domenica 31 dicembre 2017

Finale di ossa - 31 dicembre 2017

Perché siamo nel finale di questo anno e perché la maggior parte delle trame è dedicata a “Bones”, le ossa di Kathy Reichs che ho letto praticamente integralmente, ed ho visto (ma solo nei week-end) nel TopCrime Channel di Ale. Ma non potevo tralasciare Colin Dexter, di cui ho letto il primo episodio, e che ha, almeno nell’immediato, una resa sicuramente migliore di Temperance. Staremo a vedere nel futuro.
Colin Dexter “L’ultima corsa per Woodstock” Sellerio euro 14
[A: 18/05/2015 – I: 28/06/2017 – T: 30/06/2017] - &&& e ½
[tit. or.: Last Bus to Woodstock; ling. or.: inglese; pagine: 350; anno 1975]
Per molto tempo avevo visto questi “gialli” dell’inglese Dexter riproposti per i tipi della Sellerio e mi ero spesso chiesto la natura e se valessero la pena. Anche perché, generalmente, le pubblicazioni palermitane hanno sempre spunti interessanti. Approfittando dell’epifania di letture di due anni fa comprai alcuni blocchi di libri, che sto centellinando nel tempo, in cui si inserì questo primo episodio delle indagini dell’ispettore E. Morse. Mi dispiace soltanto che questa lettura avvenga nell’anno in cui il quasi novantenne (ma in realtà era del ’30) Colin ci ha lasciato (ahi, funesto fu l’anno dispari e primo!). Per l’intanto devo convenire con quanto si è detto dell’autore, un robusto usatore di penna, che sa ben descrivere e ci fa ben piombare nelle terre inglesi con tutte le loro paure, sicurezze e insicurezze, siepi ed ora del tè. Una scrittura vicina, almeno nel procedere, a quella di P. D. James (non è forse un caso che entrambi abbiano vissuto gran parte della loro vita a Oxford). Dexter, in più (almeno per il mio gusto) ha questo piacere per la crittografia, i messaggi nascosti, ed altre piccole cose. Prendiamo ad esempio il protagonista, con quel nome E., che solo nel 13° episodio conosceremo per intero (e che quindi qui non svelo), derivante dall’essere la madre dell’ispettore una fervente quacchera ed il padre un ammiratore del grande James Cook. Ma anche il cognome ha una sua storia, che Jeremy Morse era un sodale di Colin, impegnati entrambi nella costruzione di difficoltose parole crociate ed altri enigmi. Descritti questi contorni, questa prima storia serve molto a fissare i caratteri principali della serie: l’ispettore Morse, appunto, con le sue domande criptiche, i suoi comportamenti al limite, quasi una specie di Adamsberg ante-litteram (se mi è consentito un paragone francofilo), il suo aiutante sergente Lewis, più concreto, più legato alle prove ed alla ricerca sul territorio, e l’enigma giallo di cui si cerca la soluzione. Che qui parte dal ritrovamento del cadavere di una giovane donna, nel parcheggio di un pub inglese. Giovane che nelle prime pagine vediamo perdere, insieme ad una ignota amica, proprio il pullman del titolo, e cercare di trovare un modo per tornare a Woodstock. Che ovviamente non è la cittadina americana che ospitò il famoso concerto, ma una cittadina ad una ventina di km a Nord-Ovest di Oxford. Per tutto il libro si sviluppano le indagini di Morse e Lewis, con il primo che, ovviamente, è sempre un passo avanti, ma che, tuttavia, non riesce a trovare subito il bandolo della matassa. Indaga sul posto di lavoro della morta Sylvia, scopre che una collega della stessa riceve messaggi criptici attraverso lettere postali di poco senso (qui si intravede il carattere enigmistico di Colin, che fa mandare messaggi utilizzando errori di battitura in una lettera standard; noto ed ammiro lo sforzo della traduttrice, Luisa Nera, di rendere il tutto vicino all’originale). Da qui imbastisce tutta una serie di agnizioni: Jennifer, la collega di Sylvia, deve avere un amante che le manda questi messaggi, Jennifer potrebbe essere la donna misteriosa che ha fatto l’autostop con Sylvia, l’amante di Jennifer potrebbe essere l’automobilista che le ha prese per portarle a Woodstock. In tutto questo, Morse si avvicina pericolosamente a Sue, la coinquilina di Jennifer, che sembra avere anche lei una scivolata verso l’ispettore, anche se è fidanzata, e forse non solo. Di passaggio il quadro giallo viene più fosco dal fatto che Sylvia, prima e dopo la morte ha avuto rapporti sessuali. Cioè attivi prima della morte e passivi dopo. Allora c’è un assassino? Ce ne sono due? Cosa succede quando Morse scopre che l’amante di Jennifer è una persona diversa da quella che lui pensava? E che Bernard, che pensava essere l’amante di Jennifer è non solo l’automobilista che ha preso le due autostoppiste, che è l’amante di un’altra persona, e che ha fatto l’amore con Sylvia quando questa era viva? Cosa succede quando la moglie di Bernard si suicida lasciando una lettera in cui si accusa di aver ucciso Sylvia? Sarà vero o lo fa per coprire Bernard? E se anche Barnard si autoaccusa? Alla fine Morse, con fatica e con non pochi problemi, riesce a ricucire tutti i nodi della strampalata matassa. In cui un po’ ci siamo persi anche noi, ma che la ricostruzione finale ci consente di apprezzare, e magari di ripercorrere a ritroso per vedere di capire cosa sia successo realmente. Il tutto comunque ben condito dal sapore della campagna inglese, dall’animo colto di Dexter, dalla musica di Wagner che adora l’ispettore. Nonché dalle scaramucce tra Morse che vola alto e Lewis che segue le tracce ad una ad una. Scaramucce condensate nei primi approcci tra i due, quando Morse gli chiede: “Pensi che stiamo perdendo tempo?” e Lewis risponde candidamente: “Si, signore”. Non so se ne leggerò ancora, ma questa lettura mi ha riportato in alto il piacere di leggere un giallo ben costruito. E non è poco.
“Affamato delle labbra del mio desiderio / ti sono stato fedele … a modo mio.” [da una lirica di Ernest Dowson] (82)
Kathy Reichs “La verità delle ossa” BUR euro 11,90 
[A: 14/09/2017 – I: 15/09/2017 – T: 17/09/2017] - &&& --
[tit. or.: Speaking in Bones; ling. or.: inglese; pagine: 334; anno 2015]
Non meravigliatevi della lettura cotta-mangiata del nuovo libro di Temperance, dovuto ad una mia incomprensione sull’andamento temporale dei libri stessi. In realtà, avrei dovuto leggere prima “Ossa di ghiaccio”, in quanto questo risulterebbe l’episodio 18. Ma avevo confuso l’anno di uscita italiano con quello di pubblicazione originale. Non ha certo portato grandi guasti alla narrazione complessiva perché, come avrete già letto, l’episodio del ghiaccio poco ha apportato allo svolgimento del punto nodale non poliziesco della serie: Tempe accetterà o meno la proposta di matrimonio di Ryan? Era la domanda con cui finiva la (decorosa) puntata 17, e che rimane per tutto questo episodio il tormentone di fondo. È vero che Tempe ha avuto una brutta esperienza con il marito Pete (il cui unico punto a favore, oltre ad essere scomparso, è averla aiutata ad avere la figlia Katy), ma le paranoie che la dottoressa si conficca nella testa sono veramente da saltare a piè pari. Il suo “parto per il Canada o rimango”, il suo “telefono a Ryan o aspetto”, il suo indeciso procedere verso un momento (pur complesso) di possibile felicità mi hanno lasciato un po’ di ruggine nella lettura. Tant’è che queste parti le ho quasi saltate, fin poi a ritrovarmi in quel finale a due che sinceramente ho poco compreso. E spero che qualcuno me ne illumini. O forse lo farà l’episodio 19? Ma tolto tutto il superfluo, rimane la storia di queste ossa che parlano, che ci raccontano (o dovrebbero raccontarci) la loro storia. Mentre infatti Tempe circa di risolvere il suo dilemma, viene coinvolta in un nuovo caso dall’arrivo di una donna, di professione “cyber-segugio”. Strike pensa di aver scoperto la provenienza di alcune ossa trovate in un posto chiamato Browne Mountain, e rimaste tra i casi irrisolti. Pensa siano di una ragazza, Cora, scomparsa anni prima. Il dado è lanciato, e Tempe ci si butta a capofitto. Viene così da un lato a conoscere tutta la storia dei segugi digitali, gente che, non avendo nulla da fare, si mette in rete alla ricerca di risolvere casi irrisolti, creando siti, forum, ed altre internetterie poco divertenti. Dall’altro approfondiamo le solite analisi delle ossa, per poi scoprire che nel circondario dove furono trovate queste ignote, se ne vanno trovate altre. Ovvio che Tempe si rechi sul posto, aiutata da un simpatico poliziotto di nome Zebulon, ma meglio noto come Zeb. Insieme, anzi sotto la direzione di Zeb, entrano nel mondo locale, dominata da una setta cristiana eretica, molto devota e iper-tradizionalista (dicono ancora la messa in latino). Non è un caso che della setta fanno parte i genitori di Cora, che l’hanno ripudiata dicendo che sia fuggita con tal Manson. Di cui però si sono perse le tracce. C’è per la sorella di Manson che rivela a Tempe alcuni lati oscuri. Per tutto il tempo andiamo su e giù tra il laboratorio di Tempe, le sue ossa, e le montagne con i nuovi ritrovamenti. Anche perché Strike ha un file audio dove si sentono strazianti appelli di una voce che pare sia di Cora. Tempe, oltre ad analizzare ossa ed altri ritrovamenti, tra cui un calco di una testa, porta avanti le indagini sulla comunità. Dove scopre: il prete che la comanda è stato sospeso “a divinis” dalla Chiesa per uso improprio di esorcismi, il fratello di Cora è morto dodicenne per maltrattamenti, Cora ha fatto per un certo periodo la baby-sitter in una famiglia, fino a che il piccolo neonato affidatole muore pare “di morte bianca”. Infine che il Mason di cui sopra è (o era) affetto dalla rara sindrome di Naegeli-Franceschetti-Jadassohn (NFJ), che, tra le altre manifestazioni poco carine, ha anche come segno distintivo l’assenza di impronte digitali nel malato. Il tutto collassa ancora al ritrovamento del cadavere di Strike, che inutilmente aveva cercato di contattare Tempe, dicendo di avere importanti scoperte da comunicare. Entra così in gioco il detective “Skinny” Sliddell, che scopriamo essersi ripulito (vedi trama precedente) in quanto innamorato. Il lavoro congiunto di “Skinny”, Zeb e Tempe, dopo aver percorso diverse strade cieche (tra cui il tentativo di capire se il prete di cui sopra, oltre ad esorcista fosse anche pedofilo e assassino), porta alla soluzione del caso. Ovviamente in un finale in cui Tempe riesce a cacciarsi in tutti i possibili guai, rischiando al solito di lasciarci le penne. Per fortuna non sarà Ryan a salvarla, che Tempe è affetta un po’ dalla sindrome di “donzella salvata dal cavaliere senza macchia e senza paura”. Ma lascia molto perplessi, la soluzione che, assolutamente fuori delle famose “linee guida Van Dine”, coinvolge malattie varie e personalità multiple. Poco professionale, Reichs. Sulle ossa avrai tutto da dire, ma i meccanismi gialli sono sempre troppo costruiti sui libri delle “patologie rare” dei testi di medicina. Rimangono un po’ di contorni che, inutile per la trama principale, alleviano un po’ lo spirito e fanno salire qualche mezzo libricino di gradimento. La storia della mamma di Tempe, della sua chemio e dei suoi amori senili. Le chiacchiere prima con Zeb e poi con “Skinny”. Il finale aperto con Ryan. Credo che, purtroppo, la nostra scrittrice sia troppo condizionata dal “Bones” televisivo, cercando di riprodurre su carta quanto avviene sullo schermo. Azioni, analisi di corpi ed altro, che hanno un forte impatto visivo ma poco impatto da lettori. Al solito, una buona lezione di patologia, un medio coinvolgimento nelle storie di vita ed una scarsa attenzione ai ritmi ed alle strutture narrative del giallo tradizionale. Vedremo.
“L’amore non arriva mai troppo tardi nella vita.” (328)
Kathy Reichs “Ossa di ghiaccio” Rizzoli Vintage euro 12 (in realtà, scontato a 7,50 euro) 
[A: 28/08/2016 – I: 18/09/2017 – T: 19/09/2017] - && --
[tit. or.: Bones on ice; ling. or.: inglese; pagine: 190; anno 2015]
Avendo per qualche tempo saltato le letture dell’esimia scrittrice nonché factotum della serie televisiva “Bones”, ho cercato di rimettere un po’ d’ordine nella cronologia della serie stessa. Secondo quindi la “nomenclatura” che la stessa Reichs propone, questo è l’episodio 17 1/2. Perché in realtà è più che altro un racconto lungo, che si colloca tra “Le ossa non mentono”, tramato quasi un anno e mezzo fa, e “La verità delle ossa” (vedi sotto). In effetti, è uno di quegli spunti di passaggio, che servono a cucire un po’ la serie, inserendo qualche elemento chiarificatore, ma che non porta molto all’economia dello svolgimento del grande filone della saga. Intanto, l’episodio 17 si era chiusa con la proposta di matrimonio fatta da Ryan, il canadese che da decine di puntate va su e giù nel cuore della nostra dottoressa. Ebbene, in questo racconto, viene nominato due volte, ma non entra né nella storia né nei pensieri di Tempe. Alle prese con l’analisi di una persona morta scalando l’Everest. Questo spunto dà modo alla nostra scrittrice di scrivere righe su righe pesanti (e condivise) contro la moda assurda del turismo d’alta quota, dell’impreparazione di persone che pensano che facendo un selfie a 8000 metri tutto si più bello e radioso nella loro vita. Non solo, ma anche di ricordare il catastrofico terremoto nepalese del 25 aprile 2015, e di spezzare una lancia a favore delle ONG che stanno lavorando per la ricostruzione di quel martoriato territorio. La parte anatomo-patologicamente interessante è tutta la descrizione sia del modo in cui si possa arrivare all’ipotermia, sia cosa succede al corpo in quelle condizione estreme. Dove non ci sono batteri, e dopo 3 anni è possibile analizzare un morto come se fosse appena deceduto. Ricordo di passaggio tutte le strombazzature intorno a Ötzi, la mummia del ghiacciaio del Similaun. La morta è figlia di una eminente famiglia di Charlotte, dove lavora Tempe, che vuole sapere come sia morta la figlia. Ragazza dedita agli sport estremi, con qualche interesse in ONG per il recupero di spazi puliti in alta quota (ma qualche dubbio sulle sue capacità finanziarie lo abbiamo subito), e che vuole toccare il record “delle Sette Cime”. Inciso per gli appassionati della montagna: le “Sette Cime” sono i sette monti più alti di tutti i continenti, considerando l’America divisa in due ed includendo l’Antartide; nella nota finale ne riporto i dati. Ma noi subodoriamo subito qualcosa di losco. Sia perché ci sono traumi poco spiegabili sul corpo, sia perché la spedizione della giovane Brighton era senza guida, e composto da altri 4 suoi amici (3 uomini e una donna) altamente sospetti. Non mi dilungo sulle motivazioni e le possibilità dei sospetti, che vengono smontate ad una ad una dal detective della polizia di Charlotte, “Skinny” Sliddell, anche lui personaggio ricorrente, e con un suo piccolo spazio. Tra l’altro cominciamo ad avere dei sospetti che qualcosa stia cambiando, dato che “Skinny” si presenta meno trasandato del solito. La storia va avanti un po’ banalando qua e là, e solo verso la fine anche Tempe ha la prova che la morta non è Brighton, ma una cilena di nome Victoria, che è stata Brighton ad ucciderla per sfuggire alla polizia federale che stava bloccando le sue illecite speculazioni finanziarie. Peccato poi che la neo-rediviva Brighton-Victoria sia poi realmente morta poco tempo dopo, scalando la vetta dell’Aconcagua cileno. Ma anche questa fu vera morte? C’era forse qualcuno dei suoi vecchi amici con lei? Beh, non sarà una sorpresa, anche se inserito nel solito finale ad effetto in cui Tempe rischia qualcosa. Purtroppo è sempre lo stesso tipo di effettaccio che cerca l’autrice e dopo un po’ è stancante. Comunque il finale ve lo dovete leggere, che io non apro più bocca. Se non per due considerazioni finali. A più ripresa, Tempe si incontra con una sua amica di nome Anne. Peccato che, a mia memoria, compaia solo, e senza neanche tanti ricordi, in “Morte di lunedì” (episodio 7), mentre qui sembra che siano pappa e ciccia. La seconda invece riguarda la battuta che riporto sotto. Non riuscendo a capire molto della morte di Brighton, Tempe si lancia in una elencazione di possibili cause del decesso, includendo la citazione che riporto. E che solo i più esperti avranno capito sia tratta da quel divertente e poco noto ai giovani gioco di società, dal nome di Cluedo. A quanto volte ci giocai…
“Quale la causa del decesso? … Strangolata in biblioteca con una fune dal Colonello Mustard?” (27)
SETTE CIME (in ordine di altezza): 1. Antartide – Massiccio Vinson, 4.892; 2. Africa – Kilimanjaro (Tanzania), 5895; 3. Nordamerica - Monte Denali (Alaska), 6194; 4. Sudamerica – Aconcagua (Cile), 6962; 5. Asia – Everest (Nepal), 8848. Poi ci sono due dispute: 6. Europa – se consideriamo la “vecchia”, Monte Bianco (Italia), 4810; se consideriamo la “nuova”, Elbrus (Georgia), 5642; 7. Oceania – se consideriamo la terraferma, Monte Kosciuszko (Australia), 2228; se consideriamo la parte insulare, Puncak Jaya (Nuova Guinea), 4884
Kathy Reichs “Ossa – The Collection” BUR euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro) 
[A: 25/09/2017 – I: 25/09/2017 – T: 26/09/2017] - &&&
[tit. or.: The Bone Collection; ling. or.: inglese; pagine: 379; anno 2016]
Beh, dovevo assolutamente battere il ferro quando è caldo. Così, una volta aperta la porta a Kathy Reichs ed alle sue ossa, ho trovato l’unico libro che ancora mi mancava della serie. Preso, letto e mangiato. Anche perché, non è un romanzo, ma la collazione di 4 racconti (tre lunghi ed uno normale) che, nelle intenzioni della scrittrice, servono a riempire alcuni buchi dei romanzi della serie maggiore. Nella fattispecie, il primo racconto è una sorta di prequel, che ci fa scoprire le motivazioni per cui Tempe decide di intraprendere la carriera di anatomopatologa forense. Il secondo fa un inciso per spiegare un caso accennato nel libro “La voce delle ossa”. Il terzo dà conto di un intervallo temporale trascurato tra “Le ossa dei perduti” e “Le ossa non mentono”. L’ultimo è anche uscito in volume singolo, tanto che l’ho già ampiamente tramato sopra (“Ossa di ghiaccio”). I racconti non sono particolarmente elaborati o avvincenti, seguendo spesso lo schema solito delle storie della dottoressa Brennan: morto, accumulo di indizio, qualche agnizione, di cui alcune sbagliate, scoperta della via maestra, pericolo per Tempe e soluzione finale. Così appunto nel primo caso [”Prime ossa – First Bones”, 2016, pag. 9-91], che scritto per ultimo, fa anche una specie di raccordo con le vicende di “La verità delle ossa”. Anche se bisogna stare molto attenti che sono velate. Mentre attende al capezzale del suo capo colpito forse mortalmente da un colpo di pistola, Tempe fa un lungo salto doppio all’indietro, narrandoci come sia entrata nella spirale dell’analisi ossea. Erano i tempi ancora felici in cui viveva con il marito Pete, allora avvocato ma anche attento a Tempe ed al suo mondo. Lei invece si stava specializzando in archeologia ossea. Trovandosi da sola in laboratorio, viene coinvolta dal bravo ma assai sporchello (una macchina piena di residui alimentari, un visto maleodorante, capelli unti) Erskine “Skinny” Sliddell nell’analisi di un morto carbonizzato. Solita routine, confronto dei denti, scoperta che il morto non è quello che si credeva, che il dottore padrone della casa in fumo si fa presto vivo. Secondo morto, cinese agopuntore, anche lui semi-carbonizzato, con una traccia che collega i tre casi: i due morti ed il vivo. Per farla breve, siamo negli anni ’80, sono tutti malati di AIDS, il dottore cerca le medicine in Messico, ma un terzo paziente, un po’ fuori di testa, vuole ucciderli tutti. Scena catartica con intervento risolutore di Skinny, che si capisce perché sia diventato poi sodale di Tempe. Ritorno al presente in ospedale ed arrivo di Ryan. Da qualche accenno si capisce che i due oramai filano insieme. Il secondo [“Ossa in tasca – Bones in her pocket”, 2013, pag. 93-158] come detto da conto della morte di qualcuno che cercava di salvare uccelli vari da stermini ecologici di acque inquinate. Un cadavere viene trovato in un sacco in un fiume. Vi risparmio dettagli poco simpatici su tutti gli animali che pasteggiarono con il corpo. Ben presto, Tempe e Skinny risalgono una catena di indizi che porta ad identificare la morta con l’ambientalista Edith (analoga appunto alla morte di Dick che voleva salvare i caribù nella ‘voce delle ossa’). Il colpevole sembra tal Herman, anche lui ambientalista, ma della sezione anarco-individualista (buttiamo le bombe per far saltare le industrie inquinanti). Dopo una serie di passi falsi, il tutto si risolve nella scoperta di Edith di un traffico di cuccioli di cane. Solita scena trucida finale, con la nostra eroina in pericolo, ma questa volta il salvatore non vi dico chi è (e non è Ryan). La cosa migliore è il commento personale finale di Kathy Reichs contro l’allevamento fraudolento di animali al solo scopo di lucro). Il terzo invece [“Ossa nella palude – Swamp Bones”, 2014, pag. 159-257] si riferisce ad una vacanza che Tempe in uno dei suoi libri maggiori dice di voler fare per andare in Florida a trovare una sua collega, che si occupa di necroscopia, cioè analisi della morte di animali, in particolare uccelli. Ma la sua amica non sta a Miami, ma nel Parco Nazionale delle Everglades. Che è sì abbastanza vicino alla capitale, ma è un luogo umido e trasudante alligatori (in partica, come dice il titolo, è una palude). Lì nella palude, incauti personaggi, dopo averli tenuti come animali domestici, liberano decine e decine di pitoni Burma (che come dice il nome vengono dall’Asia). Che si riproducono con una velocità incredibile. Che mangiano gli uccelli sterminandoli. E sezionando un pitone insieme alla sua amica, Tempe viene coinvolta in un vortice di ricerca. Il pitone ha mangiato un avvoltoio che ha mangiato un cadavere umano (e qui, c’è un altro colpo di genio, che il traduttore non può che continuare citando Branduardi!). Cadavere che si scopre essere di una cacciatrice di pitoni (perché sugli animaletti c’è una bella taglia). La scena si complica con elementi indigeni che fanno i bracconieri, tatuaggi sotto le unghie, altri morti sbranati e smembrati (di cui uno da un alligatore). Anche qui il colpevole ultimo sarà abbastanza insospettabile all’inizio, ma ben individuabile dalla scena degli armadietti in poi (ma mica vi dico che scena è). Fatto conto il solito finale tempestoso, con la brutta fine del losco figuro, Reichs ci intrattiene ancora un po’ con una tirata contro i bracconieri e gli uccisori di pitoni e coccodrilli, solo per ricavarne pelli da abbigliamento. Del quarto ho parlato poco sopra, e non ci torno su, anche se devo dire che, presi nell’insieme come “Collection” sono più gradevoli che isolati come racconti lunghi (vedi appunto i miei commenti iniziali). In finale, pur essendo racconti, sono sostenibili nell’andamento. Inoltre si scagliano sempre contro piaghe mai risolte: cure per l’AIDS, allevamenti di frodo, bracconaggio animale. Condividiamo l’afflato ambientalista e animalista della scrittrice. Speriamo che però riesca a darci un saggio finale delle attività della dottoressa Brennan e del suo mondo di ossa.
In attesa di un Capodanno (cioè del 1 gennaio 2018) che porta ad iniziare un anno “col botto”, colgo l’occasione di questa domenica di San Silvestro per fare tutti i migliori auguri a tutti i miei lettori, amici, viaggiatori, e tutti quelli che in questi dodici anni di scrittura mi sono stati vicini. Sperando che rimangano vicini, tanti io vi avrò sempre nel cuore e nella mente. 

domenica 24 dicembre 2017

Dahlitudine - 24 dicembre 2017

Nuova puntata dedicata, invece che al Natale cui riserviamo l’allegato, al Giallo Svezia del Corriere della Sera, dove si affrontano il norvegese Kjell Ola Dahl e lo svedese Arne Dahl. Stesso cognome ma nazioni e stili diversi. Nonché resa, visto che il norvegese è sempre almeno sufficiente, mentre lo svedese è sempre poco sotto la sufficienza.
Kjell Ola Dahl “L’uomo in vetrina” Corriere della Sera Svezia 8 euro 7,90
[A: 01/10/2015– I: 23/05/2017 – T: 25/05/2017] - &&& -
[tit. or.: Mannen i vinduet; ling. or.: norvegese; pagine: 488; anno 2001]
Continuiamo a farci del male, come direbbe Nanni Moretti. Altro libro della collana “Giallo Svezia”: peccato che l’autore sia norvegese e che l’azione si svolga, appunto, ad Oslo. L’autore, tra l’altro, nasce come professore di liceo, e solo nel 1993, a 35 anni, comincia a scrivere. Iniziando una serie imperniata su due poliziotti, il commissario Gunnarstranda e l’ispettore Frank Frølich. Questo che ho appena letto è in realtà il terzo romanzo della serie, e si nota, che i personaggi principali fanno riferimento a vicende precedenti, che non sempre vengono decrittate da noi poveri lettori attuali. In questi casi, poiché l’autore sorvola su molti passi, una piccola introduzione riassuntiva dei caratteri e delle vicende dei personaggi non sarebbe certo male. Ad esempio il commissario è sempre indicato con il cognome, come se il nome fosse un accidente. Inoltre ha avuto una moglie, morta probabilmente di cancro, almeno dieci se non di più anni prima delle vicende presenti. È un tipo solitario, fumatore accanito di sigarette che prepara lui stesso, parla al suo pesce rosso e si tocca spesso il riporto di capelli. In questa vicenda, Gunnarstranda comincia ad avere un rapporto con un’altra donna, Tove. E la preparazione psicologica dell’autore (che infatti oltre ad insegnare è anche psicologo) ce ne mostra i timidi passi verso un possibile nuovo mondo. L’ispettore Frølich, invece, è preso in uno strano rapporto di coppia non convivente con Eva-Britt. Ma è un rapporto che si sta esaurendo, per incapacità di rapportarsi tra i due. Eva fa innervosire Frank qualsiasi cosa faccia, e Frank non riesce a tirar fuori i suoi problemi. Tanto che comincia ad avere una storia con tal Gøril, una donna poliziotto che sembra decisamente simpatica. Anche perché, di base, lui è il più gioviale dei due ed è decisamente robusto se non si vuol dire che è grasso. I rapporti personali dei due fanno da contraltare privato alla vicenda, che invece ha altri scenari ed altro svolgimento. Quindi noi, dopo aver capito, o cercato di capire, i due poliziotti, ci immergiamo nella trama vera e propria del libro. Trama che si incentra sulla strana morte di Reidar Folke Jespersen, 79 anni. Un anziano metodico, con una routine giornaliera costante, una moglie più giovane, Ingrid, di cui sa la relazione con tale Eyolf (e non la disapprova). Il 13 gennaio, venerdì, Reidar viene trovato morto, nudo, seduto nella vetrina del suo negozio d’antiquariato, con uno strano codice alfanumerico disegnato sul petto. Molte cose veniamo a sapere sull’antecedente della morte: i fratelli di Reidar vogliono vendere l’attività in perdita, ma lui si oppone. Anche se Kirkenær fa un’offerta fuori mercato (perché?). Reidar vede inoltre una donna vestita di rosso, e fuori ad osservarli c’è il marito di lei, tassista e geloso. Infine c’è il commesso Jonny, da poco, e inspiegabilmente, licenziato. Tra tutti questi possibili autori dell’omicidio, i nostri due si cominciano a muovere, utilizzando le consuete modalità poliziesche: scavare nel passato per trovare il presente. Passato che porta ben presto alla luce l’attività di Reidar durante la Seconda Guerra Mondiale. Laddove la Norvegia, presto occupata, divenne sede di comandi nazisti. E dove molti norvegesi cominciarono fiancheggiamenti ed altre turpi attività. Come fece la famiglia Jespersen. Come fece Reidar stesso. Si snoda cosi una storia d’amore e di vendetta con ombre che perseguitano ancora sia le vittime che i persecutori. Non ci meravigliamo di scoprire che la famiglia di Jonny è ebrea, che parenti di Kirkenær sono morti nei campi di concentramento, che il codice sul cadavere è anch’esso di derivazione nazista. Ovvio che molto è fumo negli occhi di chi non sa vedere. Arriveremo, noi e i due investigatori, alla soluzione, alla spiegazione di tutti i vari passi che hanno portato alla morte di Reidar. Ma come in un sano giallo alla Simenon, non tutti i colpevoli subiranno la stessa sorte. E qui mi fermo. Per fare un passo indietro e fornire alcuni giudizi generali su questa mia prima lettura di un libro del norvegese Dahl. La partenza è buona, in salita e di corsa. La descrizione della vita del morto, i possibili motivi della sua uccisione, la cupa atmosfera norvegese, la vita privata dei due investigatori. Purtroppo il norvegese Dahl non riesce a mantenere questa tensione per molto tempo, e ben prima di arrivare alle quasi 500 pagine finali ci si domanda perché non ha tagliato un po’, perché continua a rimestare intorno alle solite cose, tanto ormai sappiamo come sono verosimilmente andate le vicende. Come diceva un attento osservatore: “Non basta essere nati a Oslo per saper scrivere un buon giallo”. Vedremo se migliorerà continuando.
“Le persone anziane dovrebbero … riposarsi, godersi la vita in altre maniere.” (80)
“Le persone che amano sono innocenti, indipendentemente da chi amano e perché amano.” (411)
Kjell Ola Dahl “False apparenze” Corriere della Sera Svezia 25 euro 7,90
[A: 19/01/2016 – I: 14/06/2017 – T: 17/06/2017] – &&& --
[tit. or.: Kvinnnen i Plast; ling. or.: norvegese; pagine: 362; anno 2010]
E qui saltiamo dal terzo al settimo romanzo della serie dei due poliziotti. Ed il salto si sente, che, pur rimanendo nel filone dei caratteri sopra espressi, si notano salti caratteriali e di vita, forse giustificati, ma di certo non spiegati. Che, ovvio, erano stati espressi nel corso delle varie puntate della scrittura seriale. Ma abbiamo anche un altro punto negativo: il vezzo di modificare il titolo da “Donna nella plastica” (come in effetti viene trovato il cadavere di Veronika) a queste apparenze false (come spesso sono le apparenze), ma immotivatamente assurte a titolo. Non nego, ovvio, che il titolo italiano abbia comunque attinenza alla trama. Anzi, per tutto il corso del romanzo sono proprie le cose che appaiono a non essere vere, a celare altre verità. Dahl ha anche qui la capacità di mescolare più trame, intrecci disparati, alcuni solo marginali, altri che tendono a distogliere il lettore, e farlo procedere su false piste. La trama principale riguarda la morte di Veronika Undset, trovata dall’ispettore Frank Frølich in un cassonetto, nuda ed avvolta in un sacco di plastica. La riconosce perché l’aveva arrestata pochi giorni prima. Frølich stava pedinando un criminale, Kadir Zahid e scopre che Veronika passa la notte con lui. Quando esce, Frølich la perquisisce e trova della cocaina in un accendino. Veronika se la cava con una multa. Ma la sera stessa Frølich partecipando alla festa del suo amico Karl Anders scopre che questi si è fidanzato con Veronika. Alla festa Frølich conosce anche la precedente fiamma di Karl, Janne, una madre single con figlio adolescente e problematico. Molti misteri si addensano nell’orizzonte della trama: Veronika infatti va da uno psicologo, Erik Valeur, ed è assediata da uno stalker che la fotografava sovente quando lei riceveva uomini nella sua casa. Stalker che pochi giorni dopo viene anche lui trovato ucciso. Inoltre, tutte le tracce tendono a sparire: il computer di Veronika, i suoi telefoni, fissi e mobili, il computer dello stalker, e chi più ne ha più ne metta. Frølich, troppo coinvolto nelle indagini, viene allora dirottato sul caso di una studentessa di colore Rosalind M’Taya, arrivata da poco in Norvegia per studiare, scomparsa poche ore dopo l’arrivo. Le indagini vengono quindi prese in mano direttamente da Gunnarstranda, che viene aiutata da un nuovo personaggio, l’ispettrice Lena Stigersand. Indagando ad ampio raggio, si scopre inoltre che Kadir è implicato in una serie di furti, che spaccia anche droga, servendosi di ragazzotti, tra cui Kristoffer, il figlio di Janne. Inoltre, Erik Valeur era stato lo psicologo di una scuola media, dove trovò la morte una ragazza, Sonja, con modalità simili a quelle di Veronika. Mentre Frank risolve brillantemente il caso della ragazza scomparsa, ritrovandola, trovando il colpevole, ed innescando una storia parallela che poco interessa il filone principale, Lena si intrufola nell’ambiente dello psicologo, cercando di trovare prove del suo coinvolgimento nell’omicidio di Veronika. Ma anche noi capiamo che sarebbe troppo facile. Troppo misteriose le mosse di Veronika la notte della sua morte. Perché è stata a lungo da Janne prima di andare da Kadir? Perché non c’è una prova della convergenza tra la morte di Veronika e quella dello stalker? Perché Kristoffer ha il bagno pieno di dosi di cocaina? Perché Janne torna con Karl Anders? Il finale lascia qualche sorpresa, dove vi svelo solo che Valeur era l’assassino di Sonja, ma non di Veronika. Scoperta che fa Lena mettendo in pericolo anche la sua vita, ma uscendone vittoriosa anche se malconcia. Così come vittorioso esce Frank dal confronto con Karl, dove veniamo anche a scoprire i segreti del loro odio – amore che risaliva ad una brutta storia di donne in gioventù svoltasi in Corsica. Ma la vittoria Frank la paga a caro prezzo, che, furioso con Karl, lo riempie di botte. Per tale motivo, verrà allontanato dalla polizia, o quanto meno sospeso. Nel resoconto finale che fa Gunnarstranda oltre a capire tutta la vicenda, di Veronika, di Janne, di Karl, dello stalker, capiamo anche che sarà Lena la sua prossima partner investigativa. Sperando che la nuova coppia sia più accattivante di questa ormai arrivata al lumicino. Dahl ci presenta un discreto spaccato dalla Oslo odierna, ma non riesce a coinvolgerci in maniera seria nella trama e nei suoi risvolti. Tanto che mi trovo a ripetere il finale del commento precedente (anzi non lo ripeto, rileggetelo). Finisco con un piccolo cammeo: a pagina 151 Gunnarstranda sta in salotto con la sua nuova fiamma Tove, ascoltando musica. Alla richiesta di cosa sia, la donna risponde: “Paolo Conte … jazz italiano … è davvero piacevole da ascoltare”. Concordo al 100%.
Arne Dahl “Brama” Corriere della Sera Svezia 9 euro 7,90
[A: 01/10/2015– I: 06/11/2017 – T: 13/11/2017] - && +
[tit. or.: Viskleken; ling. or.: svedese; pagine: 538; anno 2011]
Dopo alcuni mesi di pausa, riprendo in mano i gialli “svedesi”, con una prima buona novella: un giallo realmente scritto da uno svedese. Anche se Arne Dahl non è il suo nome ma uno pseudonimo che l’autore usa quando scrive polizieschi. Che Jan Arnald è uno scrittore altrimenti noto in patria, collaboratore con l’Accademia Svedese dei Nobel (tra l’altro). Dahl comincia a scrivere gialli agli inizi di questo secolo, inventandosi una squadra di investigatori della polizia svedese, che chiama “Gruppo A”, e di cui scrive, credo, una decina di libri. All’inizio del decennio, invece, riprende alcuni personaggi della serie, e ne inizia una nuova, portando i suoi “attori” sulla scena internazionale, come gruppo operativo all’interno dell’Europol. Gruppo denominato “OpCop”. Al comando del quale ritroviamo il commissario capo del gruppo A, Paul Hjelm, coadiuvato dal finlandese di origini svedesi (o viceversa) Arto Söderstedt. Del gruppo, poi, fanno parte una serie di poliziotti provenienti da molti paesi europei: la tedesca Jutta, il polacco Marek, la rumena Lavinia, l’inglese Miriam, la lituana Laima, il greco Angelos, la francese Corinne, lo spagnolo Felipe, l’italiano Fabio. Il gruppo è coadiuvato anche da alcune equipe nazionali, la più importante delle quali, ovvio, è quella svedese, composta da Kerstin (la compagna di Paul), Jorge (l’esperto informatico) e Sara (la moglie di Jorge). Detto questo come introduzione ed ambientazione, prima di inserirsi nella trama, viene ad alcune domande che mi sono saltate subito in mente. Perché in italiano viene presentato come “Brama” un libro che in originale si intitola “Sussurri”? Certo, nello svolgimento la brama di denaro è il motore di molte azioni. Ma sono i sussurri, le parole nascoste, quello che da giovani facevamo come “telefono senza fili” che reggono l’intreccio. In un susseguirsi di notizie, sussurrate, sibilate, nascoste, mal comprese, che fanno da sfondo alla trama, che devo dire, soprattutto all’inizio, è assai complicata. A meno che non ci sia una pervicace traduzione dal tedesco (dove fu lanciato con il titolo “Gier”, cioè avidità, brama)!! La seconda domanda, si collega alla sopracitata sfilza di personaggi. Che, nel caso di Paul e Arto soprattutto, fanno a volte riferimento al Gruppo A. Ma non c’è una parola di raccordo, come se noi sapessimo (ma non lo sappiamo) quali siano le precedenti imprese del gruppo, quali le sottese alleanze, quali i moti dell’anima. La terza domanda, invece, viene a lettura ultimata. Certo, è un intreccio interessante, e discretamente attuale. Tuttavia l’autore ogni tanto si perde nei rivoli di altro, si infogna in storie collaterali (almeno all’apparenza), mette una discreta massa di carne al fuoco, e lasciando alcuni punti sospesi. Perché uno dei “cattivi” viene battezzato come Minotauro? Perché una delle vittime predestinate prende il nome di Arianna? Perché il filo salvifico viene tenuto da tal Elena e non giunge a nessun Teseo? Perché l’agenzia di sicurezza dei “cattivi” si chiama Asterione, come il padre di Minosse, nonché nonno di Arianna? Il tentativo di Dahl è quello di produrre uno scenario internazionale complesso, in cui convergono corruzione, scandali finanziari, inquinamento ambientale, droga, e chi più ne ha più ne metta. Il fulcro è quel tal Minotauro, che, muovendo leve finanziarie legate ad una misteriosa banca d’affari stranamente salvatasi sia dall’11/9 sia dai disastri dei fondi alla Lehman Brothers, cerca di ridurre in bancarotta addirittura la Lituania. Per fare ciò muove, oltre ai suddetti denari, la falsificazione di mobili a basso costo nel Tibet, producendo un solvente che inibisce gli odori e consente alla ‘ndrangheta, cui si associa, di esportare in Lituania droga orientale. Proprio Riga diventa un fulcro dell’azione, dato che, per aumentare i proventi, i mafiosi calabresi devono riciclare materiale poco pulito, andando ad inquinare le coste del Mar Baltico. Il tutto garantito da una segreta squadra di sicurezza facente capo alla società “Asterion Security”. I meccanismi si inzeppano quando, contemporaneamente, durante il summit G20 dell’aprile 2009 muore un cinese (che poi si scopre essere tibetano) tra le braccia di Arto (uno degli OpCop) e contemporaneamente viene rapita, torturata ed uccisa la bella Arianna. Che sapeva dell’esistenza degli OpCop in quanto il suo ragazzo aveva avuto una tresca con una polacca che aveva giaciuto con Marek, che le aveva detto di essere un super-poliziotto. Inciso: questa del telefono senza fili per risalire da Marek ad Arianna è appunto la traccia “forte” del libro da cui deriva il titolo. Paul, visti i fili che convergono verso la sua nuova squadra, mette tutti al lavoro: Marek segue la pista americana (uscendo miracolosamente indenne da un attacco con il gas), Miriam e Corinne seguono la pista inglese (dove ci sono le due morti acclarate), Jorge e Laima seguono la pista lituana ambientalista, Fabio e Lavinia la pista mafiosa calabrese, mentre Kerstin e Sara la pista dei mobili che parte da Stoccolma, e si intreccia con una pista di pedo-pornografia infantile originatasi in Cina (e sarà casualmente il contatto cinese che, riconoscendo nel morto un tibetano, darà un impulso fondamentale alle indagini). Indagini che termineranno con un bel bagno di sangue a Berlino. Fortunatamente, Dahl, nei capitoli finali, ci fa un riassunto dei collegamenti tra tutti gli avvenimenti sparsi nel libro, che altrimenti sarebbe arduo andare a ricollocare al giusto posto. Certo, l’uso del giallo per denunciare scandali e corruttele finanziarie è degno e nobile. Peccato sia troppo diluito nelle 500 pagine, e che non abbia una soluzione definitiva. Il che lascia supporre o che nei libri seguenti se ne riprenda il filo o che l’autore voglia dirci che “contra argentum, nihil potest”. Speravo qualcosa di più omogeneo, ma è un libro che può andare in questi momenti di turbolenza familiare, per poter distogliere alla grande la mente.
Arne Dahl “Ira” Corriere della Sera Svezia 23 euro 7,90
[A: 04/01/2016– I: 14/11/2017 – T: 16/11/2017] - && +
[tit. or.: Hela havet stormar; ling. or.: svedese; pagine: 448; anno 2012]
Prima di entrare nella trama vera e propria di questo secondo libro di Dahl, casualmente letto a ruota del primo, ribadisco un sospetto che mi era venuto guardando in giro sulla rete e che avevo espresso nella trama precedente. In effetti, anche qui il titolo originale è “Tutte le tempeste del mare”, ed ogni parte del libro è ad esse dedicata (calma piatta, brezza, burrasca, tempesta, uragano). Mentre in tedesco è stato lanciato come “Zorn” (che per l’appunto in italiano è “Ira”). Secondo appunto riguarda la continuità nelle descrizioni e nei personaggi, nonché alcune lungaggini di scrittura. Infatti, se non avessi appena letto “Brama” mi sarei perso il collegamento, che nasce a pagina 210, con la banca Antebellum e la società di security Asterion. Che invece l’autore dà per scontato, come se tutti già sapessero quegli antefatti. Che sono invece a molti ignoti, che Dahl non chiarisce, anche se poi sono funzionali a tutta una parte della trama, ed a tutta una parte della sua risoluzione. L’altro appunto riguarda molte parti francamente poco leggibili, in cui si salta nel passato nebuloso di qualche personaggio, cercando di avvolgere il tutto in un’aura di mistero. Ebbene, se li saltate (o se l’editore avesse convinto Dahl a toglierli) sarebbe stato tutto molto più leggibile e probabilmente appassionante. Infatti, una volta tolti di mezzo, la seconda parte del libro scorre molto meglio, ed è anche più avvincente. L’altro vizio, che gli autori di serial writing non si riescono a togliere, è quello di voler inserire più vicende che si intrecciano (a volte), che spesso vanno su binari paralleli, e la cui gestione non è facile. Qui, il doppio binario (che ricordo è ormai un must dei serial fiction televisivi alla CSI o similari), porta l’autore a cercare di confondere le acque. Cerca di farci credere che tutte le morti siano derivanti da un unico disegno criminoso, quando, casualmente, si scopre che ci sono due serial killer, che, ad un certo punto, uccidono contemporaneamente lo stesso uomo. anche se, come si vedrà, per ragioni diverse. Al centro, in ogni caso, c’è la squadra OpCop che abbiamo imparato a conoscere nel precedente libro (meno i due poliziotti morti in Basilicata, senza che però venga preso il colpevole). Con le loro manie, con i loro rapporti interpersonali (che qui fanno un discreto passo in avanti) e con le loro storie pregresse, che noi onnivori lettori sappiamo, ma che Dahl si guarda bene dal rinverdirne le gesta. Così abbiamo Paul, il grande capo, che ha sempre il suo rapporto con la distaccata (di sede, non di umore) Kerstin. Ci sono Jorge e Sara, anche se si defilano un po’. Ci sono Lamia e Miriam che fanno una bella coppia d’assalto. C’è il pensieroso Arno. C’è Felipe con la moglie incinta. C’è Alexis sempre pronto con le sue magie tecnologiche. C’è Jutta (che segretamente è invaghita di Paul) e c’è Marek (che segretamente è invaghito di Jutta). C’è Corinne, la franco-mussulmana che comincia a piacermi per la sua solitudine, la sua serietà, la sua professionalità. E ci sono le storie. C’è l’assassino seriale che da più di dieci anni opera indisturbato su tutto il fronte internazionale, attirando le sue vittime nelle più sperdute isole-prigione di tutto il mondo, dove le uccide con un colpo di pugnale al cuore e straziandone la carne della spalla. Certo, questa modalità ci consente di fare un ripasso delle più terribili prigioni che sono state istituite in giro per il mondo: il castello di If in Francia, la Ilha Grande in Brasile, Ile du Diable nella Guyana francese, Robben Island in Sudafrica, Isla Dawson in Cile o Goli Otok in Croazia, tanto per citarne le più famose (per i poco attenti ricordo che Ilha Grande fu un penitenziario brasiliano sino al 1994, l’Isola del Diavolo vide rinchiuso il capitano Dreyfus, Robben Island fu la prigione di Mandela, a Isla Dawson fu rinchiuso Luis Corvalan, sodale di Allende, e Goli Otok quella istituita da Tito). Significativo è il primo assassinio che viene perpetrato a If, dato che poi, ogni successivo crimine contempla la presenza di una citazione del “Conte di Montecristo” (una fantasia sfrenata…). Il gruppo di Paul, pur con una discreta fatica, riesce a trovare un fattore comune a tutti i morti: erano tutti comunisti. E qui l’autore si lancia in una piccola polemica (messa in bocca al cattivo assassino) contro l’ideologia che tanti morti ha causato nel secolo scorso. Polemica che risulta assai sterile, in quanto nessuno ne discute con l’assassino, solo Arto dice qualche frase, più che altro per giustificare i suoi scritti giovanili (era un convinto marxista svedese) ed il suo successivo passaggio nella polizia. Mentre Dahl cerca di convincerci che queste sono le morti che dobbiamo tenere in controllo (invece sono elencate, decrittate, ed una volta capito il meccanismo, facilmente isolate con le future vittime salvate o salvabili, ed il colpevole arrestato), sono tutte le altre, che più intrigano e che sono di più difficile comprensione. Anche perché sappiamo subito, dai rapporti che ogni tanto si inseriscono nel testo (che fanno un pendant mentale con le lettere di Arianna del primo libro), che l’autore è un certo W, intelligente, quasi geniale, e ben presto scomparso. Tanto che gli autori dei rapporti stanno da tempo cercandone le tracce. Capiamo presto, dall’analisi delle altre morti, che W è un prodotto genetico modificato ante-litteram. Che vuole vendicarsi, e riesce anche a farlo, di chi lo ha “costruito”. Nella seconda parte, quella meglio riuscita, c’è tutta l’escalation sia delle componenti eugenetiche delle attività dei malvagi, sia l’intelligenza di W, sia quella, misto di bravura e di coraggio, del gruppo OpCop. Mescolando la fine di questo libro con le domande aperte alla fine del precedente, Dahl costruisce la sua trama e la sua storia. Che tuttavia, benché ben congeniata, non lascia una grande traccia di sé. Alla fine, ripensando, il tentativo di Dahl è di dare un bel colpo di maglio a chi voleva costruire “un uomo nuovo”. Chi lo faceva utilizzando la politica, chi utilizzano la scienza. Tuttavia non riesce ad essere né coinvolgente né convincente. Rimane solo il gruppo, con le sue personalità abbastanza simpatiche (Corinne su tutti per me), e quel finale che cerca di mettere qualche pulce nell’orecchio. Ma non vi dico né di che pulce si tratta né di quale orecchio. Dahl continua a cercare di inserirsi nel solco della tradizione gialla nordica, senza però raggiungere l’efficacia e le capacità empatiche di Sjöwall e Wahlöö, di Mankell, di Stieg Larsson o di Håkan Nesser. Non credo, a meno di altre casualità, che se ne leggerà ancora molto.
Visto che siamo a Natale, oltre a questi scrittori vicini alle renne ed al circolo polare, ecco che vi regalo un recupero di cure librarie come piccolo regalo di Natale.
Un Natale in minore, se vogliamo, che siamo più tesi verso le saluti genitoriali che verso le adunate conviviali. Ma visto che tra poco saremo in un anno “8”, aspettiamo di far rima e di salutarci calorosamente.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NATALE
Come già detto, a volte prendo qualche festa non domenicale per recuperare libri. O qualche festa anche più complicata, come un Natale che viene di lunedì con gli auguri che vi mando il giorno prima.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
DIARREA, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE AL GABINETTO

Non perdete un istante. Scegliete un romanzo da questo elenco. Non importa se li leggerete a salti e frammenti durante le vostre sedute, scegliendo, volta per volta, un capitolo breve o uno lungo. Organizzate uno scaffale apposito, nella stanza più piccola della vostra casa.
Saul Bellow                   Il re della pioggia
Charles Bukowski           Post office
William S. Burroughs      Pasto nudo
Raymond Chandler         Il grande sonno
J. M. Coetzee                Diario di un anno difficile
Heimito von Doderer      Le finestre illuminate
Ralph Ellison                  Uomo invisibile
Bjorn Larsson                 La vera storia del pirata Long John Silver
Michael Ondaatje           Le opere complete di Billy the Kid
Simon Vestdijk              Il giardino dove suonavano gli ottoni

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, paura della
CURA: Ripensare il genere

Una delle assenze più comuni nella galassia degli interessi di un lettore che altrimenti potremmo definire a tutto tondo e quell’insieme di romanzi che di solito sono etichettati come «di fantascienza». Per ragioni non del tutto chiare, questo termine riesce sempre a mandare un brivido lungo la spina dorsale. Forse evoca immagini di alieni, astronavi e guerre intergalattiche - e tutto senza nemmeno un essere umano. Forse chi non legge fantascienza non è in grado di capire come un mondo irreale possa rapportarsi con quello che c’è fuori dalla porta.
O forse i lettori sono messi fuori strada da un termine cosi generico che non riesce a comunicare la varietà e la qualità di questo genere. Invece che fantascienza, provate a chiamarla narrativa «speculativa», come la definì una volta Margaret Atwood - romanzi che esplorano le direzioni in cui la razza umana potrebbe andare. Gli scrittori di narrativa speculativa hanno spesso predetto il nostro presente: Ray Bradbury, Arthur C. Clarke e William Gibson avevano immaginato certi gadget odierni con cinquant’anni di anticipo. Altri, che scrivono adesso, prediranno e in un certo senso contribuiranno a determinare il nostro futuro - e continueranno a servire da sistema di preallarme. Considerate, ad esempio, come la letteratura abbia evidenziato i pericoli dell'ingegneria genetica (“L’ultimo degli uomini”), della bio-ingegneria (“Il giorno dei trifidi”) e dell'ingegneria sociale (“1984”). Se, come lettori, siamo interessati a ciò che significa essere umani, non dovremmo essere altrettanto interessati alla nostra identità futura?
Sotto molti punti di vista la fantascienza e uno sviluppo naturale dei mondi magici in cui abbiamo abitato da bambini (molti di noi, anzi, leggono con piacere narrativa speculativa da tempo, senza accorgersene; ricordate quel romanzo su un uomo che poteva viaggiare nel tempo, e su come la moglie viveva tutto questo? Se gli editor avessero scelto di etichettare Audrev Niffenegger come scrittrice di fantascienza, migliaia di lettori non l'avrebbero toccata nemmeno con una spada laser). La narrativa speculativa apre universi paralleli nei quali possiamo fuggire per dare sfogo alla nostra passione per tutte le cose che vanno oltre la nostra comprensione. Se evitate questi universi, lo fate a vostro rischio e pericolo.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER PRINCIPIANTI DELLA FANTASCIENZA

Questi libri trascendono i confini del genere, e dunque non sono considerati dei classici. Quasi senza che ve ne rendiate conto vi convertiranno a un mondo nuovo - come persone, oltre che come lettori.
Douglas Adams                 Guida galattica per gli autostoppisti
Isaac Asimov                    Io, Robot
J. G. Ballard                      Deserto d'acqua
J. G. Ballard                         Crash
Philip K. Dick                    Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Stanislaw Lem                  Solaris
China Mieville Perdido         Street station
Walter Tevis                      L'uomo che cadde sulla terra
Kurt Vonnegut                   Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini
H.G. Wells                        La guerra dei mondi

DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, non leggere altro che
CURA: Scoprire il pianeta Terra

Lev Tolstoj              Guerra e pace
Frank Herbert          Dune
Michel Faber           Sotto la pelle
Hermann Hesse      Il gioco delle perle di vetro
Angela Carter          Le infernali macchine del desiderio
Jeanette Winterson   Passione
Leggete solo fantascienza. Non c’è una sola copertina in casa vostra che non splenda di un bagliore alieno. La fantascienza è diventata un buco nero letterario, e voi ci siete caduti dentro. Mentre vi facciamo i complimenti per la vostra immaginazione e la capacità di mettere da parte le leggi della fisica, vi esortiamo a utilizzare una mente così esercitata anche per le rappresentazioni artistiche del pianeta che avete oltre la porta di casa. Ci sono altri universi letterari, là fuori. Vi consigliamo di fare un giro in questo territorio inesplorato.
Cominciate con “Guerra e pace” di Tolstoj, il grande romanzo epico russo che, come “Dune” di Frank Herbert, abbraccia tre generazioni di guerra e politica, senza mai perdere di vista gli individui. Passate poi a “II gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse, un romanzo ambientato, e questo potrebbe rassicurarvi, nel venticinquesimo secolo, ma che si occupa di questioni filosofiche e spirituali. Poi leggete “Sotto la pelle” di Michel Faber, un romanzo che tocca vari generi e che vi assorbirà e infine vi darà una bella scossa. Lasciate che “Le infernali macchine del desiderio” di Angela Carter, un'esuberante stravaganza magico-realista, vi faccia conoscere alcune macchine che distorcono la realtà e gettano lo scompiglio nella vostra mente. “Passione” di Jeanette Winterson, un altro romanzo che sfida le classificazioni di genere, vi farà sondare il ventre molle della narrativa site-specific. Un altro piccolo passo, e avrete a vostra disposizione tutti gli altri romanzi ambientati in regioni sconosciute del nostro pianeta. Alla fine, potreste considerarvi ufficialmente guariti dalla vostra ossessione per lo spazio.

Ipocondria

Frances H. Burnett “Il giardino segreto”
Leggere “Il giardino segreto” serve a ricordare che molti dei nostri disturbi sono, in realtà, immaginari.
Il giovane Colin, confinato nella sua camera da letto fin dalla nascita, è convinto di avere un rigonfiamento sulla schiena che, prima o poi, diventerà una gobba e lo porterà alla sua prematura scomparsa. Ovviamente non c’è alcun nodulo, se non si contano le vertebre della spina dorsale. Quelli che si occupano di lui lo hanno spinto a credere di essere deforme, condannato a non diventare adulto, e che l’aria aperta può avvelenargli il sangue. Mary, la cuginetta viziata, altrettanto arrogante e scontrosa di lui, non vuole nemmeno sentirne parlare. È l’unica persona abbastanza coraggiosa da dire al bambino che in lui non c’è niente di sbagliato, e fa corrispondere alla propria rabbia per la sua inerzia quella di Colin per il suo presunto destino. Solo una bambina dal carattere impetuoso, decisa a trovare il suo giardino segreto, può rompere il guscio della paura di Colin e mostrargli la verità.
La passione di Mary per il giardino attira Colin fuori dalla camera e lo fa entrare in un mondo di boccioli e di uccelli - un mondo dove abita anche l’irresistibile Dickon, pieno di lentiggini, un vero ritratto della salute. Lasciatevi conquistare da questo romanzo, alzatevi dal letto, trovate il vostro giardino segreto, forse anche il vostro Dickon, e vi sentirete subito in perfetta salute.

Bugiardino

Diarrea, i dieci migliori romanzi da leggere al gabinetto

Ho parlato di questa “malattia” in una cura dell’aprile 2015, dove parlai di cinque tra questi dieci libri. Ora vi aggiungo un sesto, l’ottimo romanzo dello svedese navigatore Bjorn Larsson.
Björn Larsson “La vera storia del pirata Long John Silver” Iperborea euro 18,50
[trama pubblicata il 18 giugno 2017]
Eccoci qua, allora, dopo una lunga cavalcata per i sette mari, a ritrovare la bella scrittura di Larsson ed una storia che vale molte storie. Peccato solo non aver mantenuto l’asciutto titolo originale, ed essersi dilungati nell’aggiungere “vera storia” e “pirata”. Inutili e ridondanti simboli qualificativi, che servono solo a cercare di attirare lettori ad una storia che, devo dire, si attira e si commenta da sé. Anche se l’originale svedese, che i nostri traduttori neanche riportano, implica un bel sottotitolo che val la pena menzionare: “Den äventyrliga och sannfärdiga berättelsen om mitt liv och leverne som lyckoriddare och mänsklighetens fiende” (cioè “La storia avventurosa e veritiera della mia vita e delle mie avventure di uomo libero, di gentiluomo di fortuna e di nemico dell’umanità”). Che, infatti, il nostro svedese Larsson è uno scrittore di intriganti capacità complicative di trame e situazioni. Che è solo cognonimo del compianto Stieg (quello di Millennium) e della giallista Åsa. Che ho imparato a conoscere nel tempo per due caratteristiche: l’abilità nell’ideare trame (come quella, cui rimando, del primo suo libro che ho letto, un poliziesco letterario dal titolo “I poeti morti non scrivono gialli”) e l’amore per il mare. Che traspare in molti suoi scritti (che consiglio al mio amico Renato), e dalla sua vita, visto che passa la maggior parte del suo tempo sulla sua barca, un Rustler 31 di nome “Rustica”. Dove, al largo delle coste galiziane, ha anche ideato e scritto questo romanzo biografico su di un personaggio inventato. Già questo me lo rende simpatico: prendere a prestito da Robert L. Stevenson uno dei personaggi più emblematici de “L’isola del tesoro”, e fargli ripercorrere in prima persona le tappe della sua vita. Mescolando, sapientemente, vero e falso, facendo intervenire a lungo Daniel Defoe (coevo delle vicende narrate) sia come scrittore sia come conoscitore di pirati. Anche se l’opera cui si fa spesso riferimento (“Storia generale dei pirati”) è scritta sotto la firma “Captain Johnson” che per molto tempo si pensò fosse uno pseudonimo dello stesso Defoe (ma pare non lo sia). E facendo intervenire anche altri pirati famosi, veri o letterari. Dal vero Edward England (sodale di Silver) al falso capitano Flint (uscito dalla penna di Stevenson). Tutta la finzione, tuttavia, è al servizio di un’idea di fondo del nostro Bjorn: parlare degli uomini, dei loro sentimenti, del loro modo di vivere, in quei primi 40 anni del 1700. Gli anni che seguirono la grande guerra tra Inghilterra e Spagna, laddove gli inglesi utilizzarono le navi da corsa per attaccare le galee spagnole (da cui i famosi “corsari”). E dove questi, una volta assaporati soldi e donne, non si tirano indietro, si impadroniscono di quel vessillo che diventerà famoso (il teschio con le due tibia incrociate, chiamato in inglese “Jolly Roger”). Larsson usa Silver per farlo diventare eponimo di quest’epoca. Mozzo in fuga dalla natia Bristol, girellando per i mari ad “imparare il mestiere”. Sempre padrone del suo destino, per cui deciderà di non diventare mai capitano di una nave, tuttalpiù quartiermastro (che è una specie di secondo ufficiale, con il compito, importante per quelle imprese, di tenere anche la contabilità). A lungo ancora in Scozia, per sfuggire ad una falsa accusa di ammutinamento, a lungo in compagnia del suo primo grande amore, Elisa. Scoperto, di nuovo in fuga, di qua e di là degli oceani. Coinvolto nella tratta dei negri, ma di cui diventa amico. Soprattutto del capo Jack e di una mulatta fiera che ritroverà dopo qualche anno, libererà dalla schiavitù e diventerà la compagna dell’ultima parte della sua vita. Non la donna, che Dolores non chinerà mai il capo a nessuno (tanto che aveva ucciso un capitano che voleva violentarla), ma che deciderà di unire le sue forze alla declinante vecchiaia di Silver. Larsson ci spiega anche l’origine del soprannome “Long”, non per l’altezza, ma come pseudonimo per sfuggire alle guardie. Si fece chiamare John Long, per un periodo, divenendo poi facilmente Long John, e finalmente Long John Silver. Ci dice come perse la gamba, non per una palla nemica, ma per un tiro mancino dell’invidioso Deval. Cui, per ripicca, farà tagliere dal medico di bordo una gamba sana! E poi il lungo sodalizio con Edward England, un pirata che realmente aveva poca voglia di uccidere i nemici sconfitti, tanto che alla fine il suo equipaggio si ammutinò e lo lasciò su di un’isola deserta verso il Madagascar. Infine, l’ultima parte, dove (grande momento di meta-letteratura) scorre la storia del tesoro del capitano Flint scritta da … Jim Hawkins, ormai gentiluomo in Londra con i soldi del Tesoro. Silver sa che quella storia segnerà la sua fine, e si affretta a finire la sua e spedirla a Jim. Per poi finire come tutti i pirati. O forse no? Larsson ci lascia un’ombra di mistero, che non svela (né io a voi). Perché quello che piace, che rende godibile le 500 pagine non è solo la storia dei pirati sulle onde dei sette mari, ma la figura stessa di Long John. Che Larsson prende da Stevenson ampliandone i lati ambigui. Se ricordate, il grande scozzese aveva sempre messo su due binari il pirata da una gamba sola. Un po’ con Jim e molto con sé stesso. Qui Larsson ci presenta un pirata che, come dice sempre lui stesso, volendo “essere padrone del mio destino”, usa tutti i mezzi per farlo. Sfrutta i suoi studi giovanili (è uno dei pochi che sa leggere e scrivere). È empatico con gli schiavi negri (che una volta liberati saranno con lui sino alla fine), è crudele con i capitani inglesi, è tenero solo con due donne (Elisa e Dolores). Ruba, tradisce, ed alla fine, come tutti, si ritrova solo. A cosa serve aver girato tutta una vita, per poi essere lì, forse sui sessant’anni, con la pirateria che è ormai morta da venti. Solo a pensare di non aver trovato, di non riuscire a trovare, di non trovare mai, la sua posizione. Questa la riflessione personale che poi tutte le belle pagine mi lasciano. Mentre io lascio ai miei amici che amano il mare il godimento di seguire le navigazioni per i sette mari. Anche a chi, purtroppo, le sentirà solo da queste righe. Ed a lui brindo con un colmo bicchiere di rhum!
“Se tanta gente muore prima di aver imparato a vivere, è perché vive come se non dovesse mai morire” (12)
“Mi dissi, in tutta onestà, che tra i milioni e milioni di donne che popolano la nostra terra, dovevano pur essercene altre come … Ma a incontrarne una, in tutta la mia lunga vita, che io sia dannato se ci sono riuscito.” (141)
“Vi confesso dunque che, di tanto in tanto, ho desiderato che … scrivere non fosse un’attività così dannatamente solitaria.” (184)
“La mia vita non è stata che una navigazione stimata, ma forse, chi lo sa, arriverò a trovare la mia posizione, prima di affondare.” (220) [dicesi navigazione stimata quella tecnica di navigazione a mezzo della quale è possibile determinare la posizione stimata della nave in mare, utilizzando gli elementi del moto quali: la velocità, la direzione ed il senso.]
“Se c’è una cosa da cui ci si deve tenere lontani, se si vuole restare sani di mente, è … la scrittura.” (403)

DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, paura della

Non sono certo io a poter parlar male della fantascienza, dati i miei ben noti trascorsi ambiguamente utopici.
James G. Ballard “Crash” Feltrinelli euro 8
[trama pubblicata l’8 febbraio 2015]
Nonostante il piacevole salto che mi ha consentito la lettura di questo libro, e su cui si ritornerà, devo dire che sono rimasto alquanto deluso. Dalla scrittura, dalla storia, dal modo anche che se ne parla in giro (in rete e sui libri). Il salto è stato il ritorno, almeno nella memoria, al tempo in cui le mie uniche letture erano dedicate alla “fantascienza” (uso le virgolette che il termine mi è rimasto sempre antipatico, essendo un tipo di scrittura variegato, e spesso per nulla fantastico: ucronie, sociologie possibili, certo i robot di Asimov, ma anche Bradbury, Farmer, la Le Guin e tanti altri, dove la scienza non sempre era il fulcro della storia). Nella mia libreria “juvenilia” sono rimasti ancora qualche migliaio di libri di genere, e Ballard aveva senz’altro un posto in questo mondo, con la sua scrittura che ha aperto (proprio nei tempi a cavallo degli anni ’70) la strada per un modo nuovo, anglosassone ma non solo, di scrivere (che da lì si diparte la vena umoristica alla Douglas Adams ed il cyber-punk alla Gibson). Fatto questo revival, mi sono messo in lettura, pensando di ritrovare queste atmosfere, anche perché il libro viene etichettato come fantascienza tecnologica di pochi anni avanti. Ed anche, perché spesso Ballard è un gran provocatore, di pornografia tecnologica (fanta-pornografia mi sembrerebbe un termine un po’ troppo forte). Ma letto ora, a quarant’anni dalla scrittura, non ha nulla di anticipatorio, è solo un romanzo che sfrutta dei meccanismi tecnologici (in questo caso le automobili) per portare avanti un suo discorso sulla difficoltà dei rapporti umani, e sulle alienazioni che l’innamoramento verso la tecnologia può portare. La storia, molto cruda in sé, gira intorno al protagonista soggettivo, che scopriamo ben presto avere dei seri problemi di rapporto con la moglie Catherine. Non riescono a fare l’amore se non tradendosi continuamente a vicenda, e raccontandosi i loro tradimenti. La svolta avviene quando il protagonista ha un grande incidente automobilistico, dove uccide una persona che viene in senso opposto, ferendo gravemente la di lui moglie al volante, nonché rimanendo lui stesso gravemente ferito. Questo shock, dopo vari capitoli un po’ inutili, lo porta a contatto con un certo Vaughan, adoratore di incidenti, e fotografo degli stessi. Lui stesso, pluri-incidentato con cicatrici ovunque. Vaughan si aggira cercando incidenti, fotografandoli, e tenendo dietro di sé una specie di scuderia fatta da uno stuntman strafatto di coca, la di lui moglie cicatrizzata, un regista fallito e la moglie di questi, in giro con stampelle sempre per incidenti vari. Una corte dei miracoli, che il nostro però scopre terribilmente eccitata dal pericolo e dalle sue conseguenze. Il nostro, tra l’altro, continua a scopare in macchina ripensando all’incidente, e, tra un coito e l’altro, riesce anche a rimorchiare sia la moglie del morto sia la stampellata. Ma quando comincia a frequentare da vicino Vaughan, oltre ad avere un soprassalto di eccitazione tecnologica, ha anche un soprassalto di passione omosessuale verso di lui. Vaughan continua a studiare morti possibili, e Ballard ci maciulla un po’ i “cabasisi” con queste storie di accartocciamenti di cruscotti ed altre menate. Si vede che i due sono attratti e respinti da questa ordalia di sangue e sesso. Niente di più facile quindi immaginarne la fine annunciata: strafatti di LSD il protagonista e Vaughan fanno l’amore. E poi Vaughan si getta da un cavalcavia (ovviamente con l'auto) e muore. Una fine ovviamente annunciata, e scoperta, come se non resistesse più alla “vergogna” dell’atto consumato. Ma tutto ciò si protrae per duecento inutili pagine. Continuiamo a vedere sesso e crude descrizioni dello stesso, continuiamo ad avere descrizioni di incidenti. Tutto senza un vero perché. Senza un briciolo di “anticipazione”, se non nel fatto dell’uso della tecnologia. Ed alla fine, non ritengo sia un romanzo ascrivibile al genere. Anche se bisogna riconoscere che Ballard si è sempre rifiutato di considerarsi un fantascrittore, piuttosto pensava di sé essere un investigatore dello spazio interiore. Tuttavia, quello che volevo sottolineare è il fatto che non è un romanzo che mantiene il passo con i tempi: è datato, e leggibile solo in una prospettiva storica. Per me, al contrario, un qualsiasi romanzo, di qualsiasi natura, ha senso se riesce a mantenersi godibile (anche se può non piacere, intento godibile nel senso intellettuale) con il passare degli anni. Questo, ora, è solo un romanzo di pornografia pudica, come vedere le fotografie delle donnine discinte che si facevano nell’Ottocento. Divertente vederne una, palloso leggere tutto un romanzo.

DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, non leggere altro che

Ripeto quanto detto la pagina precedente, ovvio.
Hermann Hesse “Il giuoco delle perle di vetro (Saggio biografico sul Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi)” Mondadori euro 12
[trama pubblicata il 4 dicembre 2016]
Un’opera ponderosa, complessa, che mi ha impegnato per quasi un mese di lettura non sempre agevole. Ma alla fine, mi ha lasciato con un po’ di delusione nel fondo del cervello. Meno, sicuramente, del precedente Narciso. Lontanissimo, tuttavia, dal mio ricordo di “Siddhartha”. Intanto, inizio subito trasversalmente, che comprai questo libro su indicazione della bibliografia delle libropeute che conoscete ormai bene. Collocandolo prima tra i libri che devono leggere i cinquantenni. Mistero, ma ci si tornerà sopra. poi tra i libri che gli amanti della fantascienza devono leggere per tornare sulla terra. È vero, come dice l’ottima introduzione di Hans Mayer, che l’azione dovrebbe svolgersi intorno al 2200, ma è tutt’altro il pregio ed il difetto di questo libro. Mi permetto di parlare di difetto in senso personale, che non sempre (anzi sempre più spesso) libri osannati e celebrati nell’universo mondo, ad un mio approccio diretto mi forniscono meno stimoli di quanto speravo. Così anche in questo caso, sebbene devo riconoscere che la scrittura, e le cose che Hesse riesce a dire durante tutta la storia di Josef Knecht, sono da leggere e soppesare ad una ad una. Intanto c’è l’impianto generale del libro, imperniato sul giuoco del titolo e su di un Magister dello stesso. Con quattro divisioni generali che ne fanno un’opera come sopra detto complessa. Una prima parte in cui, con parole oscure, si cerca di spiegare l’inspiegabile: cosa sia mai “il giuoco delle perle di vetro”. Una seconda ben ampia che percorre tutta la vita di Knecht. Una breve esposizione di alcune sue poesie (di cui riporto sotto due versi che mi hanno affascinato). Infine, un bellissimo gioco nel gioco. Gli studenti del mondo di Knecht, a varie riprese nella loro vita, sono invitati a scrivere una loro biografia fantastica. Un piccolo inciso: lo trovo un modo bellissimo di esporre la propria personale visione di sé stessi; dovrebbe essere presa come esempio in molte situazioni in cui bisogno presentare sé stessi. Per tornare al libro, Knecht scriverà tre finte autobiografie, e sono altrettanti momenti importanti per capire l’uomo, ma anche per capire Hesse, ed il suo grande tentativo. Quello non solo e non tanto di scagliarsi contro le brutture e le storture del mondo (non dimentichiamo che il libro vede la luce nel 1943 in piena Guerra Mondiale), contro la guerra, contro la febbre del denaro, contro i nazionalismi, ma con il tentativo di sostituirli con valori etici altri. Purtroppo noi, oggi, siamo ancora lontani dalle utopie del tedesco premio Nobel bandito in patria (tanto che prenderà la cittadinanza svizzera); purtroppo i valori etici che ci descrive sono ancora di là da venire. E spero di non dover aspettare anche io il 2200! Per chi non conoscesse (ancora) il complicato incastro di Hesse, la sua finzione si basa su di una sorta di consorteria (Castalia) dove giovani dotati vengono educati al meglio (e non è un caso che nel meglio siano in primo piano la musica e la matematica). Ogni elemento di Castalia, eccellendo, cresce in qualche arte, e l’andrà insegnando ad altri. L’arte suprema è, poi, il giuoco delle perle di vetro (indescrivibile momento di vita) che governa Castalia e (forse) il mondo intero, e, come tutti i giuochi, deve essere guidato da un grande Maestro, il Magister Ludi. La Castalia è comunque inserita nel mondo (la Provincia), debole e fallace, dove vivono tutti gli altri umani. Ci sono i seminaristi castali che vivono solo per questi ideali e i seminaristi provinciali che torneranno a governare la Provincia (e il Mondo). Knecht, in base a circostanze descritte nel libro ma ininfluenti, viene scelto per far parte dei seminaristi castali. L’ignoto biografo futuro ci descrive tutto il suo percorso di crescita, da umile seminarista a grande (o forse ultimo dei grandi) Magister. Il suo percorso, così come il modo di Hesse di porci le sue idee, si imbatte sin dall’infanzia in una sorta di alter-ego provinciale, tal Designori, con il quale entra in discussione alta e forte, ognuno dei due cercando di portare avanti le giuste ragioni e di Castalia e della Provincia. Designori andrà nel mondo, e Knecht proseguirà nella sua ascesa. Fino a diventare uno dei più giovani e promettenti Magister Ludi. Finalmente, in questa veste, oltre ad insegnare, girerà per la Provincia, capendo che Castalia è un’isola forse felice, ma slegata dalla realtà del mondo. Incontrerà di nuovo Designori, la sua famiglia, la moglie ed il figlio. Perché, scordavo, ma lo avete ovviamente capito, i Castali sono dedicati allo studio, quindi niente sesso per favore. Riprende nella parte finale della sua vita il dibattito acerrimo con Designori, dove però le parti si sono smussate alquanto. Il provinciale, vivendo nel mondo, capisce la bellezza dell’isolamento castalio. Knecht, dalla “torre di vetro”, comprende la bellezza e la necessità della Provincia. La comprende talmente che capisce che solo un gesto estremo potrà dare una scossa alla cristallizzazione castalia. Decide allora di dimettersi dal suo ruolo e tornare nel mondo. Gesto che metterà in crisi tutto l’edificio delle perle di vetro, facendo capire come l’etica senza la pratica possa diventare un momento sterile di vita. Knecht decide di insegnare al figlio di Designori, ma deve, moralmente, pagare il fio del suo abbandono. Morirà quindi annegando in un lago che ha tutte le caratteristiche di un lago di montagna elvetico, e che ricorda, nel sacrifico, la morte di Empedocle (almeno quella leggendaria di una sua caduta nel fuoco etneo). Difficile, complicato ed irrappresentabile per me è tutto il percorso delle onerose pagine. Mi ha coinvolto, cerebralmente, il discorso etico. Ho cercato di seguirne i risvolti, i voli pindarici di Hesse scrittore. E di Hesse travestito in un “Faber Ludi” che vuole insegnarci questa via verso un’etica diversa, ma che, senile ma non invecchiato (in fondo pubblica questo ritenuto uno dei suoi capolavori a 66 anni; ho ancora speranza), non riesce a portarmici dentro fino in fondo. Ci vuole personale più filosofico, più erudito di me. Io mi accontento di sentire la mia testa (spesso) e la mia pancia (sempre). Ed è quest’ultima che non mi porta molto più in là di un apprezzamento formale. E di una sostanziale stanchezza verso tutta l’opera del grande svizzero. È giusto, quanto abbiamo lottato e lotteremo per avere davanti una vita che spazzi via (tanto per fare nomi alla rinfusa) i Berlusconi, i Trump, i Putin. Ma dobbiamo avere accanto, noi uomini e donne fallaci, i nostri amici, i nostri amori, i nostri sostegni reciproci. Insomma, mi mancano dei pezzi verso la felicità, e non riesco ad incollarli a me. Ed Hesse non riesce a farmeli sostituire con altro. Quindi, essendo confuso, finisco qui, facendo l’ipotesi di riuscire, un dì, a scrivere anche io una mia biografia fantastica, dove fare convergere in pace ed armonia tutti i pezzi del me stesso diverso e diviso.
“Studiare storia significa abbandonarsi al caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” (172)
“Quanto più invecchiava, tanto più lo attirava la gioventù.” (246)
“Knecht, che in quei mesi si era sentito talvolta molto vecchio, si persuase di essere giovane e forte.” (251)
“Vide che l’altro … non ascoltava come si ascolta una chiacchierata o magari un racconto interessante, ma con quella dedizione assoluta con la quale ci si concentra nel meditare.” (307)
“Ogni inizio contiene una magia / che ci protegge e a vivere ci aiuta.” (465)
“Si racconta di santi e di esseri celesti che, affascinati da una donna deliziosa, la tennero abbracciata per giorni, mesi e anni fondendosi con lei, tutti compresi del piacere, dimentichi di ogni altra preoccupazione.” (556)

Ipocondria

Avevo già parlato di questo libro quando si parlava di adozione, ma non vedo perché non ripeterlo in questo scorcio fakekiano.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama pubblicata il 3 settembre 2017]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?

Conclusioni


Non torno sulla diarrea, né tanto vorrei aggiungere qualcosa di ipocondriaco alla giusta citazione. Dirò soltanto che, per la fantascienza, avrei citato molto altro, e soprattutto altro di Ballard. Mentre per staccare dalla stessa, basta aver voglia di non nascondersi, di aprirsi al mondo ed alla lettura. E tutto vi sembrerà possibile (anche se niente vi apparirà chiaro).

domenica 17 dicembre 2017

Anglosassoni 2 - 17 dicembre 2017

Seconda puntata dedicata ai Classici del Giallo di stampo anglosassone, che inizia molto in sordina con Wallace da cui speravo letture migliori e con un anonimo Bush (senza nessuna parentela, ovvio). Per fortuna che il finale è in salita anche perché Ferguson e soprattutto Van Dine mi consentono alcune divagazioni filologiche che riporto in allegato. Finiamo con il poco noto Kendrick, che ha il merito di mettere in scena un investigatore cieco.
Edgar Wallace “Maschera Bianca” Corriere della Sera Gialli 11 euro 6,90
[A: 04/04/2016– I: 21/07/2017 – T: 23/07/2017] - && ---
[tit. or.: White Face; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 1930]
Mi aspettavo di meglio da uno dei “maestri” del genere. Forse perché siamo nel suo “periodo americano”, ma ci sono salti notevoli tra un capitolo e l’altro, quasi che l’autore si perde o si dimentica cosa ha appena fatto un personaggio, o simili incongruità. Comunque, per fare un passo indietro, parliamo di periodo americano in quanto Wallace è in effetti inglese. Con una vita travagliata alle spalle. Figlio nato fuori dal matrimonio della madre attrice, allevato da una famiglia adottiva, uomo dai soliti mille mestieri, riesce a trovare la sua via nello scrivere, nel riversare sulla carta le mille piccole storie che ha incontrato nel suo girovagare. Quando comincia a scrivere, poi, è prolifico e pieno di successi. Ma non riuscirà mai a capitalizzarli, spendendo sempre più di quanto guadagna. Tanto che deve continuare a scrivere, a fumare, a minare la salute. Tanto che ad un certo punto si dà anche alla sceneggiatura, si trasferisce in America. Dove scrive questo ed altri libri. Ma dove soprattutto, confeziona alcune scenografie, in particolare la sua più famosa, “King Kong”. Proprio mentre lavora al film, la sua vita punteggiata da 80 sigarette e 40 tazze di tè al giorno viene stroncata a soli 57 anni. Ma se pensate alla saga del grande gorilla (ovviamente quella originale, non il remake con Jessica Lang) e ne avete visto o letto qualcosa, sarete d’accordo sulla grande confusione di situazioni collaterali, mentre la trama centrale procede. Questa è la stessa sensazione dei suoi libri. E di questo, in particolare, di cui si sta parlando. Dove per tutto il libro si succedono avvenimenti che sembrano avere delle spiegazioni immediate e concatenanti. Ma gli indizi si accumulano mescolando le carte, fino ad arrivare ad una soluzione finale che unisce ad elementi noti, altri che il lettore non poteva sapere. Un filo ingannevole, anche se, depennati i possibili colpevoli, la Maschera Bianca del titolo viene a galla quasi autonomamente. Tutto comincia con dei furti in locali alla moda effettuati da un individuo con la Maschera sulla faccia. Ad una di queste rapine assiste il giornalista Michael Quigley insieme alla sua ragazza. Il giornalista, colpito da alcune stranezze della rapina, comincia ad indagare. Nel contempo, ha un duro colpo che la sua ragazza sembra subire il fascino di un bellimbusto giramondo appena giunto dal Sudafrica, Donald. Lavorando su questi due fronti, si trova alle prese con un assassinio, che avviene nella zona malfamata di Tindal Basin. Due uomini litigano, poi uno si allontana e l’altro barcolla ma viene aiutato da un poliziotto di passaggio. Mentre si allontana, il tipo cade di nuovo a terra, un ladruncolo lo vede, gli si avvicina rubando il portafoglio. Inseguito dal poliziotto, viene preso, che chiama aiuto. Viene in soccorso il dottor Marford, che ha lo studio in zona. Intanto il ladro viene preso, ma si scopre che il tizio caduto è morto pugnalato. Non solo ma scopriamo anche che il morto è proprio il Donald di cui sopra, che il morto era un emerito truffatore di piccolo calibro ma aduso a trucchi vari in giro per il mondo (prima in Australia, poi in Sudafrica, ora a Londra). Che stava litigando con il tizio che si era allontanato per motivi di soldi. Che il tizio che si era allontanato viveva anche lui ai limiti della legge ed aveva un gruzzolo con cui pensava di partire per l’estero. Che una signora, Linda, che si avvicina alla scena, vedendo Donald sviene e cade in deliquio. Che Janice, la fidanzata del giornalista, lavora come infermiera volontaria nella clinica del dottor Marford. Che il sergente che va a recuperare il gruzzolo nascosto viene ferito nell’impresa ed il gruzzolo scompare. Che il dottore incaricato dell’autopsia, dopo averla eseguita, scompare prima di comunicarne i risultati alla polizia. Inoltre c’è un tassista che si vanta di avere la licenza da 55 anni, ma che, curato dal dottor Marford capisce di star diventando cieco, per cui offre in subappalto la sua licenza ad una persona che però, data la sua cecità non vede mai in volto. Che il tassì è spesso visto vicino alle scene dei furti. Infine, la stessa Linda pare sia piena di soldi, ma decide di continuare a vivere lì a Tindal, nel quartiere poco affidabile. E per colmo di complicazione e di gioia per il lettore avido, Linda conosceva senz’altro Donald, e si affidava alle cure del dottor Marford, essendo quindi anche nota a Janice, al ladruncolo arrestato, ed al litigioso cui rubano i soldi. Io personalmente, sin dalla scena del delitto avevo puntato il mio dito su chi ritenevo colpevole, anche se sembrava improbabile. Comunque, per buona pace del maestro S.S. Van Dine e del suo decalogo, di cui parlerò quando si tramerà un suo scritto, Wallace nel suo ultimo, lungo capitolo per bocca della Maschera Bianca, ricostruisce per filo e per segno la più che decennale storia che ha portato all’attuale conclusione. Inserendo, come dicevo con dispiacere, alcuni elementi che non potevamo sapere prima. In alcuni passi, sembra quasi un canovaccio cinematografico, che, trasposto sullo schermo, darebbe più informazioni di quelle scritte. D’altra parte Wallace si vantava di scrivere avendo già in mente il mistero su cui basare la trama, alcuni personaggi e la soluzione finale. Forse per questo forza alcuni passaggi e ne dimentica altri. Peccato quindi che sia uno scritto datato, e di certo non il migliore del nostro scrittore.
Christopher Bush “Omicidio a Capodanno” Corriere della Sera Gialli 18 euro 6,90
[A: 23/05/2016– I: 21/08/2017 – T: 28/08/2017] - &&
[tit. or.: Dancing Death; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1931]
Tornando in Inghilterra la nostra collana di gialli d’epoca, e per di più anglosassoni, ritorna ad aver qualche linea di gradimento in più. Anche se il libro è ben contorto, si muove come un diesel che stenta a carburare, e lo scioglimento finale dei misteri rimanda alla memoria del lettore, che deve ricordarsi ciò che è stato detto e scritto nel primo capitolo. Il professore Bush, fortunatamente solo cognomico dei pessimi presidenti americani, ha anche una sua piccola storia personale, è illegittimo, tanto che la data di nascita oscilla tra il 1885 ed il 1888 (solo il giorno è ben noto e vi dirò presto perché). Inoltre, vive e cresce in una famiglia quacchera che si è insediata fin dalla fondazione del movimento lì nell’East Anglia (che ricordo essere nota in quanto sede dell’Università di Cambridge). Non vi tedio sulle dottrine quacchere, anche se sarebbe interessante, in quanto, ad esempio, gli scritti del nostro sono pervasi di questo “calvinismo puro e duro”, per il quale ognuno di noi è un “amico di Gesù”, in quanto tale si deve comportare correttamente e deve intervenire se intorno a lui ci sono invece comportamenti non consoni. Ma tutto ciò potrebbe far parte di un saggio, non di un agile trama. Intanto, tornando al nostro Bush, diciamo per inciso che il suo vero nome era “Charlie Christmas”, motivo per cui capite come sia facile dedurre sia nato il 25 dicembre. Quando, poco più che quarantenne, comincia a scrivere di gialli e polizieschi, decide di modificarlo nel più agevole “Christopher” (che sempre legato alla religione poi è). Bush per quarant’anni poi, continua a scrivere di libri, prima continuando ad insegnare, poi dedicandosi pienamente alla scrittura. Ed in questa sua sarabanda editoriale, fa nascere un tipico (locale) esempio di investigatore, gentile e gentiluomo. Ludovic Travers, detto Ludo, timido e riservato, con dei grandi occhiali che pulisce con cura quando riflette, benestante, non è un solitario, ma preferisce collaborare, soprattutto con le forze dell’ordine, dove spesso si incontra-scontra con George Wharton, un suo contraltare ironico ma scorbutico. Ebbe un discreto successo all’epoca, proprio perché è un personaggio che dà fiducia, che non si pone intellettualmente sopra il lettore, schiacciandolo con le sue proverbiali capacità (non è né Holmes né Poirot), ma passo dopo passo arriva a smontare alibi intricati e decifrare situazioni di primo acchito (lo so, sembra strano ma si scrive con una sola “t”) indecifrabili. Bush è anche “onesto” verso il lettore: comincia infatti il libro presentando tre indizi che, benché criptici al momento, se ricordati quando servono, aiutano il lettore a seguire i ragionamenti e le ipotesi di Ludo. Magari riuscendo a prevenirne le conclusioni. La storia, come detto con inizio un po’ lento, ci presenta i personaggi, dilungandosi su ognuno, tanto che alla fine ci si perde un po’. Personaggi invitati alla festa di Capodanno dall’eccentrico Martin, ricco e scienziato-industriale, inventore (o possessore) di un brevetto di un terribile gas. Alla festa, che finirà tristemente data la neve, sono presenti Ludo ed il suo amico Franklin, Brenda e Dennis Fawne, la sorella di Brenda, Mirabel, di professione attrice, il suo impresario Challis, ed un suo presunto spasimante Tommy. Quando questi rimangono soli, va via la luce, si interrompono le comunicazioni telefoniche, ed i nostri rimangono isolati. La mattina si scopre che: molti sono stati derubati, Mirabel (che aveva scambiato la stanza con la sorella) morta pugnalata al petto, Dennis morto nella dependance in una posa scomposta. Le cose si complicano con l’arrivo di un fantomatico signor Crashaw che sostiene aver l’auto in panne per la neve. Travers si mette all’opera investigativa, inscenando lunghi e farraginosi stratagemmi verbali e non. E mentre Franklin va alla ricerca della polizia, muore anche la cameriera di Mirabel. Tra l’altro Dennis è uno scrittore squattrinato, anche se con un discreto successo del suo primo libro, ospitato da Martin per amicizia. Collegando tutti i fatti con quegli indizi iniziali, capiamo subito due cose: che Crashaw è il ladro (ma perché è rimasto sul luogo delle sue effrazioni?), che non era Mirabel che doveva morire (dato lo scambio di stanza), che Dennis è morto per il famoso gas (che Martin sostiene essergli stato sottratto dalla cassaforte), che la cameriera viene uccisa perché ricatta qualcuno. Dennis, tra l’altro, stava scrivendo le ultime pagine del suo nuovo libro, ma non riusciva a concluderle. Il colpo di genio di Bush è inventare un improbabile incidente che fa fare una agnizione ad uno dei personaggi, da cui si scatena tutta la catena degli avvenimenti che, alla fine, risultano tutti spiegabili, uno dopo l’altro. Però lo stile rimane legato agli anni Trenta, il povero Bush, per quanti sforzi faccia, non si innalza sopra un onesto scrivere. Solo la sua trama, forse se scritta ora e con più agilità, potrebbe essere ancora di interesse, soprattutto per quel colpo di ingegno del caso che mette le mani sulle vicende umane. Ah, se si è ferrati in esegesi bibliche, anche il poliziotto Wharton ci da una traccia, dicendo ad un certo punto a Ludo di ricordarsi di Uria l’ittita. Vediamo se anche a voi scatta la scintilla.
John Ferguson “Il mistero del villaggio” Corriere della Sera Gialli 20 euro 6,90
[A: 24/06/2016– I: 28/08/2017 – T: 30/08/2017] - &&&--
[tit. or.: Murder on the Marsh; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 1930]
Torniamo in Inghilterra, o meglio e più precisamente in Scozia, ed i toni dei gialli d’epoca risalgono decisamente. Certo, si sente il rumore di ferraglia di una macchina che impiega del tempo a carburare. Certo, si vede il fumo che il motore sporco d’olio lascia dietro di sé. Ma la lettura si fa godibile, con alcuni spunti di interesse, ed un impianto che non fa rimpiangere scrittori più celebrati. A parte il solito titolo, che potrebbe essere tradotto meglio con “Delitto nella palude”, anche se Marsh, oltre a palude, designa una regione tra il Kent e l’Essex, ed è il toponimo del luogo dove si svolge l’azione, Romney Marsh. Tra l’altro, per rimanere alla collocazione geografica menzioniamo che John Ferguson, dopo aver fatto il ferroviere per alcuni anni, ha una grande conversione religiosa, e si fa prete protestante. Prima in giro per l’Inghilterra, poi a 44 anni si trasferisce proprio nel Kent. E lì, tre anni dopo, inizia a scrivere una dei suoi dieci libri “gialli” (scusate le virgolette, ma i libri di Ferguson sono a volte spy-story a volte mystery). Benché quindi peripateticamente inglese, l’autore rimane scozzese nell’anima, tanto che la maggior parte dei suoi scritti ha per protagonista un criminologo scozzese, Francis McNab. Che non manca di rimarcare le sue radici, e che è decisamente astioso verso chi, pur avendone, le dimentica, magari scordandosi il nome proprio Ian a favore di più londinesi Percy o Cyril. McNab, come tutti il deus ex-machina di situazioni giallesche, ha l’ovvio difetto di risultare un po’ presupponente, anche se evita le messe in scena alla Holmes, in cui le sue azioni sono già volte ad un fine che noi non conosciamo, ma il criminologo sì. Ed è ovvio che, quando si ha un punto forte su cui poggiare, ma che può risultare antipatico, gli si affianca un “contraltare Watson”. In questo caso, come spesso avviene, il narratore delle gesta di McNab, il giornalista Geoffrey Chance. Giovane ed irruento, prende sempre la via sbagliata di ogni interpretazione, irritandosi di non capire i pensieri aulici che sgorgano nella mente di McNab. Per fortuna questi non gli si rivolge mai, quando smonta le sue ricostruzioni, con la formula “Non hai alcuna possibilità”. (Piccolo e personale calembour, che volevo veder tradotta una frase come “You’ve no chance, Chance”). Comunque le vicende del villaggio iniziano molto lentamente, a parte l’esaltazione che Chance tenta di comunicarci, senza purtroppo riuscirci. La signorina Alice chiede aiuto al grande McNab perché vede il padre comportarsi in modo strano (guardare spesso dentro le scarpe, chiudere le finestre prima di andare a letto anche d’estate). Ma prima che McNab possa intervenire, James Cardew muore. Un fattore assiste alla morte, avvenuta appunta nella palude dove per lunghi tratti spazia lo sguardo senza incontrare ostacoli. Il fattore dice che James si guardava intorno come se pensasse di essere seguito, poi si ferma in mezzo alla radura paludosa, quindi fa qualche passo barcollando, poi riprende a camminare, parla con il fattore, si avvia verso casa, ma sul prato della stessa, cade e muore. Infarto? Così dicono tutti. Ma McNab sospetta qualcosa. Ed anche la polizia non è serena, tanto che non archivia il caso. Soprattutto sotto la spinta del sergente Hackett, che alla fine si avvicina alla soluzione ed al colpevole, tanto da rimanere ucciso anche lui. McNab, pur se non in modo lineare (in fondo Ferguson è un onesto artigiano della penna, non uno scrittore di best-seller) ci fa vedere il quadro generale. Non linearmente, perché io l’ho ricostruito tirandone fuori i tratti maggiori dalla seconda parte del libro. Allora, c’è la famiglia Cardew, benestante possidente terriera, con il padre James, la prima figlia, Virginia, sposta al dr. Cyril Campbell, e la seconda, la nubile Alice. C’è il fattore della tenuta, il signor Todd, ultimamente ai ferri corti con James, che sembra averne scoperto qualche atteggiamento truffaldino, anche se, a detta di Todd, hanno fatto la pace proprio negli ultimi giorni. E c’è il signor Sneyd, che un tempo girellava intorno alla maggiore delle Cardew, benché osteggiato dal padre. Poi, dopo un periodo in India come soldato, in compagnia del fratello di Cyril, Percy, con lui torna nel Marsh, cominciando ad insediare la giovane Alice. La soluzione del mistero viene dalla scoperta della passione di uno dei sospettati per la pesca, dall’accenno all’India ed ai serpenti, da un bastone piantato nel prato con sotto un portasigarette d’argento. Proprio lì dove si era fermato James all’improvviso. Alla fine, McNab, con un buon colpo di scena, smonta l’alibi di qualcuno che con quell’alibi pensava di non poter essere sospettato, e smaschera il colpevole. Peccato che si serva anche di un pezzo di carta strappato dal taccuino di Hackett, che ha un senso in originale ma che perde di efficacia qui, quando se ne cerca la traduzione. Che se ne fa un po’ in italiano ed un po’ in inglese. Poca capacità inventiva, anche se confesso non era semplice, come riporto in allegato per gli amanti degli enigmi e delle traduzioni traditrici.
S.S. Van Dine “L’enigma dell’alfiere” Corriere della Sera Gialli 1 euro 6,90
[A: 25/01/2016– I: 31/08/2017 – T: 05/09/2017] - &&& -
[tit. or.: The Bishop Murder Case; ling. or.: inglese; pagine: 316; anno 1929]
Anche se non letto per primo, giustamente questo libro è stato posto, dai curatori, come primo libro di questa ambigua collana di gialli. Ambigua, ovvio, nella riuscita più che nelle intenzioni. Voleva mostrare, negli anni del giallo “classico” (più o meno tra le due guerre mondiali) la nascita e l’affermarsi di un genere che si consolida proprio nei paesi di lingua anglosassone. E sebbene alcuni libri, tra cui questo, hanno un po’ di interesse, altri sono datati e poco piacevoli per una lettura non filologica. Van Dine, in quest’ambito, rappresenta un punto focale: seppure non il primo nella lista dei “padri della detective story” così come localmente chiamata (c’erano già stati ad esempio il primo Poirot nel ’20 e il primo libro di Dorothy L. Sayers nel ’23, con Lord Wimpsy quale anticipazione di Vance), l’autore porta all’esasperazione il giallo da ragionamento, ne è il primo autore americano, ed inserisce nei suoi saggi sui libri gialli (che anche questo scrisse) un “catalogo di comportamento” che sarà pietra di paragone per tutto il genere. Sia per chi segue le regole, sia per chi, ma lo farà con coscienza e bravura, le stravolge. Sarebbe interessante entrare nella discussione delle famose “venti regole”, ma forse ci porterebbe troppo lontano. Ma non posso esimermi da citarne due (anche se le trovate tutte in allegato), che ritengo fondamentali. La prima: il lettore deve avere le stesse opportunità dell’investigatore di risolvere il mistero. La dodici: ci deve essere un solo colpevole, indipendentemente dal numero degli omicidi. D’altra parte, Van Dine non è solo un giallista ed un estimatore di gialli. Lui nasce Willard Huntignton Wright da una famiglia agiata (il fratello, Stanton Macdonald-Wright diventerà un celebrato pittore con quadri esposti nei maggiori musei americani), ed è un critico d’arte, un filologo, un critico letterario abbastanza stimato, ma irruento e dalla vita complicata (mogli, divorzi, ed altre americane amenità). Stremato dai vizi (morfina, oppio, alcool) per non dichiarare bancarotta, viene convinto da un amico a dedicarsi ai mysteries. Durante la malattia (quasi due anni a letto), legge molto, accumula idee. E nel 1926 fa boom con il suo primo caso (“La strana morte del signor Benson”). Da lì, solo successi su successi, anche economici, che però non lo faranno deflettere dall’abuso di alcool, dato che morirà appena cinquantenne). I suoi libri più famosi sono chiusi tutti dall’aggettivo “case” (“caso”). Tutti casi studiati e risolti dal suo intelligente ed un po’ dandy investigatore, Philo Vance (memorabile ne fu l’interpretazione in uno sceneggiato della RAI interpretato da Giorgio Albertazzi). Vance ha un po’ la puzza sotto il naso, ma non si perita di sporcarsi (metaforicamente) le mani in casi complicati, che il suo sodale procuratore distrettuale Markham non riesce a risolvere. Il tutto redatto per noi dal suo amico e sodale S.S. Van Dine. Non entro nella psicologia di Vance, nei suoi rapporti con l’amico e con la polizia, che sarebbero anche essi degli di altre e più approfondite scritture. Qui ci occupiamo alla fine di un solo caso. Che pur rispettando tutte le regole scritte dall’autore, ha alcuni punti di non facile rese. Innanzi tutto, il “Bishop” del titolo. Perché una parte non secondaria del libro è dedicata ad uno scacchista, ed in inglese i pezzi degli scacchi sono così chiamati: king (re), queen (regina), pawn (pedone), knight (cavallo), rook (torre) e bishop (alfiere). Per questo in italiano viene normalmente tradotto come “l’enigma dell’alfiere”. Ma i biglietti che dopo ogni morte vengono fatti trovare pur essendo firmati “Bishop”, vengono resi nella traduzione con “Vescovo” (significato letterale). Ed i sospetti ad un certo punto convergono verso una persona che ha lo stesso nome di un personaggio di una commedia, che di professione fa … il vescovo. Capisco la difficoltà, ma qualche nota esplicativa in più sarebbe stata utile. Inoltre io avrei firmato i biglietti “l’Alfiere”. Secondo elemento di complicazione per la rese in italiano è il meccanismo che sottende le morti. Tutte legate ad una qualche frase di filastrocche infantili, ma di puro stampo inglese. Ne riporto una breve analisi in allegato per chi volesse dilettarsi. Sono inoltre molto congeniali alla trama, tanto che l’autore voleva intitolare il libro “Gli omicidi di Mamma Oca” (cioè “Mother Goose Murder Case”), da ciò distolto dall’editore che non voleva si confondessero con appunto racconti infantili. Dopo tutto questo girare cerchiamo di arrivare al punto. Nel corso di un mite mese di aprile si succedono, intorno ad un caseggiato della 75^ strada di Manhattan morti misteriose. Nel caseggiato sono presenti: il professor Dillard, fisico-matematico in pensione, ancora decentemente in gamba, anche se arrugginito e con le facoltà intellettuali che a volte si arenano; la figlia Belle, bella, sportiva, ricercata, appassionata di tiro con l’arco, tanto da installare un campo di gara in giardino, il figlio adottivo Sigurd Arnesson, matematico e docente universitario, ironico e caustico, pensa di risolvere tutto con formule matematiche, da sempre innamorato di Belle; il vicino Pardee, scacchista di valore, che inventa un gambetto (figura scacchistica particolare) che però viene sbeffeggiato dai grandi del tempo, tanto che ne rimarrà addolorato e ricercherà una rivincita in qualche modo; l’altro vicino Drukker, storpio per una tubercolosi infantile, ma dalla grande mente scientifica, sta lavorando ad una modifica ed aggiornamento delle teorie della relatività di Einstein. Intorno alla casa poi gravitano tiratori con l’arco nonché pretendenti a Belle, in particolare tal Cochrane Robin, e studenti universitari, tra cui il brillante che potrebbe oscurare sia Sigurd che il professore, Jack Sprigg. Come imposto dalle filastrocche, uno dopo l’altro muoiono Robin (“Chi ha ucciso il pettirosso”), Sprigg (“e colpì Johnny Sprigg nel mezzo della sua parrucca”) e Drukker (“Humpty Dumpty sul muro sedeva / Humpty Dumpty dal muro cadeva”, ricordo ai non addetti che Humpty Dumpty era gobbo). Vance monta e smonta migliaia di ipotesi, ma tutte che coinvolgono una mente matematica (e questo ci fa dispiacere, che noi matematici siamo di fondo buoni). Quando i sospetti si riducono a tre, Vance spiega i motivi della colpevolezza di uno dei tre, che ovviamente subito dopo muore avendo davanti a sé un castello costruito con le carte (“Questo è l’uomo lacero e stracciato / che baciò la fanciulla dal cuor disperato / … / che sta nella casa che Jack costruì”). Io fin dall’inizio avevo puntato su uno dei due rimanenti in vita. Purtroppo per le mie capacità deduttive, era l’altro. Che solo l’acume di Vance ed il suo spirito di iniziativa (nonché la conoscenza delle filastrocche, che salavano da sicura morte una bambina, “La piccola Miss Muffet / … / cadde nella morsa del ragno”) riescono a salvare. Insomma, un libro da leggere e meditare perché mette, insieme agli altri libri di Van Dine, i punti fermi a tutto un genere che per l’appunto negli Anni Venti era solo agli albori della sua nascita. Non c’erano i risvolti sociali ed umani che abbiamo ora in queste storie (ovvio nelle migliori, come quelle degli svedesi alla Sjowall o alla Mankell), ma sono le bandierine perimetrali che ne faranno una lettura sempre avvincente.
Baynard Kendrick “I due ciechi” Corriere della Sera Gialli 29 euro 6,90
[A: 24/08/2016– I: 08/09/2017 – T: 11/09/2017] - &&&
[tit. or.: Blind Man’s Bluff; ling. or.: inglese; pagine: 234; anno 1943]
Prima di entrare nel merito del libro e dell’autore, mi domando seriamente perché un titolo traducibilissimo in italiano venga sostituito con un altro titolo di scarsa rilevanza. Ora, vero è che non tutti hanno avuto un’infanzia serena, ma credo che quasi tutti abbiano giocato a “mosca cieca”. Di cui non vi dico certo le regole. Ora, se sei un traduttore dall’inglese, dovresti sapere che “mosca cieca” in inglese si dice “blind man’s bluff”. Allora perché non titolare il libro con il nome esatto, che ha un senso in molti risvolti del libro stesso? Perché sostituirlo con “I due ciechi”, anche se, nell’intreccio, è vero che ci sono due persone “non vedenti”? non riuscirò mai a capire le strategie editoriali… Fatta questa doverosa premessa, torniamo al libro in sé. Ed all’autore, che, stranamente, è americano pur lavorando nell’ambito di quello che in gergo poliziesco viene chiamato “giallo deduttivo”. Cioè un racconto in cui, nel corso della descrizione degli avvenimenti, c’è un personaggio che indaga, raccoglie indizi, li elabora, e deduce la successione degli avvenimenti, scoprendo il colpevole. Nella tradizione delle “regole Van Dine” di cui ho parlato. Qui, l’autore ha il suo colpo di genio, derivante dalla sua storia personale, di basare una serie di romanzi sul personaggio di Duncan Maclain, ex-capitano durante la I^ Guerra Mondiale, dove diviene cieco in seguito alle ferite riportate. Storia personale perché Kendrick partecipò alla suddetta Guerra (tra l’altro, pur essendo americano, si arruolò nell’esercito canadese per partire subito verso il fronte europeo), dove incontra un sergente divenuto cieco che lo sorprende per l’acutezza delle osservazioni che fa, descrivendo scenari e situazioni a volte meglio di persone normo-vedenti. Da questa esperienza, Kendrick fu talmente colpito che si occupò sempre di persone non vedenti, sia fino agli anni ’30, durante la sua carriera manageriale, sia dal ’30 in poi quando cominciò a dedicarsi alla scrittura. Tanto che divenne un sostengo per gli ipo-vedenti durante la II^ Guerra Mondiale, e, benché lui fosse normo-vedente, fu insignito della medaglia come “Blind Veterans”. Da qui, appunto, nasce il personaggio dell’investigatore cieco Duncan Maclain, che, proprio per la vicinanza di Kendrick con quel mondo, risulta oltremodo credibile. Sono 25 anni, al momento di questo romanzo, che Duncan ive la sua cecità, sviluppando una sensibilità in tutti gli altri sensi. In particolare tatto e udito, anche se l’olfatto non è da meno. Inoltre, la barriera di tenebre che lo separa dal resto del mondo gli consente di isolarsi nei suoi ragionamenti, ed alla fine di “vedere” là dove i poliziotti annaspano. Ha due cani-guida, una femmina per la normale guida, ed un maschio molto cattivo nel caso di azioni potenzialmente violente. Inoltre, per concentrarsi, si dedica alla risoluzione di puzzle “al tatto”. In questo quarto romanzo (che tuttavia è il primo uscito in Italia) Duncan si trova di fronte ad una serie di suicidi di cui però non è particolarmente convinto. Tra l’altro, il primo che ci viene descritto (anche se non il primo in assoluto) coinvolge a sua volta una persona cieca (da cui, appunto, il poco appropriato titolo dei due ciechi). Blake è un manager cinico, a capo di varie società di investimenti, tramite le quali ha anche fatto fallire diverse società e ridotto in povertà molti investitori. Blake è diventato cieco in seguito ad un colpo di pistola sparato a bruciapelo da Jack, uno di questi investitori falliti, che subito dopo rivolge la stessa pistola verso di sé, uccidendosi. Blake ha un figlio che si innamora della figlia del suicida, creando una potenziale situazione conflittuale. Blake stesso precipita dall’ottavo piano della sede della società di investimenti. Quando nel palazzo sono presenti solo la moglie divorziata (che lo vede cadere), il figlio (che è ubriaco) ed il guardiano. Sembra a tutti gli effetti un suicidio. Le cose si complicano quando a “suicidarsi” è uno strano avvocato che tenta di ricattare i vari componenti del mondo di Blake (in particolare Lawson, l’avocato che ne cura il patrimonio, e Courtney, ex-socio di Blake, nonché innamorato della ex-moglie di Blake, e Bentley, il revisore dei conti della società che sta da anni cercando di mettere ordine al patrimonio degli investitori). Duncan ipotizza di trovare un filo conduttore interrogando il guardiano notturno del palazzo, presente in tutte le circostanze mortifere. Peccato che anche lui caschi dall’ottavo piano. A questo punto, Duncan intuisce che deve esserci un meccanismo “a scoppio ritardato”, che consenta all’assassino di inscenare tutti questi suicidi, per poi allontanarsi creandosi un alibi. Non potendolo dimostrare, Duncan tende una trappola all’assassino, e, rischiando la pelle, si trova nella stessa situazione che ha portato alle morti violente. Che l’assassino era qualcuno che aveva in prima persona creato i presupposti della bancarotta, cercando di uccidere Blake (non riuscendo) e dovendo uccidere Jack in quanto testimone. Uccide poi l’avvocatucolo, per distogliere i sospetti su di sé, e la guardia notturna, l’unica che aveva la chiave di tutto, anche se non lo sapeva. Perché il palazzo dei suicidi era comunque ben controllato, e qualcuno doveva conoscere chi e come ne varcava la soglia. Anche se il meccanismo usato dall’assassino p un filo complicato, la deduzione finale di Duncan, dopo che aveva ristretto le possibilità ai tre di cui sopra, pur se dotati da alibi, è in puro stile “Van Dine”, e risulta discretamente soddisfacente. Insomma, un giallo ben congeniato, solo a volte un filo macchinoso nei rimandi, ed un tantino poco agile nello sfruttare le possibili convergenze. Ma Duncan ha una sua bella personalità, ed una resa che ne varrebbe una ripresa anche in tempi moderni. Tant’è vero che è stato tre volte portato sullo schermo, anche se, ironia di Hollywood, la prima volta non da cieco, cosa che mi sembra un’eresia. Inciso finale (ma forse non è propriamente un inciso in quanto non riprenderò poi a parlare del libro), mentre leggevo il libro, sono andati a vedere il film “Il colore nascosto delle cose”, che non è certo un capolavoro mondiale, ma, dietro l’accorta regia di Soldini, racconta la storia di una persona non-vedente e del suo rapporto con il mondo. Personaggio ben interpretato da una attenta Valeria Golino, che invece altre volte non mi aveva convinto particolarmente.
Terza trama del mese, e come non capita spesso ultimamente abbiamo spazio per un allegato di felicità, che, data la prossimità, non può non essere legato al Natale.
Ebbene sì, siamo già a Natale, siamo già ad un altro anno che scorre via. Un anno che si spera vada presto in soffitta senza portare altri guasti, che quest’anno sono stati tanti e dolorosi. Si diceva della sfortuna degli anni bisestili. Io rilancio con la sfortuna degli anni “primi” (e fortuna che il prossimo sarà solo il 2027…).

Appendici ai Gialli Anglosassoni

Piccolo assaggio di problematiche nelle traduzioni

Per spiegare meglio lo svelarsi delle soluzioni del libro di Ferguson, dobbiamo fare una piccola analisi del frammento trovato, e di come sia difficile rendere lo stesso “mistero” in una lingua diversa.

Versione originale
Versione tradotta
dew was murderd
eyd as I thought. First the soft
ell gave me a clue.
g line, but take care
e at the eight in
ew there was death
odd my torch
Take care
se or shoes
150 feet
dew è stato assassinato
eyd, come pensavo. Prima il morbido
ell mi ha dato un indizio.
esca, ma attenzione.
o all’ottava
vo che c’era la morte
odd la mia torcia
Attenzione
te o delle scarpe
150 piedi.

Ora, mentre le prime due righe, le parole spezzate hanno senso siano rimaste in inglese in quanto designano il morto (Cardew) ed uno dei sospettati (Sneyd), la terza lasciata “ell” cerca di convincerci che Campbell mi ha dato un indizio, ma se volesse indicare “inferno” o “guscio” (hell o shell)? Forse si poteva inventare un cognome diverso, che facesse rima con la finale aspettata. Si poteva perdere qualcosa, ma rimestare intorno ad un “ell” che non lo è, lascia molte perplessità. Non è facile fare il traduttore, in ogni caso. Tra l’altro, la bravura di Ferguson, nel libro originale, è di riuscire a riprodurre il foglio come se fosse stato strappato in diagonale, come ho visto in una foto che sono riuscito a trovare di in una copia del libro posseduta da una libreria australiana.

Filastrocche e traduzioni


I delitti di casa Dillard e dintorni come detto sono scandite da filastrocche infantili. Van Dine, e i suoi critici ed esegeti, fanno riferimenti ai “Racconti di Mamma Oca”, che a me lasciano perplesso. Da noi in Italia con questo nome ci si riferisce solo alle favole imbastite da Charles Perrault, e che sono i fondamenti storici delle favole a tutti note. Ricordo per coloro di poca memoria che nella raccolta di Perrault ci sono: “La bella addormentata nel bosco”, “Cappuccetto Rosso”, “Il gatto con gli stivali” e “Cenerentola”). Ma nel mondo anglosassone, con il solito spirito campanilistico, un secolo e mezzo dopo Perrault, si comincia a raccogliere, sotto il cappello di Mother Goose (Mamma Oca) non solo delle fiabe, ma anche filastrocche. Ed è a questo libro che si riferisce Van Dine nel suo giallo intorno al “vescovo/alfiere”).
Ecco allora i punti di riferimento degli omicidi.
Il primo vede la morte di Chocrane Robin che viene trovato nel campo di tiro con l’arco di Belle Dillard con una freccia infissa nel cuore.

WHO KILLED COCK ROBIN
Who killed Cock Robin?
Chi ha ucciso il pettirosso?
I, said the Sparrow,
Io, ha detto il passero,
with my bow and arrow,
Con il mio arco ed una freccia,
I killed Cock Robin.
Io ho ucciso il pettirosso.

Il secondo omicidio è perpetrato su Jack Sprigg (che potrebbe anche essere Johnny in una diversa versione), ucciso da un colpo di pistola di piccolo calibro sparato a bruciapelo sulla testa.

THERE WAS A LITTLE MAN
There was a little man and he had a little gun,
C'era un piccolo uomo con una piccola pistola,
and his bullet were made of lead, lead, lead;
e la sua pallottola era fatta di piombo, piombo, piombo;
he shot Johnny Sprigg through the middle of his wig,
ha sparato a Johnny Sprigg in mezzo alla parrucca,
and knocked it right off his head, head, head.
e lo colpì proprio in testa, testa, testa.

Il terzo coinvolge la morte dello storpio che cade da un muretto.

HUMPTY DUMPTY
Humpty Dumpty sat on a wall
Humpty Dumpty sul muro sedeva.
Humpty Dumpty had a great fall
Humpty Dumpty dal muro cadeva.
all the king's horses and all the king's men
Tutti i cavalli e i soldati del Re,
Couldn't put Humpty together again.
non riusciranno a rimetterlo in piè.


L’ultimo omicidio, e non vi dico di chi, prevede un uomo che si spara alla testa (finto suicidio), cui dopo la morte pongono davanti una ricostruzione fatta con le carte della zona degli omicidi, con tutte le indicazioni dei nomi, delle posizioni, e degli avvenimenti.

THE HOUSE THAT JACK BUILT
This is the man all tattered and torn,
Questo è l’uomo lacero e stracciato
That kissed the maiden all forlorn,
che baciò la fanciulla dal cuor disperato
That lay in the house that Jack built.
che sta nella casa che Jack costruì.

Infine, il tentato omicidio, sventato da Vance, avviene in seguito al rapimento della bimba di cinque anni Madeleine Muffet, ritrovata sola e spaventata in una soffitta, prima che potesse morire di paura e stenti.

MISS MUFFET
Little Miss Muffet
Piccola Miss Muffet
Along came a spider
Cadde nella morsa del ragno
Who sat down beside her
Chi si sedette accanto a lei
And frightened Miss Muffet away.
E spaventò la signorina Muffet.

Sperando che abbiate apprezzato gli sforzi filologici, mando a tutti un saluto.

Le venti regole per poter scrivere un buon romanzo poliziesco


Il romanzo poliziesco è un tipo di gioco intellettuale. Anzi, è qualcosa di più - una gara sportiva. Ed esistono leggi ben precise che governano la scrittura di romanzi polizieschi: leggi non scritte, forse, ma ugualmente vincolanti, con le quali si deve misurare ogni rispettabile inventore di misteri letterari che sia anche onesto con sé stesso. Ecco di seguito, quindi, una sorta di Credo, basato in parte sull'esperienza di tutti i grandi autori di romanzi polizieschi e in parte sulle sollecitazioni della coscienza dell'autore onesto. Vale a dire:
1       Il lettore deve avere le stesse opportunità del detective di risolvere il mistero. Tutti gli indizi devono essere presentati e descritti con chiarezza.
2       Al lettore non possono essere rifilati altri trucchi o inganni oltre a quelli con i quali il criminale tenta legittimamente di buggerare il detective.
3       Non dev'essere posta eccessiva enfasi sull'elemento amoroso. Lo scopo è quello di assicurare un criminale alla giustizia, non quello di condurre una coppia innamorata all'altare.
4       Né il detective né uno degli investigatori ufficiali possono risultare colpevoli. Questo vuol dire giocare sporco; è come offrire a qualcuno una moneta da un centesimo in cambio di cinque dollari d'oro. È frode bella e buona.
5       Al colpevole si deve arrivare attraverso deduzioni basate sulla logica, non per caso o coincidenza o confessione senza motivo. Risolvere un problema di detection in questo modo equivale a spedire deliberatamente il lettore su di una falsa pista e poi dirgli, dopo che è tornato con le pive nel sacco, che la cosa che lo avevate mandato a cercare ce l'avevate nascosta voi nella manica fin dall'inizio. Un autore di questa fatta è poco più di un buffone.
6       Nel romanzo poliziesco ci deve essere un investigatore; e un investigatore non può dirsi tale se non indaga. La sua funzione è quella di raccogliere gli indizi che, in fondo al libro, condurranno all'identità di colui che ha commesso il crimine di cui al primo capitolo; e se l'investigatore non arriva alle sue conclusioni grazie all'analisi di codesti indizi, non ha risolto il suo problema alla stessa stregua dello scolaro che copia il compito di aritmetica.
7       Ci dev'essere un cadavere nel romanzo poliziesco, e più è cadavere meglio è. Nessun reato minore dell'assassinio può essere considerato sufficiente. Trecento pagine sono troppe per un reato diverso dall'assassinio. Dopo tutto, la fatica e lo sforzo del lettore devono essere ricompensati.
8       Il problema presentato dal delitto dev'essere risolto con metodi rigorosamente scientifici. Metodi di scoperta della verità che si basano su lavagnette e tavolette parlanti, lettura del pensiero, sedute spiritiche, sfere di cristallo e simili, sono assolutamente vietati. Un lettore può competere con un detective raziocinante, ma se deve gareggiare col mondo degli spiriti e rincorrere la quarta dimensione della metafisica, allora è battuto in partenza.
9       Ci dev'essere un solo investigatore autorizzato a trarre le conclusioni, un solo deus ex machina. Impiegare i cervelli di tre o quattro o un'intera banda di investigatori per trovare la soluzione al problema, non solo disperde l'interesse e spezza il filo della logica, ma dà all'autore un vantaggio scorretto sul lettore. Se c'è più di un investigatore, allora il lettore non è più in grado di distinguere chi è il suo avversario. Gli tocca correre da solo contro una staffetta.
10    Il colpevole deve essere una persona che ha avuto un ruolo più o meno significativo nella vicenda; ovvero, una persona che è divenuta familiare al lettore e per la quale egli ha provato interesse.
11    Il colpevole non deve essere scelto tra il personale di servizio. È assolutamente una questione di principio. È una soluzione troppo semplicistica. Il colpevole deve essere una persona che ha giocato un ruolo significativo, una persona della quale non si dovrebbe sospettare.
12    Ci deve essere un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. È ovvio che il colpevole può essersi servito di complici o aiutanti, ma la colpa e l'indignazione del lettore devono cadere su una sola ed unica anima nera.
13    Società segrete, camorra, mafia e così via non hanno spazio in un romanzo poliziesco. Un assassinio affascinante e ben riuscito è guastato senza remissione da una colpevolezza all'ingrosso. È certo che anche all'assassino debba essere offerta una scappatoia, ma concedergli addirittura una società segreta con cui spartire le colpe è un po' troppo. Nessun assassino di classe e consapevole dei propri mezzi accetterebbe di giocare contro queste probabilità.
14    I metodi impiegati nell'assassinio, e i sistemi usati per scoprirlo, devono essere razionali e scientifici. Vale a dire, la pseudo scienza e i congegni di pura e semplice immaginazione non possono essere tollerati in un romanzo poliziesco. Una volta che l'autore è partito verso il regno della fantasia, alla maniera di Jules Verne, si è posto definitivamente fuori dai confini della narrativa poliziesca e si è messo a fare capriole in una zona dell'avventura che non è segnata sulle carte geografiche.
15    La rivelazione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che il lettore sia abbastanza sveglio da individuarla. Con questo intendo che se il lettore, appresa la spiegazione del crimine, decide di rileggersi il libro da capo, deve accorgersi che, in un certo senso, la soluzione giusta era sempre stata lì, a portata di mano, che tutti gli indizi portavano al colpevole e che, se solo fosse stato astuto come l'investigatore, anche lui avrebbe potuto risolvere il mistero prima dell'ultimo capitolo. Va da sé che il lettore intelligente risolve spesso l'enigma in questo modo.
16    Un romanzo poliziesco non dovrebbe contenere descrizioni troppo lunghe, divagazioni letterarie su argomenti secondari, studi di caratteri troppo insistiti, preoccupazioni di creare un'atmosfera: Questi elementi non hanno spazio in quello che sostanzialmente è il resoconto di un crimine e di una deduzione. Tali passaggi bloccano l'azione e introducono argomenti di scarso rilievo per l'obiettivo finale, che è quello di esporre un problema, analizzarlo e condurlo ad una conclusione soddisfacente. È chiaro, comunque, che ci debba essere sufficiente materia descrittiva e studio di carattere per dare verosimiglianza al romanzo.
17    Il colpevole di un romanzo poliziesco non deve mai essere un criminale di professione. Scassinatori e banditi appartengono alla pratica quotidiana dei dipartimenti di polizia, non degli autori e dei loro brillanti investigatori dilettanti. Un crimine davvero affascinante è quello commesso da un vero baciapile, o da una zitella dedita ad attività benefiche.
18    Un crimine, in un romanzo giallo, non può mai essere derubricato in incidente o suicidio. Far finire un'autentica odissea di detection in questo modo così banale significa voler infinocchiare a tutti i costi il fiducioso e gentile lettore.
19    I moventi dei crimini nei romanzi polizieschi devono essere esclusivamente personali. Complotti internazionali e azioni di guerra fanno parte di un'altra categoria di romanzi, quelli di spionaggio, ad esempio. Ma un romanzo giallo deve mantenere un carattere intimo, per così dire. Deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, ed offrire uno sfogo ai suoi desideri ed emozioni represse.
20    E, per dare al mio Credo un numero pari di regole, ecco una serie di stratagemmi che nessuno scrittore di gialli degno di questo nome potrà più permettersi di adoperare. Sono già stati troppo sfruttati, e sono molto familiari a tutti i cultori dei crimini di carta. Avvalersene equivale a confessare la propria incapacità e mancanza di originalità.
a.      Scoprire l'identità del colpevole mettendo a confronto la cicca di sigaretta trovata sulla scena del crimine con la marca fumata da un sospetto.
b.      La seduta spiritica fasulla che terrorizza il colpevole e lo spinge a confessare.
c.      Impronte digitali manipolate.
d.      L'alibi costruito mediante un fantoccio.
e.      Il cane che non abbaia e quindi rivela che l'intruso gli è familiare.
f.       L'attribuzione del crimine a un gemello, a un parente troppo somigliante al presunto colpevole.
g.      La siringa ipodermica e il sonnifero.
h.      L'assassinio commesso in una stanza chiusa, ma dopo che la polizia vi ha fatto irruzione.
i.       Il test delle associazioni di parole che indicano il colpevole.
j.       Il codice cifrato la cui soluzione viene alla fine trovata dall'investigatore.

 I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2017
Visto che siamo quasi a Natale, eccovi allora un nuovo speciale dedicato al fausto giorno.

MALANNI STAGIONALI (II)

SPECIALE NATALE

Durante il periodo delle festività natalizie si verifica un acutizzarsi di malumori, malanimi, tristezze, depressioni e varie malattie psicosomatiche. Può sembrare un fenomeno bizzarro dal momento che dovrebbe essere il periodo più felice dell’anno, ma si tratta di un meccanismo psicopatologico più che giustificabile clinicamente. Studi approfonditi hanno dimostrato che, a partire da quel traumatico evento identificabile con la sconcertante scoperta che Babbo Natale non esiste, da una certa età in poi (vi auguro il più tardi possibile) il Natale diventa generalmente fonte di stress e origine di vere e proprie psicosi. Ansia da regali, apnea da pranzi pantagruelici, panico da cenoni infiniti, fobia da parenti e depressione post euforia si possono combattere con alcune letture che consentono di sopravvivere, più o meno indenni, alle festività, aiutando il lettore a entrare nel giusto “mood” e alleviando il “bad mood”. Perché la cura abbia effetto, però, è fondamentale crederci, proprio come a Babbo Natale.
Avvertenza: si consiglia di somministrare i seguenti rimedi, con ben celata nonchalance, anche ad amici e parenti. Altrimenti si rischia di arrivare ai giorni X con il cuore gonfio di spirito natalizio che gli altri potrebbero estirpare a mani nude.
[tralascio per ora di citare altri notevoli libri dedicati al 25 dicembre come “Canto di Natale” di Dickens, “Il Grinch” del dr. Seuss o “Piccole donne” di Louisa May Alcott, su cui magari si tornerà]

FUGA DAL NATALE di JOHN GRISHAM (2001)

Pillole di trama
Un pensiero malefico s’insinua nella mente di Luther Krank. Approfittando dell’assenza della figlia e calcolata la cifra esorbitante spesa l’anno precedente per tutto l’ambaradan natalizio, Luther decide di fare una follia: partire con sua moglie per una crociera ai Caraibi. Ma è possibile fuggire dal Natale? Il sogno di evasione si trasforma in un incubo e stravolti da una girandola di incidenti, complicanze e maldestri tentativi di raffazzonare una festa last minute, Luther e Nora si rendono conto che è impossibile (e poco augurabile) scampare alla tradizione.
Supposta-saggezza
Con “Fuga dal Natale” il re del legal thriller John Grisham si prende una vacanza con un racconto divertente in cui mette in scena il sogno di molti: saltare le feste. “Come sarebbe stato bello evitare il Natale, cominciò a pensare. Uno schiocco delle dita ed è il due gennaio. Niente albero, niente compere, niente regali inutili, niente mance, niente confusione e niente impacchettamenti, niente traffico e folla... niente spreco di soldi”. Ammettiamolo, chi non è mai stato sfiorato da questo pensiero (degno del perfido Grinch) ogni volta che si avvicina dicembre?
Con il suo stile asciutto, incisivo e scorrevole, Grisham si dimostra abilissimo anche nella commedia brillante con l’ironica provocazione di una disincantata, ma mai cinica, descrizione di un tipico natale americano. In America, infatti, è notoriamente tutto amplificato, tutto è in versione extra large e tutto diventa spettacolare, e anche questa festa spesso si trasforma in una gara a chi ha l’albero più alto e sovraccarico, le luminarie più scintillanti, il tacchino più obeso e i regali più voluminosi. Prendendo di mira il consumismo folle e il moralismo bigotto della provincia (i vicini si ribellano alla legittima decisione dei Krank di partire e vivono come un affronto l’assenza del canonico pupazzo di neve sul tetto della loro casa), l’autore si interroga sul senso di una tradizione che rischia di diventare un obbligo da assolvere, un dovere più che un piacere, un lavoro più che una festa. Ma non si può rinunciare al Natale, dice Grisham. Non si può rinunciare a Santa Claus, alle canzoni di Bing Crosby, al tacchino e alla cannella (che da noi diventano Babbo Natale, la poesia davanti al presepe, i tortellini, il panettone o forse il pandoro, magari tutti e due, ma pure il torrone... abbondiamo. Al posto della cannella, bicarbonato come se nevicasse). Come Frosty sul tetto dei Krank, nel libro non può mancare l’happy ending con il ritrovato e redivivo spirito natalizio che, ripulito dal consumismo, dall’ostentazione e dalle falsità, trionfa in un rassicurante finale degno di un film di Frank Capra. E, come in quell’intramontabile classico che è “La vita è meravigliosa”, anche qui l’autore mostra con ironia l’effetto che ogni nostra decisione provoca nelle vite degli altri. Avrebbero mai pensato Luther e Nora che l’innocua idea di partire in crociera avrebbe sconvolto la vita della comunità? E che proprio quei vicini ficcanaso e rompiscatole li avrebbero aiutati ad allestire il loro Natale last minute quando la figlia decide di piombare a casa per partecipare alla tradizionale festa di famiglia? Nessun uomo è nato per essere solo (anche se a molti la solitudine piace) e il Natale con la sua abbuffata forzata di feste, amici e parenti ci obbliga a ricordarlo. Sta a noi coglierne il lato positivo.
Modificando una frase celebre dal film “Magnolia”, “noi possiamo chiudere col passato ma il passato non chiude con noi”, potremmo dire che: “Noi possiamo chiudere con il Natale ma il Natale non chiude con noi”. Tradizione da onorare o obbligo da assolvere, fa indiscutibilmente parte di noi. Bisogna farsene una ragione: si può saltare il pranzo ma non si può saltare il pranzo di Natale. Questo divertente romanzo dimostra che fuggire da questa festa è impossibile e, soprattutto, è molto più faticoso che festeggiarla.
Posologia
Amanti del Natale o suoi detrattori, sempre e comunque si arriva tutti alla sera della vigilia stressati. Questa piccola vacanza letteraria in compagnia di John Grisham può essere utile per ritrovare calma e serenità. Se tocca sempre a voi ospitare, addobbare casa e preparare pranzi e cene mentre gli altri arrivano (magari in ritardo), arraffano (magari facendo anche qualche appunto sul menu) e poi si dileguano (magari sbuffando e troppo tardi), troverete consolazione perché in confronto a un comune Natale americano come quello dei Krank il vostro sembrerà uno scherzo, un picnic, una passeggiata di salute contro una maratona. Alla fine, più che fuggire, potrebbe verificarsi un inaspettato incremento di voglia di festeggiare.
“Fuga dal Natale” consente anche di curare eventuali tristezze stagionali tipiche delle festività reintegrando la quota fisiologia di buonumore.
Effetti collaterali
La morale conclusiva di Grisham potrebbe non avere effetto su soggetti che già in passato hanno mostrato episodi di ipersensibilità al principio attivo delle feste e a tutti i suoi eccipienti. Nei casi più gravi potrebbe anche manifestarsi la decisione di saltare il Natale, fare le valigie e scappare in qualche località esotica dove niente ricordi la festa (vana illusione perché anche ai Caraibi c’è il rischio di trovare le palme decorate che, scusate, sono immensamente tristi oltre che kitsch). Se le disponibilità economiche non lo permettono, la fuga potrebbe essere sostituita dalla scelta di chiudersi in casa fingendo di essere partiti. Secondo gli studi condotti, però, nessuna di queste opzioni garantisce una copertura antibiotica da rimpianti e sensi di colpa causati dai mancati festeggiamenti.
Terapia cinematografica sostitutiva
La satira di John Grisham è arrivata al cinema in versione edulcorata in un film con Tim Allen (che in America è il re Mida dei Christmas movie) e Jamie Lee Curtis. Leggero ma divertente, è perfetto per una serata spensierata da trascorrere sprofondati in poltrona con in piedi all’aria, magari dopo uno stressante pomeriggio passato a preparare addobbi, pacchetti e manicaretti.
Visto che l'ho nominato, per ragioni di salute (mentale e fisica) consiglio anche “La vita è meravigliosa”. È il più classico dei classici, il film di Natale per eccellenza, uno dei capolavori del cinema di tutti i tempi, diretto da Frank Capra nel 1946 con uno straordinario James Stewart. Storia sul Natale e sulla vita, favola dolce e amara, racconta la vicenda di un uomo che per tutta la vita si è sempre sacrificato, anteponendo i bisogni degli altri ai propri desideri. La vigilia di Natale, in preda a una crisi di sconforto dovuto alla somma delle sue frustrazioni, decide di suicidarsi. Ma in suo aiuto interviene un angelo in rodaggio che gli mostra come sarebbe stato il mondo senza di lui. Il film è ideale per riflettere su come sarebbe il Natale senza di voi qualora decideste di partire per la famosa crociera. “La vita è meravigliosa” è un film perfetto, commovente, divertente, tragico, romantico, tenero e amaro proprio come Natale che può essere allo stesso tempo il giorno più crudele e dolce.
Un paio di consigli
A proposito di angeli anticonvenzionali, se volete una lettura natalizia divertente e cattivella quanto basta, prescrivo al volo “Uno stupido angelo. Storia commovente di un Natale di terrore” di Christopher Moore. Avrete di che ridere con lo scompiglio che il tonto arcangelo Raziel porta alla festa di Natale di una tranquilla cittadina.
Se anche il vostro si preannuncia un commovente Natale di terrore, i romanzi di John Grisham potrebbero essere un rimedio efficace per compensare le eventuali tensioni familiari con la tensione di ottimi thriller. Tenendo presente che quasi tutti i suoi best seller, da “Il Socio” a “Il rapporto Pelican”, da “Il Cliente” a “L’uomo della pioggia” possono essere assunti anche per via cinematografica (si tratta di trasposizioni d’autore firmate da registi di mestiere come Sydney Pollack, Alan J. Pakula, Joel Schumacher e Francis Ford Coppola), si rivelano utili nel trattamento dei postumi da bagordi natalizi grazie alla loro capacità di riscuotere, con abbondanti scariche di adrenalina, dal torpore delle feste. Potrebbe essere una buona idea iniziare i piccoli lettori ai piaceri della logica e dell’investigazione somministrandogli sotto forma di regalo natalizio la serie di romanzi noir che Grisham ha scritto appositamente per i ragazzi. Con “La prima indagine di Theodore Boone” il re (Mida) dei legai thriller si è concesso un’altra vacanza dalla sua tradizionale produzione, questa volta formulando un thriller con protagonista un tredicenne che sogna di fare l’avvocato (nel frattempo fornisce consulenze legali ai suoi compagni), che si ritrova coinvolto nel processo del secolo. Linguaggio immediato e trama intrigante per il primo di una serie di libri con protagonista Theodore che si rivelano, come tutti i gialli, un rimedio utile nei ragazzi in fase di crescita per stimolarne l’attività cerebrale impegnandoli nella risoluzione di intricati casi (attività che gli tornerà utile nella vita).

Commenti

Avendo letto (quasi) tutti i libri di Grisham, ma non “Fuga dal Natale”, ed essendo, come sapete, cattivissimo, andrò a riproporvi la trama del libro per ragazzi, che considero comunque un’utile lettura per grandi e piccini.
John Grisham “La prima indagine di Theodore Boone” Repubblica Noir Junior 1 euro 6,90
[trama scritta il 27 giugno 2016]
Non è il primo libro di questa collana che leggo, e devo dire che, pur con alti e bassi, ne ho letti di migliori. Sia della collana che di Grisham. Certo, è stato fatto uscire come primo per attirare pubblico dalle consuete strategie di marketing. Pur essendo un libro discreto, non ha però le solite attrattive dei libri di Grisham. Un buon racconto, buoni spunti legali (che di certo non possono mancare in uno dei maestri del genere), ed anche un mix capace di attrare i ragazzi alla lettura. Tuttavia rimane irrisolto nel finale, che arriva sì ad uno scioglimento della trama, ma non alla sua completa conclusione. Come se ci si aspettasse subito dei seguiti. Cosa avvenuta puntualmente, tant’è che dal 2010 l’autore ha fatto uscire un libro all’anno dedicato alle peripezie di questo tredicenne in un certo qual modo figlio d’arte: padre avvocato immobiliarista e madre avvocato divorzista. C’è anche un battitore libero, zio Ike, avvocato radiato dall’albo per qualcosa che, ad ora, rimane un po’ avvolto nelle nebbie del mistero. Theo (cosi viene chiamato sempre il “giovane avvocato”) ha anche una grande amica, April, sicuramente innamorata di lui (con la passione dei tredicenni), ma che ovviamente Theo sembra ignorare attratto com’è da Hallie la ragazza più carina della scuola. Cui risolve un piccolo dilemma, e che gli fa subito gli occhi dolci. Perché. Imbevuto com’è delle dottrine familiari, Theo è già un piccolo avvocato, offrendosi come consulente legale sia per i compagni di scuola sia per la segretaria del preside. Riesce così a far evitare uno sfratto, suggerendo di dichiarare bancarotta (potenza delle legislazioni d’oltre oceano). Oppure a svolgere indagine e modalità di avvicinamento al tribunale degli Animali, in modo da recuperare un cane sorpreso senza guinzaglio e trattato da randagio (cosa che ovviamente non è, essendo solo sfuggito di mano). Nella solita routine regolata dalle tabelle di marcia della madre (il martedì si fa questo, il mercoledì tutti al ristorante cinese), Theo trova il modo anche di frequentare assiduamente il Palazzo di Giustizia della fittizia cittadina di Strattenburg, in particolare andando spesso a trovare il giudice Henry Gantry, figura di legislatore integerrimo che Theo prende ad esempio quando pensa di fare il giudice invece che l’avvocato (e non a caso ha un cane di nome “Giudice”). Qui, entriamo nel vivo della famosa prima indagine, come dice il titolo italiano (mentre in inglese si riporta solo il termine “ragazzo avvocato”). Perché Gantry presiede il processo intento ad un golfista, Peter Duffy, accusato dell’omicidio della moglie, morta per strangolamento in uno che sembra un tentativo di rapina andato a male (scompaiono infatti alcuni gioielli dalla villa lussuosa dove abitano i due immersa nel verde che contorna il magnifico campo da golf della cittadina). Non si riesce a trovare prove convincenti contro Duffy, che sembra avviato ad un’assoluzione per mancanza di prove. Ma Theo finisce ben dentro il processo, all’improvviso. Julio, un immigrato regolare che lui aiuta in algebra e che frequenta la sua stessa scuola, gli confessa che suo cugino ha visto tutto. Lavora in nero al campo da golf, ed ha visto chi ha ucciso la signora Duffy. C’è però un problema: Roberto è immigrato clandestinamente, quindi se si presenta alla polizia dovrebbe essere rispedito immediatamente a El Salvador. Qui la situazione si incarta un po’, e sarà il giudice Gantry a trovare una soluzione. Per poi lasciarci tutti un po’ sospesi. Non vi dico né come né perché, ma la fine è la parte che meno mi è piaciuta. Non è, e non poteva essere, il Grisham del “Rapporto Pelican” (che ricordo soprattutto per il film con Julia Roberts, ovvio), ma c’è il messaggio positivo che ci si aspetta di poter dare ai ragazzi: bisogna avere fiducia nella giustizia 8e non è poco, di questi tempi). Sono d’accordo anche con chi ha trovato degno di nota il rapporto di Theo con i suoi compagni di scuola, sempre di aiuto e mai di prevaricazione. Meno convincente è la vita familiare di questa famiglia che, se non fosse per Theo, sembrerebbe più una “Mulino Bianco” con Banderas. Alla fine, una prova dignitosa di un autore che sa usare molte frecce al suo arco polifonico.
“Aveva scelto … anni prima e restava fedele alla squadra con una testardaggine che veniva messe alla prova per tutto il campionato.” (38)

Finalino

Non torno su queste righe a celebrare Natale e festività, auguro solo un sereno nuovo 2018!