata anche una scommessa, visto che è un libro auto-prodotto (categoria che non sempre mi convince). Scommessa vinta a metà, che per ambientazione e collegamenti con gli avvenimenti del periodo è senza dubbio interessante. Meno, e cercherò di spiegarlo meglio, nell’intreccio in sé, che mi ha lasciato alcuni punti oscuri e dubbiosi. Infatti, e sinceramente, benché ne abbia letto, non ho una percezione completa di tutto quello che successe nel triangolo veneto-giuliano nell’immediato dopoguerra. Bellandi ha sicuramente studiato a lungo la materia, sia per l’abbondante corredo biografico, sia per l’uso di una serie di personaggi, nella finzione letteraria, che, senza una conoscenza puntuale non si sarebbero potuti usare. E non dico tanto degli italiani, che tutti conosciamo (con citazioni puntuali di Massimo Girotti e Natalino Otto), quanto degli americani come Dean Acheson o James Angleton, ed a maggior ragione degli salvi come Edvard Kardelj o Ivan Macek. Siamo nel primo periodo del dopoguerra, e la zona è in fermento: il confine orientale italiano è diviso, dalla linea Morgan, in una zona A (che comprende Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola) ed una zona B (con Capodistria e le grotte di Postumia). Mentre a Parigi si stava discutendo dell’assetto del mondo, in questa zona si svolgevano lotte cruente e crudeli, tra tutta una serie di personaggi e di popoli che “nel pensier spaurano”. Ci sono gli Ustascia, i fascisti croati di Ante Pavelic, i Padalci, cittadini italiani di lingua slovena, i cetnici, nazionalisti serbi fedeli all’esiliato re Pietro II, i drughi di Tito, i Domobranci, sloveni alleati ai tedeschi. Di sicuro ne dimentico molti (chiedo aiuto agli storici per dipanare la matassa). Ovviamente, le diplomazie trattano, e sul campo succede di tutto. Di questo Bellandi cerca di parlarci, mentre seguiamo le vicende personali e politiche di Aldo Ganz. Qui entriamo nell’opinabile e nelle parti che mi lasciano più ombre. Sebbene, credo correttamente, Bellandi cerchi di mantenere un asettico neutralismo rispetto agli attori della vicenda, la scelta di Ganz come motore dell’azione è pur sempre significativa. Ganz è un dalmata, che ha conosciuto solo la guerra. Entrato nelle milizie men che ventenne, viene sballottato da una parte all’altra del conflitto. Come molti italiani nati in territori “altri” mostra un viscerale attaccamento alla nazione d’elezione. Tanto da rimanere fedele ai suoi ideali anche dopo l’8 settembre (una scelta, ma ricordo sempre la storia di Cristiano Federico Ferrari narrata dal mio amico Luciano). Sceglie di continuare la lotta a fianco dei tedeschi, pur sapendo che è la parte sbagliata, quella maledetta e destinata a perdere. Si arruola, infatti, nei Repubblichini, viene catapultato nuovamente in Dalmazia (poiché parla molte delle lingue serbo-croate). Arrestato dai titini (le milizie di Josip Broz), miracolosamente scampato, vivacchia in quel di Trieste in attesa di un visto per la Spagna. Qui, in quest’autunno del '46 è intenzionato a portare a termine la missione messa in piedi dai Servizi americani, ad ogni costo, nonostante pericoli letali e ostacoli apparentemente insormontabili. Missione messa in piedi al fine di contrastare una riunione che si dovrebbe tenere in territorio jugoslavo, tra emissari di Tito e l’ala sinistra del Partito Comunista Italiano. In quest’attività Ganz è sostenuto da un comando locale, guidato dalla slovena Jana. Tralascio tutte le storie che s’intrecciano, tra buoni e cattivi, anche se i buoni non mi sembra che ci siano. Tradimenti di elementi del comando italiano. Tradimenti di elementi del comando sloveno. Ambiguità degli americani e degli alleati. E Ganz, che con vari flash-back va su e giù nella memoria, incontrando nuovamente l’aguzzino che lo torturò nei campi slavi, ora pezzo grosso dell’armata di Tito. La chiave di volta, anche se non vi do i particolari, sarà l’atteggiamento della Russia di Stalin verso il comunismo di Tito, una lotta intestina al blocco dell’Est che CIA ed amici loro non avevano contemplato potesse sussistere. Quindi, onore alla scrittura, onore alla riproposizione di un pezzo di storia che sto approfondendo, e che comunque ho gradito leggere mentre attraversavo le contrade friulane (ma Udine è molto più bella di Gorizia). Non sono convinto del taglio che viene dato allo scritto, per cui me ne rimane una valutazione monca. Anche se, lo sapevo prima e lo so tutt’ora, i Servizi Segreti Americani negli anni ’46-’56 molto hanno fatto, anche di sbagliato, in tutta l’area del Patto di Varsavia.
Come avete sicuramente notato, non siamo di domenica, avendo passato un rilassante e ricaricante weekend sorianese. Quindi, approfittando di questo 25 aprile di ricorrenza vi inoltre oggi le mie solite trame, aspettando altri viaggi che non arrivano. 

domenica 17 aprile 2016

Prendiamoci un TEA - 17 aprile 16

Anche se non sono tutti e quattro della Tascabili Editrice & Associati, ma c’è un intruso, anche se di buon livello, mondadoriano. Una settimana al femminile, con il ritorno alla scrittura di Annamaria Fassio, che è sempre una scrittrice a me gradita, e ben tre prove di Alessia Gazzola, con una buona media, dove l’unica che si abbassa è il romanzo-racconto quasi “obbligato” alla scrittrice per cavalcare l’onda del successo. Come dico in fondo, da questo mese c’è anche una piccola novità, “per aiutarvi ad essere felici”.
Annamaria Fassio “L’oro di Sarah” Mondadori euro 4,90
[A: 07/08/2014– I: 25/09/2015 – T: 26/09/2015] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 212; anno 2014]
Dopo aver detto tutto il male possibile della collana costanzo-mondadoriana a valle della brutta prova di Stefano Pigozzi, eccoci alle prese con una nuova puntata della genovese dei gialli. Che risale immediatamente la china del leggibile e del godibile. Anche se … E certo, anche se, per noi assidui lettori dei suoi scritti, ci si trova un po’ spaesati con questo semi-prequel. Dopo otto libri (almeno quelli che sono in mio possesso), infatti, in cui si seguiva l’andamento temporale di Genova, della squadra mobile e delle vicende da decifrare, questo nono capitolo fa un salto all'indietro, riportandoci, come centro della vicenda, alla Genova del G8 e di tutti i problemi connessi. Capisco che ci voglia del tempo per guardare quelle vicende non dico con occhio distaccato, ma almeno con uno sguardo “più sereno”. E tuttavia, per noi seguaci del commissario Erica Franzoni, ci si trova leggermente spaesati. Non per la vicenda, su cui ritorno tra breve. Ma per il contorno. Perché negli anni narrati (in particolare il 2001 ed il 2002), Erica ha da poco finito una breve storia con l’agente Lo Pascio. Il vicequestore Maffina è ancora fidanzato con Annalisa, vecchia amica e compagna di studi di Erica. Ed a me che so l’evolversi della vicenda tutto ciò ha avuto un effetto spaesante, soprattutto all'inizio. Poi, ci si mette l’animo in pace, si guardano le date, e si dice: vabbè, abbiamo riempito un tassello mancante. E veniamo al testo, allora. Che ha una sua simpatica complessità. Durante gli scavi per realizzare le strutture che ospiteranno il G8, viene rinvenuto uno scheletro di ragazza quindicenne, che, dagli esami effettuati, si scopre essere residuo di un bombardamento avvenuto a Genova nell'agosto del ’44. In mancanza di lavori immediato, in questo agosto ’01, Erica si mette in testa di risalire alla storia dello scheletro, in questo aiutata (forse, o depistata) dal vicino di casa, Sam Lauria, un anziano, forse insegnante, sicuramente ebreo, e di certo a conoscenza di alcuni fatti accaduti in guerra. Non fosse altro perché, dice, aver abitato nel palazzo dove è stato ritrovato lo scheletro. E su questo filone, Annamaria procede con alcuni quadri dell’agosto ’44 molto vivi, descritti benissimo, e che rendono l’atmosfera particolare di Genova occupata dai tedeschi, il comportamento attendista degli ebrei, i tentativi personali della curia di prendere vantaggio della situazione, la vicenda personale di Padre Giovanni, ebreo convertito e seminarista, e del suo amico padre Giuseppe. La rovina della famiglia Blum, nonché la scomparsa della giovane Sarah. Ovviamente, è subito chiaro che sia di Sarah lo scheletro, ma a noi interessa capirne i risvolti con l’attualità. Che la nostra avvia su due binari: Maffina che è coinvolto nelle indagini su Piazza Alimonda e su Bolzaneto, Franzoni che si trova coinvolta invece negli appalti curiali gestiti da un avvocato per nulla simpatico. L’abilità della nostra, anche se con qualche lentezza, è di andar mescolando i vari piani. L’artigiano Caruso cerca un appalto dall'avvocato Finocchiaro, con un ricatto che lì per lì non capiamo. Ma capiamo che l’avvocato assolda un killer per uccidere Caruso. E poiché il ricatto sembra scottare, il killer fa fuori anche don Giuseppe. Che c’entra, direte voi? È che tutto pian piano si collega. Lo zio di Finocchiaro era Monsignor Della Porta, che si faceva intestare i beni dagli ebrei per poi aiutarli a fuggire. Ma spesso la fuga fallisce (connivenze? errori? ognuno dirà la sua). Così fanno sia i Blum che i Bologna. Ma anche con l’aiuto di Padre Giovanni, non riesce nessuna fuga. I Blum vengono uccisi al porto, meno Sarah di cui si troverà lo scheletro. I Bologna al confine con la Svizzera, meno il piccolo Simone, che, adottato di là dal confine, assume il nome di Caruso ed è il padre dell’artigiano. Che trova i documenti che segnalano la complicità di Della Porta e con quelli cerca di incastrare l’avvocato. Che fa uccidere il prete che sapeva dei collegamenti. Inoltre Caruso era stato malmenato a Bolzaneto, così che si crea un collegamento tra le inchieste di Maffina e Franzoni. Ci sono anche altre intrecci, tra agenti coinvolti nei pestaggi obtorto collo (leggi l’appuntato Ida, che troveremo meglio inserita nella squadra Franzoni in puntate precedenti di scrittura ma successive di temporalità) ed agenti che deviano. E sarà proprio Ida, rischiando del suo, a trovare l’ultimo bandolo che incastrerà finalmente Finocchiaro. In tutto ciò non si capisce che sia realmente Sam. Tuttavia nella creazione complessa della trama, Annamaria riesce a non far cadere troppi pezzi (forse il solo Sam) e maneggia tutto con piacere per il lettore. Forse con poca suspense. Ma è gradevole e scorrevole il leggere queste righe, soprattutto se lo si fa nella pianura padana, treneggiando verso Mantova, in una giornata altrimenti di grandi dispiaceri.
Alessia Gazzola “Un segreto non è per sempre” TEA euro 12 (in realtà, scontato a 10,80 euro)
[A: 05/05/2014– I: 10/10/2015 – T: 16/10/2015] - &&&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 412; anno 2012]
La seconda puntata delle vicende della dottoressa Alice Allevi, che purtroppo prendono dalla prima puntata solo quel carattere di scrittura un po’ sincopato sui personaggi, accentuando la distanza con “il giallo”. Certo Alessia è capace di scrivere scorrevole, di non addormentarsi troppo sui personaggi. Tuttavia il tono generale sembra più alla “I love shopping” che “I read the corps” (per chi volesse entrare nella catena dei miei giochi di parole, leggere i cadaveri è quanto dovrebbero fare gli anatomo-patologi). Troppe citazioni di qualsiasi oggetto venga introdotto sulla scena che certo non aiutano la distensione (un biscotto Oreo sbocconcellato da Alice, il taccuino Moleskine di Calligaris; la borsa Vuitton Neverfull PM bramata da Yukino, il giaccone Fay di Claudio, fino alla boutique di Gucci dell’aeroporto). Altro dato ricorrente e fastidioso è la ridondanza di A. La protagonista si chiama Alice Allevi, la sua antagonista in reparto Ambra, il suo amore “controverso” Arthur, si indaga sulla famiglia Azais, il secondo cadavere è di Amelie. E visto che quando si prende la mano, ci si abitua, il suo amico ispettore è Calligaris, il suo nuovo possibile “love affair” Claudio Conforti, la sorella di Arthur è Cordelia. Basta! Cara Alessia, la prossima storia, cerca di usare una roulette per variare almeno le iniziali. E per fortuna che la storia ha degli spunti interessanti, anche se non vicinissimi alle storie gialle cui saremmo abituati. Che la narrazione s’intreccia con la scrittura, che molti personaggi sono legati allo scrivere ed ai suoi risvolti, personali ed editoriali. Questa seconda avventura della specializzanda in Medicina Legale, nasce dall'incontro con lo scrittore Konrad Azais, che i familiari vogliono interdire, in quanto vuole nominare erede del suo ingente patrimonio (derivato dai diritti d’autore di almeno un fortunato libro) la forse ignota Amelie Volange, figlia di un altro scrittore, ex amico di Konrad in gioventù, ma senza il suo successo. Il caso si complica, quando, pochi giorni dopo la perizia, Konrad muore. La nipote Clara dovrebbe (potrebbe?) aver visto tutto ma si trincera in un mutismo “da isteria”, come direbbero i manuali. Compare Amelie sulla scena, e compaiono i figli di Konrad. I genitori di Clara, Edoardo e Selina presso cui Konrad vive, Enrico, che vive all'ombra del padre senza riuscire a scrivere cose originali, Louis, l’imprenditore, che non vuole perdere l’eredità, Oscar, l’artista, vicino al temperamento del padre (grande appassionato di enigmistica, tanto che mi avrebbe fatto piacere presentarlo a mia madre). Alice si butta a corpo morto nelle maglie delle indagini, anche se sempre con quella sua aria “che ci faccio io qui?”. Intanto viene uccisa anche Amelie, che si scopre avere una relazione recente con Oscar, nonostante questi sia fidanzato con Vittoria. Ma Alice non demorde, nonostante Arthur sia lontano e forse non torni più (pare vada in Costa d’Avorio per qualche missione internazionale), nonostante la nuova perturbazione dovuta a Claudio ed allora loro forse incipiente relazione, nonostante Yuki (la sua simpatica coinquilina) voglia tornare in Giappone. Ed avrà le sue brave vittorie. Convincendo Clara a parlare, dimostrando che i due delitti, pur di persone vicine, derivano da due vicende “unite e disgiunte”. E sono commessi da due persone diverse. Una perché non riuscendo a scrivere come vorrebbe, decide di rubare uno scritto di Konrad, affrettandone la morte per non farsi scoprire. L’altra per evitare che Amelie sputtani Konrad dimostrando (come si capisce presto) che il libro che gli ha dato la fama è stato scritto da un altro. Come il giallo, anche l’universo sentimentale di Alice è perennemente in bilico, e forse a volte troppo preponderante, tanto da far temere più un’epigona di Bridget Jones piuttosto che di Kay Scarpetta. Resta tuttavia il rigore scientifico delle parti tecniche, che ho apprezzato, e le citazioni che ornano i capitoli. Molta simpatia, ma non troppa sostanza.
“È questo il potere supremo dei libri, il più grande tra i tanti, quello di riuscire a fondere le sensazioni di uno scrittore in un balsamo applicabile sull'anima di chi sta vivendo qualcosa di simile o magari qualcosa di totalmente diverso perché, alla fine, ognuno dà ai libri il significato che vuole.” (162)
“Ogni libro ha diritto ad una chance. E non esistono libri belli o brutti, perché non esiste un parametro vero per giudicare un libro. Esiste solo la soggettività.” (195)
Alessia Gazzola “Sindrome da cuore in sospeso” TEA euro 8,50
[A: 18/02/2015– I: 16/10/2015 – T: 18/10/2015] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 160; anno 2012]
Un tentativo di prequel della vicenda “Allevi”, molto moscio, con un’inutile appendice di una storiellina o sogno della nostra dottoranda – dottoressa, che per pudore tralascio, dedicandomi alla già non troppo coinvolgente storia principale. Ogni serie ha diritto ad una puntata pilota, anche se qui, appunto, il termine corretto è “prequel”. Che già due libri sono usciti con al centro la nostra simpatica quasi beniamino. Tutte le storie, inoltre, onde ribadirne la validità, hanno piccoli inizi: da Alien a Terminator, dai superuomini di X-Men agli hobbit del Signore degli Anelli, per non tralasciare Star Wars ed il mitico, inarrivabile, Ritorno al Futuro. Ed in queste brevi pagine, la nostra Alessia cerca di spiegare come e qualmente Alice scelga la sua strada. Alice, fin dagli inizi, come ora che è ancora studentessa di medicina, non ancora specializzanda, ed ancora con più di un piede presso la famiglia che vive a Sacrofano (vicino Roma, e non lontano dalla mia amica Teresa), è la stessa Alice che abbiamo già incontrato quando sarà laureata e dottoranda. Piena di sbalzi d’umore, sbadata, ridanciana ed incosciente, quasi un’epitome del laureando con la sindrome di Peter Pan. Insomma, lì tra mamma e papà buoni e comprensivi, ed aiutata solo dalla nonna Amalia (molto simpatica, anche se purtroppo il suo nome comincia ancora con “A”), Alice è alle prese con un problema di fondo per la sua vita: si è resa conto, al quinto anno di università, di non essere tagliata per diventare medico, quindi si chiede cosa farà per non deludere i suoi genitori? Che cosa vorrebbe realmente fare della sua vita? Mentre si dibatte in questo dilemma, muore di morte violenta la badante russa della nonna. Già questo la porta ad avvicinarsi ai cadaveri. Incontro che si rivelerà fatale nel momento che, come medico legale, si presenta nientepopodimeno che l’affascinante dottor Claudio Conforti. Certo Conforti rimane sempre saccente e superbo, bello e impossibile come il protagonista di un fotoromanzo (e a me particolarmente odioso). Ma la sorpresa è la bella figura della nonna: immancabile come la Nutella, un bel romanzo e l'acqua calda, nota il tuo nuovo taglio di capelli, la gonna troppo corta della moglie del Sindaco, chi timbra il cartellino prima delle otto ore lavorative e chi ha una tresca clandestina con chi. Tenera e impicciona, ricoprirà un ruolo chiave nella prima indagine della sua confusa nipotina e nella scelta del suo imprevedibile cammino lavorativo. Mentre indaga e risolve il problema della badante (sul quale perdo poco tempo più avanti, che è un di cui di tutta la storia, che come detto serve a mettere le basi della futura dottoressa Allevi), la nostra Alice cerca casa lontano dalla cerchia familiare. Per non spendere troppo, cerca anche una coinquilina, trovando la simpaticissima Yukino, di cui impariamo ben presto i pindarici voli verbali e gli improbabili esperimenti gastronomici. Non mancano poi altri ingredienti che troveremo nei futuri romanzi: Marco e i suoi occhi da panda cerchiati di rimmel, la Wally, Silvia e via elencando, tanto per non farci mancare i richiami ai libri futuri. Intanto il libretto scorre: Tatiana ha un’amica, entrambe con problemi di figli illegali ed entrambe che si accompagnano a tipi poco raccomandabili. Soprattutto il manesco Filippo, che vorrebbe dare la piccola ai loschi Mancini. Alice riesce a far breccia su Belinda, a farsi raccontare tutto e risolvere anche questo poco intricato caso. Certo qualche sorriso distende le nostre facce, senza però rilassarle mai completamente. Forse i migliori spunti sono quelli che già rimandano ai precedenti libri, che conosciamo per cui vediamo la nascita dei futuri problemi della nostra pur simpatica Alice. Rimane però tutto un po’ sospeso, come il cuore di Alice. Vedremo come si andrà avanti, seguendo (forse) la scrittura della poco più che trentenne siciliana.
Alessia Gazzola “Le ossa della principessa” TEA euro 12
[A: 03/04/2015– I: 16/03/2016 – T: 18/03/2016] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 344; anno 2014]
Anche se continua ad avere un buon livello di scrittura, la nostra amica siciliana comincia ad essere un po’ ripetitiva. Ne avevamo avuto sentore negli altri scritti, dove, a parte il poliziesco in sé, che ovviamente cambia, il contorno tende a ripetersi con un po’ di monotonia, alla fine. Lo considero un libro di gradevole lettura e sufficiente presa, ma se Alessia si vuole alzare un po’ sopra la media deve inventare qualche nuovo elemento, qualche scatto in avanti, che qui, purtroppo, non troviamo. Forse l’unica novità è che comincia ad utilizzare anche altre lettere dell’alfabeto, avendo noi notato che nei primi libri continuava ad esserci una ripetitività delle iniziali. Certo, il professore si chiama Curreri (ancora la C), e la dottoressa in carriera Anita (sempre le A), ma il figlio del prof nonché giovane in carriera fa Daniel, anche se la madre, e moglie del prof, scivola su un poco inventivo Ella (tre lettere in sequenza). Fortuna che la morta questa volta si chiama Viviana Montosi. Dicevamo del contorno sempre un po’ uguale. Alice è sempre tra l’imbranato ed il molto scaltro. Si trova sempre sospesa tra l’amore impossibile con Claudio, il bel dottore nonché suo superiore, e il sentimento senza sbocchi con Arthur, che gira il mondo e mai si ferma. Alti e bassi, un colpo alla botte ed un al cerchio, ma si rimane lì, magari piangendo per le brutte figure rimediate e le belle figure non andate in porto. C’è ancora la coinquilina Cordelia, anche se rimane sempre un po’ sullo sfondo, e che non riesce a prendere, sentimentalmente, il posto della precedente, la giapponese Yukino dal bell'italiano improbabile. Aumenta anche se di poco, invece, il peso del commissario Calligaris, con il quale Alice collabora sempre più da vicino (e vuoi vedere che troverà il modo di coinvolgerla prima o poi in modo ufficiale in qualche indagine futura?). Le due trame che invece reggono l’ossatura del libro, sono una, finalmente, che movimenta la vita dell’Istituto, dove scompare Ambra, l’Ape Regina. La scomparsa dà modo ad Alice di ripensare al suo rapporto con gli altri, a come ha visto, sino ad ora, Claudio (che a me continua a non essere tanto simpatico). Alessia tenta di sviluppare una trama su quel versante, ma, accortasi della poca libertà di manovra, ne imbastisce una nuova, più promettente. Tanto che Ambra entra ed esce dalle parole del racconto, fino a scoprirsi umana, più di quanto pensasse Alice. La ritroveremo, anzi la ritroveranno, in un posto inaspettato, pronta a prendere la propria vita in mano, e dando modo ad Alice di riflettere sulla sua, di vita. Da quell'inizio di scomparsa, invece, andiamo a trovare una vera morta, la Viviana di cui sopra, dottoranda in archeologia, scomparsa sette anni prima, ed ora ritrovata per gli scavi di qualche costruzione. Trovata in posizione fetale, con una corona di plastica accanto ed una moneta in tasca. Già capiamo che deve essere stata una sepoltura rituale, per cui, benché la nostra scrittrice tenti a piè sospinto di inserire qualche dubbio verso stalker e compagnia cantante, noi non ci discostiamo dall'ambiente lavorativo. Anche perché, Viviana era appena tornata da una lunga permanenza, insieme al gruppo di ricerca del professor Curreri, in Terra Santa. Anzi, per la precisione, a Gerico. Inciso: sentire di nuovo parlare di Gerico, di Gerusalemme, di Palestina, e perché no, anche di Tel Aviv, mi ha messo addosso una voglia di tornare laggiù. Mi manca quella terra martoriata, cui sono legato da tanti viaggi, e dove non mi stancherò mai di tornare. Lì c’era stata competizione, che Viviana ed Anita erano in lotta per un unico posto nel Dipartimento di Archeologia. Lì c’era stata la sbandata di Viviana per Daniel, il figlio del prof, bello e stronzo, che la usa per la sua di carriera, illudendola un po’, benché già fidanzato. Forse poteva cambiare qualcosa, ma la scomparsa di Viviana lascia a Daniel campo libero sulle scoperte comuni, attraverso le quali farà una luminosa carriera. Come farà carriera Anita, rimasta sola per il posto, cui tendeva anche perché era l’amante del prof. Tanti quanti sono i sospettati per aver inscenato la scomparsa: Anita per il posto, Daniel per le ricerche, il professore perché Viviana poteva svelare la sua tresca con Anita e togliere lustro al figlio, Ella perché sospettava che Viviana fingesse di star vicino a Daniel, ma fosse lei l’amante del marito. Certo non vi dirò come e qualmente la nostra Alice, leggendo tabulati, guardando scarabei e pensando molto troverà la triste soluzione della vicenda, forse un po’ sottotono rispetto alle aspettative, ma logica conseguenza delle premesse. Tre buone serate di lettura, accompagnato dal sax di Garbarek che dava un tocco di nordica calma alle calde vicende mediorientali. Aspettiamo ancora la prossima lettura del successivo romanzo, sperando che Alessia (e Alice) facciano qualche scatto in avanti. Per ora, ripeto, un’onesta sufficienza.
“Non è vero che i bei ricordi consolano, anzi. Non sono un caldo rifugio durante le avversità, balle. I bei ricordi tormentano, perché non torneranno.” (200)
“In Giappone diciamo: domandare non costa che un istante di imbarazzo, non domandare è essere imbarazzati per tutta una vita.” (313)
Come sopra preannunciato, questa settimana abbiamo la novità dei “libri per essere felici”. Una simpatica iniziativa nata dal libro compendio di Giulia Fiore Coltellacci che continua il solco delle libro-terapie iniziate ormai da due anni. Mi ha colpito per quell'incipit che non posso non fare mio (citando Montesquieu: “Non ho mai avuto un dolore tale che un’ora di lettura non abbia dissipato”). E vi segnalo lo scanzonato viaggio che ne descriviamo, intorno a Flaubert.
Per il resto, non si viaggia avventurosamente, si legge disordinatamente e si abbracciano tutti i miei amici.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

APRILE 2016
I primi libri che affrontiamo servono a curare, risollevare, alleviare gli acciacchi del cuore (che sempre da lì si parte). Partiamo quindi con le cure per il mal d’amore, che prevedono una lunga serie di terapie.

TERAPIE D’AMORE

MADAME BOVARY di GUSTAVE FLAUBERT (1856)

Pillole di trama
Emma è una bella ragazza di buona famiglia che accetta di sposare il mediocre medico di campagna Charles Bovary. Imbottita di cattiva letteratura sentimentale, inquieta e insoddisfatta, sogna un grande amore che la salvi dalla sua noiosa vita e dal suo banale matrimonio, che neanche l’arrivo di una figlia riesce a risollevare. La brama di un focoso amante si materializza nell'infatuazione per il giovane Léon. Quando lo studente si trasferisce, Emma si consola con il ricco Rodolphe che, però, la scarica non appena intuisce che la donna vuole qualcosa di più di un’avventura. Emma si deprime e il marito, cornuto ma paziente, la assiste da bravo medico. Ma la cura migliore per la depressione della protagonista risulta essere il buon vecchio rimedio del “chiodo scaccia chiodo”, ovvero un’altra relazione. L’occasione si presenta quando riappare sulla scena Léon che, però, si stanca presto dell’opprimente Madame Bovary e l’abbandona senza troppo problemi lasciandola al verde e piena di debiti. Emma torna dal marito che l’accoglie ancora e la perdona (cornuto due volte e paziente fino alla stupidità), cercando di curarla quando si ammala di una profonda depressione che porterà lei al suicidio e lui alla bancarotta e poi alla morte.
Supposta-saggezza
“La sua vita era fredda come una soffitta che ha il finestrino volto al nord, e la noia, come un ragno silenzioso, filava la sua tela nell'ombra, in ogni angolo del suo cuore”. Con queste poche parole Gustave Flaubert individua con una chiarezza abbagliante il dramma di Emma Bovary, quella noia e quell'insoddisfazione che la porteranno alla rovina. Con la stessa frase si può spiegare anche cosa rende questo romanzo, i cui protagonisti sono senza possibilità d’appello tutti negativi, anzi peggio, meschini e mediocri, una lettura ammaliante che si attorciglia al cuore del lettore come una ragnatela, intrappolandolo dalla prima all'ultima riga. Pur biasimando la capricciosa, immatura e superficiale Emma per tutta la storia fino al tragico epilogo, non si può far a meno di provare un certo disagio dovuto alla consapevolezza che ci si potrebbe ritrovare ad agire come lei e per le sue stesse ragioni. Chi, infatti, annoiato, insoddisfatto e intrappolato nella propria claustrofobica routine quotidiana, non si è ritrovato a desiderare una romantica o avventurosa via di fuga? Chi non ha mai aspirato a una grande e appassionata storia d’amore come quelle dei romanzi o dei film? E quanti non hanno cercato nell'adulterio quella scappatoia e quella scossa tanto vagheggiate? Lo stesso Flaubert, impietoso nel suo realismo innovativo ma mai giudice dei suoi protagonisti, disse «Madame Bovary c’est moi». Ma se l’aspirazione di Emma a una vita diversa, migliore e piena è perfettamente condivisibile, non lo sono il suo atteggiamento infantile e il carattere volubile che la rendono incapace di cambiare davvero la sua condizione. È una creatura che scalpita rimanendo sempre ferma perché, in realtà, non sa dove andare e non sa cosa vuole davvero, reputa la sua vita banale senza accorgersi che è lei a essere banale, scambia il fascino del proibito e della clandestinità che avvolgono l’adulterio con i brividi del desiderio, crede di voler vivere intensamente ma in realtà vorrebbe solo una vita avventurosa e piena di passione come le eroine romantiche dei romanzi che legge, è incapace di veri slanci e si limita ad aspettare un uomo che la salvi dalla sua vira. Anche il melodrammatico suicidio non è una presa di posizione ma un’ulteriore via di fuga. Nel film Insonnia d’amore, Nora Ephron centra con una battuta fulminante il problema che affligge le donne come Emma: «Tu non vuoi essere innamorata, vuoi essere innamorata in un film». Sostituite la parola “film” con “romanzo” e tutto torna.
Se Emma è superficiale e immatura, perfino nel suo modo di concepire l’amore che immagina come «un grande uccello con le ali colorate di rosa» (no dico, con le ali colorate di rosa!!!) gli uomini non fanno una figura migliore. Sono tutti miseri nella loro grettezza: il marito è ottusamente accondiscendente e finisce per fare male pensando di fare bene, mentre gli amanti godono finché c’è da godere e scappano quando intravedono che «non sarà un’avventura» e la situazione si fa appiccicosa. Ma è proprio questa la grandezza rivoluzionaria del romanzo di Flaubert: l’impietosa rappresentazione dell’umana stupidità e il coraggio di descrivere quell'assenza di sentimenti sinceri, di coraggio e di verità che rende misera la vita. In Madame Bovary non ci sono eroi positivi né negativi, ma fanno il loro ingresso in letteratura i mediocri, i grigi e i gretti. Fa il suo ingresso la realtà dell’uomo moderno.
Posologia
Come riportato nel dizionario Hoepli, il bovarismo identifica l’«atteggiamento di chi si ritiene diverso da quello che è, costruendosi un mondo immaginario nel quale proietta desideri e frustrazioni che nascono dall'insoddisfazione per la propria condizione reale». In forma più o meno lieve questa patologia colpisce con estrema facilità tutti i soggetti caratterizzati da una spiccata tendenza a fantasticare che si sentono prigionieri di una vita banale. In sostanza, tutti gli inguaribili lettori romantici ne sono potenzialmente affetti. D’altra parte, a quanto dice Daniel Pennac in Come un romanzo (che trovate nel kit di pronto soccorso per lettori scettici), oltre a essere una malattia testualmente contagiosa e piuttosto diffusa (generalmente si tende a vederne affetti sempre gli altri e mai se stessi) il bovarismo è uno dei dieci diritti imprescrittibili del lettore e a grandi lince si identifica come «la soddisfazione immediata ed esclusiva delle nostre sensazioni: l’immaginazione che si dilata, i nervi che vibrano, il cuore che si accende, l’adrenalina che sprizza, l’identificazione che diventa totale e il cervello che prende (momentaneamente) le lucciole del quotidiano per le lanterne dell’universo romanzesco. .. È il nostro primo stato di lettori». In sostanza, il bovarismo è come il colesterolo: entro certi limiti la sua presenza è fondamentale per il nostro organismo perché necessaria al funzionamento del sistema nervoso, ma se i suoi livelli raggiungono quantità eccessive può rappresentare un pericolo per la salute del cuore. Esiste il colesterolo/bovarismo buono, che mantiene pulito il sangue, e quello cattivo che invece ostruisce le arterie provocando il rischio d’infarto. Madame Bovary consente di regolare i livelli di colesterolo nel sangue, mantenendo il giusto equilibrio tra bovarismo buono e bovarismo cattivo. Alla formazione dell’ipercolesterolemia contribuiscono fattori genetici e un’alimentazione troppo ricca di romanzi rosa (o film sentimentali). Vladimir Nabokov scrisse che Madame Bovary è morta ammazzata dai brutti libri e Flaubert lo conferma quando racconta la passione di Emma per quei romanzi in cui ci sono «sempre amori, amanti maschi e amanti femmine, donne perseguitate [...] tenebrose foreste, tumulti del cuore, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barchette al chiaro di luna, usignoli nei boschetti, eroi forti come leoni, dolci come agnelli, virtuosi come non era possibile essere, sempre ben vestiti, sempre pronti a piangere come fontane». Di conseguenza Madame Bovary contrasta anche i rischi della cattiva letteratura.
Oltre a essere un farmaco efficace nel trattamento di patologie del sistema nervoso e gravi malattie cardiache che, logorando lentamente cervello e cuore, si rivelano più dolorose di un ictus o di un infarto fulminante, il romanzo è anche un valido complesso vitaminico. In caso d’insoddisfazione esistenziale, infatti, le vitamine del gruppo B(ovary) consentono di trasformare il desiderio di novità in azione, metabolizzando l’insoddisfazione e gli zuccheri in energia necessaria al cambiamento per non rimanere sul piano inclinato della fantasia con il rischio costante di scivolare verso un’immobile infelicità come quella di Emma.
Un altro effetto del libro è quello di depurare l’organismo dal falso e nocivo concetto che prima o poi arriverà qualcuno a salvarci dalla nostra frustrazione. Nessun uomo salva Emma e il deus ex machina è un’invenzione da tragedia greca perché nella vita vera tocca fare da soli. Tutt’al più, se siamo fortunati, possiamo incontrare qualcuno che ci dà una mano, ma non ci adagiamo nella speranza che arrivi Richard Gere a sollevarci dallo squallore della nostra condizione come nel finale di Ufficiale e gentiluomo. Che poi, detto fra noi, se proprio dobbiamo sognare un finale da film, è meglio quello di Pretty Woman, almeno in quel caso Richard è pure miliardario.
Effetti collaterali
Vista la fine di Emma potreste diventare intolleranti ai romanzi rosa, suggestionati dalla paura che possano avere un’influenza negativa sulla vostra visione dell’amore e della vita. Ma, come nel caso delle intolleranze alimentari, sarebbe sbagliato eliminare del tutto l’elemento di disturbo. È più opportuno distinguere tra la letteratura cattiva, letale quanto un veleno, e quella buona, sana, genuina e priva di ingredienti contraffatti. D’altra parte, privandosi del tutto del romanticismo si rischia l’apatia emozionale, una malattia da evitare come la peste. In caso di sovradosaggio di letteratura sentimentale, potete sempre attutire gli effetti con una somministrazione di Madame Bovary.
Terapia cinematografica sostitutiva
Da Jean Renoir a Vincent Minnelli fino a Claude Chabrol, sono tanti i registi che non hanno resistito al fascino del romanzo. Ma dal momento che la cura letteraria è piuttosto forte (basti pensare che Flaubert fu accusato di oltraggio alla morale per la condotta della protagonista), consiglio di renderla più digeribile abbinandola alla visione di una commedia leggera che si diverte a giocare con il romanzo: Gemma Bovery di Anne Fontaine. Tratto dal fumetto di Posy Simmonds, il film francese del 2014 rende a Gustave Flaubert pan per focaccia, mostrando come anche un capolavoro come Madame Bovary possa fare danni. Martin è un intellettuale parigino che da anni si è trasferito con la moglie in un villaggio della Normandia riciclandosi come panettiere. Tra le sue letture preferite, c’è proprio il romanzo di Flaubert. Quando scopre che i nuovi vicini si chiamano Gemma e Charlie Bovery, la sua fantasia si sbizzarrisce, ma le sue fantasticherie meta-letterarie provocheranno non pochi guai.
Un consiglio in più
In caso d’insoddisfazione acuta, astenia emotiva e carenza di interessi, si consiglia di rafforzare la cura con Gli indifferenti di Alberto Moravia. Si tratta di una vera e propria terapia d’urto per ritrovare la volontà e la capacità di slanci vitali. Noia, ansia di vivere e incapacità di scelte autentiche che si traducano in vere svolte caratterizzano gli apatici protagonisti di questa insuperabile rappresentazione di come il benessere possa produrre malessere, la mancanza di volontà condannare all'infelicità e l’indifferenza tradursi in uno dei peggiori mali del mondo. Leggere Gli indifferenti è un ottimo rimedio per combattere queste malattie velenose e silenziose, troppo spesso sottovalutate. Il leggero senso di nausea provocato dall'indifferenza dei protagonisti è il sintomo che la cura sta facendo effetto.

Commenti

Ho letto (ebbene sì lo confesso, l’ho fatto!) Flaubert prima di cominciare le mie trame “matte e disperatissime” (vedi Alfieri), quindi non ho commenti su di lui. Ma nel nostro periodo di vicinanza, fino a che non vogliate andare per la vostra strada, ho invece letto Moravia.
Alberto Moravia “Gli indifferenti” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 20 maggio 2012]
Non mi ero mai cimentato in un romanzo di Moravia (solo qualche racconto e resoconto di viaggio). E devo dire che avrei fatto bene a continuare con la mia crassa ignoranza. Ma si sa, quando ci si mette in testa che ci sono libri che vanno letti, noi testardi tori, difficilmente ci tiriamo indietro. Ma dopo aver letto quello che viene considerato una pietra miliare della sua produzione (e poi ci torneremo sui perché di tutto ciò) capisco e concordo con le motivazioni dell’Accademia svedese che mai volle concedere il Nobel al nostro (che etichetta le opere di Moravia come pervase da una generale monotonia). Ed in effetti, mi sono decisamente annoiato a seguire le vicende di Mariagrazia e dei suoi due figli Michele e Carla, nonché del suo amante Leo e della sua amica Lisa. Certo sono passati più di ottanta anni, e la vicenda è funzionale al momento storico in cui è stata scritta ed ambientata. Ed inoltre Moravia ha 22 anni quando la scrive, nel pieno del giovanile ardore. Ma mi fa l’effetto come credo farà verso la fine di questo secolo se qualcuno si mettesse a leggere 3MSC. Monotono, scontato, pieno di descrizioni inutili, pesanti, tanto per riempire la pagina. Con personaggi che sì sono “indifferenti”, ma tuttavia lo sono anche per me. Non mi hanno mai coinvolto, in nessun sentimento. Perfino di odio, che almeno è un sentimento forte. I tormenti di Michele mi sono altamente indifferenti, così come il suo modo di incartarsi intorno alle parole ed alle azioni che pensa di compiere e non compie. Le angosce stralunate di Carla che per noia, per indifferenza finirà (forse) per far del male alla madre, ma che lo fa senza dubbio a sé stessa. La paura di invecchiare delle signore di una cera età, che in modo diverso cercano di esorcizzarla: Lisa pensando che un amante giovane possa ringiovanire la sua carne e Mariagrazia cercando i modi per tenere legato a sé l’amante vecchio. In un certo senso, è quasi più comprensibile il personaggio, tutto in negativo, di Leo. Che si abbarbica come una cozza gigante alla famiglia della sua amante, ne succhia i soldi e le proprietà, finendo per divorare anche la giovane Carla, quella che “potrebbe essere sua figlia”, che ha visto crescere, e che ora vuol far preda della sua cupidigia. Questi sono i cinque personaggi, che in una Roma senza tempo, ma ben collocato nel tempo dello scrivere, riempiono di nulla le quasi trecento pagine. Dall'intreccio così tipicamente “alla Invernizio”: Leo era l’amante di Lisa, che però non è particolarmente ricca; Lisa è amica dall'agiata Mariagrazia; Leo lascia Lisa per Mariagrazia, ne foraggia la vita, prendendo pian piano in cambio i possedimenti, la casa, insomma tutto, tanto che in una decina di anni si ritrova padrone di tutto; talmente padrone (e stufo dell’ormai cotta amante) che decide per la carne fresca della di lei figlia Carla; Carla che aspetta un inopinato principe, ma che decide di darsi a Leo “tanto per vedere se succede qualcosa”; e Michele che osserva tutto questo disfarsi, pensando dentro di se di ribellarsi, riempiendosi di parole, di fatti non fatti, ma finendo (forse) solo nel letto di Lisa. E il girotondo continua (anche se Schnitzler è ben altra cosa). Su queste dieci righe il nostro Moccia d’antan costruisce pagine su pagine di un nulla monotono. Privo anche di quella pulsione erotica che almeno darà un senso alle sue opere successive (ma anche qui di un erotismo vacuo che non incide né in sé stessi né sulla società, come in altre righe commentano sempre gli Accademici svedesi). Certo, se lo si colloca nel tempo della scrittura, forse ha più frecce al suo arco. Il ritratto della vuota borghesia fascista che corre verso il nulla (o forse cammina, che già correre è un’attività propositiva) potrebbe dare un senso allo scritto. Ma per essere degno di ricordo e lettura, deve possedere qualità che lo rendono vivo e fruibile, anche al di là del tempo dello scritto (così come il poco successivo temporalmente e contemporaneamente letto libro della cripta dei cappuccini di Roth). Non si può leggere uno scritto e reputarlo degno di nota soltanto in una prospettiva storica. È ovvio che questo può dare un piacere intellettuale. Ma privo del sostegno di una scrittura affascinante, rimane nella testa, senza scendere in nessuno dei cinque umani sensi che ci fanno apprezzare ed amare la scrittura. Quella che, quando succede, si colloca fuori dal tempo e dentro il nostro cuore. Non così Moravia. E penso che non ci ritornerò più.

Finalino


Come prima uscita, direi che la giovane Giulia Fiore si sta comportando benino. Una buona sintesi, alcuni commenti ben diretti. E, soprattutto, il gioiellino di “Gemma Bovery”, che vi consiglio di cercare e di vedere al più presto.

domenica 10 aprile 2016

La Signora del Giallo 5 - 10 aprile 2016

Siamo alla penultima infornata dell’estesa lettura cronologica dei libri di Agatha Christie. Dove, forse fino alla noia, continuo a ripetere e ribadire gli assi portanti che mi ritorna la sua scrittura. Buoni libri con protagonista Poirot, sufficienti quando passiamo a Miss Marple, in calando sia sui racconti che su libri con altri attori alla ribalta. E questa settimana andiamo in rapida discesa da un più che interessante Poirot, scendendo di librini in librini fino al quasi scarso libro con streghe finale.
Agatha Christie “Dopo le esequie” Corriere della Sera 7 euro 6,90
[A: 15/09/2014– I: 19/10/2015 – T: 21/10/2015] - &&&&
[tit. or.: After the Funeral; ling. or.: inglese; pagine: 237; anno 1953]
Per fortuna, con questo ventunesimo libro della serie torniamo ad Hercule Poirot e ad uno dei romanzi più intriganti della nostra Signora. Dopo tanti libri, infatti, i suoi meccanismi sono abbastanza noti e, non dico, prevedibili, ma quanto meno decrittabili durante la lettura. Qui, abbiamo un nuovo colpo d’ala, nella risoluzione del problema “giallo” che mi ha fatto innalzare di colpo il numero di libricini di gradimento. L’impianto generale, infatti, ricalca ancora i classici di Agatha: uno o più persone che muoiono ed un numero limitato, seppur discretamente numeroso, di persone sospettabili. Nonché, un terzo del libro per preparare l’ambiente prima che intervenga il “formidabile” Poirot, che alla fine, con scioltezza, risolve il caso. Qui si comincia con la morte del ricco Abernethie, ultimo degno erede di una facoltosa famiglia, che divide equamente la sua eredità tra i famigliari rimasti. I quali, chi più chi meno, hanno bisogno di denaro, e potrebbero aver “affrettato” il decesso. Abbiamo allora il fratello Timothy, ipocondricamente malato, ma che si alza spesso dalla sedia a rotelle, con la moglie Maude, energica e volitiva. Hanno una grande magione in rovina, hanno mangiato gran parte del patrimonio, ed hanno bisogno di soldi per mantenere il loro pur non elevato tenore di vita. Timothy è inoltre geloso del successo del fratello, e Maude farebbe qualsiasi cosa per compiacerlo. Abbiamo Helen, la vedova dell’amato fratello Leo anzitempo morto, che ha una sua vita segreta in quel di Cipro, anche lei con evidenti bisogni economici, senza che si riesca tuttavia a comprenderne i motivi. Abbiamo la sorella Cora, che fuggì in gioventù con uno scalcinato pittore, e da più di trenta anni non è compresa nelle cerchie familiari. Sempre un po’ svampita (almeno sembra), ormai vedova, dedita ancora a pitturine di maniera, vivendo ritirata con la fedele ancella Gilchrist. Ancella che l’accudisce, vergognandosi un po’ del suo ruolo subalterno e che spera, prima o poi, di aprire una sua attività autonoma (anche qui ci sono di mezzo i soldi, ovvio). E poi ci sono i giovani, i nipoti. George, single e dedito a investimenti per lo più sballati, ultimamente in grande ambasce anche per aver stornato dei soldi dei suoi clienti, ed averli persi. La nipote Susan, anche lei sulle orme della zia Cora, che fugge per sposare uno strano tipo di farmacista con molte turbe psichiche (è stato anche ricoverato in una struttura assistita per aver quasi avvelenato una cliente con l’arsenico). Susan assurdamente innamorata, che vorrebbe una parte del patrimonio per poter avviare un’attività autonoma che faccia felice l’infelice marito. E la nipote Rosamund, attrice di tante idee ma di scarsa riuscita, sposata ad un attore, Michel, bello e pieno di altre donne. Rosamund con bisogni economici per poter comperare i diritti di una commedia, e metterla in scena con e per il marito. Dopo il funerale (questo il titolo originale) del vecchio, tutti raccolti nella casa avita, assistono alle “solite” stramberie di zia Cora, che butta lì una frase (“Ma non è stato ucciso?) che germoglia nella coscienza di ognuno, lasciando vari segnali. Il più forte nell’amico notaio, che rinsalda questo seme quando, pochi giorni dopo, Cora viene assassinata a colpi di accetta nella sua casa, mentre la Gilchrist era fuori per commissioni. Da questo punto in poi il notaio ingaggia Poirot, che prima ragiona sui fatti, poi indaga (con una figura che abbiamo già visto in altri romanzi, una specie di concentrato anziano degli “irregolari di Baker Street” per chi si ricorda di Sherlock). Poirot ha due “fulmini” che faticano a far breccia nella sua coscienza. Il primo è che molti, Helen in testa, gli confessano di aver sentito una nota stonata durante il famoso party dopo il funerale, ma prima dell’infausta uscita di Cora. Il secondo legato ad odori (di oli e tele) o alla loro mancanza (di fiori di plastica). Anche qui, l’andamento ricalca la solita trafila. Ci si avvicina a cerchi concentrici alla soluzione. La Gilchrist viene quasi avvelenata da una torta quando Susan la va a trovare. Helen viene colpita al capo mentre sta per rivelare al notaio di aver scoperto la nota stonata guardandosi allo specchio. E qui nelle ultime pagine, il tocco “magico” della Signora. Mentre tutti guardano il dito che indica la luna, Poirot ci svela la luna. Ci svela che il ricco Abernethie è morto di morte naturale, e che il vero mirino dell’assassino era Cora, che aveva trovato un quadro manierista da un antiquario, e che non aveva capito (ma altri si) che era un piccolo Vermeer. Da qui si dipana tutta la storia, con questo tocco di imprevedibilità. Si poteva capire che i quadri, gli oli e le tele erano parte della soluzione, ma il bandolo è sciolto in maniera imprevedibile, con quell’insistere sullo specchio che è veramente magistrale. Una nuova prova di alto livello (e come non poteva essere altro, guardando la data di pubblicazione…).
“Ciò che una donna vede in un uomo era al di là della comprensione di qualsiasi maschio mediamente intelligente. … Una donna intelligente può trasformarsi in una stupida davanti a un particolare uomo.” (57)
Agatha Christie “Istantanea di un delitto” Corriere della Sera 9 euro 6,90
[A: 05/02/2015– I: 25/10/2015 – T: 27/10/2015] - &&& e ½ 
[tit. or.: 4.50 from Paddington; ling. or.: inglese; pagine: 285; anno 1957]
Non sono d’accordo con molta critica che ritiene questo un passaggio minore delle storie di Miss Marple, sostenendo, a torto, che la soluzione al giallo sia “caduta dall’alto”, come non avviene mai in Agatha. Sostengo sempre che Miss Marple non sia all’altezza di Poirot, ma questa storia ha un suo fascino, nella coralità, nell’impianto, ed anche nella soluzione che, a ben vedere, è ipotizzabile, anche se, questo è vero, non del tutto lineare. Inoltre, è uno dei romanzi che alla nostra Signora viene in mente già costruito, infatti Miss Marple è presente fin dalle prime battute, dando il via ad una serie di avvenimenti, lei assente, che porterà al momento cruciale. Quando la nostra “anziana signora” si ripresenta sulla scena e scoglie il mistero. Il tutto comincia con una particolare avventura di Elspeth McGillicuddy, amica di villaggio della nostra Jane. Tornando dalle spese natalizie al natio villaggio in treno, Elspeth vede nel treno al suo affiancato una persona alta e bruna strangolare una donna. Allarmata avverte ferrovieri e polizia, ma solo l’amica Miss Marple le dà retta, ritenendola incapace di inventare una tale storia. Ma se omicidio c’è stato, non si trova il corpo, non si ha notizia di sparizioni, tutto sembra perdersi nelle brume inglesi. Qui esce fuori l’ingegno di Miss Marple, che, studiando il percorso del treno, ipotizza il lancio del corpo ad una curva, con conseguente occultamento del cadavere prima del giorno successivo. Ma come provarlo? Il luogo è la residenza avita della famiglia Crakenthorpe, e per introdursi nel maniero, Miss Marple trova l’ingegnoso stratagemma di ingaggiare una specie di “governante a tempo”, la bella ed efficiente Lucy. Laureata in matematica, amante dell’ordine, tenace organizzatrice di ménage familiari, è una “family assistant”, ben nota e ben pagata. Riesce a convincerla (dietro lauti compensi, ovvio) a dedicarsi al problema, e riesce a convincere la famiglia del maniero a servirsene. Una famiglia in decadenza, e legata da strani intrecci testamentari. I soldi li fece nonno Jason, con una fabbrica di biscotti. Scontento del figlio indolente Luther, nel testamento lascia i suoi soldi ai figli di Luther, che ne beneficeranno alla morte del vecchio, ed a Luther lascia una rendita, mentre la casa e tutte le proprietà vanno all’erede maggiore in vita. Dei figli abbiamo Edmond, morto in guerra a Dunkerque; Cedric, l’artista, che vive a Ibiza, fa il pittore, e fa finta di disdegnare i soldi, anche perché è il maggiore dei figli; Harold, dedito a speculazioni finanziarie che stanno andando a rotoli e con urgente bisogno di liquidi; Arthur, dedito a traffichi e mezzucci per sbarcare il lunario, sempre sull’orlo della galera, ed anche lui discretamente bisognoso; Edith, la prima femmina, morta anch’essa, sposatasi con Bryan, pilota d’aerei ed eroe di guerra, ma ora ciondolante e vago, solo attento ai bisogni del figlio Alexander; Emma, l’ultima e che resta nella casa paterna ad accudire il padre più ipocondriaco che malato. In ultimo, il dottor Quimper, da non molto subentrato al vecchio dottore della zona, da cui ha avuto in eredità i malati ed i pettegolezzi della campagna, e che non nasconde un interessamento verso Emma. Lucy, scavando e rivoltando, tra gite tra i rovi ed i granai riesce a trovare il primo tassello del teorema di Miss Marple: salta fuori, nascosto nel granaio lungo della proprietà, un cadavere di donna. Ma chi è? Da una ammissione di Emma, potrebbe essere Martine, una donna francese che poco tempo prima scrisse ai Crakenthorpe sostenendo di essere la moglie di Edmond, da lui sposata in Francia, e madre di un ragazzo, che soppianterebbe Cedric nella linea dinastica di successione. Ma dopo poche lettere Martine scompare. Potrebbe essere Anna, una ballerina francese in tournée là intorno, anche lei inopinatamente eclissatasi nello stesso periodo. La domanda che ci si pone è chi sapesse del possibile matrimonio di Edmond, visto che tutti i familiari ne erano all’oscuro? Il tutto si complica perché la famiglia Crakenthorpe sembra essere colpita da epidemie di arsenico, che eliminano prima Arthur poi Harold. Anche Craddock, il detective amico di Miss Marple, brancola nel buio. Noi seguiamo le vicende con Lucy, che la nostra anziana amica rimane nell’ombra. Fino al ritorno da Ceylon di Elspeth, dove Miss Marple inscena un magistrale colpo finale, presenti tutti gli attori del dramma, riuscendo ad incastrare il colpevole. L’unico indizio è che il solo a sapere di Martine è il vecchio dottore in pensione. Certo, la morte della donna è un po’ tirata per i capelli, anche perché ad un certo punto la vera Martine si fa anche viva. Solo l’aria sornione di Miss Marple ci convince che lei già immaginasse lo scenario. Andando avanti con gli anni, Agatha si incarta un po’, ed io capisco le critiche che ho sopra citato. Tuttavia, trovo questo un intreccio che ha soddisfatto la voglia di mistero che è in me. Un ultimo accenno sul titolo italiano che è un po’ anodino, anche per la difficoltà di attirare i lettori con un titolo da “orario ferroviario”. Forse valeva la pena utilizzare il titolo americano “What Mrs. McGillicuddy Saw!”
Agatha Christie “Le due verità” Corriere della Sera 25 euro 6,90
[A: 05/02/2015– I: 22/10/2015 – T: 24/10/2015] - && e ½ 
[tit. or.: Ordeal by Innoncence; ling. or.: inglese; pagine: 255; anno 1958]
Riecco che la nostra prolifica signora del giallo si prende una nuova pausa dalla troppo pressante scrittura dei suoi due eroi maggiori. E, come spesso nell’ultima fase della sua carriera, il tono tende a calare. Qui anche in modo pesante, che alla fine risulta uno dei meno riusciti romanzi di Agatha. D’altra parte, quando ci sono Poirot o Miss Marple, il romanzo deve avere un certo tono, una chiave particolarmente brillante che faccia scattare moti di sorpresa al lettore. E forse qui, Agatha aveva cominciato con l’idea di introdurre uno dei due eroi oltre la metà del romanzo. Spesso lo ha fatto, quando, seguendo un ragionamento, ha intravisto la possibilità di una soluzione brillante solo mettendo un “motore” potente. Ricordo invece che, laddove già dall’inizio, l’idea che guida l’intrigo era di levatura, i nostri compaiono sin dalle prime righe. Qui appunto comincia, insegue una possibilità, poi si accorge che un attento lettore avrebbe già avuto delle idee discretamente valide per dipanare il bandolo. Ed allora niente Poirot, niente Miss Marple. E niente personaggi accattivanti. Che anche laddove i nostri latitano, qualche bel centro di attenzione viene messo in campo. In genere, di sesso femminile che meglio riuscivano nelle sue descrizioni. In questo romanzo, invece, pur con presenze femminili, nessuna sembra riuscire a staccarsi piacevolmente dalla massa tanto da farne l’eroina. Il maschietto che inizia a far rotolare la trama è poi anche lui “moscio”. E solo nel finale, il buon dottor Calgary riuscirà ad avere un moto maggiore di entusiasmo e simpatia, soprattutto verso la simpatica Hester. Tanto che alla fine i due… Ma fermiamoci e riavvolgiamo il nastro di questo film. Cominciando dai titoli di testa, dove la sciagurata editoria italiana inserisce quel titolo sulle due verità che poco ha a che vedere con la “prova d’innocenza” del titolo inglese. Perché tutto comincia proprio con una prova d’innocenza. Il dottor Calgary, tornato da una spedizione in Antartide, scopre che la sua testimonianza avrebbe potuto scagionare il giovane Jacko dall’accusa dell’omicidio della matrigna. Jacko era con lui, ma mancando la sua testimonianza, ed essendo Jacko inaffidabile, viene condannato, e muore di polmonite in carcere. Il buon Calgary allora visita la famiglia, e comunica la prova dell’innocenza di Jacko. Si aspettava un riconoscimento, non capendo che, per come si sono svolti i fatti, se non è stato Jacko ad uccidere Rachel, la matrigna è stata assassinata da qualcuno della famiglia. Come in tutti i buoni romanzi della nostra Signora, per fortunate coincidenze, nel momento dell’assassino erano tutti presenti sul luogo del delitto. C’era Leo il marito, studioso ed un po’ fuori dal mondo, che lavorava con la segretaria Gwenda. Dopo la morte (ma forse anche prima) i due si sostengono a vicenda e progettano un matrimonio. Avevano quindi entrambi motivo per uccidere. E c’erano i cinque figli adottivi di Leo e Rachel, non potendo i due averne di propri. E tutti e cinque avevano motivi di risentimenti. Mary, la più grande, dedita alle cure di Paul marito invalido, acqua cheta che vorrebbe l’eredità per poter vivere agiatamente con l’infermo. Michael, il secondo, quello che più osteggiava Rachel, non avendo mai accettato l’abbandono da parte della madre naturale, e sostenendo Rachel aver fatto di tutto per strapparlo al suo ambiente; non era in casa ma si aggirava per la campagna e potrebbe essere entrato furtivamente in casa. Tina, quella “colored”, che vive fuori casa, l’unica che adora Rachel, e che stava venendo da lei per un consiglio. Ma avvicinatasi alla casa aveva sentito un bisbiglio fra un uomo ed una donna che potrebbero star progettando l’omicidio. Hester, la più naturale, ribelle ma ora rientrata sotto la protezione di Rachel e per questo molto antagonista. Jacko, il più giovane, quello che stava sempre sull’orlo del carcere per amicizie sballate ed imprese ai limiti della legge, sempre a corto di soldi, sempre a battere cassa, come questa volta. Il quadro è completato da Kristen la svedese ex-infermiera di mezza età, entrata al servizio di Rachel per badare alle colonie di bambini, e rimasta come governante nella casa. Insomma tutti potevano uccidere Rachel, meno Jacko che era in macchina con il dottore. Il racconto si trascina per pagine e pagine senza un vero colpo di scena, salvo quello della presenza, che non ci si aspettava, di una giovane moglie di Jacko, ora felicemente risposatasi. Ma che poteva essere un elemento di turbativa all’epoca del delitto. Se si fosse mantenuto il titolo originale, si poteva arrivare alla fine con qualche dubbio aspettando lo scioglimento. Il titolo italiano fa subito breccia, tanto che avevo capito subito che Jacko in qualche modo c’entrava, mancava solo il come. E dalle parole di Tina si capisce subito. Anche perché, essendo tutti adottati e non consanguinei, potevano nascere sentimenti incrociati. Ma forse dico troppo, per un romanzo senza un vero protagonista, ed un po’ scontato nella costruzione. Come detto si sente forte la mancanza dei due grandi protagonisti “christieani”. Speriamo tornino presto.
“Era vecchia, doveva avere quasi cinquant’anni.” (71) [questa non te la perdono, Agatha!]
Agatha Christie “Appuntamento con la paura” Corriere della Sera 13 euro 6,90
[A: 27/10/2014– I: 21/10/2015 – T: 23/11/2015] - && 
[tit. or.: Double Sin; ling. or.: inglese; pagine: 218; anno 1961]
Sono ancora dei racconti, e come ho sovente ribadito, la Signora del Giallo, pour avendone scritti innumerevoli, mai mi è sembrata a suo agio con questa misura di scrittura. Non solo, ritengo anche, contrariamente a molte opinioni su questi scritti, che laddove non compaiano i due grandi interpreti della scrittrice, la tensione (e le idee) tendono a calare. Inoltre la metà dei racconti proviene da vecchi scritti editi negli anni Venti, ed anche qui si sente la differenza della scrittura tra gli esordi e queste ultime prove, della piena maturità dello scrivere (ma anche della stanchezza e della difficoltà di trovare nuove trame). Più che andare in ordine, preferisco allora pensarli per protagonista. Cominciando da Hercule Poirot, c’è “Doppia colpa (Double Sin)” del 1929 dove il nostro ispettore indagando sul furto di alcune preziose miniature, aggirandosi per la campagna inglese, riesce a capovolgere la truffa iniziale, smascherando così la vera coppia colpevole. Già meno riuscito “Nido di vespe (Wasp's Nest)” sempre del 1929, dove Poirot, con un insolito tampinamento riesce a sventare un omicidio, facendone anche capire l’inutilità allo strano personaggio centrale. Il terzo racconto è quello che ha spinto l’editore a pubblicare la raccolta. In “L'avventura del dolce di Natale (The Adventure of the Christmas Pudding)” del 1960 Poirot viene coinvolto in un tradizionale pranzo natalizio, dove vengono serviti, come appunto tradizione vuole, dolci vari, tra cui il Pudding natalizio. È il racconto più lungo, ed anche se abbiamo modo di conoscere meglio i vari personaggi, poca sorpresa ci fa la soluzione del mistero del furto del prezioso rubino, sventato per uno scambio inopinato di dolci natalizi. Poirot ritorna poi in un altro racconto, anch’esso doppio nel titolo “Doppio indizio (The Double Clue)”, ed anch’esso proveniente dai primi, essendo stato scritto nel 1925. In una festa in cui partecipava l’alta società inglese vengono rubati dei gioielli. Due indizi convergono verso un colpevole, ma, come dice Poirot un indizio può farci indagare in una direzione, due sembrano messi a posta per fuorviare. Cosa che a lui non accade, anche se per risolvere il mistero dovrà utilizzare l’alfabeto cirillico, e sarà facile capire il mistero per chi lo conosce. Curiosità del racconto, vi compare la contessa Vera Rossakoff, che Poirot dice di ammirare per la sua astuzia e che pensa di ritrovare in futuro. Con il senno di poi gli diamo ragione, visto che comparirà nel racconto “La cattura di Cerbero” della raccolta “Le fatiche di Hercule” e nel romanzo “Poirot e i quattro”. Lasciamo allora Poirot, e passiamo ai due con la nostra Miss Marple. Nel primo “La follia di Greenshaw (Greenshaw's Folly” del 1957) la nostra simpatica vecchietta viene a capo della morte di un’anziana signora benché tutti i sospettati siano apparentemente coperti da alibi di ferro. Peccato che l’impianto sia ripreso da un vecchissimo racconto di cui era protagonista Poirot, edito nel lontano 1925, “Il mistero di Hunter's lodge”. C’è poi l’inutile conclusione con “Asilo (Sanctuary)” del 1954, dove Miss Marple risolve il mistero di un omicidio avvenuto in una chiesa. Finiamo con i due senza i nostri eroi. Che ho trovato veramente scarsi di nota. “La bambola della sarta (The Dressmaker's Doll” del 1959) cerca di scavare nel sovrannaturale, facendo umanizzare una bambola che a poco a poco si impadronisce della casa di una sarta. Un racconto che potrebbe figurare in una raccolta minore di E. A. Poe. Infine c’è uno dei più antichi “L'ultima séance (The Last Seance)” in cui una medium viene assassinata nel bel mezzo di una seduta spiritica attraverso la fuga del suo spirito in un corpo infantile. Un racconto decisamente infantile, con l’unico elemento di curiosità derivato dal fatto che la trama prende spunto da un avvenimento accaduto realmente alla Christie. Ma continuo a ripetere, troppo brevi i racconti per creare tensione. E senza mordente, anzi allegramente inutili quelli senza Poirot e senza Miss Marple. Agatha sta invecchiando, e riesce difficilmente, in queste prove, a farci rivivere sensazioni forti di partecipazione come in molti altri e meglio riusciti scritti precedenti.
Agatha Christie “Un cavallo per la strega” Corriere della Sera 18 euro 6,90
[A: 28/11/2014– I: 04/12/2015 – T: 06/12/2015] - &&---- 
[tit. or.: The Pale Horse; ling. or.: inglese; pagine: 221; anno 1961]
Mi ero rincuorato notando che questo era di nuovo un romanzo, quindi con la speranza di avere modo ed agio di entrare nella trama, di capire i personaggi, insomma di ritornare nel solco della migliore tradizione di Agatha Christie. Speranza ben presto delusa, sia per la mancanza dei nostri investigatori preferiti, che fanno sempre da traino quanto meno a situazioni che non siano proprio banali. Sia, e soprattutto, perché la vicenda è stiracchiata ed avvince in modo assolutamente nullo il lettore. Intanto cominciamo a tirare l’orecchio alla traduzione che decide di intitolare il romanzo ad un cavallo che dovrebbe essere utilizzato da una strega. Ben altra idea aveva l’autrice intitolandolo “The Pale Horse”. Perché “Il Cavallo Pallido” era a suo tempo una locanda, di dubbia fama, ma pur sempre una locanda. E perché ora è abitata da tre strane signore, che si atteggiano a medium e sono dedite a sedute tra lo spiritico ed il fasullo. Nella sana tradizione scozzese, verrebbero bollate come streghe, anche se in quella tradizione il termine ha un significato più esteso e meno negativo di quello che a noi viene in mente per primo. Streghe in quanto capaci, ad esempio, di guarire mali con rimedi naturali. E non streghe perché emule di tristi personaggi in combutta con il male. Il personaggio principale, Mark, non riesce ad essere convincente, né riesce a farci partecipe delle sue elucubrazioni, nel tentativo di capire le origini di un qualcosa che, sin dall'inizio ronza nelle pagine del libro. Mark assiste ad un diverbio tra due signorine, che si prendono per i capelli, ed una delle due ne perde ciuffi. Poco tempo dopo, Mark legge che la stessa signorina muore di un male incurabile. Parallelamente, assistiamo all'estrema unzione che un prete dà ad una signora che gli confessa possibili delitti. Vediamo una lista di nomi comparire nelle mani del prete, prima che questi venga assassinato. La polizia cerca di capire qualcosa da questa lista, riuscendo solo a decifrarne la natura di un paio, entrambe (sono donne) morte di morte naturale, e di tipo diverso. Casualmente Mark si ritrova in una festa in campagna, dove sente parlare del Cavallo Pallido. Nome che ritorna in una conversazione attorno ad un tavolo e legato sempre a morti misteriose. Confrontatosi con la polizia, nulla ricava il nostro Mark. Che si allea nella ricerca alla simpatica Ginger (simpatica in quanto rossa di capelli, colore sempre piacevole). Ed in base ad una serie di accostamenti casuali e senza apparente logica, comincia ad ipotizzare l’esistenza di una banda criminale che in qualche modo favorisca delle morti. Mark e Ginger allora cominciano a mettere in cantiere un astruso piano per incastrare le signore del Cavallo Pallido. Mark si finge oppresso da una moglie che non riesce ad eliminare dalla sua vita, personaggio che viene interpretato dalla nostra Ginger. Scopre così l’esistenza di un ex-avvocato senza scrupoli che gli propone una scommessa: se la falsa moglie morirà entro un mese, Mark pagherà la scommessa, altrimenti sarà l’avvocato a pagare. Il tutto passa per una seduta para-spiritica presso la casa del Cavallo Pallido, dove le tre signore mettono in scena tutto un armamentario di elementi al limite del ridicolo. Trance, galli uccisi, apparecchiature avveniristiche in grado di “incanalare le vibrazioni del pensiero”. Fatto sta che Ginger, pur senza nessun contatto apparente con le signore, comincia a star male. Febbre ed altri sintomi misteriosi. Il tutto complicato da uno strano farmacista che si propone come testimone oculare della morte del prete, incolpando uno strano signorotto locale che, purtroppo, essendo colpito da poliomielite, gira su di una sedia a rotelle. Sarà la zia di Mark ad avere la prima intuizione, pensando alla morte di una sua amica, inclusa nella famosa lista, e che aveva come segno distintivo la perdita di capelli. In base a questa affermazione, e ricordando la prima morte, anch'essa con la stessa caratteristica, Mark ipotizza non poteri soprannaturali, ma avvelenamento da tallio, cosa che gli permette di salvare la vita a Ginger. Ma come funziona l’organizzazione criminale? Dobbiamo risalire alla signora cui fu data l’estrema unzione. Faceva parte di una serie di ricercatori di mercato che andavano sul campo a porre innocue domande su prodotti casalinghi ad una serie di persone, tra cui venivano inseriti i nominativi procurati dall'ex-avvocato e aizzati dalle sedute delle signore del Cavallo Pallido. Il capo banda allora, si presentava a casa della vittima, magari travestito da idraulico o simili bassi mestieri, e sostituiva uno dei prodotti presenti nella casa ed emersi dall'intervista con lo stesso contenente tallio. Unico elemento di piccola suspense sarà seguire Mark, l’ispettore, il farmacista, il paraplegico ed il patologo nel sottofinale che porterà alla scoperta della mente che sta dietro tutto ciò. Con un finale mieloso in cui Mark lascia una sedicente e monotona fidanzata, per chiedere la mano di Ginger. Devo dire, una palla megagalattica, dove si cerca di mescolare un minimo di tensione sovrannaturale, con elementi che ne spiegano e ne razionalizzano la natura. Il tutto originato dalle esperienze di farmacista avute da Agatha in gioventù. Il libro scorre come fosse acque, intossicandoti però come se stessi bevendo cianuro allo stato puro. Ci si aspetta uno scatto ad ogni pagina, e non arriva. Unico elemento di vivacità, ma che ho scoperto solo a posteriori girando sulla rete, la lettura del libro ha permesso ad un’infermiera londinese di diagnosticare la malattia ad un malato che sembrava incurabile e salvarlo. Un po’ poco, per consigliarne la lettura, amici miei.
“Ci sono tante cose, al mondo, che vorrei conoscere, vedere! Ma, in fondo, ho fatto abbastanza quando potevo.” (63)
Seconda settimana del mese, e nuovo allegato dedicata a qualche malattia o difetto. Qui siamo sulla scarsità d’impegno (o sulla sua difficoltà), anche se non ha fatto su di me molta presa.
Continuiamo comunque ad aspettare e lavorare affinché si possa ripartire in giro per il mondo. Finendo però con un bel ringraziamento ai miei amici “cubani” ed all'ottimo fine settimana trascorso insieme. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2016
In queste settimane e giorni che avvicinano a referendum e ad elezioni varie, cosa di meglio che un bel bagno nell’impegno? Vincendo la paura di, come ci viene suggerito.

IMPEGNO, PAURA DELL’

José Saramago         “Cecità”
Quando si inizia a leggere una frase dello scrittore portoghese José Saramago, ci si prende l’impegno di seguirla ovunque vada, perché questo geniale scrittore non si uniforma alle normali regole della grammatica, ma utilizza le virgole in modi inaspettati che vi lasceranno a bocca aperta e vi faranno cercare la penna rossa, perché di sicuro quella era una proposizione e questa è un’altra, e ci dorrebbe essere il punto fermo, in mezzo, o per lo meno un punto e virgola, e ovviamente avete ragione, ma ha ragione anche Saramago, che sa benissimo che cosa sta facendo, e alla fine dei primi due paragrafi sarete irrimediabilmente presi al laccio da queste frasi che scorrono dall’una all’altra inarrestabili come la silenziosa e terrificante epidemia di cecità che dà il titolo a questo romanzo e della quale nessuno riesce a scoprire la causa.
In una città senza nome, in un momento imprecisato della storia, gli abitanti cominciano a diventare ciechi, all'improvviso, uno per uno. Seguendo il racconto che passa da un personaggio senza nome a un altro, dalla giovane prostituta con gli occhiali scuri al ladro di auto all'oculista e a sua moglie, ci abbandoniamo a questo surreale e potente accumulo di frasi, e qualunque resistenza allo stile non convenzionale di Saramago che possiamo avere avuto all'inizio sarà presto dimenticata.
Un simile impegno - verso una frase, un romanzo, una relazione, o qualunque cosa a cui si attribuisca un valore e in cui si scelga di credere - dà molti frutti, come sta per essere dimostrato anche in Cecità. Nell'ospedale psichiatrico dove i ciechi sono tenuti in quarantena nel tentativo di arginare l’epidemia, e dove gli ingressi sono sorvegliati da guardie armate e pronte a fare fuoco se qualcuno tenta di fuggire, le condizioni degenerano rapidamente nello squallore e nell'anarchia con i detenuti che, inermi, lottano per le scarse razioni di cibo. In mezzo a tutto questo la moglie dell’oculista si prende cura del marito, con dolcezza, attenzione, devozione. In un momento di grande lungimiranza, che la distingue da tutto quell'orrore, la donna, ancora misteriosamente dotata della vista, riesce a entrare nell'ospedale insieme a lui, fingendosi cieca per restare al suo fianco. Quando il marito torna dal bagno, lei lo lava. Quando ha bisogno di muoversi, lei lo guida. È consapevole che se qualcuno scopre il suo trucco potrebbe servirsi di lei per i propri fini, e allora seguita a comportarsi come se fosse cieca - non solo per proteggere sé stessa, ma anche per continuare ad aiutare il marito.
Le invisibili azioni della moglie appartengono a una donna per cui la fedeltà, l’amore e l’impegno vengono prima di tutto, e non sono in discussione. Da quando il marito perde la vista, la donna combatte prima per lui e poi per tutti coloro che sono rinchiusi nel reparto. Poiché sono stati tra i primi a diventare ciechi, i membri del gruppo che include l’oculista e la prostituta sviluppano un legame di tipo famigliare, mantenuto in vita e rafforzato dalla gentilezza e dal supporto reciproco, e dal trovare un po’ di speranza e di senso dell’umorismo in mezzo a quell'inferno. Non abbiamo alcun dubbio che se sopravviveranno sarà per il loro impegno reciproco, che permette a ognuno di conservare la propria umanità, mentre tutto intorno gli altri la stanno perdendo.
Che si tratti di un romanzo, una relazione, un lavoro o un cane, se l’impegno è il vostro problema, imparate la lezione di Saramago e della moglie dell’oculista. Usate questo romanzo per esercitarvi. Quando iniziate con la prima frase, prendete l’impegno a seguire anche tutte le altre. Quando finirete il romanzo, impegnatevi nella lettura delle opere complete di Saramago (non sarà difficile: una volta sedotti da Cecità vorrete leggere tutto il resto). Dopo che avrete finito con Saramago, quando sarà completato il passaggio dalla paura dell’impegno alla volontà - anzi, al desiderio - di ficcare il naso in qualunque cosa, nella vita come in letteratura, per quanto sia bizzarro lo stile della prosa, per quanto sembrino complesse le idee, per quanto la prospettiva vi scoraggi, abbiamo pronta per voi l’ultima sfida: Proust. Non potreste essere più pronti.

Bugiardino

Concordo totalmente con la difficoltà di riuscire a leggere Saramago. Provai con “Memoriale del convento” e fui sconfitto. Recuperai con questo libro, letto tra i primi, agli albori delle mie trame, tanto che vedete come ero stringato un tempo. E riprovai con “Il Vangelo secondo Gesù” che riuscii a superare brillantemente.
José Saramago Cecità Einaudi 10,50
[trama pubblicata 25/12/2006]
Non sempre facile il mio rapporto con lui. Questa volta l’inizio travolge, l’idea è efficace, poi si trascina qualche decina di pagine in più del necessario. Domanda: cosa succede se diventiamo tutti (TUTTI) ciechi? Dov'è il confine dell’utilità della vista? Comunque grazie Rosanna che regalandomelo mi hai obbligato a leggerlo.

Conclusioni

Sono sicuramente d’accordo sul coraggio (e l’impegno) che profonde la moglie dell’oculista. E sono altresì d’accordo che ci vuole impegno (ci vorrà visto che non mi risolvo ad aprirlo) per mettersi a leggere Proust. D’altra parte, avrei collocato questo libro nel calderone delle paure. Che, personalmente, il terrore di diventare cieco è quello che più attanaglia il mio orizzonte di vita. Non so se riuscirei mai ad affrontarlo. Con o senza impegno.